Quaderno 8

1931-1932

 

 Nota di lettura

 

Griglia tematica

Storia

Politica

Economia e Lavoro

Diritto

Filosofia

Materialismo storico e filosofia della prassi

Religione

Intellettuali

Letteratura

Stampa

I nipotini di padre Bresciani

Lorianesimo

Costume e Senso comune

Folklore

Argomenti di Cultura

Passato e presente

Americanismo e fordismo

Scienza

Nozioni enciclopediche

Bibliografia

Miscellanea

 

Ant.: Intellettuali

Note sparse e appunti per una storia degli intellettuali italiani

1° Carattere provvisorio – di pro‑memoria – di tali note e appunti; 2° Da essi potranno risultare dei saggi indipendenti, non un lavoro organico d’insieme; 3° Non può esserci ancora una distinzione tra la parte principale e quelle secondarie dell’esposizione, tra ciò che sarebbe il «testo» e ciò che dovrebbero essere le «note»; 4° Si tratta spesso di affermazioni non controllate, che potrebbero dirsi di «prima approssimazione»: qualcuna di esse nelle ulteriori ricerche potrebbe essere abbandonata e magari l’affermazione opposta potrebbe dimostrarsi quella esatta; 5° Non deve fare una cattiva impressione la vastità e l’incertezza di limiti del tema, per le cose sopra dette: non ha affatto l’intenzione di compilare uno zibaldone farraginoso sugli intellettuali, una compilazione enciclopedica che voglia colmar tutte le «lacune» possibili e immaginabili.

Saggi principali: Introduzione generale. Sviluppo degli intellettuali italiani fino al 1870: diversi periodi. – La letteratura popolare dei romanzi d’appendice. – Folclore e senso comune. – La quistione della lingua letteraria e dei dialetti. – I nipotini di padre Bresciani. – Riforma e Rinascimento. – Machiavelli. – La scuola e l’educazione nazionale. – La posizione di B. Croce nella cultura italiana fino alla guerra mondiale. – Il Risorgimento e il partito d’azione. – Ugo Foscolo nella formazione della retorica nazionale. – Il teatro italiano. – Storia dell’Azione Cattolica: Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. – Il Comune medioevale, fase economico‑corporativa dello Stato. – Funzione cosmopolitica degli intellettuali italiani fino al secolo XVIII. – Reazioni all’assenza di un carattere popolare‑nazionale della cultura in Italia: i futuristi. – La scuola unica e cosa essa significa per tutta l’organizzazione della cultura nazionale. – Il «lorianismo» come uno dei caratteri degli intellettuali italiani. – L’assenza di «giacobinismo» nel Risorgimento italiano. – Machiavelli come tecnico della politica e come politico integrale o in atto.

Appendici: Americanismo e fordismo.

Raggruppamenti di materia:

1° Intellettuali. Quistioni scolastiche.

2° Machiavelli.

3° Nozioni enciclopediche e argomenti di cultura.

4° Introduzione allo studio della filosofia e note critiche ad un Saggio popolare di sociologia.

5° Storia dell’Azione Cattolica. Cattolici integrali – gesuiti – modernisti.

6° Miscellanea di note varie di erudizione (Passato e presente).

7° Risorgimento italiano (nel senso dell’Età del Risorgimento italiano dell’Omodeo, ma insistendo sui motivi più strettamente italiani).

8° I nipotini di padre Bresciani. La letteratura popolare (Note di letteratura).

9° Lorianesimo.

10° Appunti sul giornalismo (Nel ms il resto della pagina 2 e la successiva pagina 2 bis non sono state utilizzate.).

Storia

Ant.: Storia

Storiografia

§112 La storia come storia della libertà e il liberalismo. L’equivoco in cui si mantiene la più recente storiografia del Croce è appunto basato su questa confusione tra la storia come storia della libertà e la storia come apologia del liberalismo. Se la storia è storia della libertà – secondo la proposizione di Hegel – la formula è valida per tutta la storia del genere umano e ogni corrente, ogni partito sono espressioni della libertà. Qual è quindi la caratteristica particolare della storia del secolo XIX? Che in questo secolo esiste una coscienza critica prima inesistente: si fa la storia, sapendo quello che si fa, si sa che la storia è storia della libertà.

Ma si tratta solo di una posizione speculativa o contemplativa? Certo no: esiste una corrente di attività pratica, un partito, che riduce la filosofia hegeliana a «ideologia politica» immediata, a strumento di dominio e d’egemonia sociale e questo è il «liberalismo» o partito liberale in senso largo. È noto che l’accezione del termine «liberale» è stata molto larga ed ha abbracciato campi politici antitetici. Negli Annali d’Italia di Pietro Vigo sono «liberali» tutti i «non clericali» e il liberalismo comprende anche gli Internazionalisti e i marxisti1.

[Cfr Eternità e storicità p. 51.]2

Note

Mat. Bibl.: Liberalesimo

§203 Storia e antistoria. Osservare che l’attuale discussione su «storia e antistoria» non è altro che la ripresentazione nei termini della cultura moderna della discussione avvenuta alla fine del secolo scorso nei termini del naturalismo e positivismo, se cioè la storia e la natura procedano per «salti» o solo per evoluzione graduale e progressiva.

Note

§210 Storia e antistoria. Se la discussione (tra) storia e antistoria è la stessa che quella se la natura e la storia procedano anche per «salti» o solo «evolutivamente», sarà bene ricordare al Croce che anche la tradizione dell’idealismo moderno non è contro i «salti», cioè contro l’«antistoria». (Vedere nell’articolo di Plekhanov1 i riferimenti da Hegel in proposito). Si tratta poi della discussione tra riformisti e rivoluzionari sul concetto e il fatto dello svolgimento storico o del progresso. Tutto il materialismo storico è una risposta a tale quistione.

La quistione mal posta: si tratta in realtà della quistione tra ciò che è «arbitrario» e ciò che è «necessario», tra ciò che è «individuale» e ciò che è «sociale» o collettivo. Se bisogna assumere come «rivoluzioni» tutti quei movimenti che per darsi dignità e giustificarsi si chiamano da se stessi «rivoluzioni». C’è una inflazione di concetti e di fraseologia rivoluzionaria. Si crede che il berretto faccia la testa, che l’abito faccia il monaco.

Già il De Sanctis aveva osservato e beffeggiato questo atteggiamento nel suo saggio sull’Ebreo di Verona2.

Bisogna anche vedere se la fraseologia di «rivoluzione» non sia voluta di proposito, per creare la «volontà di credere», «creazione» che è sostenuta da argomenti ben solidi «collaterali» (tribunali, polizia ecc.). Che i tanti mascherotti nicciani in rivolta contro tutto l’esistente, contro le convenzioni sociali ecc. abbiano finito collo stomacare e col togliere serietà a certi atteggiamenti, è verissimo, ma non bisogna lasciarsi guidare dai mascherotti nei propri giudizi: l’avvertimento della necessità di essere «sobri» nelle parole e negli atteggiamenti esteriori è fatto perché ci sia più forza sostanziale nel carattere e nella volontà concreta.

Contro il velleitarismo, contro l’astrattismo, l’eroismo di maniera ecc. è una quistione di costume e di stile, non «teoretica».

Note

§27 Conservazione e innovazione. Una determinata corrente storicistica pone a suo fondamento e dichiara solo storicistico un metodo d’azione in cui il progresso storico (lo svolgimento) risulta dalla dialettica di conservazione e innovazione: il contemperamento di conservazione e innovazione costituisce il «classicismo nazionale» del Gioberti così come costituisce il classicismo letterario e artistico dell’ultima estetica crociana. È questo lo storicismo dei moderati, non tanto teoria scientifica quanto tendenza pratico‑politica o ideologia. Ma perché conservazione deve essere proprio quella data «conservazione», quel dato elemento dialettico del passato? E perché si deve essere «irrazionalisti» e «antistoricisti» se non si conserva questo determinato elemento?

In realtà, se è vero che il progresso è dialettica di conservazione e innovazione e l’innovazione conserva superando il passato, è anche vero che il passato è cosa complessa e che è dato scegliere in questa complessità: né la scelta può essere arbitrariamente fatta a priori da un individuo o da una corrente; se questa scelta è fissata in tal modo si tratta di «ideologia», di tendenza pratico‑politica unilaterale, che non può dare fondamento a una scienza. Presentare questa scelta come «scienza» è appunto elemento ideologico, poiché ogni ideologia cerca di presentarsi come scienza, e come filosofia.

Ciò che sarà conservato nel processo dialettico sarà determinato dal processo stesso, sarà un fatto necessario, non un arbitrio di così detti scienziati e filosofi. E intanto si osserva che la forza innovatrice in quanto si è costituita nel passato, è essa stessa un fatto del passato, è appunto essa stessa conservazione‑innovazione, contiene in sé l’intero passato, quello degno di svolgersi e perpetuarsi.

Per questa specie di storicisti moderati (e si intende moderati in senso politico, di classe cioè di quelle classi che operarono la restaurazione dopo il 1815 e il 1848) l’irrazionale è il giacobinismo, antistoria uguale giacobinismo. Ma chi potrà storicamente provare che solo l’arbitrio abbia guidato i giacobini?

E non è proposizione storica banale che né Napoleone né la Restaurazione hanno distrutto i «fatti compiuti» dai giacobini? O forse l’antistoricismo dei giacobini sarà consistito in ciò che delle loro iniziative non si è «conservato» il 100%, ma solo una percentuale relativa? Non pare che ciò sia plausibile da sostenersi perché la storia non si fa con calcoli matematici e d’altronde nessuna forza storica innovatrice si realizza immediatamente al 100%, ma appunto è sempre razionale e irrazionale, storicistica e antistoricistica, è «vita» cioè con tutte le debolezze e le forze della vita, con le sue contraddizioni e le sue antitesi.

§25 Risorgimento. Cercare cosa significa e come è giustificata nel Quinet la formula dell’equivalenza di rivoluzione‑restaurazione nella storia italiana.

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Secondo Daniele Mattalia (Gioberti in Carducci nella «Nuova Italia» del 20 novembre 1931) la formula del Quinet sarebbe stata adottata dal Carducci attraverso il concetto giobertiano della classicità nazionale (Rinnovamento, III, 88; Primato, III, 1, 5, 6, 7…; il Rinnovamento nell’edizione Laterza, il Primato nell’edizione Utet).

Questo concetto del Quinet può essere avvicinato a quello di «rivoluzione passiva» del Cuoco?

Sia la «rivoluzione‑restaurazione» del Quinet che la «rivoluzione passiva» del Cuoco esprimerebbero il fatto storico dell’assenza di iniziativa popolare nello svolgimento della storia italiana, e il fatto che il «progresso» si verificherebbe come reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico e disorganico delle masse popolari con «restaurazioni» che accolgono una qualche parte delle esigenze popolari, quindi «restaurazioni progressive» o «rivoluzioni‑restaurazioni» o anche «rivoluzioni passive». Trasportando questo spunto nella rubrica «Passato e presente» si potrebbe dire che si tratta di «rivoluzioni dell’uomo del Guicciardini» e che il Cavour «diplomatizzò» appunto la rivoluzione dell’uomo del Guicciardini.

Umanesimo e Rinascimento

§68 Riforma e Rinascimento. Sarà da vedere il libro, molto lodato e apprezzato, di Domenico Guerri, La corrente popolare nel rinascimento.

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Un modo di porre la quistione falsa è quella di Giulio Augusto Levi che, nella recensione del libro di Luigi Ponnelle e Luigi Bordet, San Filippo Neri e la società del suo tempo (1515‑1595), trad. di Tiro Casini, pref. di Giovanni Papini, Ediz. Cardinal Ferrari (nella «Nuova Italia» del gennaio 1932), scrive: «Volgarmente si pensa che l’umanesimo sia nato e cresciuto sempre nelle stanze dei dotti; ma il Guerri ha ricordato la viva parte che vi prese la piazza; io per la mia parte avevo già rilevato lo spirito popolare di quel movimento nella mia Breve storia dell’estetica e del gusto (2a ed., 1925, pp. 17‑18). Anche, e molto più, la controriforma cattolica si pensa che sia stata opera di prelati e di principi, imposta con rigore di leggi e di tribunali; grande, ma uggiosa (così sembra ai più), è rispettata e non amata. Ma se quel rinnovamento religioso fosse stato operato solo per via di costrizione, come sarebbe nata proprio in quel tempo, in terra cattolica, anzi in Italia, la grande musica sacra? Col terrore delle pene si piegano le volontà, ma non si fanno nascere opere d’arte. Chi vuol vedere quanta freschezza, vivacità, purezza, sublimità d’ispirazione, quanto amore di popolo ci fu in quel movimento, legga la storia di questo santo ecc. ecc.».

Il bello è che fa il raffronto tra Sant’Ignazio e Filippo così: «l’uno pensava alla conquista cristiana del mondo intero, l’altro non mirava più lontano del cerchio dove poteva stendersi l’azione sua personale e a malincuore permise il sorgere di una filiale a Napoli». E ancora: «L’opera dei gesuiti ebbe effetti più vasti e più duraturi: quella di Filippo, affidata alle ispirazioni del cuore, dipendeva troppo dalla sua persona: ciò che l’ispirazione fa non può essere né continuato né ripetuto; non si può se non rifare con una ispirazione nuova, la quale è sempre diversa». Appare dunque che Filippo non fa parte della Controriforma, ma è fiorito nonostante la Controriforma, se pure non dovrà dirsi contro di essa.

§40 Rinascimento. Le statue viventi di Cuneo.

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Uno degli aneddoti cuneesi più graziosi: per la visita di Vittorio Emanuele II, l’amministrazione della città raccolse dai dintorni i giovani fisicamente più prestanti, che ingessati a dovere, furono collocati, prima della sfilata reale, su piedistalli in pose da statue antiche. Nello stesso tempo tutti i gozzuti furono rinchiusi nelle cantine. Al passaggio del re, le «statue» si disposero in ordine, dando l’impressione di un grande spettacolo di bellezza e di arte, ma dalle cantine le voci squarciate dei gozzuti fecero sentire una nota stonata: «Siamo noi i cuneesi, Cuneo siamo noi» ecc. I villaggi di Potiomkin non sono dunque solo una privativa della vecchia Russia feudale e burocratica e interi periodi storici possono essere chiamati dei villaggi di Potiomkin.

§124 Fase economico‑corporativa nella storia italiana. L’impresa di Lepanto. A. Salimei, Gli italiani a Lepanto (Roma, auspice la Lega navale). Il Salimei ha raccolto diligentemente tutti i dati che si riferiscono alla organizzazione delle forze che parteciparono all’impresa di Lepanto e ha dimostrato che esse, dalle navi agli uomini, furono in maggioranza italiane.

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Negli archivi vaticani esistono i documenti coi conti per la ripartizione delle spese tra il re di Spagna e la repubblica di Venezia per la lega cristiana del 1571, rimessi al successore di Pio V perché decidesse sulle controversie insorte nello stabilire l’ammontare del rispettivo credito e debito. Con tali documenti è possibile precisare il numero e il nome delle galee, delle navi, delle fregate ecc. e il numero dei reggimenti e delle rispettive compagnie con i nomi dei colonnelli e dei capitani tanto per la flotta e le fanterie che si trovarono alla battaglia di Lepanto, quanto per quelle che non vi si trovarono ma furono egualmente mobilitate per la spedizione nello stesso anno 1571.

Delle più che duecento navi partecipanti alla battaglia solo 14 erano spagnole, tutte le altre erano italiane; dei 34 mila armati solo 5000 fanti «vennero dalla Spagna», e 6000 erano tedeschi (ma 1000 di questi no, parteciparono al combattimento), tutti gli altri erano di «nazionalità» italiana. Dall’elenco degli «ufficiali, venturieri e militi» distinti secondo le nazionalità e, «per quanto riguarda l’Italia» anche secondo le regioni e le città di origine il Salimei deduce che non c’è parte della penisola e delle isole, dalle Alpi alla Calabria, compresa la Dalmazia e le isole di dominio veneto, dalla Sicilia alla Sardegna alla Corsica a Malta, che non vi partecipi.

Questa ricerca è molto interessante e potrebbe essere analizzata opportunamente. Il Salimei la inquadra in una cornice retorica, perché si serve di concetti moderni per fatti non omogenei. Rivendica il carattere «nazionale» di Lepanto, che è attribuito di solito alla cristianità (cioè al Papa) con prevalenza alla Spagna e afferma che a Lepanto per l’ultima volta gli italiani, anzi tutti gli italiani, «combatterono per una causa che non fosse quella degli stranieri» e che «con Lepanto si chiude l’era della nostra efficienza navale e militare come popolo italiano, fino al 1848». Sarebbe da vedere, a questo proposito, perché nacquero le controversie tra Venezia e Spagna per dividersi le spese, e sotto quali bandiere erano arruolati i soldati che avevano origine da paesi italiani.

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Sulla lega di Lepanto cfr: A. Dragonetti De Torres, La lega di Lepanto nel carteggio diplomatico di don Luys de Torres nunzio straordinario di SS. Pio V a Filippo II, Torino, Bocca, 1931. Dalla preparazione diplomatica della Lega dovrebbe apparire più concretamente il carattere dell’impresa.

Rivoluzione francese, Restaurazione

§6 Giacobinismo. Per avere una indicazione del modo di considerare i francesi nel periodo giacobino e napoleonico si può citare dal libro di Alessandro Andryane (Memorie di un prigioniero di Stato, passi scelti da Rosolino Guastalla, Barbèra, Firenze, p. 214): il cancelliere Schiller, quando l’Andryane riesce a farsi togliere i ferri dai piedi per una storta, dice: «diavoli di francesi! C’era ben ragione di chiamarli signori tutto‑si‑può‑quando‑si‑vuole». Questa fama di «volitivi» ossia di volontaristi dei francesi nel periodo della grande rivoluzione, presso gli altri popoli ha un certo significato storico.

Risorgimento, fine Ottocento

§1 Risorgimento. Da un articolo di Gioacchino Volpe Una scuola per la storia dell’Italia moderna (nel «Corriere della Sera» del 9 gennaio 1932, articolo importante): «Tutti lo sanno: per capire il “Risorgimento” non basta spingersi al 1815 e neppure al 1796, l’anno in cui Napoleone irruppe nella Penisola e vi suscitò la tempesta. Il “Risorgimento”, come ripresa di vita italiana, come formazione di una nuova borghesia, come consapevolezza crescente di problemi non solo municipali e regionali ma nazionali, come sensibilità a certe esigenze ideali, bisogna cercarlo parecchio prima della Rivoluzione: è anche esso sintomo, uno dei sintomi, di una rivoluzione in marcia, non solo francese, ma, in certo senso, mondiale. Tutti egualmente sanno che la storia del Risorgimento non si studia solo coi documenti italiani e come fatto solamente italiano, ma nel quadro della vita europea; trattisi di correnti di coltura, di trasformazioni economiche, di situazioni internazionali nuove, che sollecitano gli italiani a nuovi pensieri, a nuove attività, a nuovo assetto politico».

§32 Risorgimento. Origini. Le quistioni «tendenziali» poste a proposito delle origini del moto nazionale del Risorgimento: 1) tesi francofila‑democratica: il moto è dovuto alla rivoluzione francese, ciò che ha determinato l’altra tesi: 2) la rivoluzione francese coi suo intervento nella penisola ha interrotto il movimento «veramente» nazionale, tesi che ha un doppio aspetto: quello gesuitico e quello moderato che si riferisce ai principi riformatori. Mai il movimento riformatore era stato interrotto per la paura della rivoluzione francese, quindi: 3) la rivoluzione francese, col suo intervento, non interruppe il movimento indigeno, ma anzi ne rese possibile la ripresa e il compimento.

§118 Risorgimento italiano. Cfr Antonio Lucarelli, La Puglia nel Risorgimento

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, storia documentata,vol. I, Bari, Commissione provinciale di archeologia e storia patria, 1931, pp. 455, L. 30. In questo primo volume si giunge fino alla famosa cospirazione giacobina del 1793‑94, dopo aver dato un quadro della vita pugliese nel sec. XVIII. Volume necessario per comprendere la quistione meridionale. Pare che l’autore riesca a dare un quadro impressionante delle condizioni terrificanti del popolo pugliese. I fatti del 93‑94, non gravi in se stessi, acquistarono importanza per la feroce reazione che si scatenò: prima emigrazione politica verso il Nord, preparazione della rivoluzione napoletana del 1799.

§31 Risorgimento. La Carboneria e la Massoneria. Articolo di A. Luzio, Le origini della Carboneria, nel «Corriere della Sera» del 7 febbraio 1932.

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Il Luzio parla di due libri di Eugenio Lennhoff, fr ... gerarca della Massoneria austriaca (del Lennhoff ha parlato spesso lo scrittore di Massoneria della «Civiltà cattolica»): Die Freimaurer e Politische Geheimbünde (Casa ed. Amalthea, Vienna). Il Luzio incomincia col notare gli errori di lingua italiana contenuti nelle citazioni politiche del Lennhoff e altri errori più gravi (Mazzini confuso col gran maestro Mazzoni, p. 204 dei Freimaurer, e quindi fatto diventare gran maestro; ma si tratta di errore storico o di errore di stampa?). Come recensione del Lennhoff, l’articolo del Luzio non vale nulla. Per le origini della Carboneria: opere dell’Alberti sulle assemblee costituzionali italiane e sulla rivoluzione napoletana del 1820, edite dai Lincei; studi del Sòriga, «Risorgimento italiano» gennaio‑marzo 1928, e articolo del Sòriga sulla Carboneria nell’Enciclopedia Treccani (v. VIII), libro dei Luzio sulla Massoneria.

In questo articolo il Luzio riporta dalle memorie inedite del generale Rossetti (di cui parla Guido Bustico nella «Nuova Antologia» del 1927) un rapporto del Rossetti stesso a Gioacchino Murat (del giugno 1814) in cui si parla dei primi tempi della Carboneria, che sarebbe stata conosciutissima in Francia, soprattutto nella Franca Contea, e a cui il Rossetti si sarebbe affiliato nel 1802, essendo di stanza a Gray. (Ma sono cose vaghe e che si perdono nella notte dei tempi, fra i fondatori della Carboneria sarebbe stato Francesco I ecc.).

Secondo il Rossetti la Carboneria nel Reame di Napoli avrebbe cominciato a propagarsi nella provincia di Avellino nel 1811, estendendosi solo verso la metà del 1812.

§11 Risorgimento. 48‑49. Mi pare che gli avvenimenti degli anni 1848‑49, data la loro spontaneità, possano essere considerati come tipici per lo studio delle forze sociali e politiche della nazione italiana. Troviamo in quegli anni alcune formazioni fondamentali: i reazionari moderati, municipalisti –, i neoguelfi ‑ democrazia cattolica –, e il partito d’azione ‑ democrazia liberale di sinistra borghese nazionale –.

Le tre forze sono in lotta fra loro e tutte e tre sono successivamente sconfitte nel corso dei due anni. Dopo la sconfitta avviene una riorganizzazione delle forze verso destra dopo un processo interno in ognuno dei gruppi di chiarificazione e scissione. La sconfitta più grave è quella dei neoguelfi, che muoiono come democrazia cattolica e si riorganizzano come elementi sociali borghesi della campagna e della città insieme ai reazionari costituendo la nuova forza di destra liberale conservatrice. Si può istituire un parallelo tra i neoguelfi e il Partito Popolare, nuovo tentativo di creare una democrazia cattolica, fallito allo stesso modo e per ragioni simili. Così come il fallimento del Partito d'Azione rassomiglia a quello del «sovversivismo» del 19‑20.

§33 Nesso storico 1848‑49. Il federalismo di FerrariCattaneo. Fu l’impostazione politico‑storica delle contraddizioni esistenti tra il Piemonte e la Lombardia. La Lombardia non voleva essere annessa, come una provincia, al Piemonte: era più progredita, intellettualmente, politicamente, economicamente, del Piemonte. Aveva fatto, con forze e mezzi propri, la sua rivoluzione democratica con le cinque giornate: era, forse, più italiana del Piemonte, nel senso che rappresentava l’Italia meglio del Piemonte. Che il Cattaneo presentasse il federalismo come immanente in tutta la storia italiana non è altro che elemento ideologico, mitico, per rafforzare il programma politico attuale. Perché accusare il federalismo di aver ritardato il moto nazionale e unitario?

Bisogna ancora insistere sul criterio metodologico che altro è la storia del Risorgimento e altro l’agiografia delle forze patriottiche e anzi di una frazione di esse, quelle unitarie.

Il Risorgimento è uno svolgimento storico complesso e contraddittorio che risulta integrale da tutti i suoi elementi antitetici, dai suoi protagonisti e dai suoi antagonisti, dalle loro lotte, dalle modificazioni reciproche che le lotte stesse determinano e anche dalla funzione delle forze passive e latenti come le grandi masse agricole, oltre, naturalmente, la funzione eminente dei rapporti internazionali.

§93 Risorgimento italiano. Nesso 1848‑49. Su Carlo Alberto e i tentativi fatti nel 1931 per modificare il giudizio tradizionale (sfavorevole) cfr lo studio di Pietro Silva nella «Cultura» dell’agosto‑settembre 1931.

§20 Risorgimento. I moderati toscani. Cfr la conferenza di Mario Puccioni, Uomini del Risorgimento in Toscana, pubblicata nella «Miscellanea storica della Valdelsa» e riassunta nel «Marzocco» del 15 novembre 1931. L’attività apologetica del Puccioni a favore dei moderati toscani è un tratto interessante della cultura toscana moderna: dimostra come ancora sia instabile la coscienza nazionale del ceto dirigente toscano e la sua «dignità e prestigio» discussi.

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I moderati toscani trovarono aiuto e adesione soltanto nella borghesia colta, nella piccola possidenza e nel popolo della città: l’aristocrazia con la classe agricola rappresentò l’assenteismo e il quietismo. «Scoppiata (!) la rivoluzione, fu provvidenziale che la sera del 27 aprile Ubaldino Peruzzi accettasse di far parte del triumvirato, rassicurando i timidi del Granducato e le diplomazie, tutte avverse al movimento, che sotto di lui non si sarebbero ripetuti gli eccessi del 1849».

Cosa c’è di «nazionale» in tutto ciò? I moderati erano espressione, dunque, dei «timori» dell’aristocrazia e della gente per bene che aveva paura degli «eccessi» e delle diplomazie; cosa c’è di «nazionale» in questa espressione? E perché le classi agricole erano assenti? Non erano esse la maggioranza del popolo toscano, cioè la «forza nazionale»? La paura degli «eccessi» non era la paura che tali classi entrassero in movimento per le loro rivendicazioni progressive, e i «paurosi» non erano i retrivi conservatori di uno statu quo antinazionale, tanto vero che era quello dell’antico regime?

Si tratta dunque di una ripetizione del vecchio principio: Franza o Spagna, purché se magna. Granducato o Italia unita, purché le cose rimangano come sono: il fatto politico e nazionale è indifferente, ciò che conta è l’ordinamento economico‑sociale che deve essere conservato contro le forze nazionali progressive. Così è della paura delle diplomazie. Come può una rivoluzione aver paura delle diplomazie? Questa paura non significa coscienza di essere subordinati all’estero e di dover trascurare le esigenze nazionali alle pretese straniere?

L’apologetica del Puccioni parte da concezioni ben meschine e basse: ma perché chiamare «nazionale» ciò che è solo servile e subalterno? «Quanto più avevan tardato i moderati ad afferrare l’idea che inspirò i rivoluzionari ed a sentire la necessità dell’adesione al Piemonte, tanto più decisi (?), dopo un lavoro di ricostruzione, furono nel sostenerla, predicarla, effettuarla, a dispetto (!) delle contrarie diplomazie, a contrasto con le indebite (!) ingerenze dei seguaci del sovrano fuggito. Non è il caso di preoccuparci (!) se i moderati accederono a cose fatte (– o non furono precursori? –) alla rivoluzione: constatiamo invece quanto fosse utile e indispensabile il loro appoggio, se non altro (!) a mostrare (!) all’estero che i terribili rivoluzionari erano rappresentati da uomini della migliore società, i quali avrebbero avuto tutto da perdere e nulla da guadagnare da una rivoluzione, quando essa non fosse riuscita seria e promettitrice di migliore avvenire».

Migliore per chi? e come? Il Puccioni diventa spassoso, ma è spassoso che egli sia invitato a dire tali cose e che le sue proposizioni e il suo modo di pensare siano applauditi.

§23 Federico Confalonieri. Dal libretto: A. F. Andryane, Memorie di un prigioniero di Stato allo Spielberg, Capitoli scelti e annotati da Rosolino Guastalla, Firenze, Barbèra, 1916, tolgo alcune indicazioni bibliografiche su Federico Confalonieri:

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Rosolino Guastalla, Letteratura spielberghese in Le mie prigioni commentate, Livorno, Giusti, 1912; Giorgio Pallavicino, Spilbergo e Gradisca (1856), ristampato nelle Memorie (Loescher, 1882); Federico Confalonieri, Memorie e Lettere (Milano, Hoepli, 1890); Alessandro Luzio, Antonio Salvotti e i processi del Ventuno, Roma, 1901; Domenico Chiattone, commento alle Mie Prigioni del Pellico. I Mémoires dell’Andryane sono stati tradotti in italiano da F. Regonati (quattro volumi, 1861, Milano) corredati da documenti.

Posizione del Luzio contro Andryane, mentre giustifica il Salvotti (!); cfr altre osservazioni del Luzio e il carattere tendenzioso e acrimonioso dei suoi scritti sul Rinascimento. Cfr G. Trombadori, Il giudizio del De Sanctis sul Guicciardini nella «Nuova Italia» del 20 novembre 1931; scrive il Trombadori: «La legittima ammirazione che tutti tributiamo al Luzio soprattutto per l’opera da lui svolta nel campo degli studi sul nostro Rinascimento, non deve essere scompagnata dalla conoscenza dei limiti entro cui è chiusa la sua visione della storia, che sono un moralismo piuttosto esclusivistico e quella mentalità così schiettamente giuridica (ma è esatto dire giuridica? o non è piuttosto “giudiziaria”?) che lo ha fatto impareggiabile indagatore di carte processuali ecc. ecc.» (vedi il testo in caso di bisogno). Ma non si tratta solo di temperamento, si tratta specialmente di tendenziosità politica.

Il Luzio potrebbe chiamarsi il Cesare Cantù del moderatismo conservatore (cfr Croce su Cantù nella Storia della storiografia italiana nel secolo XIX). Continuo la citazione sul Luzio del Trombadori: «Sono due atteggiamenti che si integrano e si completano a vicenda, per cui qualche volta ti sembra che la sua portentosa perizia nel sottoporre all’analisi deposizioni e testimonianze e “costituti” abbia l’unico fine di liberare qualcuno dalla taccia di vigliacco o di traditore, o di ribadirgliela, di condannare, o di assolvere. Così avviene che raramente egli si sottragga al gusto di accompagnare ai nomi di uomini che nella storia ebbero la loro parte grande o piccola, aggettivi come: vile, generoso, nobile, indegno e via dicendo».

Perciò il Luzio partecipò alla polemica che si svolse negli anni scorsi sul Guicciardini, contro il giudizio del De Sanctis, naturalmente per difendere il Guicciardini, credendo che ci fosse bisogno di difenderlo, come se il De Sanctis avesse fatto una requisitoria da procuratore contro di lui e non avesse invece rappresentato un periodo della cultura italiana, quello dell’«Uomo del Guicciardini»; l’intervento del Luzio anche in questo caso non è un fatto di «temperamento» di studioso, ma un fatto politico tendenziale: in realtà l’«uomo del Guicciardini» è il rappresentante ideale del «moderato italiano» sia esso lombardo, toscano o piemontese tra il 1848 e il 1870 e del moderno clerico‑moderato, di cui il Luzio è l’aspetto «istoriografico».

È da notare che il Croce non cita, neppure per incidenza, il nome del Luzio nella sua Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, edizione del 1921, sebbene una parte dell’opera del Luzio risalga agli anni precedenti il 1900: mi pare ne parli però nell’appendice pubblicata recentemente nella «Critica» e incorporata poi nella nuova edizione del libro.

§91 Confalonieri. Silvio d’Amico, in un capitolo del suo libro Certezze (Treves‑Treccani‑Tuminelli, di prossima pubblicazione; il capitolo è riportato dai giornali del 16 marzo 1932, «Resto del Carlino») scrive che in una raccolta del museo dello Spielberg è conservata la «supplica rivolta a … Francesco I dal conte Confalonieri di Milano entrato in carcere, come si sa, fiorente di gagliardissima giovinezza: egli scrive all’Imperatore come un uomo fiaccato, chiedendo grazia e pietà. Documento spaventevole, dico, perché anche lasciando la debita parte alle forme servili del tempo (? da parte del Confalonieri?), di fatto qui le parole imploranti denunciano una violazione spirituale cento volte più turpe di una condanna a morte, gemono la disfatta di una tempra spezzata in due: non è più il baldo patrizio che parla, è il fanciullo che un gigante ha costretto a scrivere a proprio talento, schiacciandogli l’esile mano nel pugno d’acciaio, è il meschinissimo che è stato stordito e ubbriacato per vederlo delirare».

Scrive il D’Amico che questo museo dello Spielberg è stato messo insieme, col permesso del governo ceco, dal dottor Aldo Zaniboni, un medico italiano che viveva o vive ancora a Brno. Avrà fatto qualche pubblicazione in proposito? E questa supplica del Confalonieri è stata pubblicata?1

Note

§35 Risorgimento. Giuseppe Ferrari. Come il giacobinismo storico (unione della città e della campagna) si è diluito e astrattizzato in Giuseppe Ferrari. La «legge agraria» da punto programmatico concreto e attuale, ben circoscritto nello spazio e nel tempo, è divenuta una vaga ideologia, un principio di filosofia della storia.

Da notare che nei giacobini francesi la politica contadina non fu che un’intuizione politica immediata (arma di lotta contro l’aristocrazia terriera e contro il federalismo girondino) e opposero a ogni «esagerazione» utopistica degli astratti. L’impostazione della «riforma agraria» spiega il fatto della relativa popolarità che il Ferrari continua ad avere fra i libertari: molti punti di contatto tra il Ferrari e il Bakunin e in generale i narodniki russi i nullatenenti della campagna sono mitizzati per la «pandistruzione». Nel Ferrari, a differenza del Bakunin, è però ancor viva la coscienza che si tratta di una riforma liberalesca.

Bisognerebbe confrontare le idee del Ferrari sulla riforma agraria come punto d’innesto delle masse agricole nella rivoluzione nazionale, con le idee di Carlo Pisacane. Il Pisacane si avvicina più al Machiavelli; concetto più limitato e concretamente politico. (Il Ferrari contro il principio d’eredità nel possesso terriero, contro residui di feudalismo, ma non contro l’eredità nella forma capitalistica; cfr. con le idee di Eugenio Rignano).

§51 Risorgimento. Accanto ai concetti di Rivoluzione Passiva, di Rivoluzione‑Restaurazione ecc. porre questa affermazione di Giuseppe Ferrari (10 novembre 1864 in Parlamento): «Noi siamo il Governo più libero che abbia mai avuto l’Italia da cinquecento anni; se io esco da questo Parlamento, io cesso di appartenere alla rivoluzione ordinata, legale, ufficiale».

§10 Risorgimento. Il realismo di Cavour. Il peso relativamente preponderante che i fattori internazionali ebbero nello sviluppo del Risorgimento risulta dal particolare realistico del Cavour, che consisteva nel valutare in una misura che sembrava mostruosa al Partito d’Azione l’attività diplomatica. Quando Crispi, credendo di diminuire l’importanza di Cavour, disse a Ferdinando Martini, che Cavour non aveva fatto altro che «diplomatizzare la rivoluzione» in realtà egli, senza volerlo, riconosceva l’indispensabilità del Cavour.

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Ma per Crispi ammettere che organizzare i rapporti internazionali fosse stato più importante ed essenziale che organizzare i rapporti interni sarebbe stato impossibile: avrebbe significato ammettere che le forze interne nazionali erano troppo deboli in confronto dei compiti da risolvere e che, specialmente, esse si erano mostrate impari alla loro missione e politicamente impreparate e abuliche (abuliche nel terreno della volontà politica concreta e non del giacobinismo formale). Perciò il «realismo di Cavour» è un argomento ancora da trattare, senza pregiudizi e senza retorica.

§5 Risorgimento. Il Partito d'Azione. Per la storia del Partito d’Azione e del «trasformismo» italiano in generale è molto interessante una lettera di Francesco De Sanctis a Giuseppe Civinini pubblicata nel «Bullettino Storico Pistoiese» da Filippo Civinini e riassunta nel «Marzocco» del 4 ottobre 1931. La lettera è senza data ma pare debba essere stata scritta tra il secondo semestre del 1866 e i primi del 1868.

Scrive il De Sanctis, tra l’altro: «La trasformazione dei partiti, la costituzione di un partito progressista di contro a un partito conservatore, è una mia vecchia idea per la quale combatto da tre anni e che è la bandiera del mio giornale». «Per me partito moderato e partito d’azione avevano cessato di esistere fin dalla catastrofe di Aspromonte.

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L’antica Sinistra morì il giorno che Mordini e Crispi non vollero dimettersi, come molti dei loro compagni, per le cose di Sicilia. Da quel tempo la Sinistra entrava in una via di trasformazione e diventò un’opposizione costituzionale progressista. Il programma del Mordini e l’altro di Crispi, al tempo delle elezioni generali, confermarono questo indirizzo. E fu questo il partito che uscì molto rinforzato dalle urne e a cui si accostarono in grandissimo numero degli uomini nuovi venuti in Parlamento a costituire la consorteria. Ne’ programmi di quel tempo non più traccia di odio napoleonico, di agitazioni di piazza, di insurrezioni, senza e contro il governo, di velleità repubblicane» ecc. La datazione mi pare errata, perché il De Sanctis scrive di sedere nella Sinistra, «nella nuova Sinistra», e mi pare che il passaggio del De Sanctis alla Sinistra sia avvenuto più tardi.

§139 Risorgimento. Garibaldi e la frase del «metro cubo di letame». Nell’articolo Garibaldi e Pio IX («Corriere della Sera» del 15 aprile 1932) A. Luzio scrive che «va escluso assolutamente che fosse sua (di Garibaldi) una lettera in cui il vecchio Pontefice veniva oltraggiato con l’epiteto volgare di “metro cubo di letame”». Il Luzio ricorda di aver già scritto in proposito (Profili, I, 485). G. C. Abba avrebbe detto al Luzio d’aver udito da Garibaldi «le più sdegnose proteste per l’inqualificabile abuso del proprio nome».

La quistione non è chiara, perché si tratterebbe del fatto che qualcuno avrebbe scritto una «intera lettera» col nome di Garibaldi, senza che questi protestasse immediatamente per l’abuso, mentre le «sdegnose proteste» le fece privatamente all’Abba in conversazione privata di cui l’Abba non avrebbe lasciato altra traccia che la conversazione privata col Luzio.

Poiché l’articolo del Luzio è un tentativo di riabilitazione popolare di Pio IX, non molto d’accordo con altre ricostruzioni del carattere di Pio IX, è da pensare che il Luzio, pur non inventando completamente, abbia alquanto «esagerato» qualche espressione di Garibaldi che attenuava la sua drastica frase.

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Il Luzio scrive a proposito di Pio IX: «Documenti diplomatici insospettabili confermano, a ogni modo, qualche cosa di più che la “deserta volontà d’amare” cantata dal Carducci, in Pio IX: la realtà era fors’anche più poetica (sic!) e drammatica. Ci mostra infatti il Papa, circuito dal cardinal Antonelli e da altri intransigenti, chieder loro affannosamente (!!), con mal repressa (!!) ribellione (!): – Ma se la Provvidenza ha decretato l’Unità italiana, devo esser io a contrastarla, a frastornare le decisioni divine, col mostrarmi inconciliabile?»

Pare invece, da altri documenti, che l’influsso dell’Antonelli fosse molto piccolo ecc. In ogni modo il carattere «romanzato» e da romanzo d’appendice della ricostruzione del Luzio è troppo in rilievo, fino a mancare di rispetto alla personalità del papa, che non poteva porre in quel modo la quistione di un possibile decreto della Provvidenza e parlare di «frastornamenti» di divine decisioni.

§101 Passato e presente. Parlamento italiano. Vedere per quale preciso movimento politico si interpretò lo Statuto in modo da allargare la funzione e le attribuzioni del Parlamento. In realtà la formazione di un governo che emanava dal Parlamento, si costituiva in Gabinetto con un proprio Presidente ecc., è pratica che s’inizia fin dai primi tempi dell’era costituzionale, è il modo «autentico» di interpretare lo Statuto.

Solo più tardi, per dare una soddisfazione ai democratici, fu data a questa interpretazione una tendenziosità di sinistra (forse le discussioni politiche al tempo del proclama di Moncalieri possono servire per provare la giustezza di questa analisi).

Per iniziativa della destra si giunge a una contrapposizione della lettera dello Statuto a quella che ne era sempre stata la pratica normale e indiscussa (articolo di Sonnino Torniamo allo Statuto nella Nuova Antologia del 1° gennaio 1897, e la data è da ritenere perché prelude al conato reazionario del 98) e questa iniziativa segna una data perché rappresenta il manifesto della formazione consortesca che si va organizzando, che per circa 20 anni non riesce mai a prendere e mantenere il potere stabilmente, ma che ha una parte fondamentale nel governo «reale» del paese.

Si può dire che a mano a mano che illanguidisce la tendenza per domandare una Costituente democratica, una revisione dello Statuto in senso radicale, si rafforza la tendenza «costituentesca» alla rovescia, che dando un’interpretazione restrittiva dello Statuto minaccia un colpo di Stato reazionario.

Primo Novecento

§119 Passato e presente. Avvenimenti del giugno 1914. Ricordare articolo di Rerum Scriptor sulla assenza di programma di tali avvenimenti. E strano che Rerum Scriptor non si sia accorto che quegli avvenimenti avevano un grande valore perché rinnovavano i rapporti tra Nord e Sud, tra le classi urbane settentrionali e le classi rurali meridionali. Se il fatto che dette origine agli avvenimenti si ebbe ad Ancona, bisogna ricordare che l’origine reale fu l’eccidio di Roccagorga, tipicamente «meridionale», e che si trattava di opporsi alla politica tradizionale di Giolitti, ma anche dei governi di tutti gli altri partiti, di passare immediatamente per le armi i contadini meridionali che elevassero anche una protesta pacifica contro il mal governo e le cattive amministrazioni degli amici di tutti i governi.

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È anche da ricordare l’aggettivo «ignobile» impiegato da Adolfo Omodeo per qualificare quegli avvenimenti (cfr «Critica» del 20 gennaio 1932, Momenti della vita di guerra, pp. 29‑30). L’Omodeo parla di «Ignazio di Trabia (il secondogenito del principe Pietro)» che come ufficiale di cavalleria nel giugno 14 «dovette caricare per le vie di Roma la folla durante l’ignobile settimana rossa. Ne riportò un disgusto profondo. Scriveva: “È stata un’ora proprio brutta per tutta l’Italia e ce ne dobbiamo tutti rammaricare. Il Paese ha dato uno spettacolo addirittura incivile. Non è stato ecc.”».

Bisognerebbe mettere a confronto con queste parole del principino di Trabia le deposizioni dei contadini di Roccagorga al processo fatto a Milano contro Mussolini e Scalarini1. Ma è da notare che Adolfo Omodeo, liberale classico, commenta gli avvenimenti originati per la difesa dei contadini meridionali con le parole di un latifondista siciliano che delle condizioni di abbrutimento dei contadini meridionali è uno degli organizzatori. E per la superficialità di storico e l’incongruenza politica dell’Omodeo occorre confrontare questo atteggiamento con quello che risulta dal libro L’età del Rinascimento italiano dove l’Omodeo mette in luce le avvilenti condizioni del contadiname meridionale come causa di ritardo del Risorgimento italiano.

§120 Passato e presente. 1915. Per ciò che riguarda il rapporto delle forze al momento dell’entrata in guerra dell’Italia, e per giudicare la capacità politica di Salandra-Sonnino, non bisogna considerare la situazione quale era al 24 maggio, ma quale era quando fu fissata la data del 24 maggio per l’inizio delle ostilità. È evidente che una volta fissata questa data, per trattato, non era più possibile mutarla perché nel frattempo la situazione sul fronte orientale era mutata. La quistione che si pone è se non convenisse che l’entrata in guerra dell’Italia avesse a coincidere con l’inizio dell’offensiva russa e non calcolare «assolutamente» sulla buona riuscita dell’offensiva stessa. Che Salandra metta in vista e insista sul fatto che l’entrata in guerra coincise col rovescio russo, quasi ad affermare che non si andava in soccorso del vincitore, non testimonia di molta serietà politica e di responsabilità storica.

Quistione della dissoluzione dell’Impero Austro‑Ungarico. Dalle Memorie del conte Czernin apparirebbe che il Czernin riteneva che l’esistenza del Patto di Londra significava la distruzione della monarchia absburgica, poiché senza Trieste la monarchia non sarebbe più esistita. I tentativi di pace separata da parte dell’Austria (iniziativa di Sisto di Borbone – polemica Clemenceau‑Czernin nei primi mesi del 1918 – dimissioni di Czernin) sarebbero falliti per l’opposizione dell’Italia e per il Patto di Londra, nonostante l’austrofilia latente in Francia e Inghilterra (tanto che Czernin scrive che l’Italia aveva «la direzione diplomatica della guerra»).

Ma queste affermazioni di Czernin non mutano il giudizio sulla condotta del Sonnino verso il problema dell’Austria, poiché si tratta non di sapere se l’Impero absburgico sarebbe «meccanicamente» morto per l’amputazione di Trieste, ma se Sonnino voleva la fine dell’Impero absburgico. Intanto è da dubitare che l’Impero sarebbe crollato senza Trieste; poteva anche avere un sussulto di energia e dar luogo a una nuova guerra con l’Italia.

La posizione di Sonnino è da vedere per riguardo alle quistioni nazionali esistenti in Austria e quindi come problema politico‑militare immediato, come elemento della guerra in atto: una politica di nazionalità (come voleva anche il generale Cadorna) avrebbe accelerato la vittoria italiana determinando il dissolvimento interno dell’esercito austroungarico? Questo è il problema e intorno ad esso sono da discutere le responsabilità di Salandra‑Sonnino e specialmente di Sonnino.

Note

§26 Passato e presente. La politica di Luigi Cadorna. Nell’articolo del Fermi: La Spagna cattolica in «Gerarchia» del dicembre 1931

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si accenna alla Costituzione spagnola del 1812 e si dice: «La resistenza indomita opposta ai francesi dal 1808 al 1813 da tutte, o quasi, le classi della nazione, guidate dal clero, anch’esso ridestato, segnò una pagina gloriosa. Ferdinando VII e le Cortes del 1812 si incaricarono di annullarne i risultati. Queste, con la costituzione modellata sul figurino francese del 1791, inflissero al paese un travestimento: cattiva copia di una cattiva copia, come diceva L. Cadorna di un travestimento analogo». Dove e quando il Cadorna si espresse in tali termini? Il giudizio del Fermi sulla costituzione spagnola del 12 è il solito giudizio superficiale della demagogia reazionaria.

§64 Passato e presente. Il patto di Londra. L’articolo 13 del Patto di Londra stabilisce che, nel caso in cui Francia e Inghilterra avessero aumentato i loro dominii coloniali a spese della Germania, questi due paesi avrebbero riconosciuto come principio che l’Italia avrebbe potuto esigere compensi equi, specialmente nel regolamento delle quistioni concernenti le frontiere delle colonie ecc. La imprecisione e l’ambiguità della formulazione sono connesse al carattere del patto, per cui l’Italia s’impegnava a dichiarare guerra all’Austria e non alla Germania. Questo elemento rimane il fattore centrale della politica estera e di alleanze dell’Italia in quel periodo.

Perché si prese questa decisione e come si sapeva dell’atteggiamento che avrebbe preso la Germania? cioè che la Germania non avrebbe, essa, dichiarato guerra all’Italia? Problemi che rimangono ancora insoluti.

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Elementi per risolverli: 1) il documento Cadorna che Salandra scrive di non aver conosciuto; 2) atteggiamento Salandra‑Sonnino per cui essi non si associano Giolitti, ma pretendono di «fare la storia» da soli, cioè a beneficio del loro partito, senza però riuscire a dominare le forze politiche dominanti del paese; 3) atteggiamento Giolitti nel 1918‑19, cioè movimenti di Giolitti per una Costituente o almeno per limitazione del potere esecutivo, da cui parrebbe che non sono stati mantenuti dei patti o delle promesse fatte a Giolitti dietro le spalle di Salandra e Sonnino.

§83 Passato e presente. Avvenimenti del 1917. Il ministero Salandra cade il 10 giugno 1906 [contraccolpo della dichiarazione di guerra alla Germania], mentre durava la minaccia dell’esercito austriaco dal Trentino. Boselli forma il ministero nazionale (vedere atteggiamento dei giolittiani a questo proposito). Il 12 giugno 1917 crisi del ministero: i ministri rimettono al Boselli i loro portafogli, per dargli la possibilità di organizzare meglio l’opera del governo.

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Contrasti in politica estera e in quella interna: Bissolati e altri osteggiavano la politica di Sonnino, cioè volevano che fossero precisati e mutati i fini della guerra, osteggiavano la politica militare del Cadorna (memoriale Douhet a Bissolati), osteggiavano la politica interna troppo liberale e indulgente verso gli avversari del governo (socialisti, giolittiani, cattolici). Cadorna a sua volta osteggiava la politica interna del governo ecc.

È da notare che a Torino comincia a mancare il pane proprio nella seconda metà di giugno (cfr gli articoli della «Gazzetta del Popolo» pubblicati, ma occorrerebbe conoscere se già prima la «Gazzetta del Popolo» abbia voluto intervenire e ne sia stata impedita dalla censura senza che nel giornale apparisse traccia di questi tentativi: forse nell’Archivio di Stato tracce più concrete. Cfr anche l’autodifesa del prefetto Verdinois, che però è scolorita e imprecisa). Il gabinetto Boselli cade il 16 ottobre 1917 alla vigilia di Caporetto.

(Poteva chiamarsi nazionale un governo da cui fosse assente Giolitti? Nel 17 appunto si hanno i frutti della politica Salandra‑Sonnino, che vollero monopolizzare a sé e al loro partito la gloria dell’entrata in guerra e, non impedendo la caccia a Giolitti, determinarono il suo ulteriore atteggiamento).

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I memoriali dell’allora colonnello Douhet sono pubblicati nel volume: Giulio Douhet, Le profezie di Cassandra, a cura del generale Gherardo Pàntano, Genova, Soc. Ed. Tirrena, 1931, in 8°, pp. 443. Su questo volume cfr la strabiliante recensione di Giacomo Devoto nel «Leonardo» del febbraio 1932. Il Devoto si domanda: «Ma perché poi critiche così fondate, venendo da un uomo di prim’ordine come era senza dubbio il Douhet, non hanno avuto il successo che in se stesse meritavano?» E risponde: «Non per la malvagità degli uomini, non per il carattere inelastico dell’autore, nemmeno per un destino crudelmente avverso. Le perdite morali e materiali che il deficiente comando ha procurato erano necessarie all’Italia. L’Italia che per lunga abitudine, al primo accenno di sconfitta o di incertezza in una battaglia coloniale perdeva la calma, doveva imparare a sopportare pazientemente prove francamente dure. Una buona metà dei nostri soldati sono stati sacrificati, dal punto di vista militare, inutilmente. Ma come per imparare a bene operare è fatale che prima si erri, così per imparare a sacrificarsi utilmente, un paese deve temprarsi a sacrifizi non proporzionati. Nessuna apologia potrà farci credere che il vecchio comando supremo abbia condotto bene l’esercito. Ma per arrivare a comandare bene, bisogna voler comandare».

Bisognerebbe sapere chi è questo signor Giacomo Devoto, se è un militare (un G. Devoto è professore di glottologia all’Università di Padova). Il suo ragionamento rassomiglia a quello dell’on. Giuseppe Canepa, commissario per gli approvvigionamenti nel 1917, che dopo gli avvenimenti di Torino, si giustificò della disorganizzazione del suo servizio, ricordando il «provando e riprovando» dell’Accademia del Cimento. Ma questa è la filosofia di Monsignor Perrelli nel governo dei cavalli. E non si tien conto che la massa dell’esercito non è un corpo vile e passivo per fare tali esperienze, ma reagisce, appunto disfacendosi: perciò è utile sapere chi è il Devoto, se appartiene ai circoli militari e se le sue opinioni sono pure idiosincrasie o concezione diffusa.

Paolo Boselli si potrebbe chiamare la «cicala nazionale». La sua scelta a capo del governo nazionale nel giugno 1916 è il segno della debolezza della combinazione, che si costituisce su un terreno di retorica parolaia e non di realismo politico: sotto il velo dell’unità data dai discorsi del Boselli, il governo era dilaniato da dissidi insanabili e che d’altronde non si voleva sanare, ma solo coprire.

Politica dei giolittiani nel dopoguerra: discorso di Giolitti a Dronero, dove si pone la quistione della soppressione dell’art. 5 dello Statuto, cioè dell’allargamento dei poteri parlamentari contro il potere esecutivo. La caratteristica della politica giolittiana è di non aver coraggio di se stessa (ma che cosa poi si proponeva Giolitti? e non si accontentava poi egli di ottenere appunto solo ciò che ottenne effettivamente, cioè di disperdere il partito salandrino?): i giolittiani vogliono una Costituente senza la Costituente, senza cioè l’agitazione politica popolare che è legata alla convocazione di una Costituente: vogliono che il normale Parlamento funzioni come una Costituente ridotta ai minimi termini, edulcorata, addomesticata.

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Bisogna ricercare la funzione svolta da Nitti per togliere ancora il residuo di veleno alla parola d’ordine lanciata da Giolitti, per annegarla nel marasma parlamentare: certo è che la quistione della soppressione dell’art. 5 fa la sua comparsa ufficiale in Parlamento, per essere dimenticata. I giolittiani, prima del ritorno di Giolitti al governo, lanciano la parola d’ordine di una «inchiesta politica sulla guerra». Cosa poi significhi di preciso questa formula è difficile capire: ma essa è appunto solo uno pseudonimo della Costituente ridotta voluta da Giolitti, come arma per intimorire gli avversari. È da ricordare che i giolittiani ponevano tutta la loro speranza politica nel Partito Popolare, come partito di massa centrista che avrebbe dovuto (e in realtà servì) servire da strumento per la manovra giolittiana. Articoli di Luigi Ambrosini nella «Stampa», entrata di Ambrosini nel Partito Popolare (cfr alcuni di questi articoli raccolti nel volumetto Fra Galdino alla cerca). È tutto un periodo di storia politica e dei partiti italiani da studiare e da approfondire.

§123 Passato e presente. Bilancio della guerra. Camillo Pellizzi annunzia nel «Corriere» del 7 aprile 1932 il libro di Luigi Villari The war on the Italian Front (Londra, Cobden‑Sanderson, 1932, con prefazione di sir Rennell Rodd).

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In un’appendice sono pubblicate le cifre sul bilancio comparativo della guerra, e il Pellizzi riproduce le seguenti: l’Italia ha mobilitato il 14,48 % della sua popolazione, la Francia il 20,08, l’Inghilterra il 12,31; l’Italia ha avuto il 14% di morti sul numero dei mobilitati, la Francia il 16,15, l’Inghilterra l’11,05; l’Italia ha speso nella guerra oltre un quarto della sua ricchezza totale, la Francia meno di un sesto; l’Italia ha perso il 58,93% del suo tonnellaggio mercantile, la Gran Bretagna il 43,63, la Francia il 39,44.

Occorrerebbe vedere come queste cifre sono ottenute e se si tratta di quantità omogenee. Le cifre percentuali della mobilitazione possono essere rese non esatte dal fatto che si calcolano tutti i mobilitati di vari anni e si fa la percentuale sulla popolazione di un anno dato. Così per il tonnellaggio occorrerebbe sapere l’età delle navi perdute, perché è noto che alcuni paesi tengono in servizio le navi più di altri, onde il maggior numero di disastri anche in tempo di pace. Il calcolo della ricchezza di un paese varia sensibilmente a seconda dell’onestà fiscale nel denunziare i redditi, e questa forma di onestà non è mai abbondante.

§96 Passato e presente. Giolitti. Nella commemorazione di Giolitti (morto il 17 luglio 1928) scritta per il «Journal des Débats», Maurice Pernot dice: «Egli prese come punto di partenza un’idea originale e forse giusta: nel momento in cui in Italia si delineavano due forze nuove, cioè una borghesia intraprendente e una classe operaia organizzata, bisognava sostituire ai vecchi Governi di partito un Governo d’opinione pubblica e far partecipare queste due forze alla vita politica del Paese».

L’affermazione non è esatta né in generale né in alcuni particolari. Cosa vuol dire «sostituire ai governi di partito un governo d’opinione pubblica?» Significa sostituire al governo di «certi» partiti, il governo di «altri» partiti. Nel caso concreto, in Italia, significava distruggere le vecchie consorterie e cricche particolaristiche, che vivevano parassitariamente sulla polizia statale che difendeva i loro privilegi e il loro parassitismo e determinare una più larga partecipazione di «certe» masse alla vita statale attraverso il Parlamento. Bisognava, per Giolitti, che rappresentava il Nord e l’industria del Nord, spezzare la forza retriva e asfissiante dei proprietari terrieri, per dare alla nuova borghesia più largo spazio nello Stato, e anzi metterla alla direzione dello Stato.

Giolitti ottenne questo con le leggi liberali sulla libertà di associazione e di sciopero ed è da notare come nelle sue Memorie egli insista specialmente sulla miseria dei contadini e sulla grettezza dei proprietari.

Ma Giolitti non creò nulla: egli «capì» che occorreva concedere a tempo per evitare guai peggiori e per controllare lo sviluppo politico del paese e ci riuscì.

In realtà Giolitti fu un grande conservatore e un abile reazionario, che impedì la formazione di un’Italia democratica, consolidò la monarchia con tutte le sue prerogative e legò la monarchia più strettamente alla borghesia attraverso il rafforzato potere esecutivo che permetteva di mettere al servizio degli industriali tutte le forze economiche del paese.

È Giolitti che ha creato così la struttura contemporanea dello Stato Italiano e tutti i suoi successori non hanno fatto altro che continuare l’opera sua, accentuando questo o quell’elemento subordinato.

Che Giolitti abbia screditato il parlamentarismo è vero, ma non proprio nel senso che sostengono molti critici: Giolitti fu antiparlamentarista, e sistematicamente cercò di evitare che il governo diventasse di fatto e di diritto un’espressione dell’assemblea nazionale (che in Italia poi era imbelle per l’esistenza del Senato così come è organizzato); così si spiega che Giolitti fosse l’uomo delle «crisi extraparlamentari».

Che il contrasto tra il Parlamento come si pretendeva fosse e come era realmente, cioè poco meno di nulla, abbia screditato il parlamentarismo, era inevitabile avvenisse: ma è la lotta contro il parlamentarismo da parte di Giolitti e non l’essere egli parlamentarista, che ha screditato il parlamentarismo. (Un gesto «parlamentarista» di Giolitti fu quello fatto col discorso di Cuneo sull’art. 5 dello Statuto, ma si trattò di una manovra per sgominare gli avversari politici; infatti Giolitti non ne fece nulla quando andò al potere).

Note

Mat.Bibl.: Età giolittiana

Txt: G. Giolitti - Memorie della mia vita

§140 Passato e presente. Malta.

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Controllare se l’on. Enrico Mizzi, uno dei leaders del partito nazionalista maltese, sia stato tra i fondatori del Partito Nazionalista Italiano. Probabilmente l’affermazione fatta da qualche giornale inglese, si riferisce al fatto che il Mizzi avrà mandato la sua adesione al Comitato organizzatore o a qualche personalità come Corradini o Federzoni o Coppola.

§38 Passato e presente. La paura del kerenskismo. È uno dei tratti più rilevanti degli anni del dopoguerra. Corrisponde forse, in una certa misura, alla paura del lafayettismo nel periodo successivo alla Rivoluzione francese. Intorno al kerenskismo si è formato tutto un «mito negativo». Sono state attribuite al Kerensky tutte le qualità negative, le debolezze, le irrisolutezze, le deficienze di un’intera epoca storica. Non essere il Kerensky del proprio paese, è diventata l’ossessione di tutta una serie di capi di governo. Da questa paura sono derivate alcune delle massime politiche del machiavellismo attuale e dei principi critici su cui si svolge la propaganda politica di massa. Ma cosa c’è di reale in questa paura?

Non si osserva che uno degli elementi del kerenskismo è appunto questa paura stessa di essere Kerensky, cioè il fatto che a un indirizzo positivo si sostituisce un indirizzo negativo nella vita politica, si pensa più al «non fare» che al «fare concreto», si è ossessionati dall’avversario che si sente dominare nell’interno stesso della propria personalità. Del resto si è «Kerensky» non per volontà, così come la volontà non può fare evitare dall’essere Kerensky.

Kerensky è stato l’espressione di un determinato rapporto di forze politiche, organizzative, militari immediate che non era stato creato da lui e che egli non riuscì a correggere nonostante i suoi sforzi disperati, tanto disperati e incomposti da dargli l’aspetto di un Arlecchino. Si è preso sul serio il quadro morale e intellettuale di Kerensky dipinto dai suoi nemici come arma di lotta contro di lui, come mezzo immediato per liquidarlo e isolarlo e se ne è fatto un uomo di paglia assoluto, fuori del tempo e dello spazio, un tipico «ilota» da mostrare agli «spartiati» per educarli.

Si potrebbe dimostrare che non è vero che Kerensky non abbia ricorso alle misure di forza, tutt’altro; ma forse appunto questo suo ricorso alla forza accelerò il processo politico da cui egli fu travolto. In realtà il Kerensky ebbe molti successi relativi, e la sua linea politica non era sbagliata in sé; ma ciò contò poco nell’insieme delle forze scatenate intorno a lui, che erano incontrollabili da politici di tipo Kerensky, cioè dall’insieme delle forze sociali di cui Kerensky era l’espressione più adeguata.

Politica

Politologia

§169 Unità della teoria e della pratica. Il lavoratore medio opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di questo suo operare‑conoscere il mondo; la sua coscienza teorica anzi può essere «storicamente» in contrasto col suo operare. Egli cioè avrà due coscienze teoriche, una implicita nel suo operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella trasformazione pratica del mondo, e una «esplicita», superficiale, che ha ereditato dal passato. La posizione pratico‑teorica, in tale caso, non può non diventare «politica» cioè quistione di «egemonia».

La coscienza di essere parte della forza egemonica (cioè la coscienza politica) è la prima fase di una ulteriore e progressiva autocoscienza, cioè di unificazione della pratica e della teoria. Anche l’unità di teoria e pratica non è un dato di fatto meccanico, ma un divenire storico, che ha la sua fase elementare e primitiva nel senso di «distinzione», di «distacco», di «indipendenza». Ecco perché altrove ho osservato che lo sviluppo del concetto‑fatto di egemonia ha rappresentato un grande progresso «filosofico» oltre che politico‑pratico.

Tuttavia, nei nuovi sviluppi del materialismo storico, l’approfondimento del concetto di unità della teoria e della pratica non è ancora che ad una fase iniziale: ancora ci sono dei residui di meccanicismo. Si parla ancora di teoria come «complemento» della pratica, quasi come accessorio ecc. Penso che anche in questo caso la quistione debba essere impostata storicamente, e cioè come un aspetto della quistione degli intellettuali.

L’autocoscienza storicamente significa creazione di una avanguardia di intellettuali: una «massa» non si «distingue» e non diventa «indipendente» senza organizzarsi e non c’è organizzazione senza intellettuali, cioè senza organizzatori e dirigenti.

Ma questo processo di creazione degli intellettuali è lungo e difficile, come si è già visto altrove. E per molto tempo, cioè finché la «massa» degli intellettuali non ha raggiunto una certa ampiezza, ciò che significa finché la più grande massa non ha raggiunto un certo livello di cultura, appare sempre come un distacco tra intellettuali (o certi di essi, o un gruppo di essi) e le grandi masse: quindi l’impressione di «accessorio e complementare».

L’insistere sulla «pratica», cioè, dopo avere nell’«Unità» affermata, non distinto, ma separato la pratica dalla teoria (operazione puramente meccanica) significa storicamente che la fase storica è ancora relativamente elementare, è ancora la fase economico‑corporativa, in cui si trasforma il quadro generale della «struttura».

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A proposito degli intellettuali si potrebbe ancora osservare, a questo proposito, la differenza fondamentale tra l’epoca prima e dopo la Rivoluzione francese e l’epoca attuale: l’individualismo economico dell’epoca precedente è anch’esso fenomeno di struttura, poiché la vecchia struttura si sviluppava per apporti individuali. L’intellettuale immediato del capitalismo era l’«industriale», organizzatore della produzione. Nell’economia di massa, la selezione individuale avviene nel campo intellettuale e non in quello economico; l’affare principale è quello dell’unificazione di pratica e teoria, cioè di direzione di «tutta la massa economicamente attiva», e ciò agli inizi non può non avvenire che individualmente (adesione individuale ai partiti politici e non Labour Party o associazioni sindacaliste): i Partiti sono gli elaboratori della nuova intellettualità integrale e totalitaria e l’intellettuale tradizionale della fase precedente (clero, filosofi professionali ecc.) sparisce necessariamente, a meno che non si assimili dopo processo lungo e difficile.

§180 Passato e presente. Le grandi idee. Le grandi idee e le formule vaghe. Le idee sono grandi in quanto sono attuabili, cioè in quanto rendono chiaro un rapporto reale che è immanente nella situazione e lo rendono chiaro in quanto mostrano concretamente il processo di atti attraverso cui una volontà collettiva organizzata porta alla luce quel rapporto (lo crea) o portatolo alla luce lo distrugge, sostituendolo. I grandi progettisti parolai sono tali appunto perché della «grande idea» lanciata non sanno vedere i vincoli con la realtà concreta, non sanno stabilire il processo reale di attuazione.

Lo statista di classe intuisce simultaneamente l’idea e il processo reale di attuazione: compila il progetto e insieme il «regolamento» per l’esecuzione. Il progettista parolaio procede «provando e riprovando», della sua attività si dice che «fare e disfare è tutto un lavorare».

Cosa vuol dire in «idea» che al progetto deve essere connesso un regolamento? Che il progetto deve essere capito da ogni elemento attivo, in modo che egli vede quale deve essere il suo compito nella sua realizzazione e attuazione; che esso suggerendo un atto ne fa prevedere le conseguenze positive e negative, di adesione e di reazione, e contiene in sé le risposte a queste adesioni o reazioni, offre cioè un terreno di organizzazione. È questo un aspetto dell’unità di teoria e di pratica.

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Corollario: ogni grande uomo politico non può non essere anche un grande amministratore, ogni grande stratega un grande tattico, ogni grande dottrinario un grande organizzatore. Questo anzi può essere un criterio di valutazione: si giudica il teorico, il facitor di piani, dalle sue qualità di amministratore, e amministrare significa prevedere gli atti e le operazioni fino a quelle «molecolari» (e le più complesse, si capisce) necessarie per realizzare il piano.

Naturalmente, è giusto anche il contrario: da un atto necessario si deve saper risalire al principio corrispondente. Criticamente questo processo è di somma importanza. Si giudica da ciò che si fa, non da quel che si dice. Costituzioni statali > leggi > regolamenti: sono i regolamenti e anzi la loro applicazione (fatta in virtù di circolari) che indicano la reale struttura politica e giuridica di un paese e di uno Stato.

§130 Nozioni enciclopediche e argomenti di cultura. Statolatria. Atteggiamento di ogni diverso gruppo sociale verso il proprio Stato. L’analisi non sarebbe esatta se non si tenesse conto delle due forme in cui lo Stato si presenta nel linguaggio e nella cultura delle epoche determinate, cioè come società civile e come società politica, come «autogoverno» e come «governo dei funzionari». Si dà il nome di statolatria a un determinato atteggiamento verso il «governo dei funzionari» o società politica, che nel linguaggio comune è la forma di vita statale a cui si dà il nome di Stato e che volgarmente è intesa come tutto lo Stato.

L’affermazione che lo Stato si identifica con gli individui (con gli individui di un gruppo sociale), come elemento di cultura attiva (cioè come movimento per creare una nuova civiltà, un nuovo tipo di uomo e di cittadino) deve servire a determinare la volontà di costruire nell’involucro della Società politica una complessa e bene articolata società civile, in cui il singolo individuo si governi da sé senza che perciò questo suo autogoverno entri in conflitto con la società politica, anzi diventandone la normale continuazione, il complemento organico.

Per alcuni gruppi sociali, che prima della ascesa alla vita statale autonoma non hanno avuto un lungo periodo di sviluppo culturale e morale proprio e indipendente (come nella società medioevale e nei governi assoluti era reso possibile dall’esistenza giuridica degli Stati o ordini privilegiati), un periodo di statolatria è necessario e anzi opportuno: questa «statolatria» non è altro che la forma normale di «vita statale», di iniziazione, almeno, alla vita statale autonoma e alla creazione di una «società civile» che non fu possibile storicamente creare prima dell’ascesa alla vita statale indipendente.

Tuttavia questa tale «statolatria» non deve essere abbandonata a sé, non deve, specialmente, diventare fanatismo teorico, ed essere concepita come «perpetua»: deve essere criticata, appunto perché si sviluppi, e produca nuove forme di vita statale, in cui l’iniziativa degli individui e dei gruppi sia «statale» anche se non dovuta al «governo dei funzionari» (far diventare «spontanea» la vita statale). Cfr pag. 45, l’argomento «Iniziativa individuale».

§195 La proposizione che «la società non si pone problemi per la cui soluzione non esistano già le premesse materiali». È il problema della formazione di una volontà collettiva che dipende immediatamente da questa proposizione e analizzare criticamente cosa la proposizione significhi importa ricercare come appunto si formino le volontà collettive permanenti, e come tali volontà si propongano dei fini immediati e mediati concreti, cioè una linea d’azione collettiva. Si tratta di processi di sviluppo più o meno lunghi, e raramente di esplosioni «sintetiche» improvvise. Anche le «esplosioni» sintetiche si verificano, ma, osservando da vicino, si vede che allora si tratta di distruggere più che ricostruire, di rimuovere ostacoli esteriori e meccanici allo sviluppo autoctono e spontaneo: così può assumersi come esemplare il Vespro Siciliano.

Si potrebbe studiare in concreto la formazione di un movimento storico collettivo, analizzandolo in tutte le sue fasi molecolari, ciò che di solito non si fa perché appesantirebbe ogni trattazione: si assumono invece le correnti d’opinione già costituite intorno a un gruppo o a una personalità dominante.

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È il problema che modernamente si esprime in termini di partito o di coalizione di partiti affini: come si inizia la costituzione di un partito, come si sviluppa la sua forza organizzata e di influenza sociale ecc. Si tratta di un processo molecolare, minutissimo, di analisi estrema, capillare, la cui documentazione è costituita da una quantità sterminata di libri, di opuscoli, di articoli di rivista e di giornale, di conversazioni e dibattiti a voce che si ripetono infinite volte e che nel loro insieme gigantesco rappresentano questo lavorio da cui nasce una volontà collettiva di un certo grado di omogeneità, di quel certo grado che è necessario e sufficiente per determinare un’azione coordinata e simultanea nel tempo e nello spazio geografico in cui il fatto storico si verifica.

Importanza delle utopie e delle ideologie confuse e razionalistiche nella fase iniziale dei processi storici di formazione delle volontà collettive: le utopie, il razionalismo astratto hanno la stessa importanza delle vecchie concezioni del mondo storicamente elaborate per accumulazione di esperienze successive.

Ciò che importa è la critica a cui tale complesso ideologico viene sottoposto dai primi rappresentanti della nuova fase storica: attraverso questa critica si ha un processo di distinzione e di cambiamento nel peso relativo che gli elementi delle vecchie ideologie possedevano: ciò che era secondario e subordinato o anche incidentale, viene assunto come principale, diventa il nucleo di un nuovo complesso ideologico e dottrinale.

La vecchia volontà collettiva si disgrega nei suoi elementi contradittori, perché di questi elementi quelli subordinati si sviluppano socialmente ecc.

Dopo la formazione del regime dei partiti, fase storica legata alla standardizzazione di grandi masse della popolazione (comunicazioni, giornali, grandi città ecc.) i processi molecolari avvengono più rapidamente che nel passato, ecc.

§142 Nozioni enciclopediche e argomenti di coltura. L’iniziativa individuale. (Argomento connesso con quello della «statolatria», di p. 41). Elementi per impostare la quistione: identità‑distinzione tra società civile e società politica, e quindi identificazione organica tra individui (di un determinato gruppo) e Stato, per cui «ogni individuo è funzionario» non in quanto è impiegato stipendiato dallo Stato e sottoposto al controllo «gerarchico» della burocrazia statale, ma in quanto «operando spontaneamente» la sua operosità si identifica coi fini dello Stato (cioè del gruppo sociale determinato o società civile). L’iniziativa individuale non è perciò una ipotesi di «buona volontà» ma un presupposto necessario.

Ma «iniziativa individuale» si intende nel campo economico e precisamente si intende nel senso preciso di iniziativa a carattere «utilitario» immediato e strettamente personale, con l’appropriazione del profitto che l’iniziativa stessa determina in un determinato sistema di rapporti giuridici. Ma non è questa l’unica forma d’iniziativa «economica» storicamente manifestatasi (catalogo delle grandi iniziative individuali che sono finite in disastro negli ultimi decenni: Kreuger, Stinnes; in Italia: fratelli Perrone; forse a questo proposito utili i libri del Lewinsohn): si hanno esempi di tali iniziative non «immediatamente interessate», cioè «interessate» nel senso più elevato, dell’interesse statale o del gruppo che costituisce la società civile.

Un esempio mirabile è la stessa «alta burocrazia» italiana, i cui componenti, se volessero impiegare ai fini di una attività economica per l’appropriazione personale, le qualità di organizzatori e di specialisti di cui sono dotati, avrebbero la possibilità di crearsi una posizione finanziaria ben altrimenti elevata di quella che loro fa lo Stato imprenditore: né si può dire che l’idea della pensione li tenga fedeli all’impiego di Stato, come avviene per il più basso strato burocratico.

§42 Francia‑Italia. 1°) È realmente mai esistita una francofilia in Italia? Ed erano realmente francofili i radicali‑massoni del «Secolo», che appunto sono giudicati solitamente come spudoratamente francofili? Penso che, analizzando più profondamente, si può trovare che neanche quella corrente fu francofila in senso proprio. La Francia rappresentò un mito per la democrazia italiana, la trasfigurazione in un modello straniero di ciò che la democrazia italiana non era mai riuscita a fare e non si proponeva di fare concretamente, il senso della propria impotenza e inettitudine nell’ambito proprio nazionale.

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La Francia era la Rivoluzione francese, e non il regime attuale, era la partecipazione delle masse popolari alla vita politica e statale, era l’esistenza di forti correnti d’opinione, la sprovincializzazione dei partiti, il decoro dell’attività parlamentare ecc., cose che non esistevano in Italia, che si agognavano, ma per il cui raggiungimento non si sapeva e non si voleva far nulla di preciso, di coordinato, di continuativo: si mostrava al popolo italiano l’esemplare francese, quasi si aspettasse che il popolo italiano facesse da sé, cioè per iniziativa spontanea di massa, ciò che i francesi avevano raggiunto attraverso una serie di rivoluzioni e di guerre, a costo di torrenti di sangue. Ma non era francofilia nel senso tecnico e politico: anzi c’era, proprio in questi democratici, molta invidia per la Francia e un odio sordo. Francofili sono stati i moderati, che ritenevano un dovere della Francia di aiutare sempre l’Italia come una pupilla e che si sarebbero subordinati alla politica francese: per disillusione si gettarono nelle braccia della Germania.

§108 La burocrazia. Mi pare che dal punto di vista economico‑sociale il problema della burocrazia e dei funzionari occorra considerarlo in un quadro molto più vasto: nel quadro della «passività» sociale, passività relativa, e intesa dal punto di vista dell’attività produttiva di beni materiali. Cioè dal punto di vista di quei particolari beni o valori che gli economisti liberali chiamano «servizi». In una determinata società quale è la distribuzione della popolazione per rispetto alle «merci» e per rispetto ai «servizi»? (E s’intende «merci» in senso ristretto, di «merci» materiali, di beni fisicamente consumabili come «spazio e volume»). È certo che quanto più è estesa la parte «servizi» tanto più una società è male organizzata.

Uno dei fini della «razionalizzazione» è certo quello di restringere al mero necessario la sfera dei servizi. Il parassitismo si sviluppa specialmente in questa sfera. Il commercio e la distribuzione in generale appartengono a questa sfera. La disoccupazione «produttiva» determina «inflazione» di servizi (moltiplicazione del piccolo commercio).

Stato

§185 Fase economica‑corporativa dello Stato. Se è vero che nessun tipo di Stato non può non attraversare una fase di primitivismo economico‑corporativa, se ne deduce che il contenuto dell’egemonia politica del nuovo gruppo sociale che ha fondato il nuovo tipo di Stato deve essere prevalentemente di ordine economico: si tratta di riorganizzare la struttura e i rapporti reali tra gli uomini e il mondo economico o della produzione.

Gli elementi di superstruttura non possono che essere scarsi e il loro carattere sarà di previsione e di lotta, ma con elementi «di piano» ancora scarsi: il piano culturale sarà soprattutto negativo, di critica del passato, tenderà a far dimenticare e a distruggere: la linee della costruzione saranno ancora «grandi linee», abbozzi, che potrebbero (e dovrebbero) essere cambiate in ogni momento, perché siano coerenti con la nuova struttura in formazione.

Ciò appunto non si verifica nel periodo dei Comuni; anzi la cultura, che rimane funzione della Chiesa, è proprio di carattere antieconomico (dell’economia capitalistica nascente), non è indirizzata a dare l’egemonia alla nuova classe, ma anzi a impedire che questa l’acquisti: l’Umanesimo e il Rinascimento perciò sono reazionari, perché segnano la sconfitta della nuova classe, la negazione del mondo economico che le è proprio ecc.

§2 Lo Stato e la concezione del diritto. La rivoluzione portata dalla classe borghese nella concezione del diritto e quindi nella funzione dello Stato consiste specialmente nella volontà di conformismo (quindi eticità del diritto e dello Stato). Le classi dominanti precedenti erano essenzialmente conservatrici nel senso che non tendevano ad elaborare un passaggio organico dalle altre classi alla loro, ad allargare cioè la loro sfera di classe «tecnicamente» e ideologicamente: la concezione di casta chiusa.

La classe borghese pone se stessa come un organismo in continuo movimento, capace di assorbire tutta la società, assimilandola al suo livello culturale ed economico: tutta la funzione dello Stato è trasformata: lo Stato diventa «educatore», ecc. Come avvenga un arresto e si ritorni alla concezione dello Stato come pura forza ecc.

La classe borghese è «saturata»: non solo non si diffonde, ma si disgrega; non solo non assimila nuovi elementi, ma disassimila una parte di se stessa (o almeno le disassimilazioni sono enormemente più numerose delle assimilazioni).

Una classe che ponga se stessa come passibile di assimilare tutta la società, e sia nello stesso tempo realmente capace di esprimere questo processo, porta alla perfezione questa concezione dello Stato e del diritto, tanto da concepire la fine dello Stato e del diritto come diventati inutili per aver esaurito il loro compito ed essere stati assorbiti dalla società civile.

§28 Nomenclatura Politica. Teorici, dottrinari, astrattisti ecc. Nel linguaggio comune «teorico» è adoperato in senso deteriore, come «dottrinario» e meglio ancora come «astrattista». Ha avuto la stessa sorte del termine «idealista» che dal significato tecnico filosofico ha preso a significare «vagheggiatore di nebulosità» ecc. Che certi termini abbiano assunto questo significato deteriore non è avvenuto a caso.

Si tratta di una reazione del senso comune contro certe degenerazioni culturali, ecc., ma il «senso comune» è stato a sua volta il filisteizzatore, il mummificatore di una reazione giustificata in uno stato d’animo permanente, in una pigrizia intellettuale altrettanto degenerativa e repulsiva del fenomeno che voleva combattere. Il «buon senso» ha reagito, il «senso comune» ha imbalsamato la reazione e ne ha fatto un canone «teorico», «dottrinario», «idealistico».

§190 Concetto di Stato. Curzio Malaparte nell’introduzione al suo volumetto sulla Tecnica del colpo di Stato pare affermi l’equivalenza della formula: «Tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato, nulla contro lo Stato» con la proposizione: «dove c’è la libertà non c’è lo Stato».1 In questa proposizione il termine «libertà» non è inteso nel significato comune di «libertà politica, ossia di stampa ecc.», ma come contrapposto a «necessità» ed è in relazione alla proposizione di Engels sul passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. Il Malaparte non ha neanche annasato il significato della proposizione.

Note

§191 Egemonia e democrazia. Tra i tanti significati di democrazia, quello più realistico e concreto mi pare si possa trarre in connessione col concetto di egemonia. Nel sistema egemonico, esiste democrazia tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella misura in cui lo sviluppo dell’economia e quindi la legislazione che esprime tale sviluppo favorisce il passaggio molecolare dai gruppi diretti al gruppo dirigente. Nell’Impero Romano esisteva una democrazia imperiale‑territoriale nella concessione della cittadinanza ai popoli conquistati ecc. Non poteva esistere democrazia nel feudalismo per la costituzione dei gruppi chiusi ecc.

Classi

§3 Formazione e diffusione della nuova borghesia in Italia. In altra nota ho segnato che si potrebbe fare una ricerca «molecolare» negli scritti italiani del Medio Evo per cogliere il processo di formazione intellettuale della borghesia, il cui sviluppo storico culminerà nei Comuni per subire poi una disgregazione e un dissolvimento. La stessa ricerca si potrebbe fare nel periodo 1750‑1850, quando si ha la nuova formazione borghese che culmina nel Risorgimento. Anche qui il modello del Groethuysen (Origines de l’esprit bourgeois en France: 1° L’Eglise et la Bourgeoisie) potrebbe servire, integrato, naturalmente, di quei motivi che sono peculiari della storia sociale italiana. Le concezioni del mondo, dello Stato, della vita contro cui deve combattere lo spirito borghese in Italia non sono simili a quelle che esistevano in Francia.

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Foscolo e Manzoni in un certo senso possono dare i tipi italiani. Il Foscolo è l’esaltatore delle glorie letterarie e artistiche del passato (cfr i Sepolcri, i Discorsi civili, ecc.), la sua concezione è essenzialmente «retorica» (sebbene occorra osservare che nel tempo suo questa retorica avesse un’efficienza pratica attuale e quindi fosse «realistica»).

Nel Manzoni troviamo spunti nuovi, più strettamente borghesi (tecnicamente borghesi). Il Manzoni esalta il commercio e deprime la poesia (la retorica). Lettere al Fauriel. Nelle Opere inedite ci sono dei brani in cui il Manzoni biasima l’unilateralità dei poeti che disprezzano la «sete dell’oro» dei commercianti, disconoscono l’audacia dei navigatori mentre parlano di sé come di esseri sovrumani.

In una lettera al Fauriel scrive: «pensi di che sarebbe più impacciato il mondo, del trovarsi senza banchieri o senza poeti, quale di queste due professioni serva più, non dico al comodo, ma alla coltura dell’umanità». (Cfr Carlo Franelli, Il Manzoni e l’idea dello scrittore, nella «Critica Fascista» del 15 dicembre 1931).

Il Franelli osserva: «I lavori di storia e di economia politica li mette più in alto che una letteratura piuttosto (?!) leggera. Sulla qualità della coltura italiana d’allora ha dichiarazioni molto esplicite nelle lettere all’amico Fauriel. Quanto ai poeti, la loro tradizionale megalomania lo offende. Osserva che oggidì perdono tutto quel gran credito che godettero in passato. Ripetutamente ricorda che alla poesia ha voluto bene in “gioventù”».

Economia e Lavoro

§216 Noterelle di economia. Ugo Spirito e C. L’accusa all’economia politica tradizionale di essere concepita «naturalisticamente» e «deterministicamente». Accusa senza fondamento, perché gli economisti classici non si debbono essere preoccupati molto della quistione «metafisica» del determinismo e tutte le loro deduzioni e calcoli sono basati sulla premessa del «supposto che». Cos’è questo «supposto che»? Lo Jannacone, recensendo nella Riforma Sociale il libro dello Spirito, definisce il «supposto che» come un «mercato determinato» e questo è giusto secondo il linguaggio degli economisti classici. Ma cos’è il «mercato determinato» e da che cosa appunto è determinato? Sarà determinato dalla struttura fondamentale della società in quistione e allora occorrerà analizzare questa struttura e identificarne quegli elementi che, relativamente costanti, determinano il mercato ecc., e quegli altri «variabili e in isviluppo» che determinano le crisi congiunturali fino a quando anche gli elementi relativamente costanti ne vengono modificati e si ha la crisi organica.

L’economia classica è la sola «storicista» sotto l’apparenza delle sue astrazioni e del suo linguaggio matematico, mentre proprio lo Spirito dissolve lo storicismo e annega la realtà economica in un diluvio di parole e di astrazioni. Tuttavia la tendenza rappresentata dallo Spirito e dagli altri del suo gruppo è un «segno dei tempi». La rivendicazione di una «economia secondo un piano» e non solo nel terreno nazionale, ma su scala mondiale, è interessante di per sé, anche se la sua giustificazione sia puramente verbale: è «segno dei tempi»; è l’espressione ancora «utopistica» di condizioni in via di sviluppo che, esse, rivendicano l’«economia secondo un piano».

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L’interesse attuale di scrittori come lo Spirito risalta ancor più per l’accostamento con certi scrittori di economia classica come Einaudi. Gli articoli dell’Einaudi sulla crisi, ma specialmente quelli pubblicati nella «Riforma Sociale» del gennaio‑febbraio 1932 sono spesso delle arguzie da rammollito. Einaudi ristampa brani di economisti di un secolo fa e non si accorge che il «mercato» è cambiato, che i «supposto che» non sono più quelli. La produzione internazionale si è sviluppata su tale scala e il mercato è talmente divenuto complesso, che certi ragionamenti appaiono infantili, letteralmente.

Forse che in questi anni non sono nate nuove industrie? Basta citare quella della seta artificiale e quella dell’alluminio. Ciò che dice Einaudi è genericamente giusto, perché significa che le crisi passate sono state superate: 1°) allargando il circolo mondiale della produzione capitalistica; 2°) elevando il tenore di vita di determinati strati della popolazione o relativamente di tutti gli strati.

Ma Einaudi non tiene conto che sempre più la vita economica si è venuta incardinando su una serie di produzioni di grande massa e queste sono in crisi: controllare questa crisi è impossibile appunto per la sua ampiezza e profondità, giunte a tale misura che la quantità diviene qualità, cioè crisi organica e non più di congiuntura. Einaudi fa ragionamenti appropriati per le crisi di congiuntura, perché vuol negare che esista una crisi organica, ma questa è «politica immediata», non analisi scientifica, è «volontà di credere», «medicina per le anime» e ancora esercitata in modo puerile e comico.

§212 Gli studi di storia economica. Ricordare la polemica Einaudi‑Croce (Einaudi nella Riforma Sociale) quando uscì la 4a edizione del volume «Materialismo storico ed economia marxistica» con la nuova prefazione del 1917.

Può essere interessante studiare per i vari paesi come si sono formate le varie correnti di studio e di ricerca di storia economico‑sociale, come si sono atteggiate ecc.

Che sia esistita in Inghilterra una scuola di storia economica, legata all’economia classica, è certo, ma i suoi sviluppi ulteriori sono, oppure no, stati influenzati dal materialismo storico? (Il libro del Seligman in quanto rientra in questa corrente e in quanto esprime appunto il bisogno di essa di fare i conti col materialismo storico?) Così in Francia una corrente economico‑giuridica, che ha operato sul materialismo storico (Guizot, Thierry, Mignet) ma è poi stata influenzata a sua volta (Henri Pirenne, e i moderni francesi Henri See, Hauser ecc.). In Germania la corrente più strettamente legata all’economia (con List), ma Sombart ha subìto l’influsso del materialismo storico ecc. In Italia più strettamente legata al materialismo storico (ma influsso di Romagnosi e Cattaneo).

§128 Scienza economica. Concetto e fatto di «mercato determinato», cioè rilevazione che determinate forze sono apparse storicamente, il cui operare si presenta con un certo «automatismo» che consente una certa misura di «previdibilità» e di certezza per le iniziative individuali.

«Mercato determinato» pertanto equivale a dire «determinato rapporto di forze sociali in una determinata struttura dell’apparato di produzione» garantito da una determinata superstruttura giuridica. Perché si possa parlare di una nuova «scienza» occorrerebbe aver dimostrato che esistono un nuovo rapporto di forze ecc. che hanno determinato un nuovo tipo di mercato con un suo proprio «automatismo» e fenomenismo che si presenta come qualcosa di «obbiettivo», paragonabile all’automatismo delle leggi naturali.

Scienza economica e «critica di una scienza economica». La «critica» della scienza economica parte dal concetto della «storicità» del «mercato determinato» e del suo «automatismo», mentre gli «economisti» puri pongono questi elementi come «eterni», «naturali»; analizza i rapporti delle forze che «determinano» il mercato, valuta le loro «modificabilità» connesse all’apparire di fattori nuovi e al loro rafforzarsi e presenta la «caducità» e la «sostituibilità» della «scienza» criticata: la studia come «vita» ma anche come «morte», e trova nel suo intimo gli elementi del suo superamento immancabile da parte di un «erede» che sarà «presuntivo» finché non avrà dato prove manifeste di vitalità ecc.

Da queste considerazioni si può trarre argomento per stabilire ciò che significa «regolarità», «legge», «automatismo» nei fatti storici. Non si tratta di «scoprire» una legge metafisica di «determinismo», e neppure di stabilire una legge «generale» di causalità. Si tratta di vedere come nello sviluppo generale si costituiscono delle forze relativamente «permanenti» che operano con una certa regolarità e un certo automatismo. Anche la legge dei grandi numeri, sebbene sia molto utile come termine di paragone, non può essere assunta come la «legge» dei fatti sociali.

Occorrerà studiare l’impostazione delle leggi economiche così come fu fatta da Davide Ricardo (il cosidetto metodo del «posto che»): in essa certo è da ritrovare uno dei punti di partenza delle esperienze filosofiche di Marx ed Engels che portarono allo sviluppo del materialismo storico.

Il caso e la legge. Concetti filosofici di «caso» e di «legge»: tra concetto di una «provvidenza» che ha stabilito dei fini al mondo e all’uomo, e del materialismo filosofico che «il mondo a caso pone».

§166 Graziadei. Oltre alle teorie del Loria, cercare se le quistioni sollevate dal Graziadei non hanno origine nelle teorie del Rodbertus.

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Nella «Histoire des doctrines économiques» di Gide e Rist (V ediz., ristampa del 1929) a p. 504 si legge: «Remarquons aussitôt la différence d’attitude entre Rodbertus et Marx. Le second, tout imprégné de l’économie politique et du socialisme anglais, part de la théorie de l’échange et fait du travail la source de toute valeur. Rodbertus, inspiré par les Saint‑Simoniens, part de la production et fait du travail l’unique source de tout produit, proposition plus simple et plus vraie que la précédente, quoique encore incomplète. Non seulement Rodbertus ne dit pas que le travail seul crée la valeur, mais il le nie expressément à diverses reprises, en donnant les raisons de son opinion». In nota il Rist dà riferimenti bibliografici in proposito e cita una lettera di Rodbertus a R. Meyer del 7 gennaio 1872 dove è un accenno al fatto che la «demonstration pourrait, le cas échéant, (s’)utiliser contre Marx».

§85 Passato e presente. Quistioni agrarie. «L’agricoltore è risparmiatore: egli sa che la sistemazione del terreno, gli impianti, le costruzioni, sono cose periture e sa che cagioni nemiche, che egli non può dominare, possono fargli perdere il raccolto; non calcola quote d’ammortamento, di reintegro e di rischio, ma accumula risparmio e, nei momenti difficili, ha una resistenza economica che meraviglia chi esamina le situazioni contingenti». (Antonio Marozzi, La razionalizzazione della produzione, «Nuova Antologia», 16 febbraio 1932).

È vero che il contadino è un risparmiatore generico e che ciò, in circostanze molto determinate, è una forza; ma bisognerebbe notare a che prezzo sono possibili questi risparmi «generici» resi necessari dall’impossibilità di calcoli economici precisi, e come questi risparmi vengano scremati dalle manovre della finanza e della speculazione.

§193 Rapporti tra città e campagna. Per avere dei dati sui rapporti tra le nazioni industriali e quelle agrarie e quindi spunti per la quistione della situazione di semicolonie dei paesi agrari (e delle colonie interne nei paesi capitalistici) è da vedere il libro del Mihail Manoilesco, La teoria del protezionismo e dello scambio internazionale, Milano, Treves, 1931.

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Il Manoilesco scrive che «il prodotto del lavoro di un operaio industriale è in generale sempre scambiato con il prodotto del lavoro di parecchi operai agricoli, in media uno contro cinque». Perciò il Manoilesco parla di uno «sfruttamento invisibile» dei paesi industriali sui paesi agricoli. Il Manoilesco è attuale governatore della Banca nazionale rumena e il suo libro esprime le tendenze ultraprotezioniste della borghesia rumena.

§47 I negri d’America. Corrispondenza da New York di Beniamino De Ritis nel «Corriere della Sera» del 18 febbraio 1932 (Colonie a contanti?).

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Tendenze americane di abbinare il problema dei debiti europei con le necessità politico‑strategiche degli Stati Uniti nel mar dei Caraibi: domanda di cessione dei possedimenti europei nelle Antille e anche di colonie africane. L’economista Stephen Leacok ha pubblicato nell’«Herald Tribune» un articolo dove scrive che la cessione del Congo sarebbe sufficiente a pagare l’intero debito di guerra: «un gran sogno diverrebbe realtà. Sei generazioni fa, gli indigeni del Congo vennero in America trasportati come schiavi. Sono passate sei generazioni di storia, di lavoro, di lacrime ed ora milioni di lavoratori educati alle arti e alle scienze dell’uomo bianco potrebbero tornare alla terra da cui partirono schiavi i loro antentati e potrebbero tornarvi liberi, civilizzati. Tutto questo non richiede altro che una nuova sistemazione delle riparazioni e dei debiti sulla base di compensi territoriali».

§80 Le colonie. Studiare se e in che misura le colonie hanno servito per il popolamento, nel senso che il colonialismo sia legato all’esuberanza demografica delle nazioni colonizzatrici. Certo sono andati più inglesi negli Stati Uniti dopo il distacco che quando gli Stati Uniti erano colonia inglese ecc.: più inglesi negli Stati Uniti indipendenti che nelle colonie inglesi ecc. Le colonie hanno permesso un’espansione delle forze produttive e quindi hanno assorbito l’esuberanza demografica di una serie di paesi, ma non c’è stato in ciò influsso del fattore «dominio diretto».

L’emigrazione segue leggi proprie, di carattere economico, cioè si avviano correnti migratorie nei vari paesi secondo i bisogni di varie specie di mano d’opera o di elementi tecnici dei paesi stessi. Uno Stato è colonizzatore non in quanto prolifico, ma in quanto ricco di capitale da collocare fuori dei propri confini ecc.

Così vedere in quali paesi si sono dirette le correnti migratorie degli Stati senza colonie e quali di questi paesi «potevano» diventare loro colonie (astrattamente). La enorme maggioranza delle emigrazioni tedesca, italiana, giapponese verso paesi non «colonizzabili».

Diritto

§62 Machiavelli. Una concezione del diritto penale che dev’essere tendenzialmente rinnovatrice. Non può, pertanto, essere trovata, integralmente, in nessuna dottrina preesistente, sebbene sia sottintesa in molte di esse (ma appunto non può essere sottintesa nella così detta scuola positiva, e particolarmente nelle concezioni del Ferri): in che senso? Nel senso che il diritto penale ha una sua funzione nella vita statale, è in un certo rapporto con gli altri momenti di questa vita, e perciò, se muta il contenuto, non muta il rapporto o la forma relativa.

Se ogni Stato tende a creare o a mantenere un certo tipo di civiltà e quindi di convivenza, la giustizia (il diritto) sarà uno strumento per questo fine, deve essere elaborato affinché sia più conforme a questo fine, sia la più efficace e produttiva di risultati positivi. Sarà da liberare da ogni forma di trascendenza e di assoluto, praticamente di fanatismo moralistico, ma non potrà partire dal punto di vista che lo Stato non ha il diritto di punire, se questo termine è ridotto al suo significato umano, e tenersi al solo punto di vista di una lotta contro la «pericolosità».

In realtà lo Stato deve essere concepito come «educatore», in quanto appunto tende a creare un nuovo tipo o livello di civiltà; come ciò avviene? Per il fatto che si opera essenzialmente sulle forze economiche, che si riorganizza e si sviluppa l’apparato di produzione economica, che si innova la struttura, non deve trarsi la conseguenza che i fatti di soprastruttura siano abbandonati a se stessi, al loro sviluppo spontaneo, a una germinazione casuale e sporadica. Lo Stato è una «razionalizzazione» anche in questo campo, è uno strumento di accelerazione e taylorizzazione, opera secondo un piano, preme, incita, sollecita ecc.

L’aspetto negativo o repressivo di questa attività è appunto la giustizia penale, il diritto penale, che non può essere staccato da tutto il complesso dell’attività positiva o incivilizzatrice. D’altronde, se non si parte da punti di vista astratti, si vede che il «diritto penale» si è ampliato, ha assunto forme originali ed è stato integrato da una attività premiatrice (da una specie di «gogna della vertù», che non è la filistea istituzione pensata da E. Sue).

Txt.: L. Molinari - Il tramonto del diritto penale

Filosofia

Questioni di metodo

§204 Un’introduzione allo studio della filosofia. (cfr quad. III p. 5 bis). Per la compilazione di una introduzione o avviamento allo studio della filosofia occorrerà tener conto di alcuni elementi preliminari: 1°) Occorre distruggere il pregiudizio che la filosofia sia alcunché di molto difficile per il fatto che essa è una attività propria di una determinata categoria di scienziati, dei filosofi professionali o sistematici. Occorrerà pertanto dimostrare che tutti gli uomini sono filosofi, definendo i limiti e i caratteri di questa filosofia «spontanea» di «tutto il mondo», cioè il senso comune e la religione.

Dimostrato che tutti sono filosofi, a loro modo, che non esiste uomo normale e sano intellettualmente, il quale non partecipi di una determinata concezione del mondo, sia pure inconsapevolmente, perché ogni «linguaggio» è una filosofia, si passa al secondo momento, al momento della critica e della consapevolezza.

È preferibile «pensare» senza averne consapevolezza, in modo disgregato e occasionale, è preferibile «partecipare» a una concezione del mondo «imposta» dal di fuori, da un gruppo sociale (che può andare dal proprio villaggio alla propria provincia, che può avere l’origine nel proprio curato o nel vecchione patriarcale la cui «saggezza» detta legge, nella donnetta che costruisce delle stregonerie o nel piccolo intellettuale inacidito dalla propria stupidaggine e impotenza a operare) o è preferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente e in connessione con tale lavorio del proprio intelletto scegliere il proprio mondo di attività, partecipare attivamente alla produzione della storia universale? ecc.

2°) Religione, senso comune, filosofia. Trovare le connessioni tra questi tre ordini intellettuali. Vedere come neanche religione e senso comune coincidono, ma la religione sia un elemento del disgregato senso comune. Non esiste un solo «senso comune», ma anche esso è un prodotto e un divenire storico. La filosofia è la critica della religione e del senso comune e il loro superamento: in tal senso, la filosofia coincide col «buon senso».

3°) Scienza e religione – senso comune.

4°) Ma non esiste neanche la «filosofia» in senso generale: esistono molte filosofie e occorrerà scegliere tra di esse. Come avverrà la scelta? Da quali criteri si partirà per fare la propria scelta? E perché in ogni tempo convivono molti sistemi o correnti di filosofia? Come nascono, come si diffondono, perché nella loro diffusione seguono certe linee di frattura e certe direzioni?

5°) La sistemazione della propria concezione del mondo e della vita. Ha importanza questa sistemazione? e che cosa occorre intendere per sistema?

6°) Trascendenza, immanenza, storicismo assoluto. Significato e importanza della storia della filosofia.

7°) La filosofia è indipendente dalla politica? Ideologia e filosofia (vedi n. 4).

§213 Un’introduzione allo studio della filosofia.

I. Il problema dei «semplici». La forza delle religioni e specialmente del cattolicismo consiste in ciò che esse sentono energicamente la necessità dell’unità di tutta la massa religiosa e lottano per non staccare mai gli strati superiori dagli strati inferiori. La chiesa romana è la più tenace nella lotta per impedire che «ufficialmente» si formino due religioni, quella degli intellettuali e quella dei «semplici». La cosa non è stata e non è senza gravi inconvenienti, ma questi «inconvenienti» sono legati al processo storico che trasforma tutta la vita civile, non al rapporto razionale tra intellettuali e «semplici».

La debolezza delle filosofie immanentistiche in generale consiste appunto nel non aver saputo creare una unità ideologica tra il basso e l’alto, tra gli intellettuali e la massa (cfr motivo «Rinascimento e Riforma»). I tentativi di movimenti culturali «verso il popolo» – Università popolari e simili – hanno sempre degenerato in forme paternalistiche: d’altronde mancava in essi ogni organicità sia di pensiero filosofico, sia di centralizzazione organizzativa. Si aveva l’impressione che rassomigliassero ai contatti tra i mercanti inglesi e i negri dell’Africa: si dava merce di paccotiglia per avere pepite d’oro. Tuttavia il tentativo va studiato: esso ebbe fortuna, cioè rispondeva a una necessità popolare.

La quistione è questa: un movimento filosofico è tale solo in quanto si applica a svolgere una cultura specializzata per un ristretto gruppo di intellettuali o invece è tale solo in quanto, nel lavoro di elaborazione di un pensiero superiore, scientificamente organato, non dimentica mai di rimanere in contatto coi «semplici» e anzi trova in questi contatti la sorgente dei problemi da studiare e risolvere? Solo per questi contatti una filosofia diventa «storica», si depura degli elementi di origine «individuale», si fa «vita».

II. Religione cristiana. «La fede in un sicuro avvenire, nell’immortalità dell’anima destinata alla beatitudine, nella sicurezza di poter arrivare al godimento eterno, fu la molla di propulsione per un lavoro di intensa perfezione interna, e di elevazione spirituale. Il vero individualismo cristiano ha trovato qui l’impulso alle sue vittorie. Tutte le forze del cristiano furono raccolte intorno a questo fine nobile.

Liberato dalle fluttuazioni speculative che snervano l’anima nel dubbio, e illuminato da principii immortali, l’uomo senti rinascere le speranze, sicuro che una forza superiore lo sorreggeva nella lotta contro il male, egli fece violenza a se stesso e vinse il mondo» (Individualismo pagano e individualismo cristiano in «Civiltà Cattolica» del 5 marzo 1932). Cioè, per un certo periodo storico e in condizioni storiche determinate, il cristianesimo fu una «necessità» per il progresso: esso fu la forma determinata di «razionalità del mondo e della vita» e dette i quadri generali per l’attività pratica dell’uomo. Questo brano può essere paragonato con quello del Croce (in Etica e Politica, «Religione e serenità»).

III. Filosofia e senso comune o buon senso. Forse è utile distinguere «praticamente» la filosofia dal senso comune per poter meglio mostrare ciò che si vuole ottenere: filosofia significa più specialmente una concezione del mondo con caratteri individuali spiccati, senso comune è la concezione del mondo diffusa in un’epoca storica nella massa popolare. Si vuol modificare il senso comune, creare un «nuovo senso comune», ecco perché si impone l’esigenza del tener conto dei «semplici».

§220 Un’introduzione allo studio della filosofia. Una filosofia della prassi non può presentarsi inizialmente che in atteggiamento polemico, come superamento del modo di pensare preesistente. Quindi come critica del «senso comune» (dopo essersi basata sul senso comune per mostrare che «tutti» sono filosofi e che non si tratta di introdurre ex‑novo una scienza nella vita individuale di «tutti», ma di innovare e rendere «critica» un’attività già esistente) e della filosofia degli intellettuali, che è quella che dà luogo alla storia della filosofia.

Questa filosofia, in quanto «individuale» (e si sviluppa infatti essenzialmente nell’attività di singoli individui singolarmente dotati) può considerarsi come le «punte» di progresso del «senso comune», per lo meno del senso comune degli strati più colti della società. Ecco quindi che un avviamento o introduzione allo studio della filosofia deve esporre sinteticamente i «problemi» suscitatisi nel processo storico della filosofia, per criticarli, dimostrarne il valore reale (se ancora l’hanno) o il significato che hanno avuto come anelli di una catena e fissare i problemi nuovi attuali.

Il rapporto tra filosofia «superiore» e senso comune è assicurato dalla «politica» così come è assicurato dalla politica il rapporto tra il cattolicismo degli intellettuali e quello dei «semplici». Che la Chiesa debba affrontare un problema dei «semplici» significa appunto che c’è stata rottura nella comunità dei fedeli, rottura che non può essere sanata con l’elevazione dei semplici al livello degli intellettuali (la Chiesa almeno non si propone più questo compito, «economicamente» impari alle sue forze attuali) ma con una «disciplina» di ferro sugli intellettuali perché non oltrepassino certi limiti nella «distinzione» e non la rendano catastrofica e irreparabile. Nel passato queste «rotture» nella comunità dei fedeli determinavano la nascita di nuovi ordini religiosi, intorno a forti personalità (Domenico, Francesco, Caterina ecc.).

Dopo la Controriforma questo pullulare di forze nuove è stato isterilito: la Compagnia di Gesù è l’ultimo grande ordine, con carattere però repressivo e «diplomatico», che ha iniziato l’irrigidimento dell’organismo ecclesiastico. (Cfr la lista di nuovi ordini citati dal Papini per obbiettare al Croce: sono ordini di scarsissimo significato «religioso» e di grande significato «disciplinare» sulla massa dei «semplici», ramificazioni e tentacoli della Compagnia di Gesù, strumenti di «resistenza passiva» di conservazione delle posizioni acquisite, non forze rinnovatrici in isviluppo; il « modernismo» non ha creato «ordini religiosi» ma «ordini politici», la democrazia cristiana).

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Ricordare l’aneddoto, raccontato dallo Steed nelle sue Memorie del cardinale che al protestante inglese filocattolico spiega che i miracoli di S. Gennaro sono utili per il popolino napoletano, non per gli intellettuali, che anche nell’Evangelo ci sono delle «esagerazioni» e alla domanda: «ma siete cristiano?» risponde: «noi siamo prelati», cioè «politici» della religione cattolica.

Mat. Bibl.: Frosini- Filosofia della prassi

§222 Introduzione allo studio della filosofia. Sul concetto di regolarità e di legge nei fatti storici. Cfr a p. 40 la nota Scienza economica.

§235 Introduzione allo studio della filosofia. Oltre la serie «trascendenza, teologia, speculazione – filosofia speculativa», l’altra serie «trascendenza, immanenza, storicismo speculativo – filosofia della praxis». Sono da rivedere e da criticare tutte le teorie storicistiche di carattere speculativo. Da questo punto di vista bisognerebbe scrivere un nuovo Antidühring, che potrebbe essere un AntiCroce, poiché in esso potrebbe riassumersi non solo la polemica contro la filosofia speculativa, ma anche, implicitamente, quella contro il positivismo e le teorie meccanicistiche, deteriorazione della filosofia della praxis.

§237 Introduzione allo studio della filosofia. Uno dei concetti fondamentali da fissare è quello di «necessità» storica. Nel senso speculativo‑astratto. Nel senso storico‑concreto: la necessità è data dall’esistenza di una premessa efficiente, che sia diventata operosa come una «credenza popolare» nella coscienza collettiva. Nella premessa sono contenute le condizioni materiali sufficienti per la realizzazione dell’impulso di volontà collettiva.

Altro concetto da ridurre da speculativo a storicistico è quello di «razionalità» nella storia (e quindi di «irrazionalità»), concetto legato a quello di «provvidenza» e di «fortuna», nel senso in cui è adoperato (speculativamente) dai filosofi idealisti italiani e specialmente dal Croce.

Occorrerà perciò vedere l’opera del Croce su G. B. Vico, in cui il concetto di «provvidenza» è appunto «speculativizzato», dando inizio così all’interpretazione idealistica della filosofia del Vico.

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>Per il significato di «fortuna» nel Machiavelli cfr L. Russo, in nota alla sua edizione major del Principe (p. 23).

(Per Machiavelli «fortuna» ha un duplice significato, uno obbiettivo e un altro soggettivo. La «fortuna» è la forza naturale delle cose, la concorrenza propizia degli eventi, quella che sarà la Provvidenza del Vico, oppure è quella potenza trascendente di cui favoleggiava la vecchia dottrina medioevale, cioè dio, e per il Machiavelli ciò non è poi che la virtù stessa dell’individuo e la sua potenza ha radice nella stessa volontà dell’uomo. La virtù del Machiavelli, come dice il Russo, non è più la virtù degli scolastici, la quale ha un carattere etico e ripete la sua forza dal cielo, e nemmeno quella di Tito Livio, che sta a significare per lo più il valore militare, ma la virtù dell’uomo del Rinascimento, che è capacità, abilità, industria, potenza individuale, sensibilità, fiuto delle occasioni e misura delle proprie possibilità).

Il Russo ondeggia in seguito nella sua analisi. Per lui il «concetto di fortuna, come forza delle cose, che nel Machiavelli come negli umanisti serba ancora un carattere naturalistico e meccanico, troverà il suo inveramento e approfondimento storico solo nella razionale provvidenza di Vico e di Hegel. Ma è bene avvertire che tali concetti nel Machiavelli, non hanno mai un carattere metafisico come nei filosofi veri e propri dell’Umanesimo ma sono semplici e profonde intuizioni (quindi filosofia!) di vita, e come simboli di sentimenti vanno intesi e spiegati». Sulla lenta formazione metafisica di questi concetti, nel periodo premachiavellico, il Russo rimanda al Gentile, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento («Il concetto dell’uomo nel Rinascimento» e l’Appendice) (Firenze, Vallecchi).

Sugli stessi concetti nel Machiavelli cfr F. Ercole, La politica di Machiavelli.

§238 Introduzione allo studio della filosofia. Filosofia speculativa. Si può riflettere su questo punto: se l’elemento «speculazione» sia proprio di ogni filosofia o sia una fase di un pensiero filosofico in isviluppo secondo il processo generale di un determinato periodo storico. Si potrebbe allora dire che ogni cultura ha il suo momento speculativo o religioso, che coincide col periodo di completa egemonia del gruppo sociale che esprime, e forse coincide proprio col momento in cui l’egemonia reale si disgrega ma il sistema di pensiero si perfeziona e si raffina come avviene nelle epoche di decadenza. La critica risolve la speculazione nei suoi termini reali di ideologia, ma la critica stessa avrà una sua fase speculativa, che ne segnerà l’apogeo.

La quistione è questa: se questo apogeo non sarà l’inizio di una fase storica in cui necessità‑libertà essendosi compenetrate organicamente, nel tessuto sociale, non ci sarà altra dialettica che quella ideale.

§228 La religione, il lotto e l’oppio del popolo (vedi a p. 66). Un altro elemento da comprendere in questo «argomento» potrebbe essere quello del così detto «pari» di Pascal, che avvicina la religione al gioco d’azzardo. È da riflettere che Pascal è stato molto fine nel dare una forma letteraria e una giustificazione logica a questo argomento della scommessa, che in realtà è un modo di pensare di molti verso la religione, ma un modo di pensare «che si vergogna di se stesso» perché sembra indegno e basso. Pascal ha affrontato la «vergogna» e ha cercato di dare dignità e giustificazione al modo di pensare popolare. (Quante volte non si è inteso dire: che cosa ci perdi ad andare in chiesa, a credere in Dio ecc.? Se non c’è, pazienza; ma se c’è, vedi come ti sarà utile aver creduto ecc.)

Questo modo di pensare – e anche il «pari» di Pascal – sente di volterrianismo e ricorda il modo buffonesco di dire di Heine: «credo che il padre eterno ci prepari una bella sorpresa dopo la morte» o qualcosa di simile1.

Vedere come gli studiosi di Pascal spiegano il «pari». Mi pare che ci sia uno studio di P. P. Trompeo nel suo volume Rilegature gianseniste, in cui si parla del «pari» in rapporto al Manzoni.

Sarà anche da vedere se l’argomento pascaliano del «pari» abbia avuto una particolare rifioritura e diffusione nel periodo stesso in cui il Balzac si servì della sua espressione a proposito della lotteria. Questo elemento potrà essere accertato anche attraverso le ricerche sul giansenismo manzoniano pubblicate recentemente dagli studiosi più serii come il Ruffini e il Trompeo.

Note

§230 La religione, il lotto e l’oppio del popolo. È stata pubblicata in questo scorcio di tempo (forse nel 1931) una lettera inedita di Engels dove si parla diffusamente del Balzac e dell’importanza che occorre attribuirgli. L’argomento del «pari» è stato svolto dal Pascal nelle Pensées, che sono i frammenti di una Apologie de la Religion chrétienne che Pascal non condusse a termine (cfr in fine del quaderno).

Linea del pensiero di Pascal (secondo Lanson, Storia della letteratura francese, 19a ed., p. 464): «Les hommes ont mépris pour la religion, ils en ont haine et peur qu’elle soit vraie. Pour guérir cela, il faut commencer par montrer que la religion n’est point contraire à la raison; ensuite, qu’elle est vénérable, en donner respect; la rendre ensuite aimable, faire souhaiter aux bons qu’elle fût vraie, et puis montrer qu’elle est vraie».

Dopo il discorso contro l’indifferenza degli atei che serve come una introduzione generale dell’opera, Pascal esponeva la sua tesi dell’impotenza della ragione, incapace di saper tutto, e di saper qualcosa con certezza, ridotta a giudicare delle apparenze offerte dall’ambiente delle cose. La fede è un mezzo superiore di conoscenza; essa si esercita oltre i limiti cui può giungere la ragione. Ma anche se ciò non fosse, anche se nessun mezzo si avesse per giungere a Dio, attraverso la ragione o attraverso una qualsiasi altra via, nell’assoluta impossibilità di sapere, bisognerebbe tuttavia operare come se si sapesse. Poiché, secondo il calcolo delle probabilità, c’è vantaggio a scommettere che la religione è vera, e a regolare la propria vita come se essa fosse vera. Vivendo cristianamente si rischia infinitamente poco, qualche anno di piaceri torbidi (plaisir mêlé), per guadagnare l’infinito, la gioia eterna.

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Da un articolo dell’on. Arturo Marescalchi (Durare! Anche nella bachicoltura, «Corriere della Sera» del 24 aprile 1932): «Per ogni mezza oncia di seme messo in allevamento si concorre a premi che da modesta cifra (ve ne sono 400 da mille lire) arrivano in parecchi da 10 e 20 mila lire e cinque che vanno da 25 mila a 250 mila lire. Nel popolo italiano è sempre vivo il senso del tentare la sorte; nelle campagne tutt’oggi non v’è chi si astenga dalle “pesche” e dalle “tombole”. Qui si avrà gratis il biglietto che permette di tentare la fortuna».

Connessione del lotto e della religione, anzi della superstizione verso qualche particolare santo; la vincita dovrebbe essere una particolare grazia del Santo o della Madonna (la vincita mostra che si è stati «eletti»). Si potrebbe fare il confronto tra la concezione attivistica della grazia dei protestanti che ha suscitato e ha dato la forma morale allo spirito d’intrapresa e la concezione passiva e lazzaronesca della grazia propria del popolino cattolico. Vedere anche se Baudelaire nel titolo Paradisi artificiali, e anche nella trattazione, si ispira all’«oppio del popolo»: magari la formula gli può essere giunta indirettamente dalla letteratura.

§205 Determinismo meccanico e attività‑volontà. A proposito dello studio di Mirskij sulle recenti discussioni filosofiche1. Come è avvenuto il passaggio da una concezione meccanicistica a una concezione attivistica e quindi la polemica contro il meccanicismo. L’elemento «deterministico, fatalistico, meccanicistico» era una mera ideologia, una superstruttura transitoria immediatamente, resa necessaria e giustificata dal carattere «subalterno» di determinati strati sociali.

Quando non si ha l’iniziativa nella lotta e la lotta stessa quindi finisce con l’identificarsi con una serie di sconfitte, il determinismo meccanico diventa una forza formidabile di resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente. «Io sono sconfitto, ma la forza delle cose lavora per me a lungo andare». È un «atto di fede» nella razionalità della storia, che si traduce in un finalismo appassionato, che sostituisce la «predestinazione», la «provvidenza» ecc. della religione. In realtà esiste, anche in questo caso, un’attività volitiva, un intervento diretto sulla «forza delle cose», ma di un carattere meno appariscente, più velato.

Ma quando il subalterno diventa dirigente e responsabile, il meccanicismo appare prima o poi un pericolo imminente, avviene una revisione di tutto il modo di pensare perché è avvenuto un mutamento nel modo di essere: i limiti e il dominio della «forza delle cose» vengono ristretti, perché? perché, in fondo, se il «subalterno» era ieri una «cosa», oggi non è più una «cosa», ma una «persona storica», se ieri era irresponsabile perché «resistente» a una volontà estranea, oggi è responsabile perché non «resistente», ma agente e attivo. Ma era stato mai mera «resistenza», mera «cosa», mera «irresponsabilità»? Certamente no, ed ecco perché occorre sempre dimostrare la futilità inetta del determinismo meccanico, del fatalismo passivo e sicuro di se stesso, senza aspettare che il subalterno diventi dirigente e responsabile.

C’è sempre una parte del tutto che è «sempre» dirigente e responsabile e la filosofia della parte precede sempre la filosofia del tutto come anticipazione teorica.

Note

§206 La storia del materialismo del Lange. Questa opera del Lange potrà essere più o meno utile oggi (dopo quasi tre quarti di secolo) da quando fu scritta (credo almeno che sia così vecchia) e dopo che la storia della filosofia ha prodotto tante opere nuove, almeno come studi particolari su filosofi materialisti. Ma in ogni modo essa è sempre utile per la storia della cultura, perché ad essa si sono riferiti, per informarsi sui precedenti e su una serie di concetti del materialismo, tutta una serie di materialisti storici.

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Sarà da ricercare quali e quante concezioni di un certo periodo del materialismo storico sono state suggerite dalla lettura della Storia del Lange: la ricerca sarà tanto più interessante in quanto il Lange ha del materialismo un concetto assai definito e limitato (per il Lange, non solo il materialismo storico, ma neanche la filosofia del Feuerbach non è materialista).

Si potrà così vedere come la terminologia ha la sua importanza nel determinare errori e deviazioni, quando si dimentichi che la terminologia è convenzionale e che occorre sempre risalire alle fonti culturali per identificarne il valore esatto, poiché sotto una stessa formula convenzionale possono annidarsi contenuti differenti.

Sarà da notare come il Marx sempre eviti di chiamare «materialistica» la sua concezione e come ogni volta che parla di filosofie materialistiche le critichi o affermi che sono criticabili. Marx poi non adopera mai la formula «dialettica materialistica» ma «razionale» in contrapposto a «mistica», ciò che dà al termine «razionale» un significato ben preciso.

Della Storia del Lange era annunziata una traduzione italiana presso la Casa ed. Athena di Milano in volumetti da 5 lire l’uno. La traduzione francese è stata la più diffusa in tutto questo tempo (non credo che esista una precedente traduzione italiana). Ne è stata pubblicata un’edizione presso il Monanni di Milano.

Note Realtà del mondo esterno

§217 Realtà del mondo esterno. Nelle sue Linee di filosofia critica, p. 159, Bernardino Varisco scrive: «Apro un giornale per informarmi delle novità; vorreste sostenere che le novità le ho create io con l’aprire il giornale?» Ciò che è stupefacente in questa proposizione è che sia stata scritta dal Varisco, il quale, se oggi si è orientato verso la trascendenza religiosa e il dualismo, è stato «idealista», dopo essere partito dal positivismo. Possibile che il Varisco ritenga che l’idealismo significa una cosa così banale e triviale? E quando era idealista, come concepiva la «soggettività» del reale? (Occorrerà leggere questo libro del Varisco per conoscerne la parte critica).

La proposizione del Varisco ricorda ciò che scrive L. Tolstoi nelle sue Memorie d’infanzia e di giovinezza: il Tolstoi racconta che si faceva venire il capogiro, voltandosi improvvisamente per osservare se ci fosse stato un momento del «nulla» prima che il suo «spirito» avesse «creato» la realtà (o qualche cosa di simile: il brano del Tolstoi è molto interessante letterariamente). Che il Tolstoi desse alla proposizione dell’idealismo un significato così immediato e materiale può spiegarsi: ma il Varisco? È da osservare che proprio queste forme di critica del «senso comune» sono trascurate dai filosofi idealisti, mentre esse sono di estrema importanza per la diffusione di un modo di pensare e di una cultura.

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Ricordare l’affermazione del Missiroli, riportata dall’«Italia Letteraria», e ricordare la «polemica sulla zucca» di Roberto Ardigò contenuta negli Scritti vari di R. A. raccolti e ordinati da G. Marchesini (Lemonnier, 1922): in un giornaletto religioso, il polemista (un prete della Curia vescovile) per distruggere l’Ardigò di fronte al pubblico popolare lo chiamò su per giù «uno di quei filosofi che credono che il duomo (o la cattedrale locale) esiste perché essi lo pensano, e quando non lo pensano più, il duomo sparisce», con quale effetto di comicità nei lettori è facile immaginare e con risentimento dell’Ardigò che è positivista ed è d’accordo coi cattolici nel modo di concepire la realtà fisica.

Occorre dimostrare che la concezione «soggettivistica» trova la sua interpretazione «storica» e non speculativa (e il suo superamento) nella concezione delle superstrutture: essa ha servito per superare la trascendenza da una parte e il «senso comune» dall’altra, ma nella sua forma speculativa è un mero romanzo filosofico.

Un accenno a una interpretazione più realistica del soggettivismo della filosofia classica tedesca si può trovare nella recensione di G. De Ruggiero a degli scritti di B. Constant (mi pare) sulla Germania e sulla filosofia tedesca (recensione pubblicata nella «Critica» qualche anno fa).

§184 Logica formale. Cfr Mario Govi, Fondazione della Metodologia. Logica ed Epistemologia, Torino, Bocca, 1929, pp. 579. Il Govi è un positivista; il suo libro appartiene alla tendenza di rinnovare il vecchio positivismo, di creare un neopositivismo. Mi pare che il tentativo possa avvicinarsi a quelli dei filosofi matematici come Bertrand Russell; ciò che è la «matematica» per il Russell è la «metodologia» per il Govi, cioè la costruzione di una nuova logica formale, astratta da ogni contenuto, anche dove egli tratta delle varie scienze che sono presentate nella loro particolare logica astratta (specializzata ma astratta) che il Govi chiama «Epistemologia». Il Govi appunto divide la Metodologia in due parti. Metodologia generale o Logica propriamente detta e Metodologia speciale o Epistemologia.

La Epistemologia ha come scopo primario e principale la conoscenza esatta di quello speciale scopo conoscitivo a cui ciascuna diversa ricerca è diretta, per poter poi determinare i mezzi e il procedimento per conseguirlo.

Il Govi riduce a tre i diversi scopi conoscitivi legittimi delle ricerche umane; questi tre scopi costituiscono lo scibile umano e sono irriducibili a uno solo, ossia sono essenzialmente diversi. Due sono scopi conoscitivi finali: la conoscenza teoretica o della realtà; la conoscenza pratica o di ciò che si deve o non si deve fare; il terzo consiste nelle conoscenze le quali sono mezzi per l’acquisizione delle precedenti. Si hanno dunque tre parti nella Epistemologia: Scienza teorica o della realtà, Scienza pratica, Scienza strumentale. Da ciò tutta una analitica classificazione delle scienze.

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Il concetto di legittimo ha importanza grande nel sistema del Govi (esso è parte della Metodologia generale, o scienza dei giudizii): ogni giudizio, considerato in sé, è vero o falso: considerato soggettivamente, ossia come prodotto dell’attività del pensiero di chi lo fà, è legittimo o illegittimo. Un giudizio può essere conosciuto vero o falso solo in quanto è riconosciuto legittimo o illegittimo. Sono legittimi i giudizi che sono eguali in tutti gli uomini, che li abbiano o li facciano, e vengono formati in tutti egualmente: sono quindi legittimi i concetti primitivi formati naturalmente e senza dei quali non si può pensare, i concetti scientifici formati metodologicamente, i giudizi primitivi e i giudizi metodologicamente derivati dai giudizi legittimi. (È evidente la filiazione dal Russell, che viene «pasticciato» metodologicamente; nel Russell il riferimento alla matematica rende meno faticoso e farraginoso il sistema).

Ho tratto questi cenni da un articolo Metodologia o agnosticismo nella «Civiltà Cattolica» del 15 novembre 1930. Il libro del Govi pare sia interessante per il materiale storico che raccoglie specialmente intorno al contenuto della Logica generale e speciale, al problema della conoscenza e alle teorie sull’origine delle idee, alla classificazione delle scienze e alle varie divisioni dello scibile umano, alle varie concezioni e divisioni della Scienza teoretica, pratica ecc.

La sua filosofia il Govi la chiama «empiristico‑integralista» distinguendola dalla concezione «religiosa» e da quella «razionalistica» nella quale primeggia la filosofia kantiana; la distingue anche, ma in modo subordinato, dalla concezione «empiristico‑particolaristica» che è il positivismo. Egli si distingue dal positivismo in quanto ne ribatte alcuni eccessi e cioè la negazione non solo di ogni metafisica religiosa o razionalistica, ma anche ogni possibilità e legittimità di una metafisica: il Govi ammette invece la legittimità di una metafisica, ma con fondamenti puramente empirici e costruita, in parte, dopo e sulla base delle scienze reali particolari.

§189 Logica formale e metodologia. La logica formale o metodologia astratta è la «filologia» della filosofia, è l’«erudizione» (il metodo dell’erudizione) della storia. Estetica e filologia come dialettica e logica formale. Ma queste similitudini non danno un esatto concetto del posto che occupa la logica formale.

Il paragone migliore sarebbe quello della matematica, ma esso è anche causa di infiniti errori, perché dà luogo a una estensione infinita della logica e delle figure logiche o metodologiche. La matematica ha potuto svilupparsi enormemente in varie direzioni (geometria, algebra, calcoli diversi) ciò che non può avvenire per la logica formale, che non deve e non può svilupparsi oltre i limiti delle necessità immediate (la matematica invece non è limitabile). (Concetto da approfondire.).

§218 Alessandro Levi. Ricercare i suoi scritti di filosofia e di storia. Come R. Mondolfo, anche il Levi è d’origine «positivistica» (della scuola padovana di R. Ardigò).

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Riporto come punto di riferimento un brano del suo studio su Giuseppe Ferrari («Nuova Rivista Storica», 1931, p. 387): «No; a me non pare che nel Nostro ci sia “un certo”, e nemmeno… un incerto, materialismo storico. A me sembra, invece, che vaneggi proprio l’abisso tra la concezione ferrariana della storia e della sua pretesa filosofia della storia ed il materialismo storico, rettamente inteso, cioè non come un mero economismo (ed anche di questo, per verità, ci sono nel Ferrari assai più vaghe tracce che non nella concreta storia di un Carlo Cattaneo), bensì come quella dialettica reale, che intende la storia superandola con l’azione, e non scinde storia e filosofia, ma, rimettendo gli uomini in piedi, fa di questi gli artefici consapevoli della storia, e non i giocattoli della fatalità, in quanto i loro principii, cioè i loro ideali, scintille che sprizzano dalle lotte sociali, sono precisamente stimolo alla praxis che, per opera loro, si rovescia. Superficiale conoscitore della logica hegeliana, il Ferrari era un critico troppo precipitoso della dialettica ideale per riuscire a superarla con la dialettica reale del materialismo storico».

Idealismo

§179 Stato etico o di cultura. Mi pare che ciò che di più sensato e concreto si possa dire a proposito dello Stato etico e di cultura è questo: ogni Stato è etico in quanto una delle sue funzioni più importanti è quella di elevare la grande massa della popolazione a un determinato livello culturale e morale, livello (o tipo) che corrisponde alle necessità di sviluppo delle forze produttive e quindi agli interessi delle classi dominanti.

La scuola come funzione educativa positiva e i tribunali come funzione educativa repressiva e negativa sono le attività statali più importanti in tal senso: ma in realtà al fine tendono una molteplicità di altre iniziative e attività cosidette private che formano l’apparato dell’egemonia politica e culturale delle classi dominanti.

La concezione di Hegel è propria di un periodo in cui lo sviluppo in estensione della borghesia poteva apparire illimitato, quindi l’eticità o universalità di essa poteva essere affermata: tutto il genere umano sarà borghese. Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico‑morale.

§208 Traducibilità reciproca delle culture nazionali. L’osservazione fatta dal Marx nella Santa Famiglia che il linguaggio politico francese equivale al linguaggio filosofico tedesco, trova il riscontro nei versi del Carducci «decapitaro, Emmanuel Kant, Iddio – Massimiliano Robespierre, il re».

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A proposito di questo riavvicinamento carducciano, il Croce (Conversazioni Critiche, Serie II, p. 292) raccoglie una serie di «fonti» molto interessanti. Il Carducci attinse il motivo da Enrico Heine (terzo libro del Zur Geschichte der Religion und Philosophie in Deutschland del 1834). Ma il paragone tra Kant e Robespierre non è originale dello Heine.

Il Croce ha ricercato l’origine del paragone e scrive di averne trovato un lontano accenno in una lettera del 21 luglio 1795 dello Hegel allo Schelling (Briefe von und an Hegel, Lipsia, 1887, I, 14‑16), svolto poi nelle lezioni che lo stesso Hegel tenne sulla storia della filosofia e sulla filosofia della storia.

Nelle prime lezioni (di storia della filosofia) Hegel dice che «la filosofia del Kant, del Fichte e dello Schelling contiene in forma di pensiero la rivoluzione, alla quale lo spirito negli ultimi tempi ha progredito in Germania»; in una grande epoca cioè della storia universale, a cui «solo due popoli hanno preso parte, i Tedeschi e i Francesi, per opposti che siano tra loro, anzi appunto perché opposti»; sicché, laddove il nuovo principio in Germania «ha fatto irruzione come spirito e concetto» in Francia invece si è esplicato «come realtà effettuale» («Vorles. über die Gesch. d. Philos., 2 ed., Berlino, 1844, III, 485).

Nelle lezioni di filosofia della storia, Hegel spiega che il principio della volontà formale, della libertà astratta, secondo cui «la semplice unità dell’autocoscienza, l’Io, è la libertà assolutamente indipendente e la fonte di tutte le determinazioni universali», «rimase presso i Tedeschi una tranquilla teoria, ma i Francesi vollero eseguirlo praticamente» (Vorles. über die Philosophie der Gesch., 3 ed., Berlino, 1848, pp. 531‑2).

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(Questo passo di Hegel mi pare sia appunto il riferimento letterale del Marx, dove nella Sacra Famiglia accenna a Proudhon contro il Bauer. Ma esso mi pare assai più importante ancora come «fonte» del pensiero espresso nelle Tesi su Feuerbach che i filosofi hanno spiegato il mondo e si tratta ora di mutarlo, cioè che la filosofia deve diventare «politica», «pratica», per continuare ad essere filosofia: la «fonte» per la teoria dell’unità di teoria e di pratica).

A. Ravà nel suo libro Introduzione allo studio della filosofia di Fichte (Modena, Formiggini, 1909, pp. 6‑8 n.) fa osservare al Croce che già nel 1791 il Baggesen in una lettera al Reinhold accostava le due rivoluzioni, che lo scritto del Fichte del 1792 sulla rivoluzione francese è animato da questo senso di affinità tra l’opera della filosofia e l’avvenimento politico e che nel 1794 lo Schaumann svolse particolarmente il paragone, notando che la rivoluzione politica di Francia «fa sentire dall’esterno il bisogno di una determinazione fondamentale dei diritti umani» e la riforma filosofica tedesca «mostra dall’interno i mezzi e la via per cui e sulla quale solamente questo bisogno può essere soddisfatto», anzi che lo stesso paragone dava motivo nel 1797 a una scrittura satirica contro la filosofia kantiana. Il Ravà conclude che «il paragone era nell’aria».

Il paragone venne ripetuto moltissime volte nel corso dell’800 (dal Marx, per es. nella Critica della filosofia del diritto di Hegel) e «dilatato» dallo Heine. In Italia, qualche anno prima del Carducci, lo si ritrova in una lettera di Bertrando Spaventa, dal titolo Paolottismo, positivismo e razionalismo, pubblicata nella «Rivista bolognese» del maggio 1868 (ristampata  negli Scritti filosofici, ed. Gentile, p. 301).

Il Croce conclude facendo delle riserve sul paragone in quanto «affermazione di un rapporto logico e storico». «Perché se è vero che al Kant giusnaturalista risponde assai bene nel campo dei fatti la rivoluzione francese, è anche vero che quel Kant appartiene alla filosofia del secolo decimottavo, che precesse e informò quel moto politico; laddove il Kant che apre l’avvenire, il Kant della sintesi a priori, è il primo anello di una nuova filosofia, la quale oltrepassa la filosofia che s’incarnò nella rivoluzione francese». Si capisce questa riserva del Croce. Tutta la quistione sarebbe da rivedere, ristudiando i riferimenti dati dal Croce e dal Ravà e cercandone altri, per inquadrarli nella quistione che è oggetto della rubrica e cioè che due strutture simili hanno superstrutture equivalenti e traducibili reciprocamente. Di ciò avevano coscienza i contemporanei della rivoluzione francese e ciò è di sommo interesse.

§181 Lo Hegelismo in Francia. Un Rapport sur l’état des études hégéliennes en France di A. Koyré è riprodotto nei Verhandlungen des ersten Hegelskongresses,

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vom 22 bis 25 April 1930 im Haag, Mohr, Tübingen, 1931, in 8° gr., pp. 243. Il Koyré, fra gli altri parla di «Luciano Herr, che ha passato venticinque anni della sua vita a studiare il pensiero hegeliano, e che è morto senza aver potuto scrivere il libro che si proponeva di darci e che avrebbe preso posto a lato di quelli del Delbos e di Xavier Léon» ma un saggio tuttavia ce ne ha lasciato, nell’articolo su Hegel pubblicato nella Grande Encyclopédie, notevole per lucidità e penetrazione. Su Luciano Herr ha pubblicato una Vie de Lucien Herr Charles Andler nell’«Europe» del 15 ottobre 1931 e seguenti. Scrive l’Andler: «Lucien Herr est présent dans tout le travail scientifique français depuis plus de quarante ans; et son action a été décisive dans la formation du socialisme en France».

Mat. Bibl.: Le interpretazioni novecentesche di Hegel

§175 Gentile. Vedere il suo articolo La concezione umanistica del mondo (nel corpo della rivista è stampato La concezione umanistica nel mondo ma nel sommario il «nel» è «del») nella «Nuova Antologia» del 1° giugno 1931. L’inizio dice: «La filosofia si potrebbe definire come un grande sforzo compiuto dal pensiero riflesso per conquistare la certezza critica delle verità del senso comune e della coscienza ingenua; di quelle verità che ogni uomo si può dire che senta naturalmente e che costituiscono la struttura solida della mentalità di cui egli si serve per vivere». Mi pare un altro esempio della rozzezza incondita del pensiero gentiliano, derivato «ingenuamente» da alcune affermazioni del Croce sul modo di pensare del popolo come riprova di determinate proposizioni filosofiche. La citazione può essere utilizzata per la rubrica del «senso comune».

(Epigramma del Giusti: «Il buon senso, che un dì fu caposcuola, – or nelle nostre scuole è morto affatto – La scienza sua figliola – l’uccise per veder com’era fatto –»; bisogna vedere se non era necessario che la scienza uccidesse il «buon senso» tradizionale, per creare un nuovo «buon senso»).

Così il Gentile parla di «natura umana» astorica, e di «verità del senso comune» come se nel «senso comune» non si potesse trovar tutto e come se esistesse un «solo senso comune» eterno e immutabile. «Senso comune» si dice in vari modi; per es. contro le astruserie, le macchinosità, le oscurità dell’esposizione scientifica e filosofica, cioè come «stile» ecc. L’articolo del Gentile può dare altre perle: un po’ più oltre si dice: «L’uomo sano crede in Dio e nella libertà del suo spirito», cosa per cui già ci troviamo di fronte a due «sensi comuni», quello dell’uomo sano e quello dell’uomo malato. (E cosa vorrà dire uomo sano? Fisicamente sano? Oppure non pazzo? ecc.).

Quando Marx accenna alla «validità delle credenze popolari» fa un riferimento storico‑culturale per indicare la «saldezza delle convinzioni» e la loro efficacia nel regolare la condotta degli uomini, ma implicitamente afferma la necessità di «nuove credenze popolari», cioè di un nuovo «senso comune» e quindi di una nuova cultura ossia di una nuova filosofia.

§178 Gentile. Sulla filosofia del Gentile cfr l’articolo della «Civiltà Cattolica» Cultura e filosofia dell’ignoto (16 agosto 1930)

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che è interessante per vedere come con la logica scolastica si può criticare qualche banale sofisma dell’attualismo che vuole apparire la perfezione della dialettica. Ora perché la dialettica formale dovrebbe essere superiore alla logica formale? spesso si tratta di «strumenti» ben più primitivi di quelli della logica formale. Sarà perciò interessante leggere le critiche dei neoscolastici al Gentile.

§221 Gentile col suo seguito di Volpicelli, Spirito ecc., si può dire che hanno instaurato un secentismo filosofico. (Cfr anche il paragone con Bruno Bauer e Sacra Famiglia).

Benedetto Croce

§39 Lo «storicismo» di Croce. Lo storicismo di Croce è da mettere in rapporto con ciò che è stato osservato in note precedenti sui concetti di «rivoluzione passiva», di «rivoluzione-restaurazione», di «conservazione-innovazione» e sul concetto giobertiano di «classicismo nazionale». È questo dello «storicismo» uno dei punti e dei motivi permanenti di tutta l’attività intellettuale e filosofica del Croce e una delle ragioni della fortuna e dell’influsso esercitato dalla sua attività da trent’anni in qua.

Il Croce si inserisce nella tradizione culturale del nuovo Stato italiano e riporta la cultura nazionale alle origini, ma vivificandola e arricchendola con tutta la cultura europea e depurandola da tutte le scorie magniloquenti e bizzarre del Risorgimento.

Stabilire con esattezza il significato storico e politico dello storicismo crociano significa appunto ridurlo alla sua reale portata, spogliandolo della grandezza brillante che gli viene attribuita come di manifestazione di una scienza obbiettiva, di un pensiero sereno e imparziale che si colloca al di sopra di tutte le miserie e le contingenze della lotta quotidiana, di una contemplazione disinteressata dell’eterno divenire della storia umana.

§209 La religione, il lotto e l’oppio del popolo. Nelle Conversazioni critiche (Serie II, pp. 300‑301) il Croce ricerca la «fonte» del Paese di cuccagna di Matilde Serao e la trova in un pensiero del Balzac, che è interessante anche come probabile fonte dell’espressione «oppio del popolo» del Marx, il quale, come è noto, era un grande ammiratore di Balzac e anzi si propose, in un certo tempo, di scrivere un libro sulla sua opera letteraria.

Nel racconto La Rabouilleuse, scritto nel 1841 e poi intitolato Un ménage de garçon, narrandosi di madama Descoings, la quale da ventun anno giocava un famoso suo terno, il «sociologo e filosofo romanziere» osserva: «Cette passion, si universellement condamnée, n’a jamais été étudiée. Personne n’y a vu l’opium de la misère. La loterie, la plus puissante fée du monde, ne développerait‑elle pas des espérances magiques? Le coup de roulette qui faisait voir aux joueurs des masses d’or et de jouissances ne durait que ce que dure un éclair: tandis que la loterie donnait cinq jours d’existence à ce magnifique éclair. Quelle est aujourd’hui, la puissance sociale qui peut, pour quarante sous, vous rendre heureux pendant cinq jours et vous livrer idéalement tous les bonheurs de la civilisation?».

Il Croce aveva già notato che il Paese di cuccagna (1890) aveva la sua idea generatrice in un brano del Ventre di Napoli (1884) della stessa Serao nel quale «si lumeggia il gioco del lotto come “il grande sogno di felicità” che il popolo napoletano “rifà ogni settimana”, vivendo “per sei giorni in una speranza crescente, invadente, che si allarga, esce dai confini della vita reale”; il sogno “dove sono tutte le cose di cui esso è privato, una casa pulita, dell’aria salubre e fresca, un bel raggio di sole caldo per terra, un letto bianco e alto, un comò lucido, i maccheroni e la carne ogni giorno, e il litro di vino, e la culla pel bimbo, e la biancheria per la moglie, e il cappello nuovo per il marito”».

Dell’ammirazione di Marx per Balzac ha scritto Lafargue nei suoi ricordi su Marx (cfr l’antologia del Riazanov, p. 114 dell’ed. francese): «Aveva una tale ammirazione per Balzac che si proponeva di scrivere un saggio critico sulla Commedia umana ecc.». vedi a p. 75).

§223 Croce e Loria. A rifletterci su si conclude che tra Croce e Loria la distanza non è poi molto grande nel modo di interpretare il materialismo storico. Anche il Croce, riducendo il materialismo storico a un canone pratico di interpretazione storica col quale si attira l’attenzione degli storici sui fatti economici, non ha fatto che creare una forma di riduzione del materialismo storico ad un «economismo» parziale. Se si spoglia il Loria di tutte le sue bizzarrie stilistiche e sfrenatezze fantasmagoriche (e certo molto di ciò che è caratteristico del Loria si viene così a perdere) si vede che egli si avvicina al Croce nel nucleo della sua interpretazione.

Txt.: M. Serao - Il ventre di Napoli

§224 Teologia – metafisica – speculazione. Il Croce cerca sempre di mettere in rilievo come egli, nella sua attività di pensatore, abbia cercato di «espellere» dal campo della filosofia ogni residuo di teologia e di metafisica, fino a negare ogni «sistema» filosofico, presentando la filosofia come la soluzione dei problemi filosofici che lo sviluppo storico presenta e impone nel suo svolgimento. Ma ogni filosofia «speculativa» non è essa stessa una teologia e una metafisica? Questo «residuo» non è un residuo, è un «tutto», è tutto il metodo del filosofare, e per esso ogni affermazione di «storicismo» è vana, perché si tratta di «storicismo» speculativo, del «concetto» di storia e non della storia. (Tuttavia la critica del Croce ai residui di teologia e di metafisica deve essere riassunta e studiata attentamente),

§225 Punti per un saggio su B. Croce. 1) Quali sono gli interessi intellettuali e morali (e quindi sociali) che predominano oggi nell’attività culturale del Croce? Per comprenderli occorre ricordare l’atteggiamento del Croce verso la guerra mondiale. Egli lottò contro l’impostazione popolare (e la conseguente propaganda) che faceva della guerra una guerra di civiltà e quindi a carattere religioso.

Dopo la guerra viene la pace e la pace può costringere ad aggruppamenti ben diversi da quelli della guerra; ma come sarebbe possibile una collaborazione tra popoli dopo lo scatenamento dei fanatismi «religiosi» della guerra?

Il Croce vede nel momento della pace quello della guerra, e nel momento della guerra quello della pace, e lotta perché la possibilità di mediazione tra i due momenti non sia mai distrutta. Nessun criterio immediato di politica può essere innalzato a principio universale.

2) Croce come leader delle tendenze revisionistiche: nel primo momento (fine dell’800, ispiratore del Bernstein e del Sorel); e in questo secondo momento, non più di revisione ma di liquidazione (storia etico‑politica contrapposta a storia economico‑giuridica).

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3) (cfr n. 7) Perché Croce è «popolare» e come e per quali vie si diffonde non il suo pensiero centrale, ma determinate sue soluzioni di problemi particolari. Stile di Croce – paragone errato con Manzoni – la prosa di Croce deve essere riattaccata alla prosa scientifica del Galilei – atteggiamento goethiano nel dopoguerra, cioè mentre tanta gente perde la testa, il Croce è imperturbabile nella sua serenità e nella sua credenza che metafisicamente il male non può prevalere e che la storia è razionalità. Perciò Croce popolare tra gli anglosassoni che hanno sempre preferito una concezione del mondo non a grandi sistemi, come i tedeschi, ma che si presenti come espressione del senso comune, come soluzione di problemi morali e pratici.

Il Croce fa circolare il suo pensiero idealistico in tutti i suoi scritti minori, ma ognuno di essi si presenta come a se stante, e sembra accettabile anche se non si accetta il sistema. Ecco perché molte teorie di Croce sono penetrate tra i cattolici da una parte (Olgiati, Chiocchetti) e tra i positivisti dall’altra.

Una delle ragioni della fortuna di Croce, legata alla sua serenità, è che egli non ha fatto concessioni al misticismo e alla religione (sebbene come ministro abbia riconosciuto necessaria l’introduzione della religione nella scuola elementare). Tuttavia i cattolici sono oggi i suoi maggiori avversari, appunto perché capiscono che l’importanza del Croce non è del tipo dei vecchi filosofi, ma di un riformatore religioso che mantiene il distacco tra gli intellettuali e la religione. Articoli della Nuova Antologia dovuti a due cattolici militanti, Papini e Ferrabino.

4) Tradizione italiana dei moderati. Teoria della rivoluzione‑restaurazione, una dialettica addomesticata, perché presuppone «meccanicamente» che l’antitesi debba essere conservata dalla tesi per non distruggere il processo dialettico, che pertanto viene «preveduto» come ripetentesi meccanicamente all’infinito. Invece nella storia reale l’antitesi tende a distruggere la tesi: il risultato è un superamento, ma senza che si possa a priori «misurare» i colpi come in un «ring» di lotta convenzionalmente regolamentata. Quanto più l’antitesi sviluppa se stessa implacabilmente, tanto più la tesi svilupperà se stessa, cioè dimostrerà tutte le sue possibilità di vita (la posizione del Croce è come quella di Proudhon criticata nella Miseria della filosofia: hegelismo addomesticato). (continua al 6).

5) Papini – gli ordini religiosi – Croce ha ragione poiché dopo il Concilio di Trento e i gesuiti nessun grande ordine religioso: il giansenismo e il modernismo non hanno prodotto ordini o rinnovato i vecchi. Futilità e arguzie inette di Papini, vecchio avversario di Croce (immagine dell’asinello e del somaro): in Papini giovane la polemica pareva promettere un «nobile destriero» ma è diventata «somaro». Ipocrisia repugnante: fa ricordare i versi di Strapaese agli italiani.

6) Continua il 4. Questa concezione fa porre il problema se per il Croce non sia necessaria e giustificata anche la posizione che egli combatte e quindi di quali siano i limiti e i caratteri della sua lotta. La posizione del Croce è concepita come la posizione propria degli intellettuali. Nel caso della guerra, non è certo che il Croce non ritenesse necessaria «politicamente», cioè immediatamente, quella tal forma di propaganda per avere dal popolo il massimo rendimento militare: egli però non vorrebbe che gli intellettuali cadano nell’errore di pensare come «eterno» ciò che è solo contingente: e si tratta, forse, in fondo di una nuova forma di interpretare l’affermazione che la religione è uno strumento di politica, ed è buona per il popolo.

7) continua il 3.

Una ragione della diffusione di determinate opinioni crociane è data dal presentarsi l’attività del Croce come una attività critica che comincia col distruggere una serie di pregiudizi tradizionali, col dichiarare «falsi» una serie di problemi ecc., quindi come «integratrice» del buon senso.

§227 Punti per un saggio su Croce. 8) Cosa significa storia «etico‑politica»? Storia dell’aspetto «egemonia» nello Stato e, poiché gli intellettuali hanno la funzione di rappresentare le idee che costituiscono il terreno in cui l’egemonia si esercita, storia degli intellettuali, e anzi dei grandi intellettuali, fino al massimo, a quell’intellettuale che ha espresso il nucleo centrale d’idee che in un dato periodo sono dominanti. Poiché «egemonia» significa un determinato sistema di vita morale concezione della vita ecc, ecco che la storia è storia «religiosa», secondo il principio «Stato‑Chiesa» del Croce.

Ma è esistito mai Stato senza «egemonia»?

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E allora perché non fare la storia del principio di autorità (imperiale) per cui i contadini croati combatterono contro i liberali milanesi e i contadini lombardo-veneti contro i liberali viennesi? E il Borbone non rappresentava anche un’egemonia sui lazzari e sui contadini meridionali? («abbiamo scritto in bronte, evviva Francische seconde»). C’è lotta tra due egemonie, sempre. E perché una trionfa? Per sue doti intrinseche di carattere «logico»? La combinazione in cui l’elemento egemonico etico‑politico si presenta nella vita statale e nazionale è il «patriottismo» e il «nazionalismo» che è la «religione popolare», cioè il nesso per cui si verifica l’unità tra dirigenti e diretti.

§233 Punti per un saggio su Croce. 9) La religione: «dopo Cristo siamo tutti cristiani», cioè le dottrine morali del cristianesimo, in quanto necessità storica e non elementi ecclesiastico‑corporativi, sono stati incorporati nella civiltà moderna e circolano in essa. Se opposizione è tra Stato e Chiesa, è opposizione tra due politiche, non tra religione e politica; ma esiste un’opposizione eterna tra Stato e Chiesa in senso speculativo, cioè tra morale e politica, opposizione anch’essa speculativa, che è la sostanza dialettica del processo di sviluppo della stessa civiltà: la concezione dello Stato come egemonia porta ad affermazioni paradossali: che non sempre lo Stato è da ricercare là dove esso sembrerebbe essere «istituzionalmente»; infatti lo Stato, in questo senso, si identifica con gli intellettuali «liberi» e con quel gruppo di essi, appunto che rappresenta il principio etico‑politico intorno a cui si verifica l’unità sociale per il progresso della civiltà. La politica momento della forza, ma o prepara alla vita morale o è strumento e forma di vita morale, quindi non conflitto tra politica e morale ma quasi identificazione.

Note

§236 Punti per un saggio su Croce. 10) Posto che la Storia d’Europa è come un paradigma per la cultura mondiale di storia etico‑politica, la critica del libro necessaria. Si può osservare che la «gherminella» fondamentale del Croce consiste in ciò: nell’iniziare la sua storia dopo la caduta di Napoleone. Ma esiste «secolo XIX» senza la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche? Gli avvenimenti trattati dal Croce possono essere concepiti organicamente senza questi precedenti?1 Il libro del Croce è un trattato di rivoluzioni passive, per dirla con l’espressione del Cuoco, che non possono giustificarsi e comprendersi senza la rivoluzione francese, che è stata un evento europeo e mondiale e non solo francese. (Può avere questa trattazione un riferimento attuale? Un nuovo «liberalismo», nelle condizioni moderne, non sarebbe poi precisamente il «fascismo»? Non sarebbe il fascismo precisamente la forma di «rivoluzione passiva» propria del secolo XX come il liberalismo lo è stato del secolo XIX?

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All’argomento ho accennato in altra nota, e tutto l’argomento è da approfondire). (Si potrebbe così concepire: la rivoluzione passiva si verificherebbe nel fatto di trasformare la struttura economica «riformisticamente» da individualistica a economia secondo un piano (economia diretta) e l’avvento di una «economia media» tra quella individualistica pura e quella secondo un piano in senso integrale, permetterebbe il passaggio a forme politiche e culturali più progredite senza cataclismi radicali e distruttivi in forma sterminatrice. Il «corporativismo» potrebbe essere o diventare, sviluppandosi, questa forma economica media di carattere «passivo»). Questa concezione potrebbe essere avvicinata a quella che in politica si può chiamare «guerra di posizione» in opposizione alla guerra di movimento. Così nel ciclo storico precedente la Rivoluzione francese sarebbe stata «guerra di movimento» e l’epoca liberale del secolo XIX una lunga guerra di posizione.

Note

§240 Punti per un saggio su Croce. Storia etico‑politica o storia speculativa? Si può sostenere che la storia in atto del Croce non è neanche etico‑politica, ma storia speculativa, un ritorno, sia pure in forme letterarie rese più accorte e meno ingenue dallo sviluppo dell’attività critica, a forme già verificatesi nel passato e cadute in discredito come vuote e retoriche.

La storia etico‑politica non può prescindere neanche essa dalla concezione di un «blocco storico», in cui l’organismo è individualizzato e reso concreto dalla forma etico‑politica, ma non può essere concepito senza il suo contenuto «materiale» o pratico.

Bisogna dimostrare che contenuto e forma sono identici, ma bisogna dimostrarlo ogni volta in atto, individualmente, altrimenti si fanno dei filosofemi e non si fa storia. Nella scienza naturale ciò equivarrebbe a ritornare ad un periodo in cui le classificazioni avvenivano per il colore della pelle o del piumaggio o del pelo, e non sull’anatomia.

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La storia non è scienza naturale, e il suo fine non è di classificare; quindi il riferimento alle scienze naturali e alla necessità di una «anatomia» della società, non era che una metafora e un impulso ad approfondire le ricerche metodologiche e filosofiche. Nella storia umana in atto, il «colore della pelle» non è un accidente, perché non si tratta di classificare o di polemizzare ma di ricostruire e si sa che in ogni individuo il colore della pelle è «blocco» con la struttura anatomica e con tutte le funzioni fisiologiche; non si può pensare un individuo «scuoiato» come il vero individuo; vero vorrebbe dir morto, elemento non più attivo e operante ma oggetto da tavolo anatomico. Ma l’estremo opposto è altrettanto erroneo e astratto e antistorico. Si vede nella Storia d’Europa nel fatto che il periodo scelto è monco, è il periodo delle rivoluzioni passive, per dirla col Cuoco, il periodo della ricerca delle forme superiori, della lotta per le forme, perché il contenuto si è già affermato con le rivoluzioni inglesi, con quelle francesi, con le guerre napoleoniche.

Cfr p. 36. Altro punto: il concetto di «libertà» identico a storia e a processo dialettico, e quindi presente sempre in ogni storia e il concetto di libertà come ideologia o religione (o fanatismo, secondo i clericali per es.): confusione pericolosa, secondo la filosofia del Croce, tra filosofia e ideologia, per cui anche la filosofia diventa «strumento di politica», (cioè «errore» d’origine pratica o illusione secondo il materialismo storico, cioè formazione d’origine immediata e immediatamente transeunte). (Uno scultore, Rodin, dice – secondo M. Barrès, in Mes Cahiers, IV serie –: «Si nous n’étions pas prévenus contre le squelette, nous verrions comme il est beau»).

Materialismo storico e filosofia della prassi

Materialismo

§211 Il termine di «materialismo» occorre in certi periodi della storia della cultura intenderlo non nel significato tecnico filosofico stretto, ma nel significato che prese dalle polemiche culturali dell’Enciclopedia. Si chiamò materialismo ogni modo di pensare che escludesse la trascendenza religiosa e quindi in realtà tutto il panteismo e l’immanentismo e infine più modernamente, ogni forma di realismo politico. Nelle polemiche anche odierne dei cattolici si trova spesso usata la parola in questo senso: è materialismo ogni modo di pensare che non sia «spiritualismo» in senso stretto, cioè spiritualismo religioso: quindi tutto lo hegelismo e in generale la filosofia classica tedesca, oltre all’enciclopedismo e illuminismo francese.

Così, nella vita sociale, si chiama «materialismo» tutto ciò che tende a trovare in questa terra, e non in paradiso, il fine della vita; l’interessante è che una tale concezione presa dal feudalismo culturale, è impiegata dai moderni industrialisti, contro i quali era stata rivolta. Ogni attività economica che uscisse dai limiti della produzione medioevale era «materialismo», perché pareva «fine a se stessa», l’economia per l’economia, l’attività per l’attività ecc. (tracce di questa concezione rimangono nel linguaggio: geistlich tedesco per «clericale», così in russo dukhoviez, in italiano «direttore spirituale»: spirito insomma era lo Spirito Santo).

Una delle ragioni, e forse la più importante, della riduzione al materialismo tradizionale del materialismo storico, è da ricercare in ciò che il materialismo storico non poteva non rappresentare una fase prevalentemente critica della filosofia, mentre si ha sempre «bisogno» di un sistema compiuto e perfetto.

Ma i sistemi compiuti e perfetti sono sempre opera di singoli filosofi, e in essi accanto alla parte storica attuale, cioè corrispondente alle attuali condizioni di vita, esiste sempre una parte astratta, «astorica», nel senso che è legata alle precedenti filosofie (pensiero che crea pensiero astrattamente), che è dovuta a necessità esteriori e meccaniche di sistema (armonia interna e architettura del sistema) e che è dovuta a idiosincrasie personali.

Ma la filosofia di un’epoca non è nessuna filosofia individuale o di gruppo: è l’insieme di tutte le filosofie individuali e di gruppo + le opinioni scientifiche + la religione + il senso comune. Si può formare una filosofia di tal genere «artificiosamente»? per opera individuale o di gruppo? La attività critica è la sola possibile, specialmente nel senso di porre e risolvere criticamente determinati problemi filosofici. Ma intanto occorre partire dal concetto che la nuova filosofia non è nessuna delle filosofie passate ecc.

Struttura e sovrastruttura

§207 Quistioni di terminologia. Il concetto di struttura e superstruttura, per cui si dice che l’«anatomia» della società è costituita dalla sua «economia», non sarà legato alle discussioni sorte per la classificazione delle specie animali, classificazione entrata nella sua fase «scientifica» quando appunto si prese a base l’anatomia e non caratteri secondari e accidentali? L’origine della metafora usata per indicare un concetto nuovamente scoperto, aiuta a comprendere meglio il concetto stesso, che viene riportato al mondo culturale e storicamente determinato in cui è sorto.

Certo che le scienze sociali hanno sempre cercato di trovare un fondamento obbiettivo e scientificamente adatto a dar loro la stessa sicurezza ed energia delle scienze sperimentali e naturali: per cui è semplice pensare che a queste si sia ricorso per creare un linguaggio.

Ricordare l’altro spunto, legato allo sviluppo delle scienze giuridiche: «non si può giudicare un’epoca storica da ciò che essa pensa di se stessa» come un giudice non può giudicare l’imputato da ciò che l’imputato dice per spiegare il suo operato delittuoso o presunto tale.

Note

§234 «Apparenze» e superstrutture. È vero che è esistita la tendenza a giudicare le superstrutture come mere e labili apparenze.

Mi pare si possa dire che una tale tendenza si riduce essenzialmente a un atteggiamento psicologico, in cui il contenuto teorico è scarsissimo e predomina la immediata passione polemica contro una esagerazione e deformazione in senso inverso.

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Si potrebbe paragonare tale atteggiamento a quello che si è verificato verso la «donna» e l’amore in certe epoche. Appare una graziosa giovinetta, bianca e rosea ecc. ecc. L’uomo «pratico» valuta la sua struttura «scheletrica», l’ampiezza del «bacino», cerca di conoscere sua madre o sua nonna, per vedere quale probabile processo di deformazione ereditaria la giovinetta subirà con gli anni, per vedere quale «moglie» egli avrà fra 10 o 20 o 30 anni.

Il giovinetto «satanico», con atteggiamento pessimistico o ultrarealistico, osserva la giovinetta con occhi «stecchettiani»; anch’essa è un sacco di sterco, la immagina morta e sotterrata, in putrefazione, dalle occhiaie fetenti e vuote brulicheranno i vermi, il roseo sarà cadaverico pallore, la snellezza sarà disfacimento, l’eleganza delle mosse, gioco di ossa e di tendini, sarà un sacchetto di ossa inerti ecc. È questo un atteggiamento psicologico che è legato agli anni giovanili, alle prime riflessioni. Tuttavia viene superato dalla vita, e una «determinata» donna non farà più pensare in quel modo ecc.

§231 Introduzione allo studio della filosofia. Rapporto tra struttura e superstruttura. Cfr nella «Critica» del 20 marzo 1932 (recensione di G. de Ruggiero di un libro di Arthur Feiler), p. 133: «… si presenta il fatto paradossale, di una ideologia grettamente, aridamente materialistica, che dà luogo, in pratica, a una passione dell’ideale, a una foga di rinnovamento, a cui non si può negare una certa sincerità. Tutto ciò è vero in linea di massima, ed è anche provvidenziale, perché mostra che l’umanità ha grandi risorse interiori, che entrano in gioco nel momento stesso che una ragione superficiale pretenderebbe negarle».

Ma in verità non c’è niente di paradossale e di provvidenziale (questi filosofi speculativi quando non sanno spiegarsi un fatto, tiran fuori la solita astuzia della provvidenza) e di superficiale c’è solo l’informazione «filologica» del De Ruggiero, che si vergognerebbe di non conoscere tutti i documenti su un minuscolo fatto di storia della filosofia, ma trascura le informazioni complete su avvenimenti giganteschi come quelli sfiorati in questa recensione.

La posizione di cui parla il De Ruggiero per cui un’ideologia «grettamente ecc.», dà luogo in pratica a una passione dell’ideale ecc., non è nuova nella storia, e dovrà essere spiegata in altro modo da ciò che fa il De Ruggiero. Si può accennare alla teoria della predestinazione e della grazia propria dei protestanti e al suo dar luogo a una vasta espansione di spirito d’iniziativa.

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In termini religiosi è lo stesso fenomeno cui accenna il De Ruggiero, la cui mentalità «cattolica» gli impedisce di penetrare il fatto. Cfr Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, nei «Nuovi Studi» del 1931 (specialmente puntata del fascicolo novembre‑dicembre 1931) per una rappresentazione degli sviluppi della teoria della grazia che può servire a una rappresentazione del fenomeno accennato dal De Ruggiero (che a tale comprensione si opponga una mentalità cattolica si può vedere da Jemolo – storia del Giansenismo – che ignorava questa conversione attivistica della teoria della grazia e si domandava donde l’Anzilotti avesse preso una tale corbelleria).

§198 Filosofia della Praxis. A p. 298 sgg. della Serie Prima delle Conversazioni critiche il Croce analizza alcune proposizioni delle Glosse al Feuerbach per giungere alla conclusione che non si può parlare di un Marx filosofo e quindi di una filosofia marxista, perché ciò che Marx si proponeva era appunto di «capovolgere» non tanto la filosofia di Hegel, quanto la filosofia in genere, di sostituire il filosofare con l’attività pratica ecc. Ma non pare che il Croce sia esatto obbiettivamente, né che egli riesca soddisfacente criticamente.

Ammesso che il Marx volesse soppiantare la filosofia con l’attività pratica, come mai il Croce non ricorre all’argomento perentorio che non si può negare la filosofia se non filosofando, cioè riaffermando quel che si era voluto negare? È vero che lo stesso Croce nel volume Materialismo storico ecc., in una nota riconosce esplicitamente come giustificata l’esigenza di costruire sul marxismo una «filosofia della praxis» posta da Antonio Labriola.

Se si esamina, in una veduta d’insieme, tutto ciò che il Croce ha scritto sul marxismo, sia in modo sistematico, sia incidentalmente, si può cogliere quanto egli sia contradditorio e incoerente da uno scritto all’altro, nei vari periodi della sua attività di scrittore.

§199 Unità della teoria e della pratica. Ricercare, studiare e criticare le varie forme in cui si è presentato nella storia delle idee il concetto di unità della teoria e della pratica. «Intellectus speculativus extensione fit practicus» di S. Tomaso: la teoria per semplice estensione si fa pratica, affermazione della connessione necessaria tra l’ordine delle idee e quello dei fatti, che si trova nell’aristotelismo e nella scolastica. Così l’altro aforisma sulla scienza (del Leibnitz) che sarebbe: «quo magis speculativa magis practica».1 La proposizione del Vico «verum ipsum factum», che il Croce svolge nel senso idealistico che il conoscere sia un fare e che si conosce ciò che si fa (cfr il libro del Croce su Vico e altri scritti polemici del Croce), da cui (nelle sue origini hegeliane e non nella derivazione crociana) certamente dipende il concetto del materialismo storico.

Note

§200 Antonio Labriola. Per costruire un saggio compiuto su Antonio Labriola, occorre tener dinanzi anche gli elementi e i frammenti di conversazione riferiti dai suoi amici ed allievi.

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Nei libri del Croce, sparsamente, se ne possono racimolare parecchi. Così nelle Conversazioni Critiche (Serie seconda) pp. 60‑61: «“Come fareste a educare moralmente un papuano?”, domandò uno di noi scolari, tanti anni ... fa al prof. Labriola, in una delle sue lezioni di Pedagogia, obiettando contro l’efficacia della Pedagogia. “Provvisoriamente (rispose con vichiana e hegeliana asprezza l’herbartiano professore), provvisoriamente lo farei schiavo; e questa sarebbe la pedagogia del caso, salvo a vedere se pei suoi nipoti e pronipoti si potrà cominciare ad adoperare qualcosa della pedagogia nostra”»1.

Questa risposta del Labriola è da avvicinare alla intervista da lui data sulla quistione coloniale (Libia) verso il 1903 e pubblicata nel volume degli Scritti vari di filosofia e politica.

È da avvicinare anche al modo di pensare del Gentile nell’organamento della riforma scolastica, per cui si è introdotta nelle scuole primarie la religione ecc. Mi pare che si tratti di un pseudo‑storicismo, di un meccanicismo abbastanza empirico. Si potrebbe ricordare ciò che dice lo Spaventa a proposito di quelli che non vogliono mai che gli uomini escano di culla (cioè dal momento dell’autorità, che pure educa alla libertà i popoli immaturi) e pensano tutta la vita (degli altri) come una culla.

Mi pare sia storicamente da porre il problema in altro modo: se cioè, una nazione o un gruppo sociale, che è giunto a un grado superiore di civiltà non possa (e quindi debba) «accelerare» l’educazione civile delle nazioni e gruppi più arretrati, universalizzando la propria esperienza. Non mi pare insomma che il modo di pensare contenuto nella risposta del Labriola sia dialettico e progressivo, ma piuttosto retrivo: l’introduzione della religione nelle scuole elementari ha infatti come correlativo la concezione della «religione buona per il popolo» (popolo = fanciullo = fase arretrata della storia cui corrisponde la religione ecc.), cioè la rinunzia a educare il popolo ecc. È uno storicismo ben noto questo: è lo storicismo dei giuristi, per i quali lo knut non è un knut, quando è un «knut storico»2. D’altronde si tratta di un pensiero abbastanza nebbioso e confuso.

Che nelle scuole elementari sia necessaria una esposizione «dogmatica» delle nozioni scientifiche, non significa che si debba per dogma intendere quello «religioso confessionale». Che un popolo o un gruppo arretrato abbia bisogno di una disciplina «esteriore», coercitiva, di tipo militare, per essere educato civilmente, non significa che debba essere ridotto in schiavitù, a meno non si pensi che lo Stato è sempre «schiavitù», anche per la classe di cui esso è l’espressione ecc. Il concetto, per esempio, di «esercito del lavoro» dà il tipo di «pedagogia» per i «papuani» senza bisogno di ricorrere alla «schiavitù» o al colonialismo come tappa storica «meccanicamente» inevitabile ecc. Lo Spaventa, che si metteva dal punto di vista della borghesia liberale contro i sofismi «storicistici» delle classi retrive, esprimeva, nel suo sarcasmo, una concezione ben più progressiva e dialettica.

Note

§168 Antonio Labriola e lo hegelismo. È da studiare come il Labriola, partendo da posizioni herbartiane e antihegeliane sia passato al materialismo storico. La dialettica in Antonio Labriola, insomma.

§167 Il libro di De Man. Porre in luce i «valori psicologici ed etici» del movimento operaio significa forse confutare le dottrine del materialismo storico?1 Sarebbe come dire che il porre in luce il fatto che la grande maggioranza degli abitanti del mondo è ancora tolemaica significa confutare le dottrine di Copernico. Marx afferma che gli uomini acquistano coscienza della loro posizione sociale nel terreno delle soprastrutture; ha forse escluso i proletari da questo modo di prendere coscienza di sé? Che il materialismo storico cerchi di modificare questa fase culturale, elevando l’autocoscienza ecc., non significa appunto che gli stessi materialisti storici lavorano in quel terreno che il De Man crede di aver scoperto? La scoperta del De Man è un luogo comune e la sua confutazione una petizione di principio (o ignorantia elenchi).

Note

Saggio popolare di Bucharin

§173 Sul «Saggio popolare». Un lavoro come il Saggio popolare, destinato a una comunità di lettori che non sono intellettuali di professione, dovrebbe partire dalla analisi e dalla critica della filosofia del senso comune, che è la «filosofia dei non filosofi», cioè la concezione del mondo assorbita acriticamente dai vari ambienti sociali in cui si sviluppa l’individualità morale dell’uomo medio. Il senso comune non è una concezione unica, identica nel tempo e nello spazio: esso è il «folclore» della filosofia, e come il folclore si presenta in forme innumerevoli: il suo carattere fondamentale è di essere una concezione del mondo disgregata, incoerente, inconseguente, conforme al carattere delle moltitudini di cui esso è la filosofia.

Quando nella storia si elabora un gruppo sociale omogeneo, si elabora anche, contro il senso comune, una filosofia «omogenea», cioè sistematica. Gli elementi principali del senso comune sono dati dalle religioni, e non solo dalla religione attualmente dominante, ma dalle religioni precedenti, da movimenti ereticali popolari, da concezioni scientifiche passate ecc.

Nel senso comune predominano gli elementi «realistici, materialistici», ciò che non è in contraddizione con l’elemento religioso, tutt’altro; ma questi elementi sono «acritici», «superstiziosi».

Ecco un pericolo rappresentato dal Saggio popolare: esso conferma spesso questi elementi acritici, basati sulla mera percezione immediata, per cui il senso comune è ancora rimasto «tolemaico», antropomorfico e antropocentrico.

Nella cultura filosofica francese esistono trattazioni sul «senso comune» più che in altre culture: ciò è dovuto al carattere «popolare-nazionale» della cultura francese, cioè al fatto che gli intellettuali tendono, più che altrove, per determinate condizioni storiche, ad avvicinarsi al popolo per guidarlo ideologicamente e tenerlo legato al gruppo dirigente.

Si potrà trovare quindi nella letteratura francese molto materiale sul senso comune utilizzabile: anzi l’atteggiamento della cultura filosofica francese verso il «senso comune» può offrire un modello di costruzione culturale egemonica; anche la cultura inglese e americana possono offrire molti spunti, ma non in modo così completo e organico come quella francese.

Il «senso comune» è stato trattato in due modi: 1°) è stato messo a base della filosofia; 2°) è stato criticato dal punto di vista di un’altra filosofia; ma in realtà, nell’un caso e nell’altro, il risultato fu di superare un determinato «senso comune» per crearne un altro più aderente alla concezione del mondo del gruppo dirigente.

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Atteggiamento del Croce verso il «senso comune»: non mi pare chiaro. Per il Croce, la tesi che «ogni uomo è un filosofo» ha finora troppo gravato sul giudizio intorno al «senso comune»; il Croce sembra spesso compiacersi perché determinate proposizioni filosofiche sono condivise dal senso comune, ma che cosa può ciò significare in concreto? Perché sia vero che «ogni uomo è un filosofo» non è necessario ricorrere, in questo senso, al senso comune. Il senso comune è un aggregato incomposto di concezioni filosofiche e vi si può trovare tutto ciò che si vuole. D’altronde in Croce, questo atteggiamento verso il senso comune non ha portato a un atteggiamento culturale fecondo dal punto di vista «popolare‑nazionale», cioè ad una concezione più concretamente storicistica della filosofia, che del resto può trovarsi solo nel materialismo storico.

Opere di Léon Brunschvieg: Les étapes de la philosophie mathématique, L’expérience humaine et la causalité physique, Le progrès de la conscience dans la philosophie occidentale, La connaissance de soi, Introduction à la vie de l’esprit. Cito da un articolo di Henri Gouhier nelle «Nouvelles Littéraires» del 17‑10‑931 sul Brunschvicg: «Il n’y a qu’un seul et même mouvement de spiritualisation, qu’il s’agisse de mathématiques, de physique, de biologie, de philosophie et de morale; c’est l’effort par lequel l’esprit se débarrasse du sens commun et de sa métaphysique spontanée qui pose un monde de choses sensibles réelles et l’homme au milieu de ce monde».

§174 Sul «Saggio popolare». Si può avere dal Saggio una critica della metafisica? Mi pare che il concetto stesso di metafisica sfugga all’autore, in quanto gli sfugge il concetto di movimento storico, del divenire e quindi della dialettica.

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Pensare che una affermazione è vera per un periodo storico, cioè è l’espressione necessaria e inscindibile di una determinata azione, di una determinata praxis, ma diventerà «falsa» in un periodo storico successivo, senza perciò cadere nello scetticismo e nel relativismo (opportunismo morale e ideologico) è molto difficile.

L’autore non riesce a sfuggire al dogmatismo, quindi alla metafisica: tutto il suo libro anzi è viziato di dogmatismo e di metafisica e ciò è chiaro dall’inizio, dall’impostazione del problema cioè della possibilità di costruire una «sociologia» del marxismo: sociologia significa appunto, in questo caso, metafisica.

In una nota l’autore non sa rispondere all’obbiezione di alcuni teorici che sostengono il materialismo storico poter vivere solo in concrete opere di storia; egli non riesce a elaborare la concezione del materialismo storico come «metodologia storica» e questa come «filosofia», come la sola filosofia concreta, non riesce cioè a porsi e a risolvere dal punto di vista del materialismo storico il problema che Croce si è posto e ha cercato di risolvere dal punto di vista dell’idealismo.

Invece di «metodologia storica», di «filosofia», egli costruisce una sociologia, cioè una «casistica» di problemi concepiti e risolti dogmaticamente, quando non empiricamente. Pare che per l’autore «metafisica» sia una determinata formulazione filosofica, e non ogni formulazione di soluzioni che si ponga come un universale astratto, fuori del tempo e dello spazio.

§186 Sul «Saggio popolare». La filosofia del Saggio popolare è puro aristotelismo positivistico, cioè un riadattamento della logica formalistica secondo i metodi delle scienze naturali: la legge di causalità è sostituita alla dialettica; la classificazione astratta, la sociologia ecc. Se «idealismo» è scienza delle categorie a priori dello spirito, cioè è una forma di astrazione antistoricistica, questo saggio popolare è idealismo alla rovescia nel senso che alle categorie dello spirito sostituisce delle categorie empiriche altrettanto a priori e astratte. Causalismo e non dialettica. Ricerca della legge di «regolarità, normalità, uniformità» senza superamento, perché l’effetto non può essere superiore alla causa, meccanicamente.

§201 «Saggio popolare». Sull’arte. Nella sezione dedicata all’arte, si afferma che anche le più recenti opere sull’estetica affermano l’identità di forma e contenuto. Questo può essere assunto come uno dei casi più vistosi dell’incapacità critica nello stabilire la storia dei concetti e nell’identificare il reale significato dei concetti stessi nel campo della cultura.

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Infatti l’identificazione di contenuto e forma è affermata dall’estetica idealistica (Croce), ma su presupposti idealistici e con terminologia idealistica. Né i termini «contenuto» e «forma» hanno quindi il significato che il Saggio suppone. Che forma e contenuto si identifichino significa solo che nell’arte il contenuto non è «l’astratto soggetto», cioè l’intrigo romanzesco o la particolare massa di sentimenti generici, ma che contenuto dell’arte è l’arte stessa, una categoria filosofica, un «momento distinto» dello spirito ecc. Né forma significa tecnica, come il Saggio suppone, ecc.

§202 «Saggio popolare». Che cosa si può intendere per «scienza» parlando del Saggio e in che non è accettabile il concetto di «scienza» che in esso è sostenuto o meglio ancora sottinteso? Si intenderà il metodo e non già il metodo in generale, che non esiste, o significa solo la filosofia in generale (per alcuni) e per altri la logica formale o il metodo matematico, ma un determinato metodo, proprio di una determinata ricerca, di una determinata scienza, e che si è sviluppato ed è stato elaborato insieme allo sviluppo e alla elaborazione di quella determinata ricerca e scienza e forma tutta una cosa con esse. Ma ci sono anche dei criteri generali che si può dire costituiscono la coscienza critica dello scienziato e devono sempre essere vigili e spontanei nel suo lavoro.

Così si può dire che non è scienziato chi dimostra poca sicurezza nei suoi criteri, colui che non ha una piena intelligenza dei concetti adoperati, che ha scarsa intelligenza dello stato precedente dei problemi trattati, che non ha molta cautela nelle sue affermazioni, che non progredisce in modo necessario ma arbitrario e senza concatenamento, che non sa tener conto delle lacune che esistono nelle cognizioni raggiunte ma le sottace e si accontenta di soluzioni o nessi puramente verbali invece di dichiarare che si tratta di posizioni provvisorie che potranno essere riprese e sviluppate ecc. Ognuno di questi punti può essere sviluppato, con le opportune esemplificazioni ecc.

§177 La realtà «oggettiva». Cosa significa «oggettivo»? Non significherà «umanamente oggettivo» e non sarà perciò anche umanamente «soggettivo»? L’oggettivo sarebbe allora l’universale soggettivo, cioè: il soggetto conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario. La lotta per l’oggettività sarebbe quindi la lotta per l’unificazione culturale del genere umano; il processo di questa unificazione sarebbe il processo di oggettivazione del soggetto, che diventa sempre più un universale concreto, storicamente concreto.

La scienza sperimentale è il terreno in cui una tale oggettivazione ha raggiunto il massimo di realtà; è l’elemento culturale che ha più contribuito a unificare l’umanità, è la soggettività più oggettivata e universalizzata concretamente.

Il concetto di oggettivo della filosofia materialistica volgare pare che voglia intendere una oggettività superiore all’uomo, che potrebbe essere conosciuta anche all’infuori dell’uomo: si tratta quindi di una forma banale di misticismo e di metafisicheria. Quando si dice che una certa cosa esisterebbe anche se non esistesse l’uomo, o si fa una metafora o si cade appunto nel misticismo. Noi conosciamo i fenomeni in rapporto all’uomo e siccome l’uomo è un divenire, anche la conoscenza è un divenire, pertanto anche l’oggettività è un divenire ecc.

§196 «Saggio popolare». Un’osservazione che può farsi a molti riferimenti del Saggio è il misconoscimento delle possibilità dell’errore da parte di singoli autori citati. Ciò è legato a un criterio metodico più generale: che non è molto «scientifico» o più semplicemente «molto serio», scegliere i propri avversari tra i più stupidi e mediocri, o ancora, scegliere tra le opinioni dei propri avversari le meno essenziali e più occasionali e presumere d’aver distrutto «tutto» l’avversario perché si è distrutta una sua opinione secondaria e occasionale, o d’aver distrutto un’ideologia o una dottrina perché si è dimostrata l’insufficienza teorica dei suoi campioni di terzo o quarto ordine.

Ancora, occorre essere giusti coi propri avversari, nel senso che bisogna sforzarsi di comprendere ciò che essi realmente hanno voluto dire e non fermarsi ai significati superficiali e immediati delle loro espressioni. Ciò si dica, se il fine propostosi è quello di elevare il tono e il livello intellettuale dei propri seguaci, e non quello immediato di fare il deserto intorno a sé, con ogni mezzo e maniera.

Occorre porsi da questo punto di vista: che il proprio seguace debba discutere e sostenere il proprio punto di vista nei confronti di avversari capaci e intelligenti, e non solo di persone incolte e impreparate, che si convincono «autoritativamente» o per via «emozionale».

La possibilità dell’errore deve essere affermata e giustificata, senza con ciò venir meno alla propria concezione, poiché ciò che importa non è già l’opinione di Tizio, Caio, Sempronio, ma quell’insieme di opinioni che sono diventate collettive, sono diventate un elemento e una forza sociale: queste occorre confutare, nei loro esponenti teorici più rappresentativi e degni per altezza di pensiero e anche per «disinteresse» immediato, e non già pensando di aver con ciò «distrutto» l’elemento e la forza sociale corrispondente (ciò che sarebbe puro razionalismo illuministico), ma solo di aver contribuito: 1) a mantenere nella propria parte lo spirito di scissione e di distruzione; 2) a creare il terreno perché la propria parte assorba e vivifichi una propria dottrina originale, corrispondente alle proprie condizioni di vita.

§197 «Saggio popolare». L’inizio, cioè la posizione del problema come una ricerca di leggi, di linee costanti, regolari, uniformi. Ciò legato al problema della prevedibilità degli accadimenti storici. Impostazione da scienze naturali astratte. Ciò che è solo prevedibile e la lotta, ma non i momenti concreti di essa, che risulteranno da equilibri di forze in continuo movimento, non riducibili a quantità fisse. Puro meccanicismo causalista, non dialettica. La prevedibilità solo per grandi generalizzazioni, corrispondente a grandi leggi di probabilità, alla legge dei grandi numeri. È il concetto stesso di «scienza» che occorre criticare nel Saggio popolare, che è preso di sana pianta dalle scienze naturali e ancora da alcune di esse, e da queste secondo la concezione positivista.

§214 «Saggio popolare». Spunti di estetica e di critica letteraria. Raccogliere tutti gli spunti di estetica e di critica letteraria sparsi nel Saggio popolare e cercare di ragionarvi su.

Uno spunto è quello riguardante il Prometeo di Goethe1. Il giudizio datone è superficiale ed estremamente generico.

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L’autore non conosce, a quanto pare, né la storia esatta di questa ode del Goethe, né la storia della fortuna del mito di Prometeo prima di Goethe e specialmente nel periodo precedente e contemporaneo a Goethe. Eppure, si può dare un giudizio come quello dato dall’autore, senza conoscere proprio questi elementi? Come altrimenti distinguere ciò che è personale del Goethe da ciò che è un elemento rappresentativo di un’epoca e di un gruppo sociale?

Questo genere di giudizi in tanto sono giustificati in quanto sono non generici, ma specifici, precisi, dimostrati: altrimenti sono destinati solo a diffamare la teoria e a suscitare dei faciloni superficiali, i quali credono d’avere tutta la storia in tasca perché sanno sciacquarsi la bocca con delle formule che sono fatte diventare delle frasi fatte, delle banalità (richiamate sempre la frase di Engels nella sua lettera a uno studente pubblicata nell’«Accademico Socialista»2).

(Si potrebbe fare una esposizione della fortuna letteraria e artistica e ideologica del mito di Prometeo, studiando come questo si atteggia nei vari tempi e quale complesso di sentimenti e di idee serve a esprimere sinteticamente volta per volta). Per ciò che riguarda il Goethe riassumo alcuni elementi iniziali, togliendoli da un articolo di Leonello Vincenti (Prometeo, nel «Leonardo» del marzo 1932): Nell’ode voleva Goethe fare della semplice «mitologia» versificata o esprimeva un suo atteggiamento attuale e vivo verso la divinità, verso il dio cristiano?

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Nell’autunno del 1773 (quando scrisse il Prometeo) Goethe respingeva nettamente i tentativi di conversione del suo amico Lavater: «Ich bin kein Christ».

Un critico moderno (H. A. Korff) osserva (secondo le parole del Vincenti): «Si pensino quelle parole dirette contro un (!) Dio cristiano, si sostituisca al nome di Giove il concetto anonimo (!!) di Dio e si sentirà di quanto spirito rivoluzionario sia carica l’ode». (Inizio dell’ode: «Copri il tuo cielo, Giove, con veli di nuvole ed esercitati, simile al fanciullo che decapita cardi, su querce e vette di monti! Devi a me la mia terra pur lasciare e la mia capanna, che tu non hai costruita, e il mio focolare, per la cui fiamma m’invidii. Nulla io conosco di più misero sotto il, sole di voi, dei!») Storia religiosa di Goethe.

Sviluppo del mito di Prometeo nel secolo XVIII, dalla prima formulazione dello Shaftesbury («a poet is indeed a second maker, a just Prometheus under Jove») a quella degli Stürmer und Dränger, che trasporta Prometeo nell’esperienza artistica da quella religiosa. Il Walzel ha sostenuto appunto il carattere puramente artistico della creazione goethiana. Ma opinione comune è che il punto di partenza sia stata l’esperienza religiosa.

Il Prometeo deve essere collocato in un gruppo di scritti (il Maometto, il Prometeo, il Satyros, l’Ebreo Errante, il Faust) degli anni 1773‑74. Il Goethe voleva scrivere un dramma su Prometeo, di cui rimane un frammento.

Julius Richter (Zur Deutung der Goetheschen Prometheusdichtung nel «Jahrbuch des freien deutschen Hochstifts», 1928) sostiene che l’ode precede il dramma, di cui anticipa solo alcuni elementi, mentre prima, con E. Schmidt, si credeva che l’ode è la quintessenza del frammento drammatico omonimo, quintessenza tratta dal poeta, quando aveva ormai abbandonato il tentativo del dramma.

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(Questa precisazione è importante psicologicamente: Si può vedere come l’ispirazione goethiana si attenua: 1°) prima parte dell’ode, in cui predomina l’elemento titanico, della ribellione; 2°) la seconda parte dell’ode, in cui Prometeo piega su se stesso, e hanno il sopravvento gli elementi di una certa debolezza umana; 3°) il tentativo del dramma, che non riesce, forse perché il Goethe non riesce più a trovare il fulcro della sua immagine, che già nell’ode si era spostato e aveva creato una contraddizione intima).

Il Richter cerca le concordanze tra l’opera letteraria e gli stati psicologici del poeta, attestati dalle sue lettere e da Poesia e Verità. Nella Poesia e Verità si parte da un’osservazione generale: gli uomini alla fine devono sempre contare sulle sole loro forze; la divinità stessa pare non possa ricambiare la venerazione, la fiducia, l’amore degli uomini proprio nei momenti di maggior bisogno: bisogna aiutarsi da sé. «La più sicura base d’autonomia mi risultò sempre essere il mio talento creatore». «Questa situazione si concretò in un’immagine... l’antica figura mitologica di Prometeo che, separatosi dagli dei, dalla sua officina popolò un mondo. Sentivo assai bene che si può produrre qualcosa di notevole soltanto isolandosi. Dovendo io escludere l’aiuto degli uomini, mi separai, al modo di Prometeo, anche dagli Dei», – come volevano i suoi stati d’animo estremi ed esclusivi – aggiunge il Vincenti, ma non mi pare che in Goethe si possa parlare di estremismo ed esclusività. «Mi ritagliai l’abito antico del Titano alla misura del mio dorso, e senza pensarci tanto su incominciai a scrivere un dramma nel quale è rappresentata l’inimicizia in cui Prometeo cade con gli dei foggiando uomini di propria mano e dando loro vita col favore di Minerva...» (Scrive il Vincenti: «Quando Goethe scriveva queste parole il frammento drammatico era da molti anni scomparso – cosa vuol dire “scomparso”? – ed egli non lo rammentava più bene. Credeva che l’ode, rimastagli, dovesse figurarvi come un monologo»).

L’ode presenta una situazione propria, diversa da quella del frammento. Nell’ode la ribellione matura nel momento in cui è annunziata: è la dichiarazione di guerra, la quale si chiude con l’apertura delle ostilità: «Qui siedo, formo uomini ecc.». Nel dramma la guerra è già aperta. Logicamente, il frammento è posteriore all’ode, ma il Vincenti non è categorico come il Richter. Per lui «se è vero che, ideologicamente, il frammento drammatico rappresenta un progresso sopra l’ode, non è men vero che la fantasia dei poeti può aver dei ritorni su posizioni che parevano superate e ricreare da esse qualcosa di nuovo. Abbandoniamo pure l’idea che l’ode sia la quintessenza del dramma, ma accontentiamoci di dire che le situazioni di questo e di quella stanno tra loro come il più complesso al più semplice». Il Vincenti nota l’antinomia esistente nell’ode: le prime due strofe di scherno e l’ultima di sfida, ma il corpo centrale di diverso tono: Prometeo ricorda la sua fanciullezza, gli smarrimenti, i dubbi, le angosce giovanili: «parla un deluso d’amore». «Questi sogni fioriti non ce li farà dimenticare più il cipiglio ripreso nell’ultima strofa. Aveva parlato da Titano in principio Prometeo;ma ecco poi spuntare sotto la maschera titanica i teneri (!) tratti d’un giovane dal cuore affamato d’amore». Un brano di Poesia e Verità è specialmente significativo per la personalità di Goethe: «Lo spirito titanico e gigantesco, eversore del cielo non offriva materia al mio poetare. Meglio mi si confaceva rappresentare quella resistenza pacifica, plastica e al più paziente, che riconosce il potere dell’autorità, ma vorrebbe porlesi a lato» (questo brano giustifica il breve scritto di Marx su Goethe e lo illumina)3.

Il frammento drammatico mostra, secondo me, che il titanismo di Goethe deve appunto essere collocato nella sfera letteraria e collegato all’aforisma: «In principio era l’azione», se per azione si intende l’attività propria del Goethe, la creazione artistica. Osservazione del Croce, che cerca di rispondere alla domanda del perché il dramma sia rimasto incompiuto: «forse nella linea stessa di quelle scene si vede la difficoltà e l’ostacolo al compimento, il dualismo cioè tra il Goethe ribelle e il Goethe critico della ribellione». (Nel caso rivedere lo studio del Vincenti, che, anche ricco come è di imprecisioni e di contraddizioni, offre notazioni particolari acute).

In realtà il frammento drammatico mi pare da studiare a sé: esso è molto più complesso dell’ode e il suo rapporto con l’ode è dato più dal mito esterno di Prometeo, che da un legame intimo e necessario. La ribellione di Prometeo è «costruttiva», Prometeo appare non solo nel suo aspetto di Titano in rivolta, ma specialmente come «homo faber», consapevole di se stesso e del significato dell’opera sua. Per il Prometeo del frammento gli dei non sono affatto infiniti, onnipotenti. «Potete l’armi stringere nel pugno il vasto spazio del cielo e della terra? Potete separarmi da me stesso? Potere dilatarmi fino ad abbracciare il mondo?» Mercurio risponde con una spallucciata: il destino! E dunque anche gli dei sono vassalli. Ma Prometeo non si sente già felice nella sua officina, tra le sue creazioni? «Qui il mio mondo, il mio tutto! Qui io mi sento!» A Mercurio aveva detto d’aver preso coscienza, fanciullo, della propria esistenza fisica quando aveva avvertito che i suoi piedi reggevano il corpo e che le sue mani si stendevano a toccare nello spazio. Epimeteo lo aveva accusato di particolarismo, di misconoscere la dolcezza di formare un tutto con gli Dei e gli affini e il mondo e il cielo. «La conosco questa storia!» risponde Prometeo perché egli non può più contentarsi di quell’unità che l’abbraccia dall’esterno, deve crearsene una che sorga dall’interiore. E questa può sorgere solo «dal cerchio riempito dalla sua attività».

Note

Mat. Bibl.: La figura di Prometeo nelle letterature europee

§215 «Saggio popolare». La realtà del mondo esterno. Tutta la polemica sulla «realtà del mondo esterno» mi pare male impostata e in gran parte oziosa (mi riferisco anche alla memoria presentata al congresso di storia delle scienze di Londra).

1°) Dal punto di vista di un «saggio popolare» essa è una superfetazione e un bisogno (prurito) da intellettuale più che una necessità: infatti il pubblico popolare è ben lungi dal porsi il problema se il mondo esterno esista obbiettivamente o sia una costruzione dello spirito. Il pubblico popolare «crede» che il mondo esterno sia obbiettivo ed è questa «credenza» che occorre analizzare, criticare, superare scientificamente. Questa credenza è infatti d’origine religiosa, anche quando chi «crede» è religiosamente indifferente. Poiché per secoli si è creduto che il mondo è stato creato da dio prima dell’uomo, e l’uomo ha già trovato il mondo creato e catalogato, definito una volta per tutte, questa credenza diventa un dato del «senso comune», anche quando il sentimento religioso è spento o addormentatoNel ms una variante interlineare: «sopito».. Ecco allora che fondarsi su questa esperienza del senso comune per distruggere col ridicolo le teorie dell’idealismo, ha un significato piuttosto «reazionario», di ritorno implicito al sentimento religioso: infatti gli scrittori cattolici ricorrono allo stesso mezzo per ottenere lo stesso effetto di comicità corrosiva.

2°) Ricercare il perché sono sorte le teorie che non riconoscono la realtà obbiettiva del mondo. Sono state manifestazioni di pazzia, di delirio ecc.? Troppo semplicistico. Il materialismo storico non solo spiega e giustifica se stesso, ma spiega e giustifica tutte le teorie precedenti ecc., e in questo è la sua forza. Ora le teorie idealistiche sono il più grande tentativo di riforma morale e intellettuale che si sia verificato nella storia per eliminare la religione dal campo della civiltà. A questo è legato il problema del come e in che misura la concezione delle superstrutture nel materialismo storico sia appunto una realizzazione dell’idealismo e della sua affermazione che la realtà del mondo è una costruzione dello spirito.

3°) La posizione delle scienze naturali o esatte nel quadro del materialismo storico. Questo è il problema più interessante e urgente da risolvere, per non cadere in un feticismo che è appunto una rinascita della religione sotto altre spoglie.

§219 «Saggio popolare». Residui di metafisica. Il modo di giudicare le concezioni passate filosofiche come delirio non è solo un errore di antistoricismo, cioè la pretesa anacronistica che nel passato si dovesse pensare come oggi, ma è un vero e proprio residuo di concezioni metafisiche, perché suppone un pensiero dogmatico valido in tutti i tempi e in ogni paese, alla cui stregua si giudica tutto il passato. In realtà l’«antistoricismo» in senso metodico è nient’altro che un residuo metafisico.

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La caducità storica dei sistemi filosofici passati è un concetto che non esclude che essi siano stati validi storicamente: la loro caducità è considerata dal punto di vista dell’intero svolgimento storico e della dialettica vita‑morte; che essi fossero degni di cadere, non è un giudizio morale o di «verità» obiettiva, ma dialettico-storico. (Cfr la presentazione fatta da Engels della proposizione hegeliana «tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale»): nel Saggio si giudica il passato come «irrazionale» e «mostruoso», la storia del passato è un trattato di teratologia, perché si parte da una concezione «metafisica» (ecco invece perché nel Manifesto è contenuto il più alto elogio del mondo che pure si presenta come morituro).

Così è da dire della concezione di una «oggettività» esteriore e meccanica, che corrisponde a una specie di «punto di vista del cosmo in sé», che è poi quello del materialismo filosofico, del positivismo e di certo scientismo. Ma che cos’è questo punto di vista, se non un residuo del concetto di dio, appunto nella sua concezione mistica di un «dio ignoto»?

§229 «Saggio popolare». Nelle osservazioni sul Saggio popolare, in quanto sono complessive, riguardano il metodo generale, si può ricordare quella della superficialità logica inerente al sistema orale di diffusione della cultura e della scienza (nel Saggio prefazione si ricorda come titolo d’onore l’origine «parlata» della trattazione). Si può ricordare il principio logico dell’ignorantia elenchi e della mutatio elenchi, poiché molti esempi si possono dare e dell’uno e dell’altro.

§232 «Saggio popolare». Giudizio sulle filosofie passate. Concepire come delirio il pensiero del passato non ha nessun significato teorico, anzi è una deviazione dalla filosofia della prassi.

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Avrà un significato educativo, energetico? Non pare, perché esso si ridurrebbe a credere di essere «qualcosa» solo perché si è nati nel tempo presente, invece che in uno dei secoli passati. Ma in ogni tempo c’è stato un passato e una contemporaneità e l’essere «contemporaneo» è un titolo solo per barzelletta. (Si racconta l’aneddoto di un borghesuccio francese che aveva nel suo biglietto da visita «contemporaneo»; egli aveva scoperto di essere «contemporaneo» e se ne vantava).

§239 Saggio popolare. Teleologia. In altra nota ho citato un epigramma di Goethe contro il teleologismo. Questo stesso spunto Goethe ripete in altra forma (cercare dove) e dice di averlo derivato da Kant: «Il Kant è il più eminente dei moderni filosofi, quello le cui dottrine hanno maggiormente influito nella mia coltura.

La distinzione del soggetto dall’oggetto ed il principio scientifico che ogni cosa esiste e si svolge per ragion sua propria ed intrinseca (che il sughero, a dirla proverbialmente, non nasce per servir di turacciolo alle nostre bottiglie) ebb’io comune col Kant, ed io in seguito applicai molto studio alla sua filosofia».

Cattolicesimo e altre Religioni

Chiesa e Stato

§15 Testimonianze cattoliche. «Si insidia e si sovverte lentamente l’unità religiosa della patria; s’insegna la ribellione alla Chiesa, rappresentandola quale semplice società umana, che si arrogherebbe diritti che non ha, e di rimbalzo si colpisce anche la società civile, e si preparano gli uomini all’insofferenza di ogni giogo. Poiché, scosso il giogo di Dio e della Chiesa, quale altro se ne troverà che possa frenare l’uomo, e costringerlo al dovere duro della vita quotidiana?»: «Civiltà Cattolica», 2 gennaio 1932, ultimo periodo dell’articolo Il regno di Dio secondo alcuni filosofi moderni.

Espressioni di questo genere sono diventate sempre più frequenti nella «Civiltà Cattolica» (accanto alle espressioni che propongono la filosofia di S. Tomaso come «filosofia nazionale» italiana, come «prodotto nazionale» che deve preferirsi ai prodotti stranieri) e ciò è per lo meno strano, perché è la teorizzazione esplicita della religione come strumento di azione politica.

§131 Nozioni enciclopediche e argomenti di cultura. 1) Il motto della «Civiltà Cattolica»: «Beatus populus cuius Dominus Deus eius». (Ps. 143, 15). Gli scrittori della rivista traducono così: «Beato il popolo che ha Dio per suo Signore». Ma è esatto? La traduzione è questa: «Beato il popolo che ha per signore il proprio Dio». Cioè il motto riproduce l’esaltazione della nazione ebrea e del Dio nazionale ebraico che ne era il Signore. Ora la «Civiltà Cattolica» vuole chiese nazionali, come è implicito nel motto? (Cfr la traduzione della Bibbia fatta dal Luzzi per l’accertamento dei testi).

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2) Religione e politica. Un argomento da studiare è questo: se esista un rapporto e quale sia tra l’unità religiosa di un paese e la molteplicità dei partiti e viceversa tra la unità relativa dei partiti e la molteplicità delle chiese e sette religiose. Si osserva che negli Stati Uniti, dove i partiti politici efficienti sono due o tre, esistono centinaia di chiese e sette religiose; in Francia dove l’unità religiosa è notevole, esistono decine e decine di partiti. Ciò che fa riflettere è il caso della Russia zarista, dove partiti politici normalmente e legalmente non esistevano o erano repressi ed esisteva la tendenza alla molteplicità delle sette religiose le più imbevute di fanatismo.

Si potrebbe spiegare osservando che sia il Partito che la Religione sono forme di concezione del mondo e che l’unità religiosa è apparente come è apparente l’unità politica: l’unità religiosa nasconde una reale molteplicità di concezioni del mondo che trovano espressione nei partiti, perché esiste «indifferentismo» religioso, come l’unità politica nasconde molteplicità di tendenze che trovano espressione nelle sette religiose ecc.

Ogni uomo tende ad avere una sola concezione del mondo organica e sistematica, ma poiché le differenziazioni culturali sono molte e profonde, la società assume una bizzarra variegazione di correnti che presentano un colorito religioso o un colorito politico a seconda della tradizione storica.

Clero

§14 Argomenti di cultura. I) Sul predicatore cattolico. La Controriforma elaborò un tipo di predicatore che si trova descritto nel De Predicatore Verbi Dei, Parigi, 1585. Alcuni canoni: 1°) sia la predicazione intonata all’uditorio: diversa quindi per un pubblico di campagnoli ed uno di cittadini, per nobili e plebei ecc.; 2°) il predicatore non deve indulgere alla eloquenza esteriore, non alla soverchia raffinatezza della forma; 3°) non si addentri in questioni troppo sottili e non faccia sfoggio di dottrina; 4°) non riferisca gli argomenti degli eretici dinanzi alla moltitudine inesperta, ecc.

Il tipo del predicatore elaborato dalla Controriforma lo si può trovare modernamente nel giornalista cattolico, poiché in realtà i giornalisti sono una varietà culturale del predicatore e dell’oratore.

Il punto 4° è specialmente interessante e serve a capire perché il più delle volte le polemiche coi giornali cattolici siano sterili di risultati: essi non solo non riportano gli «argomenti degli eretici», ma anche nel combatterli indirettamente, li storcono e li sfigurano, perché non vogliono che i lettori inesperti riescano a ricostruirli dalla polemica stessa. Spesso addirittura l’«eresia» è lasciata senza obbiezione, perché si ritiene minor male lasciarla circolare in un dato ambiente piuttosto che, combattendola, farla conoscere agli ambienti non ancora infetti.

II) Apostati e loro sistemi sleali di polemica. I cattolici si lamentano spesso, e con ragione, che gli apostati dal cattolicismo si servono degli argomenti degli eretici tacendone le confutazioni, ma presentandoli, agli inesperti, come novità originali non confutate. Nei seminari questi argomenti sono appunto esposti, analizzati, confutati nei corsi di apologetica: il prete spretato, con insigne slealtà intellettuale, ripresenta al pubblico quegli argomenti come suoi originali, come inconfutati e inconfutabili ecc.

Azione Cattolica

§129 Azione Cattolica. La debolezza di ogni organizzazione nazionale di Azione Cattolica consiste nel fatto che la sua azione è limitata e continuamente turbata dalle necessità di politica internazionale e interna, in ogni Stato, della Santa Sede. A misura che ogni Azione Cattolica nazionale si estende e diventa organismo di massa, essa tende a diventare un vero e proprio partito, le cui direttive sono imposte dalle necessità interne dell’organizzazione; ma questo processo non può diventare mai organico appunto per l’intervento della Santa Sede.

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In questo fatto è forse da ricercare la ragione per cui in Germania l’Azione Cattolica non è stata mai molto bene accetta: il Centro si era già tanto sviluppato come forza politico‑parlamentare, impegnata nelle lotte interne tedesche, che ogni formazione vasta di Azione Cattolica controllata strettamente dall’Episcopato, ne avrebbe compromesso la potenza attuale e le possibilità di sviluppo.

È da richiamare il conflitto avvenuto tra il Centro e il Vaticano, quando il Vaticano volle che il Centro approvasse le leggi militari di Bismarck, alle quali il Centro si era strenuamente opposto.

Sviluppo simile in Austria, dove il clericalismo è sempre stato forte politicamente come partito e non aveva bisogno di una vasta organizzazione permanente come quella di Azione Cattolica ma solo di greggi elettorali disorganiche sotto il tradizionale controllo dei parroci.

§8 Azione Cattolica. Pubblicazioni periodiche cattoliche.

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(Cifre ricavate dagli «Annali dell’Italia Cattolica» per il 1926 e che si riferiscono alla situazione esistente fino al settembre 1925). I cattolici pubblicavano 627 periodici, così classificati dagli «Annali»: 1°) Quotidiani 18, di cui 13 nell’Italia Settentrionale, 3 nella Centrale, 1 a Napoli, 1 in Sardegna; 2°) Periodici di formazione e propaganda cattolica 121, di cui 83 nel Settentrione, 22 nel Centro, 12 nel Mezzogiorno, 1 in Sardegna, 4 in Sicilia; 3°) Bollettini ufficiali di Azione Cattolica (Giunta Centrale e Organizzazioni Nazionali) 17, di cui 1 a Bologna, 5 a Milano, 11 a Roma; 4°) Pubblicazioni di Azione Cattolica nelle Diocesi 71, di cui 46 nel Settentrione, 15 nel Centro, 5 nel Mezzogiorno, 1 in Sardegna, 3 in Sicilia; 5°) Periodici ufficiali di opere e organizzazioni diverse 42, di cui 26 nel Settentrione, 15 nel Centro (tutti a Roma), 1 nel Mezzogiorno; 6°) Bollettini diocesani 134 di cui 44 nel Settentrione, 33 nel Centro, 43 nel Mezzogiorno, 2 in Sardegna, 9 in Sicilia; 7°) Periodici religiosi 177, di cui 89 nel Settentrione, 53 nel Centro, 25 nel Mezzogiorno, 3 in Sardegna, 6 in Sicilia; 8°) Periodici di cultura (arte, scienze e lettere) 41, di cui 17 nel Settentrione, 16 nel Centro, 5 nel Mezzogiorno, 3 in Sicilia; 9°) Periodici giovanili 16 di cui 10 nel Settentrione, 2 nel Centro, 2 nel Mezzogiorno, 2 in Sicilia.

Delle 627 pubblicazioni, 328 escono nel Settentrione, 161 nel Centro, 94 nel Mezzogiorno, 8 in Sardegna, 27 in Sicilia. Sono queste le cifre statistiche, ma se si tiene conto dell’importanza delle singole pubblicazioni il peso del Settentrione aumenta e di molto. Sono da calcolare nel 25 circa 280 diocesi e circa 220 Giunte diocesane di Azione Cattolica. Bisognerebbe fare dei confronti col 19‑20 e col periodo posteriore al Concordato. La composizione dei periodici deve essere molto mutata: quotidiani e periodici di formazione e propaganda molto diminuiti, perché più strettamente legati alla fortuna del Partito Popolare e all’attività politica. Ricordare episodi per cui ai settimanali fu proibito in alcune province di pubblicare réclame e orari tranviari e ferroviari ecc.

Altro

§111 Religione. La contraddizione creata dagli intellettuali che non credono, che sono giunti all’ateismo e a «vivere senza religione» attraverso la scienza o la filosofia, ma sostengono che la religione è necessaria per la organizzazione sociale: la scienza sarebbe contro la vita, ci sarebbe contraddizione tra scienza e vita. Ma come il popolo può amare questi intellettuali, ritenerli elementi della propria personalità nazionale?

La situazione si riproduce nel Croce, sebbene meno scandalosamente di ciò che sia avvenuto per alcuni intellettuali francesi (il Taine è classico per ciò e ha creato i Maurras del nazionalismo integrale). Mi pare che il Croce accenni in qualche parte sdegnosamente al Disciple di Bourget, ma non è proprio questo l’argomento trattato dal Bourget, sia pure con quel consequenziarismo razionalistico proprio della cultura francese?

Posizione del Kant tra la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica per ciò che riguarda Dio e la religione.

Intellettuali

Storia degli intellettuali

§22 Storia degli intellettuali. Spunti di ricerca. La repubblica di Platone. Quando si dice che Platone vagheggiava una «repubblica di filosofi» bisogna intendere «storicamente» il termine di filosofi che oggi dovrebbe tradursi con «intellettuali» (naturalmente Platone intendeva i «grandi intellettuali» che erano d’altronde il tipo di intellettuale del tempo suo, oltre a dare importanza al contenuto specifico dell’intellettualità che in concreto potrebbe dirsi di «religiosità»: gli intellettuali di governo cioè erano quei determinati intellettuali più vicini alla religione, la cui attività cioè aveva un carattere di religiosità intesa nel significato generale del tempo e speciale di Platone, e perciò attività in certo senso «sociale», di elevazione ed educazione e direzione intellettuale, quindi con funzione di egemonia della polis).

Si potrebbe perciò forse sostenere che l’«utopia» di Platone precorre il feudalismo medioevale, con la funzione che in esso è propria della Chiesa e degli ecclesiastici, categoria intellettuale di quella fase dello sviluppo storico‑sociale. L’avversione di Platone per gli «artisti» è da intendersi pertanto come avversione alle attività spirituali «individualistiche» che tendono al «particolare», quindi «areligiose», «asociali».

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Gli intellettuali nell’Impero Romano. Il mutamento della condizione della posizione sociale degli intellettuali a Roma dal tempo della Repubblica all’Impero (da un regime aristocratico‑corporativo a un regime democratico‑burocratico) è legato a Cesare che conferì la cittadinanza ai medici e ai maestri delle arti liberali affinché abitassero più volentieri a Roma e altri vi fossero richiamati: «Omnesque medicinam Romae professos et liberalium artium doctores, quo libentius et ipsi urbem incolerent et coeteri appeterent civitate donavit»: Svetonio, Vita di Cesare, XLII, Cesare si propose quindi: 1°) di far stabilire a Roma gli intellettuali che già vi si trovavano, creando così una permanente categoria di essi, perché senza la permanenza non poteva crearsi un’organizzazione culturale. Ci sarà stata precedentemente una fluttuazione che era necessario arrestare ecc.; 2°) di attirare a Roma i migliori intellettuali di tutto l’Impero romano, promovendo una centralizzazione di grande portata. Così ha inizio quella categoria di intellettuali «imperiali» a Roma, che continuerà nel clero cattolico e lascerà tante tracce in tutta la storia degli intellettuali italiani con la loro caratteristica di «cosmopolitismo» fino al ’700.

§109 Gli intellettuali. Latino ecclesiastico e volgare nel MedioEvo. «La predicazione in lingua volgare risale in Francia alle origini stesse della lingua. Il latino era la lingua della Chiesa: così le prediche erano fatte in latino ... ai chierici (cleres), ai frati, anche alle monache. Ma per i laici le prediche erano fatte in francese. Fin dal IX secolo, i concilii di Tours e di Reims ordinano ai preti d’istruire il popolo nella lingua del popolo. Ciò era necessario per essere compresi.

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Nel secolo XII vi fu una predicazione in volgare, attiva, vivace, potente, che trascinava grandi e piccoli alla crociata, riempiva i monasteri, gettava in ginocchio e in tutti gli eccessi della penitenza intere città. Dall’alto dei loro pulpiti, sulle piazze, nei campi, i predicatori erano i direttori pubblici della coscienza degli individui e delle folle; tutto e tutti passano sotto la loro aspra censura, e dalle sfrontate acconciature delle donne nessuna parte segreta o visibile della corruzione del secolo sconcertava l’audacia del loro pensiero o della loro lingua»

(Lanson, Storia della letteratura francese, Hachette, 19° ed., pp. 160‑61). Il Lanson dà questi dati bibliografici: abbé L. Bourgain, La Chaire française au XII e siècle, Parigi, 1879; Lecoy de la Marche, La Chaire française ou moyen âge, 2e ed., Paris, 1886; Langlois, L’Éloquence sacrée au moyen âge, «Revue des Deux Mondes», 1° gennaio 1893.

§113 Storia degli intellettuali. L’Umanesimo. Studiare la riforma pedagogica introdotta dall’umanesimo: la sostituzione della «composizione scritta» alla «disputa orale», per esempio, che ne è uno degli elementi «pratici» più significativi. (Ricordare alcune note sul modo di diffusione della cultura per via orale, per discussione dialogica, attraverso l’oratoria, che determina un’argomentazione poco rigorosa, e produce la convinzione immediata più che altro per via emotiva).

§24 Storia degli intellettuali. Gli Elementi di scienza politica del Mosca (nuova edizione aumentata del 1923) sono da esaminare per questa rubrica. La cosiddetta «classe politica» del Mosca non è altro che la categoria intellettuale del gruppo sociale dominante: il concetto di «classe politica» del Mosca è da avvicinare al concetto di élite del Pareto, che è un altro tentativo di interpretare il fenomeno storico degli intellettuali e la loro funzione nella vita statale e sociale. Il libro del Mosca è un enorme zibaldone di carattere sociologico e positivistico, con in più la tendenziosità della politica immediata che lo rende meno indigesto e letterariamente più vivace.

Txt: Mosca - Elementi di scienza politica (II edizione)

§30 Storia degli intellettuali italiani. Gioberti. Importanza del Gioberti per la formazione del carattere nazionale moderno degli intellettuali italiani. Sua funzione accanto al Foscolo. In una nota precedente osservazioni sulla soluzione formale data dal Gioberti al problema nazionale‑popolare come contemperamento di conservazione e innovazione, come «classicità nazionale». Soluzione formale non solo del maggior problema politico‑sociale, ma anche di quelli derivati, come quello di una letteratura nazionale‑popolare. Occorrerà rivedere ai fini di questo studio le maggiori pubblicazioni polemiche del Gioberti: il Primato e il Rinnovamento, gli scritti contro i gesuiti (Prolegomeni e il Gesuita moderno). Libro dell’Anzilotti sul Gioberti.

§187 Intellettuali. Nella concezione non solo della scienza politica, ma in tutta la concezione della vita culturale e spirituale, ha avuto enorme importanza la posizione assegnata da Hegel agli intellettuali, che deve essere accuratamente studiata. Con Hegel si incomincia a non pensare più secondo le caste o gli «stati» ma secondo lo «Stato», la cui «aristocrazia» sono appunto gli intellettuali. La concezione «patrimoniale» dello Stato (che è il modo di pensare per «caste») è immediatamente la concezione che Hegel deve distruggere (polemiche sprezzanti e sarcastiche contro von Haller). Senza questa «valorizzazione» degli intellettuali fatta da Hegel non si comprende nulla (storicamente) dell’idealismo moderno e delle sue radici sociali.

§188 Gli intellettuali. Organizzazione della vita culturale. Studiare la storia della formazione e della attività della «Società Italiana per il progresso della Scienza».

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Sarà da studiare anche la storia della «Associazione britannica» che mi pare sia stato il prototipo di questo genere di organizzazioni private. La caratteristica più feconda della Società Italiana è nel fatto che essa raggruppa tutti gli «amici della scienza», chierici e laici, per così dire, specialisti e «dilettanti». Essa dà il tipo embrionale di quell’organismo che ho abbozzato in altre note, nel quale dovrebbe confluire e rinsaldarsi il lavoro delle Accademie e delle Università con le necessità di cultura scientifica delle masse nazionali‑popolari, riunendo la teoria e la pratica, il lavoro intellettuale e quello industriale che potrebbe trovare la sua radice nella Scuola unica.

Lo stesso potrebbe dirsi del Touring Club, che è essenzialmente una grande associazione di amici della geografia e dei viaggi, in quanto si incorporano in determinate attività sportive (turismo = geografia + sport), cioè la forma più popolare e dilettantesca dell’amore per la geografia e per le scienze che vi si connettono (geologia, mineralogia, botanica, speleologia, cristallografia ecc.). Perché dunque il Touring Club non dovrebbe organicamente connettersi con gli Istituti di geografia e con le Società geografiche? C’è il problema internazionale: il Touring ha un quadro essenzialmente nazionale, mentre le Società geografiche si occupano di tutto il mondo geografico. Connessione del turismo con le società sportive, con l’alpinismo, canottaggio ecc., escursionismo in genere: connessione con le arti figurative e con la storia dell’arte in generale. In realtà potrebbe connettersi con tutte le attività pratiche, se le escursioni nazionali e internazionali si collegassero con periodi di ferie (premio) per il lavoro industriale e agricolo.

§171 Sul «Saggio popolare». La quistione di nomenclatura e di contenuto. Una caratteristica degli intellettuali come categoria sociale cristallizzata (come categoria sociale che concepisce se stessa come continuazione ininterrotta nella storia, quindi al di sopra delle lotte di gruppi e non come espressione di un processo dialettico, per cui ogni gruppo sociale dominante elabora una propria categoria di intellettuali) è appunto di ricongiungersi, nella sfera ideologica, a una precedente categoria intellettuale, attraverso una stessa nomenclatura di concetti.

Una nuova situazione storica crea una nuova superstruttura ideologica, i cui rappresentanti (gli intellettuali) devono essere concepiti come anch’essi «nuovi intellettuali», nati dalla nuova situazione e non continuazione della precedente intellettualità. Se i «nuovi» intellettuali si pongono come continuazione diretta della precedente intellettualità essi non sono affatto «nuovi», essi non sono legati al nuovo gruppo sociale che rappresenta la nuova situazione storica, ma ai rimasugli del vecchio gruppo sociale di cui la vecchia intellettualità era espressione.

Tuttavia avviene che nessuna nuova situazione storica, sia essa pur dovuta al mutamento più radicale, muta completamente il linguaggio, almeno nel suo aspetto esterno, formale. Ma il contenuto del linguaggio è mutato, e di questa mutazione è difficile avere una coscienza esatta immediatamente.

D’altronde il fenomeno è storicamente complesso e complicato dalla diversa cultura tipica dei diversi strati del nuovo gruppo sociale, molti dei quali, nel terreno ideologico, sono ancora immersi nella cultura di situazioni storiche precedenti. Una classe, di cui molti strati sono ancora alla concezione tolemaica, può essere la rappresentante di una situazione storica molto progredita: questi strati, se ideologicamente arretrati, praticamente (cioè come funzione economica e politica) sono avanzatissimi ecc.

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Se compito degli intellettuali è quello di determinare e organizzare la rivoluzione culturale, cioè di adeguare la cultura alla funzione pratica, è evidente che gli intellettuali «cristallizzati» sono reazionari ecc.

La quistione della nomenclatura filosofica è, per così dire, «attiva e passiva»: si accetta non solo l’espressione ma anche il contenuto di un concetto di una intellettualità superata, mentre si respinge la espressione di un’altra intellettualità passata, anche se essa ha mutato di contenuto ed è divenuta efficace a esprimere il nuovo contenuto storico‑culturale. Così è avvenuto per il termine «materialismo», accettato col contenuto passato, e per il termine «immanenza» respinto perché nel passato aveva un determinato contenuto storico‑culturale.

La difficoltà di adeguare l’espressione letteraria al contenuto concettuale e di confondere le quistioni lessicali con le quistioni sostanziali e viceversa è caratteristica del dilettantismo filosofico, di una mancanza di senso storico nel cogliere i diversi momenti di un processo di sviluppo culturale e quindi storico in generale, cioè di concezione antidialettica, dogmatica prigioniera di schemi astratti di logica formale.

§4 Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. In Ungheria.

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Il «Marzocco» del 4 ottobre 1931 riassume dall’«Illustrazione Toscana» un articolo del dott. Ladislao Holik‑Barabàs su Filippo Scolari detto Pippo Spano che fu «una delle figure più caratteristiche fra gli italiani che hanno portato lungi dalla patria straordinarie energie conquistando gradi eminenti nei paesi d’elezione». Lo Scolari fu successivamente intendente delle miniere, poi liberatore del sovrano, re Sigismondo d’Ungheria, conte di Temesvar, governatore generale dell’Ungheria e condottiero degli Ungheresi contro i Turchi. Pippo Spano morì il 27 dicembre 1426.

§165 A. Oriani. Occorre studiarlo come il rappresentante più onesto e appassionato per la grandezza nazionale‑popolare italiana fra gli intellettuali italiani della vecchia generazione. La sua posizione non è però critica‑ricostruttiva, e quindi tutti i motivi della sua sfortuna e dei suoi fallimenti. In realtà a chi si richiamava l’Oriani? Non alle classi dominanti, da cui tuttavia si attendeva riconoscimenti e onori, nonostante le sue diatribe corrosive. Non ai repubblicani, cui tuttavia si apparenta la sua forma mentale recriminatoria.

La Lotta politica sembra il manifesto per un grande movimento democratico nazionale popolare, ma l’Oriani è troppo imbevuto di filosofia idealistica, quale si venne foggiando nell’epoca della Restaurazione, per saper parlare al popolo come capo e come eguale nello stesso tempo, per far partecipare il popolo alla critica di se stesso e delle sue debolezze senza tuttavia fargli perdere la fede nella propria forza e nel proprio avvenire. La debolezza dell’Oriani è in questo carattere meramente intellettuale delle sue critiche, che creano una nuova forma di dottrinarismo e di astrattismo. Tuttavia vi è un movimento abbastanza sano di pensiero che si dovrebbe approfondire.

La fortuna di Oriani in questi ultimi tempi è più un’imbalsamazione funeraria che un’esaltazione di nuova vita del suo pensiero.

Ant.: Gramsci su Oriani

Mat. Bibl.: Articoli su Oriani

Txt: A. Oriani - La lotta politica in Italia

Txt: A. Oriani - La rivolta ideale

Machiavelli

§21 Il moderno Principe. Sotto questo titolo potranno raccogliersi tutti gli spunti di scienza politica che possono concorrere alla formazione di un lavoro di scienza politica che sia concepito e organizzato sul tipo del Principe del Machiavelli. Il carattere fondamentale del Principe è appunto quello di non essere una trattazione sistematica, ma un libro «vivente», in cui l’ideologia diventa «mito» cioè «immagine» fantastica e artistica tra l’utopia e il trattato scolastico, in cui l’elemento dottrinale e razionale si impersona in un «condottiero» che presenta plasticamente e «antropomorficamente» il simbolo della «volontà collettiva».

Il processo per la formazione della «volontà collettiva» viene presentato non attraverso una pedantesca disquisizione di principii e di criterii di un metodo d’azione, ma come «doti e doveri» di una personalità concreta, che fa operare la fantasia artistica e suscita la passione.

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Il Principe del Machiavelli potrebbe essere studiato come una esemplificazione storica del «mito» sorelliano, cioè dell’ideologia politica che si presenta non come fredda utopia né come dottrinario raziocinio, ma come «fantasia» concreta operante su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva.

Il carattere utopistico del Principe è dato dal fatto che il «principe» non esisteva realmente, storicamente, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza storica, ma era esso stesso un’astrazione dottrinaria, il simbolo del capo in generale, del «condottiero ideale».

Si può studiare come mai il Sorel, dalla concezione del «mito» non sia giunto alla concezione del partito politico, attraverso la concezione del sindacato economico; ma per il Sorel il mito non si impersonava nel sindacato, come espressione di una volontà collettiva, ma nell’azione pratica del sindacato e della volontà collettiva già organizzata e operante, azione pratica, la cui realizzazione massima avrebbe dovuto essere lo sciopero generale, cioè una «attività passiva» per così dire, non ancora passata alla fase «attiva o costruttiva». Ma può essere un mito «non‑costruttivo», può immaginarsi, nell’ordine di intuizioni del Sorel, che sia produttivo ciò che lascia la «volontà collettiva» alla sua fase primitiva di formarsi, distinguendosi (scindendosi), per distruggere?

Il moderno Principe, il mito‑Principe non può essere una persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organismo, un elemento sociale nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico, la forma moderna in cui si riassumono le volontà collettive parziali che tendono a diventare universali e totali.

Solo un’azione politico‑storica immediata, caratterizzata dalla necessità di un procedimento rapido e fulmineo, può incarnarsi in un individuo concreto: la rapidità non può essere data che da un grande pericolo imminente, grande pericolo che appunto crea fulmineamente l’arroventarsi delle passioni e del fanatismo e annulla il senso critico e l’ironia che possono distruggere il carattere «carismatico» del condottiero (esempio del Boulanger).

Ma questa azione immediata, per ciò stesso non può essere di vasto respiro e di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuove strutture nazionali e sociali (come era il caso nel Principe di Machiavelli, in cui l’aspetto restaurazione se mai era di tinta retorica, cioè legato al concetto dell’Italia discendente di Roma e che doveva restaurare l’ordine romano); di tipo «difensivo» e non creativo, in cui si suppone che una «volontà collettiva» già esistente si sia snervata e dispersa e occorra riconcentrarla e irrobustirla, e non già che una «volontà collettiva» sia da creare ex‑novo e da indirizzare verso mete concrete sì, ma di una concretezza non ancora verificata dall’esperienza passata.

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Il carattere «astratto» (spontaneista) del Sorel appare dalla sua avversione (che assume la forma passionale di una repugnanza etica) per i giacobini che furono una «incarnazione» «categorica» del Principe di Machiavelli.

Il moderno Principe deve avere una parte dedicata al giacobinismo (nel senso completo della nozione già fissata in altre note) come esempio di come si forma una concreta e operante volontà collettiva. E occorre che si definisca la «volontà collettiva» e la volontà politica in generale nel senso moderno, la volontà come coscienza operosa della necessità storica, come protagonista di un reale e immediato dramma storico. Il primo capitolo (parte) appunto dovrebbe essere dedicato alla «volontà collettiva» impostando la quistione così: esistono le condizioni fondamentali perché possa suscitarsi una volontà collettiva nazionale‑popolare? Quindi un’analisi storica (economica) della struttura sociale del paese dato e una rappresentazione «drammatica» dei tentativi fatti attraverso i secoli per suscitare questa volontà e le ragioni dei successivi fallimenti.

Perché in Italia non si ebbe la monarchia assoluta al tempo di Machiavelli? Bisogna salire fino all’impero romano (quistione degli intellettuali e della lingua) per comprendere i Comuni medioevali e la funzione della Chiesa. La ragione dei successivi fallimenti nel tentativo di creare una volontà collettiva nazionale popolare è da porsi nell’esistenza di certe classi e nel particolare carattere di altre dipendente dalla situazione internazionale dell’Italia (sede della Chiesa universale).

Questa posizione determina all’interno una situazione che si può chiamare «economico‑corporativa», cioè politicamente, una forma particolare di feudalismo anarchico: mancò sempre una forza «giacobina» efficiente, la forza appunto che crea la volontà collettiva nazionale popolare, fondamento di tutti gli Stati moderni. Esistono finalmente le condizioni per questa volontà, ossia quale è il rapporto attuale tra queste condizioni e le forze opposte?

Tradizionalmente le forze opposte sono l’aristocrazia terriera e più generalmente la proprietà terriera nel suo complesso, cioè quella speciale «borghesia terriera» che è l’eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo della borghesia comunale (le cento città, le città del silenzio). Ogni formazione di volontà collettiva nazionale popolare è impossibile senza che le masse dei contadini coltivatori entrino simultaneamente nella vita politica. Ciò voleva il Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese, in ciò consiste il giacobinismo precoce di Machiavelli, il germe fecondo della sua concezione (della) rivoluzione nazionale.

Tutta la storia dal 1815 in poi è lo sforzo delle classi tradizionali per non lasciar formare una volontà nazionale, ma per mantenere il potere «economico‑corporativo» in un sistema internazionale di equilibrio rimorchiato ecc.

Una parte importante del moderno Principe è la quistione di una riforma intellettuale e morale, cioè la quistione religiosa o di una concezione del mondo. Anche in questo campo troviamo assenza di «giacobinismo» e paura del «giacobinismo» espresse in forme filosofiche (ultimo esempio: Benedetto Croce).

Il moderno Principe deve essere il banditore di una riforma intellettuale e morale, che è il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare nel terreno di una forma compiuta e totale di civiltà moderna.

Realmente il moderno Principe dovrebbe limitarsi a questi due punti fondamentali: formazione di una volontà collettiva nazionale popolare di cui il moderno Principe è appunto espressione attiva e operante, e riforma intellettuale e morale.

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I punti concreti di programma d’azione devono essere incorporati nel primo punto, cioè devono risultare «drammaticamente» dal discorso, non essere una fredda esposizione di raziocini. (Può esserci riforma culturale, e cioè elevamento culturale degli elementi depressi della società, senza una precedente riforma economica e un mutamento nel tenore economico di vita? Perciò la riforma intellettuale e morale è sempre legata ad un programma di riforma economica, anzi il programma di riforma economica è il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale.

Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni azione è utile o dannosa, virtuosa o scellerata, in quanto ha come punto concreto di riferimento il moderno Principe e incrementa il suo potere o lo combatte. Egli prende il posto, nelle coscienze, della divinità e dell’imperativo categorico, egli è la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume).

Mat. Bibl.: Interpretazioni del pensiero del Machiavelli

Ant.: Il moderno Principe (da Intratext).:

Txt: Il Principe di Machiavelli

§37 Il moderno Principe. In questa serie di osservazioni potrebbero trovare posto le note scritte a proposito dello studio delle situazioni e di ciò che occorre intendere per «rapporti di forza». Lo studio di come occorre analizzare le «situazioni», cioè di come occorre stabilire i diversi gradi di rapporti di forza, potrebbe prestarsi a una esposizione elementare di scienza politica, intesa come un insieme di canoni pratici di ricerca. Insieme un’esposizione di ciò che in politica occorre intendere per strategia e tattica per «piano», per propaganda e agitazione, elementi di organizzazione ecc.

Gli elementi pratici che sono esposti di solito alla rinfusa nei trattati di politica (si può prendere come esemplare gli Elementi di scienza politica del Mosca) dovrebbero, in quanto non sono quistioni astratte o campate in aria, trovar posto nei vari settori dei rapporti di forza, iniziando con i rapporti di forza internazionale (in cui entrerebbero le note scritte su ciò che è una grande potenza) per passare ai rapporti obbiettivi sociali, cioè al grado di sviluppo delle forze produttive, ai rapporti di forza politica (o di egemonia) o di partito, e ai rapporti militari o meglio politici immediati.

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I rapporti internazionali precedono o seguono i rapporti sociali fondamentali? Seguono indubbiamente. Ogni innovazione organica nella struttura modifica organicamente i rapporti assoluti e relativi nel campo internazionale attraverso le sue espressioni tecnico‑militari. Anche la posizione geografica di uno Stato nazionale non precede ma segue le innovazioni strutturali, pur reagendo su di esse in una certa misura (nella misura appunto in cui le superstrutture reagiscono sulla struttura, la politica sull’economia). D’altronde i rapporti internazionali reagiscono passivamente e attivamente specialmente sui rapporti politici (di egemonia dei partiti).

Quanto più la vita economica immediata di una nazione è subordinata ai rapporti internazionali, tanto più un determinato partito rappresenta questa situazione e la sfrutta per impedire il sopravvento dei partiti avversari. Da questa serie di fatti si può giungere alla conclusione che spesso il così detto «partito dello straniero» non è proprio quello che come tale viene volgarmente indicato, ma proprio il partito più nazionalistico (un accenno a questo elemento internazionale «repressivo» delle energie interne, si trova negli articoli di G. Volpe pubblicati dal «Corriere» del 22 e 23 marzo) che in realtà, più che rappresentare le forze vitali del proprio paese, ne rappresenta la subordinazione e l’asservimento economico verso le nazioni o un gruppo di nazioni egemoniche.

§43 Machiavelli. Oltre che dall’esempio delle grandi monarchie assolute di Francia e Spagna, il Machiavelli fu spinto alla sua concezione politica del principato unitario dal ricordo del passato romano, ma non astrattamente, bensì attraverso gli avvenimenti dell’Umanesimo e del Rinascimento: «questa provincia (l’Italia) pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura» scrive nell’Arte della guerra, libro VII, perché dunque non ritroverebbe la virtù militare? ecc. Cercare se nel Machiavelli altri accenni del genere.

§44 Massimario machiavellico. Prendendo come spunto l’affermazione del Foscolo nei Sepolcri che il Machiavelli «temprando lo scettro ai regnatori, gli allor ne sfronda ed alle genti svela di che lacrime grondi e di che sangue» si potrebbe fare una raccolta di tutte le massime «universali» del Machiavelli e ordinarle commentandole e volgarizzandole opportunamente.

§48 Machiavelli. Il moderno Principe. Grande politica e piccola politica. La grande politica abbraccia le quistioni connesse alla fondazione di nuovi Stati e colla lotta per la difesa e la conservazione di una determinata struttura sociale politica. La piccola politica le quistioni parziali e quotidiane che si pongono nell’interno di una struttura già stabilita per le lotte di preminenza tra le diverse frazioni di una stessa classe politica.

È invece da dilettanti porre le quistioni in modo tale che ogni elemento di piccola politica non può non diventare quistione di grande politica, di riorganizzazione statale.

La politica internazionale ripresenta due forme: 1) la grande politica per le quistioni che riguardano la statura relativa dei singoli Stati nei confronti reciproci; 2) la piccola politica le quistioni diplomatiche minute nell’interno di una organizzazione già consolidata.

Il Machiavelli studia solo le quistioni di grande politica: creazione di nuovi Stati, conservazione e difesa delle nuove strutture: quistioni di dittatura e di egemonia su vasta scala, cioè su tutta l’area statale. Il Russo nei Prolegomeni fa del Principe il trattato della dittatura (momento dell’autorità e dell’individuo) e dei Discorsi quello dell’egemonia o del consenso accanto a quello dell’autorità e della forza: certo però l’osservazione è giusta. Così è giusta l’osservazione che non c’è opposizione di principio tra principato e repubblica, ma si tratta piuttosto della ipostasi dei due momenti di autorità e universalità.

§52 Machiavelli. Il moderno Principe. La quistione della classe politica (cfr i libri di Gaetano Mosca). Ma nel Mosca la quistione è posta in modo insoddisfacente: non si capisce neanche esattamente cosa il Mosca intenda precisamente per classe politica, tanto la nozione è ondeggiante ed elastica.

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Pare abbracci tutte le classi possidenti, tutta la classe media; ma quale allora la funzione della classe alta? Altre volte pare si riferisca solo a un’aristocrazia politica al «personale politico» di uno Stato e ancora, a quella parte che opera «liberamente» nel sistema rappresentavo, cioè con esclusione della burocrazia anche nel suo strato superiore, che per il Mosca deve essere controllata e guidata dalla classe politica.

La deficienza del Mosca appare nel fatto che egli non affronta nel suo complesso il problema del «partito politico» e si capisce, dato il carattere dei suoi libri e specialmente degli Elementi di scienza politica. L’interesse del Mosca ondeggia tra una posizione «obbiettiva» e disinteressata di scienziato e una posizione appassionata di immediato uomo di parte che vede svolgersi avvenimenti che lo angustiano e ai quali vuole reagire. Le due parti del libro scritte in due momenti tipici della storia politico‑sociale italiana, nel 1895 e nel 1923, mentre la classe politica si disintegra e non riesce a trovare un terreno solido di organizzazione.

Nel moderno Principe la quistione dell’uomo collettivo, cioè del «conformismo sociale» ossia del fine di creare un nuovo livello di civiltà, educando una «classe politica» che già in idea incarni questo livello: quindi quistione della funzione e dell’atteggiamento di ogni individuo fisico nell’uomo collettivo; quistione anche di ciò che è la «natura» del diritto secondo una nuova concezione dello Stato, realistica e positiva.

Anche la quistione della cosidetta «rivoluzione permanente», concetto politico sorto verso il 1848, come espressione scientifica del giacobinismo in un periodo in cui non si erano ancora costituiti i grandi partiti politici e i grandi sindacati economici e che ulteriormente sarà composto e superato nel concetto di «egemonia civile».

La quistione della guerra di posizione e della guerra di movimento, con la quistione dell’arditismo, in quanto connesse con la scienza politica: concetto quarantottesco della guerra di movimento in politica è appunto quello della rivoluzione permanente: la guerra di posizione, in politica, è il concetto di egemonia, che può nascere solo dopo l’avvento di certe premesse e cioè: le grandi organizzazioni popolari di tipo moderno, che rappresentano come le «trincee» e le fortificazioni permanenti della guerra di posizione.

Anche la quistione del valore delle ideologie; polemica Malagodi-Croce; osservazione del Croce sul «mito» del Sorel, che si può ritorcere contro la sua «passione»; le «ideologie» come «strumento pratico» di azione politica devono essere studiate in un trattato di politica.

§56 Machiavelli. Il moderno Principe. La concezione del Croce, della politica‑passione, esclude i partiti, perché non si può pensare a una «passione» organizzata e permanente: la passione permanente è uno stato spasmodico, Esclude il partito ed esclude ogni «piano» d’azione concertato preventivamente. Ma la concezione dovrebbe essere applicabile anche alla guerra e quindi dovrebbe spiegare il fatto degli eserciti permanenti. La guerra è un momento della vita politica, è la continuazione, in altre forme, di una determinata politica: bisogna dunque spiegare come la «passione» possa diventare «dovere» morale di morale politica.

Sui «piani politici», che sono connessi ai partiti, cioè a formazioni permanenti, ricordare ciò che Moltke diceva dei piani militari: che essi non possono essere elaborati e fissati in precedenza in tutti i loro dettagli, ma solo nel loro nucleo e disegno centrale, perché le particolarità dell’azione dipendono in una certa misura dalle mosse dell’avversario. Per Croce tutto ciò dovrebbe essere assurdo, perché appunto nei particolari si manifesta la «passione». Nella critica al Croce vale il concetto che la teoria deve essere d’accordo con la storia, coi fatti della storia, né vale o può valere la posizione negativa di mostrare che una determinata opinione o spiegazione proposta non è filosoficamente valida: questa posizione è uno stadio iniziale della critica, che non può accontentare, perché lascia il problema insoluto.

§58 Machiavelli. Lo Schopenhauer avvicina l’educazione politica del Machiavelli a quella fornita dal maestro di scherma, che insegna l’arte di ammazzare («e di non farsi ammazzare»), ma non insegna a diventare sicari e assassini.

§61 Machiavelli. La quistione: che cosa è la politica, cioè quale posto l’attività politica deve avere in una concezione del mondo sistematica (coerente e conseguente), in una filosofia della praxis, è la prima quistione da risolvere in una trattazione sul Machiavelli, perché è la quistione della filosofia come scienza. Progresso fatto fare dal Croce, a questo proposito, agli studi sul Machiavelli e sulla scienza politica, progresso che consiste essenzialmente nella caduta di una serie di problemi falsi e inesistenti.

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Il Croce si è fondato sulla sua distinzione di momenti dello Spirito, e sull’affermazione di un momento della pratica, di uno spirito pratico, autonomo e indipendente, sebbene legato circolarmente all’intera realtà con la mediazione della dialettica dei distinti. Dove tutto è pratica, in una filosofia della praxis, la distinzione non sarà tra momenti dello Spirito assoluto, ma tra struttura e superstrutture, si tratterà di fissare la posizione dialettica dell’attività politica come distinzione nelle superstrutture, e si potrà dire che l’attività politica è appunto il primo momento o primo grado delle superstrutture, è il momento in cui tutte le superstrutture sono ancora nella fase immediata di mera affermazione volontaria, indistinta ed elementare.

In che senso si può parlate di identità di storia e politica e quindi che tutta la vita è politica. Come tutto il sistema delle superstrutture possa concepirsi come sistema di distinzioni della politica, e quindi introduzione del concetto di distinzione nella filosofia della praxis. Ma si può parlare di dialettica dei distinti? Concetto di blocco storico, cioè di unità tra la natura e lo spirito, unità di opposti e di distinti. Se la distinzione introdotta nelle superstrutture, si introdurrà nella struttura. Come sarà da intendere la struttura: come nel fatto economico si potrà distinguere l’«elemento» tecnica, scienza, lavoro, classe ecc., intesi «storicamente» e non «metafisicamente».

Critica della posizione del Croce per cui, polemicamente, la struttura diventa un «dio ascoso», un «noumeno», in contrapposizione alle «apparenze» superstrutturali. «Apparenze» in senso metaforico e in senso positivo. Perché furono «storicamente» chiamate «apparenze»: proprio il Croce ha estratto, da questa concezione generale, la sua particolare dottrina dell’errore e della origine pratica dell’errore. Per il Croce l’errore ha origine in una «passione» immediata, cioè di carattere individuale o di gruppo; ma non può esistere una «passione» di portata storica più larga; la passione‑interesse del Croce, che determina l’errore, è il momento che nelle glosse a Feuerbach si chiama «schmutzig‑jüdisch»1.

Come la passione «schmutzig‑jüdisch» determina l’errore immediato, così la passione del più vasto gruppo sociale determina l’«errore» filosofico (intermedio l’«errore» ‑ ideologia, di cui il Croce tratta a parte): l’importante quindi in questa serie non è l’«egoismo», l’ideologia, la filosofia, ma il termine «errore», cui non sarà da dare un significato moralistico o dottrinario‑metafisico, ma puramente «storico» dialettico, di «ciò che è storicamente caduco e degno di cadere», della «non‑definitività» della filosofia della «morte‑vita», dell’«essere ‑ non essere», cioè del termine dialettico da superare individualmente (morale), come gruppo (nell’interno suo), come società‑storia.

In queste ricerche si può partire dalla stessa posizione assunta dal Marx in confronto di Hegel: in Hegel, si dice nella Sacra famiglia, si può finire col vedere la realtà, anche se essa è capovolta, come, per dir così, si vede nella macchina fotografica, in cui le immagini sono rovesciate e il cielo occupa il posto della terra; basta porre l’uomo sui suoi piedi. Si tratta dunque di prendere la «realtà» crociana e metterla in piedi ecc.

Note

§69 Machiavelli. (Bacone ha chiamato i «Re Magi» i tre re che iniziano energicamente le monarchie assolute: Luigi XI di Francia, Ferdinando il cattolico di Spagna e Enrico VII d’Inghilterra. Machiavelli è il teorico dei Re Magi).

§78 Machiavelli. Che il programma e la tendenza di collegare la città alla campagna potesse avere nel Machiavelli solo una espressione militare si capisce riflettendo che il giacobinismo francese sarebbe inesplicabile senza la scuola fisiocratica, con la sua dimostrazione dell’importanza economica e sociale del coltivatore diretto.

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Le teorie economiche del Machiavelli sono state studiate da Gino Arias (negli «Annali di Economia» dell’Università Bocconi): esse non potevano uscire dai quadri del mercantilismo. (Ma anche Rousseau sarebbe stato possibile senza i fisiocrati? ecc. Non mi pare giusto affermare che i fisiocrati abbiano rappresentato i meri interessi agricoli: essi rappresentavano la borghesia in una fase già sviluppata e più ancora come organizzatrice di una società avvenire ben più complessa di quella del tempo: certo non rappresentavano il sistema corporativo e mercantilista ecc. Storicamente i fisiocrati rappresentano appunto la rottura del corporativismo e l’allargamento alla campagna dell’attività economica capitalistica: il loro «linguaggio» è legato al tempo, ed esprime il contrasto immediato tra città e campagna).

§79 Machiavelli. Grande potenza. Nella nozione di grande potenza (ma di potenza in genere, quindi come elemento sussidiario alla nozione di grande potenza) è da porre anche la «tranquillità interna» cioè il grado e l’intensità della funzione egemonica della classe dirigente. Si potrebbe dire che quanto più forte è la polizia politica e in generale la polizia, e tanto più debole è l’esercito, e quanto più debole (cioè relativamente inutile) la polizia, tanto più forte è l’esercito.

§84 Machiavelli. Essere e dover essere. Il «troppo» realismo politico ha portato spesso all’affermazione che il politico deve operare solo nella «realtà effettuale», non interessarsi del «dover essere», ma solo dell’«essere». L’errore ha portato Paolo Treves a trovare nel Guicciardini e non nel Machiavelli il «vero politico». Bisogna distinguere tra scienziato della politica e politico in atto. Lo scienziato deve muoversi solo nella realtà effettuale, in quanto mero scienziato. Ma il Machiavelli non è un mero scienziato, è un uomo appassionato, un politico in atto e perciò non può non occuparsi del «dover essere» inteso non moralisticamente. La quistione è più complessa: si tratta di vedere se il «dover essere» sia un atto arbitrario o un fatto necessario, sia volontà concreta, o velleità, desiderio, amore con le nuvole.

Il politico in atto è un creatore; ma non crea dal nulla, non trae dal suo cervello le sue creazioni. Si fonda sulla realtà effettuale; ma cos’è questa realtà effettuale? È forse qualcosa di statico e immobile, o non piuttosto una realtà in movimento, un rapporto di forze in continuo mutamento di equilibrio? Applicare la volontà a creare un nuovo equilibrio delle forze, realmente esistenti e operanti, fondandosi sulla forza in movimento progressivo per farla trionfare è sempre muoversi nel terreno della realtà effettuale ma per dominarla e superarla. Il «dover essere» entra in campo, non come astratto e formale pensiero, ma come interpretazione realistica e sola storicistica della realtà, come sola storia in atto o politica.

L’opposizione Savonarola-Machiavelli non è l’opposizione tra essere e dover essere, ma tra due «dover essere» quello astratto e fumoso del Savonarola e quello realistico del Machiavelli, realistico anche se non diventato realtà immediata, ché non si può attendere che un individuo e un libro mutino la realtà, ma solo la interpretino e indichino la linea dell’azione.

Né il Machiavelli pensava o si proponeva di mutare la realtà ma solo e concretamente di mostrare come avrebber dovuto operare le forze storiche concrete per mutare la realtà esistente in modo concreto e di portata storica. (Il Russo ha accumulato molte parole a questo proposito – nei Prolegomeni – ma il limite e l’angustia del Machiavelli consiste poi solo nell’essere il Machiavelli un singolo individuo uno scrittore e non il capo di uno Stato o di un esercito, che è pure un singolo individuo, ma avente a sua disposizione le forze di uno Stato o di un esercito e non solo eserciti di parole).

Txt: G. Savonarola - Trattato sul governo di Firenze

§86 Machiavelli. Altro punto da fissare e da svolgere è quello della «doppia prospettiva» nell’azione politica e nella vita statale. Vari gradi in cui può presentarsi la doppia prospettiva, dai più elementari ai più complessi. Ma anche questo elemento è legato alla doppia natura del Centauro machiavellico, della forza e del consenso, del dominio e dell’egemonia, della violenza e della civiltà (della «Chiesa e dello Stato» come direbbe il Croce), dell’agitazione e della propaganda, della tattica e della strategia.

Alcuni hanno ridotto la teoria della «doppia prospettiva» a qualcosa di angusto, meschino, banale, cioè a nient’altro che a due forme di «immediatezza» successive l’una all’altra. Invece può avvenire proprio il contrario: che quanto più la prima è «immediatissima», elementarissima, tanto più la seconda può essere lontana, complessa, elevata, cioè può avvenire come nella vita umana, che quanto più il singolo è costretto a difendere la propria esistenza fisica immediata, tanto più sostiene e si pone dal punto di vista di tutti i complessi e più elevati valori dell’umanità.

§114 Machiavelli. Jean Bodin (1530‑1596) fu deputato agli Stati di Blois del 1576 e fece rifiutare dal Terzo Stato i sussidi domandati per la guerra civile. Opere: Methodus ad facilem historiarum cognitionem (1566), dove indica l’influenza del clima, l’idea del progresso ecc.; La Republique (1576), dove esprime le opinioni del Terzo Stato sulla monarchia assoluta e i suoi rapporti col popolo; Heptaplomeres (inedito fino all’epoca moderna), in cui confronta tutte le religioni e le giustifica come espressioni diverse della religione naturale, sola ragionevole, e tutte egualmente degne di rispetto e di tolleranza.

Durante le guerre civili in Francia, il Bodin è l’esponente del terzo partito, detto dei «politici», che si pone dal punto di vista dell’interesse nazionale. Il Bodin è catalogato tra gli «antimachiavellici», ma evidentemente è questo un carattere estrinseco e superficiale del suo significato storico.

Il Bodin fonda in Francia la scienza politica in un terreno molto più avanzato di quello che l’Italia aveva offerto al Machiavelli. Per il Bodin non si tratta di fondare lo Stato territoriale e unitario (nazionale), ma di equilibrare le forze sociali in lotta nell’interno di questo Stato già forte e radicato: non il momento della forza interessa il Bodin, ma quello del consenso.

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È da osservare che nell’Italia che osservava il Machiavelli non esistevano istituzioni rappresentative notevoli come quelle degli Stati Generali in Francia. Quando modernamente si osserva che le istituzioni parlamentari sono state importate in Italia dall’estero, non si tiene conto che ciò riflette una condizione di debolezza della storia passata italiana, e cioè l’essere rimasta la struttura statale alla fase comunale e non essere passata alla fase territoriale moderna (nazionale).

Del resto istituzioni rappresentative sono esistite, specialmente nel Mezzogiorno e in Sicilia, ma con carattere molto più ristretto che in Francia, per il poco sviluppo in queste regioni del Terzo Stato (i Parlamenti siciliani strumento dei baroni contro la monarchia, essenzialmente).

Ricordare lo studio di Antonio Panella sugli Antimachiavellici pubblicato nel «Marzocco» del 1927 (o anche 26: undici articoli): vedere come giudicato il Bodin in confronto al nostro. (Si può vedere come nel Machiavelli le istituzioni rappresentative sono accennate in nuce).

§132 Machiavelli. La passione. Se il concetto crociano della passione come momento della politica si urta nella difficoltà di spiegare e giustificare le formazioni politiche permanenti come i partiti e ancor più gli eserciti nazionali e gli Stati maggiori, poiché non si può concepire una passione organizzata permanentemente senza che essa diventi razionalità e riflessione ponderata, cioè non più passione, la soluzione non può trovarsi se non nella identificazione di politica ed economia; la politica è azione permanente e dà nascita a organizzazioni permanenti in quanto appunto si identifica con l’economia.

Ma essa anche se ne distingue e perciò può parlarsi separatamente di economia e di politica e può parlarsi di «passione politica» come di impulso immediato all’azione che nasce sul terreno «permanente e organico» della vita economica, ma lo supera, facendo entrare in gioco sentimenti e aspirazioni nella cui atmosfera incandescente lo stesso calcolo della vita umana individuale ubbidisce a leggi diverse da quelle del tornaconto individuale ecc.

§141 Machiavelli. 1) Altro elemento da esaminare e quello dei rapporti organici tra la politica interna e la politica estera di uno Stato. È la politica interna che determina quella estera o viceversa?

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Anche in questo caso occorrerà distinguere: tra grandi potenze, con relativa autonomia internazionale, e altre potenze, e ancora tra diverse forme di governo (un governo come quello di Napoleone III aveva due politiche, apparentemente, reazionaria all’interno e liberale all’estero).

2) Condizioni di uno Stato prima e dopo una guerra. È evidente che contano, in una alleanza, le condizioni in cui uno Stato si trova al momento della pace. Può avvenire perciò che chi ha avuto l’egemonia durante la guerra, finisca col perderla per l’indebolimento subito nella lotta e debba vedere un «subalterno» che è stato più abile o più «fortunato» diventare egemone. Ciò si verifica nelle «guerre mondiali» quando la situazione geografica costringe uno Stato a gettare tutte le sue risorse nel crogiolo: vince per le alleanze, ma la vittoria lo trova prostrato ecc. Ecco perché nel concetto di «grande potenza» occorre tener conto di molti elementi e specialmente di quelli «permanenti», cioè specialmente «potenzialità economica e finanziaria» e popolazione.

§162 Machiavelli. Studi particolari su Machiavelli come «economista»: Gino Arias negli «Annali di Economia della Università Bocconi» pubblica uno studio dove si trova qualche indicazione. (Studio di Vincenzo Tangorra). Pare che lo Chabod, in qualche suo scritto sul Machiavelli, trovi che sia una deficienza del fiorentino, in confronto, per es., al Botero, il fatto della quasi assenza di riferimenti economici nei suoi scritti (sull’importanza del Botero per lo studio della storia del pensiero economico cfr Mario De Bernardi e recensione di L. Einaudi nella Riforma Sociale di marzo‑aprile 1932).

Occorre fare alcune osservazioni generali sul pensiero politico del Machiavelli e sul suo carattere di «attualità» a differenza di quello del Botero, che ha carattere più sistematico e organico sebbene meno vivo e originale. Occorre anche richiamare il carattere del pensiero economico di quel tempo (spunti nel citato articolo dell’Einaudi) e la discussione sulla natura del mercantilismo (scienza economica o politica economica?).

Se è vero che il mercantilismo è una mera politica economica, in quanto non può presupporre un «mercato determinato» e l’esistenza di un preformato «automatismo economico», i cui elementi si formano storicamente solo a un certo grado di sviluppo del mercato mondiale, è evidente che il pensiero economico non può fondersi nel pensiero politico generale, cioè nel concetto di Stato e delle forze che si crede debbano entrare a comporlo.

Se si prova che il Machiavelli tendeva a suscitare legami tra città e campagna e ad allargare la funzione delle classi urbane fino a domandar loro di spogliarsi di certi privilegi feudali‑corporativi nei rispetti della campagna, per incorporare le classi rurali nello Stato, si dimostrerà anche che il Machiavelli implicitamente ha superato in idea la fase mercantilista e ha già degli accenni di carattere «fisiocratico», cioè egli pensa a un ambiente politico‑sociale che è quello presupposto dall’economia classica.

Il prof. Sraffa attira l’attenzione su un possibile avvicinamento del Machiavelli a un economista inglese del 1600, William Petty, che Marx chiama il «fondatore dell’economia classica» e le cui opere complete sono state tradotte anche in francese1. (Marx ne parlerà nei volumi del Mehrwert, Storia delle dottrine economiche).

Note

§163 Machiavelli. Rapporti di forze, ecc. L’osservazione fondamentale che tali analisi non sono fini a se stesse, ma devono servire a giustificare il lavoro pratico, in quanto sono fatte per sceverare i punti su cui applicare la forza della volontà. Perciò elemento sempre fondamentale rimane la forza permanente organizzata che si può fare avanzare quando la situazione diventa propizia (collasso dell’avversario, crisi, ecc.) e compito essenziale attendere sistematicamente a formare, sviluppare, ampliare, rendere sempre più omogenea, compatta, consapevole di se stessa questa forza.

§244 3° Machiavelli. Contro il «volontarismo» o garibaldinismo. Contro, naturalmente, se vuole perpetuare se stesso come forma organica di attività storico‑politica, non come momento iniziale di un periodo organico. Così contro le «avanguardie» senza esercito dietro, contro gli arditi senza fanteria e artiglieria, ma non contro avanguardie e arditi se funzioni di organismo complesso e regolare, così contro intellettuali senza massa, ma non contro intellettuali di una massa. Per formazioni omogenee, formate di blocchi sociali compatti, e per intellettuali, avanguardia, arditi che a suscitare tali blocchi lavorano e non a perpetuare il loro dominio zingaresco.

Intellettuali stranieri

§127 Storia delle classi subalterne. La Bohème. Carlo Baudelaire.

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Cfr C. Baudelaire, Les Fleurs du Mal et autres poèmes, Texte intégral précédé d’une étude inédite d’Henri de Régnier («La Renaissance du Livre», Paris s. d.). Nello studio del de Régnier (a pp. 14‑15, a contare dalla pagina stampata, perché nel testo della prefazione non c’è numerazione) si ricorda che il Baudelaire partecipò attivamente ai fatti del febbraio e del giugno 1848. «Fait étrange de contagion révolutionnaire, dans cette cervelle si méticuleusement lucide», scrive il de Régnier. Il Baudelaire, con Champfleury, fondò un giornale repubblicano in cui scrisse articoli violenti. Diresse poi un giornale locale a Châteauroux. «Cette double campagne typographique (sic) et la part qu’il prit au mouvement populaire suffirent, il faut le dire, à guérir ce qu’il appela plus tard sa “folie” et que, dans Mon cœur mis à nu, il cherche à s’expliquer à lui‑même quand il écrit: “Mon ivresse de 1848. De quelle nature était cette ivresse? Goût de la vengeance, plaisir naturel de la démolition. Ivresse littéraire. Souvenirs de lectures”. Crise bizarre qui transforma cet aristocrate d’idées et de goûts qu’était foncièrement Baudelaire en un énergumène que nous décrit dans ses notes son camarade Le Valvasseur et dont les mains “sentaient la poudre”, proclamant “l’apothéose de la banqueroute sociale”; crise bizarre d’où il rapporta une horreur sincère de la démocratie mais qui était peut‑être aussi un premier avertissement physiologique» ecc. è un primo sintomo della nevrastenia del Baudelaire (ma perché non il contrario? cioè perché la malattia del Baudelaire non avrebbe invece determinato il suo distacco dal movimento popolare? ecc.).

In ogni caso vedere se questi scritti politici del Baudelaire sono stati studiati e raccolti.

Letteratura

Critica letteraria

§138 Nozioni enciclopediche e argomenti di cultura. Ogni nazione ha il suo poeta o scrittore in cui riassume la gloria intellettuale della nazione e della razza. Omero per la Grecia, Dante per l’Italia, Cervantes per la Spagna, Camoens per il Portogallo, Shakespeare per l’Inghilterra, Goethe per la Germania. È da notare che la Francia non ha nessuna di queste grandi figure che sia rappresentativa senza discussione, così non l’hanno gli Stati Uniti. Per la Russia si potrebbe parlare di Tolstoi? Per la Cina di Confucio?

Il fatto francese è notevole perché la Francia tradizionalmente è paese unitario per eccellenza (Victor Hugo?) anche nel campo della cultura, anzi specialmente in questo. La data in cui queste figure sono apparse nella storia di ogni nazione è elemento interessante per fissare il contributo di ogni popolo alla civiltà comune e anche la «sua attualità culturale». Come «elemento ideologico» attualmente operante, riflette gloria sulla Grecia la grandezza di Omero? Gli ammiratori di Omero sono stati abituati a distinguere la Grecia antica dalla Grecia moderna.

§136 Caratteri della letteratura italiana. Cfr l’articolo di Piero Rébora, Libri italiani ed editori inglesi, nell’«Italia che scrive» del marzo 1932. Perché la letteratura italiana contemporanea non ha quasi corso in Inghilterra: «Scarsa capacità di obiettiva narrazione e d’osservazione, egocentrismo morboso, antiquata ossessione erotica; ed insieme, caos linguistico e stilistico, pel quale molti nostri libri son scritti tuttora con torbido impressionismo lirico che infastidisce il lettore italiano e stordisce uno straniero. Centinaia di vocaboli usati dagli scrittori contemporanei non si trovano nei vocabolari e nessuno sa quello che significhino esattamente».

«Sopratutto, forse, rappresentazione dell’amore e della donna più o meno incomprensibile per gli anglo‑sassoni, verismo provinciale semi‑vernacolo, mancanza di unità linguistica e stilistica».

«Occorrono libri di tipo europeo, non di trito verismo provinciale».

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«L’esperienza m’insegna che il lettore straniero (e probabilmente anche l’italiano) trova nei nostri libri spesso qualcosa di caotico, di urtante, di ripugnante quasi, inseritosi chissà come qua e là, in mezzo a pagine invece ammirevoli, rivelanti un ingegno solido e profondo». «Vi sono romanzi, libri di prose, commedie riuscitissime, che sono irremissibilmente guastate da due o tre pagine, da una scena, da qualche battuta magari, di sconcertante volgarità, sciatteria, disgustosità; che rovina tutto».

«... Il fatto rimane che un professore italiano all’estero non riesce, anche con la maggior buona volontà, a mettere insieme una dozzina di buoni libri italiani contemporanei, che non contengano qualche pagina disgustosa, discreditante, disastrosa per la nostra elementare dignità, penosamente triviale, che è meglio non metter sotto il naso di intelligenti lettori stranieri. Taluni hanno il malvezzo di chiamare tali pudori e tali disgusti con l’infamante nome di “puritanismo”; mentre invece si tratta solo ed unicamente di “buon gusto”».

L’editore, secondo il Rébora, dovrebbe intervenire di più nel fatto letterario, e non essere solo un commerciante‑industriale, funzionando da prima istanza «critica», specialmente per quanto riguarda la «socialità» del lavoro ecc.

Letteratura non nazionale-popolare

§9 Assenza di un carattere nazionale‑popolare nella letteratura italiana. Da un articolo di Paolo Milano nell’«Italia letteraria» del 27 dicembre 1931: «Il valore che si dà al contenuto di un’opera d’arte non è mai troppo – ha scritto Goethe. Un simile aforisma può tornare in mente a chi rifletta sullo sforzo, da tante generazioni (?) avviato (sic) e che si sta tuttora compiendo, di creare una tradizione del moderno romanzo italiano. Quale società, anzi quale ceto dipingere? I tentativi più recenti non consistono forse nel desiderio di uscire dai personaggi popolareschi che tengono la scena nell’opera manzoniana e verghiana? E le mezze riuscite non si possono forse ricondurre alle difficoltà e all’incertezza nel fissare un ambiente (fra alta borghesia oziosa e gente minuta e bohème marginale)?».

Il brano è sorprendente per il modo meccanico ed esteriore di porre le quistioni. Infatti avviene che «generazioni» di scrittori tentino a freddo di fissare l’ambiente da descrivere senza con ciò stesso manifestare il loro carattere «astorico» e la loro povertà morale e sentimentale? Del resto per «contenuto» non basta intendere la scelta di un dato ambiente: ciò che è essenziale per il contenuto è l’atteggiamento dello scrittore e di una generazione verso questo ambiente. L’atteggiamento solo determina il mondo culturale di una generazione e di un’epoca e quindi il suo stile.

Anche nel Manzoni e nel Verga, non i «personaggi popolareschi» sono determinanti, ma l’atteggiamento dei due scrittori verso di essi, e questo atteggiamento è antitetico nei due: nel Manzoni è un paternalismo cattolico, una ironia sottintesa, indizio di assenza di profondo istintivo amore verso quei personaggi, è un atteggiamento dettato da un esteriore sentimento di astratto dovere dettato dalla morale cattolica, corretto appunto e vivificato dall’ironia diffusa. Nel Verga è un atteggiamento di fredda impassibilità scientifica e fotografica, dettata dai canoni del verismo applicato più razionalmente che dallo Zola.

L’atteggiamento del Manzoni è il più diffuso nella letteratura che rappresenta «personaggi popolareschi» e basta ricordare Renato Fucini; esso è ancora di carattere superiore, ma si muove su un filo di rasoio e infatti degenera, negli scrittori subalterni, nell’atteggiamento «brescianesco» stupidamente e gesuiticamente sarcastico.

Txt: R. Fucini - All'aria aperta

Txt: R. Fucini - Le veglie di Neri

§145 Carattere non popolare‑nazionale della letteratura italiana. Consenso della nazione o degli «spiriti eletti». Cosa deve interessare di più un artista, il consenso all’opera sua della «nazione» o quello degli «spiriti eletti»? Ma può esserci separazione tra «spiriti eletti» e «nazione»? Il fatto che la quistione sia stata posta e si continui a porre in questi termini, mostra per se stesso una situazione determinata storicamente di distacco tra intellettuali e nazione. Quali sono poi gli «spiriti» riputati «eletti»?

Ogni scrittore o artista ha i suoi «spiriti eletti», cioè si ha la realtà di una disgregazione degli intellettuali in combriccole e sette di «spiriti eletti», disgregazione che appunto dipende dalla non aderenza alla nazione‑popolo, dal fatto che il «contenuto» sentimentale dell’arte, il mondo culturale è astratto dalle correnti profonde della vita popolare‑nazionale, che essa stessa rimane disgregata e senza espressione.

Ogni movimento intellettuale diventa o ridiventa nazionale se si è verificata una «andata al popolo», se si è avuta una fase «Riforma» e non solo una fase «Rinascimento» e se le fasi «Riforma‑Rinascimento» si susseguono organicamente e non coincidono con fasi storiche distinte (come in Italia, in cui tra il movimento comunale – riforma – e quello del Rinascimento c’è stato un iato storico dal punto di vista della partecipazione popolare alla vita pubblica). Anche se si dovesse cominciare con lo scrivere «romanzi d’appendice» e versi da melodramma, senza un periodo di andata al popolo non c’è «Rinascimento» e non c’è letteratura nazionale.

Letteratura popolare

§12 Letteratura popolare. Bibliografia.

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Réginald W. Hartland, Walter Scott et le roman «frénétique», ed. Honoré Champion. Romanzo «frenetico» o romanzo «nero»: le origini sarebbero da ricercare in Orazio Walpole e nel suo Castello d’Otranto. Dal Castello d’Otranto sarebbero derivati i romanzi di Anna Radcliffe (1798‑1831) e di Clara Reeve, di Lewis (Il frate) ecc. Il Castello d’Otranto determinò una corrente d’immaginazione che era nell’aria e di cui esso fu la manifestazione iniziale. Le Moine par M. C. Lewis, raconté par Antonin Artaud, ed. Denoël et Steele. Cfr Alice Killen, Le Roman Terrifiant, Champion, 1924.

§122 Letteratura popolare. Uno degli atteggiamenti più caratteristici del pubblico popolare verso la sua letteratura è questo: non importa il nome e la personalità dell’autore, ma la persona del protagonista. Gli eroi della letteratura popolare, quando sono entrati nella sfera della vita intellettuale popolare, si staccano dalla loro origine «letteraria» e acquistano la validità del personaggio storico. Tutta la loro vita interessa, dalla nascita alla morte, e ciò spiega la fortuna delle «continuazioni», anche se artefatte: cioè può avvenire che il primo creatore del tipo, nel suo lavoro, faccia morire l’eroe e il «continuatore» lo faccia rivivere, con grande soddisfazione del pubblico che si appassiona nuovamente, e rinnova l’immagine prolungandola col nuovo materiale che gli è stato offerto.

Non bisogna intendere «personaggio storico» in senso letterale, sebbene anche questo avvenga, che dei lettori popolari non sappiano più distinguere tra mondo effettuale della storia passata e mondo fantastico e discutano sui personaggi romanzeschi come farebbero su quelli che hanno vissuto, ma in un modo traslato, per comprendere che il mondo fantastico acquista nella vita intellettuale popolare una concretezza fiabesca particolare. Così avviene per esempio che avvengano delle contaminazioni tra romanzi diversi, perché i personaggi si rassomigliano: il raccontatore popolare unisce in un solo eroe le avventure dei vari eroi ed è persuaso che così debba essere fatto per essere «intelligenti».

§245 4° Letteratura popolare. Se è vero che la biografia romanzata continua il romanzo storico tipo Dumas ecc., si può dire che da questo punto di vista, in questo particolare settore, in Italia si sta «colmando una lacuna». Cfr pubblicazioni del «Corbaccio», di storia romanzata ecc. Ma la letteratura popolare solo in questo ha in Italia uno sviluppo, perché non è più popolare, in senso stretto, ma si rivolge solo a certi strati popolari più snobistici, di piccoli intellettuali o aspiranti tali. Romanzo poliziesco, di varie forme, zero, eppure questo è il moderno romanzo popolare. Romanzo «d’avventura» in senso largo, zero.

§135 Letteratura popolare. Cfr E. Brenna, La letteratura educativa popolare italiana nel secolo XIX (Milano, F.I.L.P., 1931, pp. 246, L. 6).

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Dalla recensione dovuta alla prof. E. Formiggini‑Santamaria («Italia che scrive», marzo 1932) si traggono questi spunti: il libro della Brenna ebbe un premio d’incoraggiamento nel concorso Ravizza, che pare aveva per tema appunto la «letteratura educativa popolare». La Brenna ha dato un quadro dell’evoluzione del romanzo, della novella, di scritti di divulgazione morale e sociale, del dramma, degli scritti vernacoli più diffusi nel secolo XIX con riferimenti al secolo XVIII e in rapporto coll’indirizzo letterario nel suo globale svolgimento.

La Brenna ha dato al termine «popolare» un senso molto largo, «includendoci cioè anche la borghesia, quella che non fa della coltura il suo scopo di vita, ma che può accostarsi all’arte»; così ha considerato come «letteratura educativa del popolo tutta quella di stile non aulico e ricercato, includendovi per es. I Promessi Sposi, i romanzi del D’Azeglio e gli altri della stessa indole, i versi del Giusti e quelli che prendono ad argomento le lievi vicende e la serena natura, come le rime del Pascoli e di Ada Negri».

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La Formiggini‑Santamaria fa alcune considerazioni interessanti: «Questa interpretazione del tema si giustifica pensando quanto sia stata scarsa nella prima metà del secolo scorso la diffusione dell’alfabeto tra gli artigiani e i contadini (ma la letteratura popolare non si diffonde solo per lettura individuale, ma anche per letture collettive; altre attività: i Maggi in Toscana, i cantastorie nell’Italia meridionale, sono proprie di ambienti arretrati dove è diffuso l’analfabetismo; anche le gare poetiche in Sardegna e Sicilia), e scarsa anche la stampa di libri adatti (cosa vuol dire «adatti»? e la letteratura non fa nascere nuovi bisogni?) alla povera mentalità di lavoratori del braccio; l’A. avrà pensato che, rievocando soltanto questi, il suo studio sarebbe riuscito molto ristretto.

Pure a me pare che l’intenzione implicita nel tema dato, sia stata di far risaltare, insieme con la scarsità di scritti d’indole popolare del sec. XIX, il bisogno di scrivere per il popolo libri adatti, e di far ricercare – attraverso l’analisi del passato – i criteri ai quali una letteratura popolare debba ispirarsi. Non dico che non dovesse esser dato uno sguardo alle pubblicazioni che nelle intenzioni degli scrittori dovevano servire ad educare il popolo senza tuttavia arrivare ad esso; ma da tale cenno avrebbe dovuto più esplicitamente risultare per quale motivo la buona intenzione restò intenzione. Vi furono invece altre opere (specialmente nella seconda metà del sec. XIX) che si proposero in prima linea il successo e secondariamente l’educazione, ed ebbero molta fortuna nelle classi popolari.

È vero che, prendendole in esame, la Brenna avrebbe dovuto staccarsi molto spesso dal campo dell’arte, ma nell’analisi di quei libri che si diffusero e si diffondono tuttora tra il popolo (per es. gli illogici, complicati, tenebrosi romanzi della Invernizio), nello studio su quei drammoni d’arena che strapparono lacrime ed applausi al pubblico domenicale dei teatri secondari (e che sono pur sempre ispirati ad amore della giustizia e al coraggio) si sarebbe meglio potuto trovare l’aspetto più emergente dell’animo popolare, il segreto di ciò che può educarlo quando sia portato in un campo d’azione meno unilaterale e più sereno».

La Formiggini nota poi che la Brenna non si è occupata dello studio del folclore, e ricorda che bisogna occuparsi almeno delle favole e novelle tipo fratelli Grimm.

La Formiggini insiste sulla parola «educativa» ma non indica il contenuto che dovrebbe avere tale concetto, eppure la quistione è tutta qui. La «tendenziosità» della letteratura popolare educativa d’intenzione è così insipida e falsa, risponde così poco agli interessi mentali del popolo che l’impopolarità è la sanzione giusta.

§242 1° Origini popolaresche del «superuomo». Lo si trova nel basso romanticismo del romanzo d’appendice: in Dumas padre: Conte di Montecristo, Athos, Giuseppe Balsamo, per esempio. Ora: molti sedicenti nicciani non sono che... dumasiani che più tardi, con imparaticci nicciani, hanno «giustificato» lo stato d’animo creato dalla lettura del Conte di Montecristo.

Stampa

§143 Giornalismo. I titoli. Tendenza a titoli magniloquenti e pedanteschi, con opposta reazione di titoli così detti «giornalistici» cioè anodini e insignificanti. Difficoltà dell’arte dei titoli che dovrebbero riassumere alcune esigenze: di indicare sinteticamente l’argomento centrale trattato, di destare interesse e curiosità spingendo a leggere.

Anche i titoli sono determinati dal pubblico al quale il giornale si rivolge e dall’atteggiamento del giornale verso il suo pubblico: atteggiamento demagogico‑commerciale quando si vuole sfruttare le tendenze più basse; atteggiamento educativo‑didattico, ma senza pedanteria, quando si vuole sfruttare il sentimento predominante nel pubblico, come base di partenza per un suo elevamento. Il titolo «Brevi cenni sull’universo», come caricatura del titolo pedantesco e pretenzioso.

§7 Giornalismo. Ecco come negli «Annali dell’Italia Cattolica» per il 1926 si descrivono i diversi tipi di giornale, con riferimento alla stampa cattolica: «In senso largo il giornale “cattolico” (o piuttosto “scritto da cattolici”) è quello che non contiene nulla contro la dottrina e morale cattolica, e ne segue e difende le norme. Dentro tali linee il giornale può perseguire intenti politici, economico‑sociali, o scientifici.

– Invece il giornale “cattolico” in senso stretto è quello che, d’intesa con l’Autorità Ecclesiastica, ha come scopo diretto un efficace apostolato sociale cristiano, a servizio della Chiesa e in aiuto dell’Azione cattolica. Esso importa, almeno implicitamente, la responsabilità dell’Autorità Ecclesiastica, e però ne deve seguire le norme e direttive». Si distingue, insomma, il giornale così detto d’informazione o «senza partito» dal giornale d’opinione, dall’organo ufficiale di un determinato partito, il giornale per le masse popolari o giornale «popolare», dal giornale per un pubblico necessariamente ristretto.

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Nella storia della tecnica giornalistica può essere ritenuto «esemplare» il «Piccolo» di Trieste, come appare dal libro dedicato al «Piccolo» da Silvio Benco. Un tipo molto interessante è stato anche il «Corriere della Sera» nel periodo giolittiano, molto interessante se si tiene conto della situazione giornalistica e politica italiana, totalmente diversa da quella francese e in generale da quella degli altri paesi europei. La divisione netta, esistente in Francia, tra giornali popolari e giornali di opinione, non può esistere in Italia, dove manca un centro così popolato e così predominante come Parigi (e dove esiste minore «indispensabilità» del giornale politico anche nelle classi superiori).

Sarebbe interessante vedere nella storia del giornalismo italiano, le ragioni tecnico‑politico‑culturali della fortuna avuta dal vecchio «Secolo» di Milano.

Mi pare che nella storia del giornalismo italiano si possano distinguere due periodi: 1°) quello «primitivo» dell’indistinto generico politico culturale che rese possibile la grande diffusione del «Secolo» intorno al programma generico‑indistinto di un vago «laicismo» (contro l’influenza cattolica) e di un vago «democraticismo» (contro l’influsso preponderante nella vita statale delle forze di destra); 2°) quello successivo in cui le forze di destra si «nazionalizzano», si «popolarizzano» e il «Corriere della Sera» sostituisce il «Secolo» nella grande diffusione: il vago laicismo‑democraticismo del «Secolo» diventa nel «Corriere» un vago unitarismo nazionale che comprende una forma di laicismo meno plebeo e sbracato e così un nazionalismo meno popolaresco e democratizzante.

È interessante notare che nessuno dei partiti distintisi dall’informe popolarismo «secolino» abbia tentato di ricreare l’unità democratica su un piano politico‑culturale più elevato di quello del periodo primitivo, ma questo compito sia stato abbandonato quasi senza lotta ai conservatori espressi dal «Corriere». Eppure questo dovrebbe essere il compito dopo ogni progresso di chiarificazione e distinzione: ricreare l’unità, rottasi nel processo di avanzata, su un piano superiore, rappresentato dalla élite che dall’indistinto generico è riuscita a conquistare la sua personalità, che esercita una funzione direttiva sul vecchio complesso da cui si è distinta e staccata.

Lo stesso processo si ripete nel mondo cattolico con la formazione del Partito popolare, «distinzione» democratica che i destri riescono a subordinare ai propri programmi. Nell’un caso e nell’altro i piccoli borghesi pure essendo il maggior numero tra gli intellettuali dirigenti, sono sopraffatti dagli elementi della classe fondamentale: nel campo laico gli industriali del «Corriere», nel campo cattolico la borghesia agraria unita ai grandi proprietari sopraffanno i professionisti della politica del «Secolo» e del Partito Popolare che pure rappresentano le grandi masse dei due campi: semiproletari e piccoli borghesi della campagna e della città.

§57 Riviste‑tipo. Individualmente nessuno può seguire tutta la letteratura pubblicata su un gruppo di argomenti e neanche su un solo argomento. Il servizio di informazione critica, per un pubblico di mediocre cultura o che si inizia alla vita culturale, di tutte le pubblicazioni sul gruppo di argomenti che più lo possono interessare, è un servizio d’obbligo.

Come i governanti hanno una segreteria o un ufficio stampa che periodicamente o quotidianamente li tengono informati di tutto ciò che si pubblica per loro indispensabile da sapere, così una rivista fa per il suo pubblico. Fisserà il suo compito, lo limiterà, ma questo sarà il suo compito: ciò domanda però che si dia un corpo organico e completo di informazioni: limitato, ma organico e completo. Le recensioni non devono essere casuali e saltuarie, ma sistematiche, e non possono non essere accompagnate da «rassegne riassuntive» retrospettive sugli argomenti più essenziali.

Una rivista, come un giornale, come un libro, come qualsiasi altro modo di espressione didattica che sia predisposto avendo di mira una determinata media di lettori, ascoltatori ecc., di pubblico, non può accontentare tutti nella stessa misura, essere ugualmente utile a tutti ecc.: l’importante è che sia uno stimolo per tutti, poiché nessuna pubblicazione può sostituire il cervello pensante o determinare ex novo interessi intellettuali e scientifici dove esiste solo interesse per le chiacchiere da caffè o si pensa che si vive per divertirsi e passarsela buona.

Perciò non bisogna turbarsi della molteplicità delle critiche: anzi la molteplicità delle critiche è la prova che si è sulla buona strada; quando invece il motivo di critica è unico, occorre riflettere: 1) perché può trattarsi di una deficienza reale, 2) perché ci si può essere sbagliati sulla «media» dei lettori ai quali ci si riferisce, e quindi si lavora a vuoto, «per l’eternità».

§60 Riviste‑tipo. Le recensioni. Ho accennato a diversi tipi di recensione, ponendomi dal punto di vista delle esigenze culturali di un pubblico ben determinato e di un movimento culturale, anch’esso ben determinato, che si vorrebbe suscitare: quindi recensioni «riassuntive», per i libri che si pensa non potranno esser letti e recensioni‑critiche per i libri che si ritiene necessario indicare alla lettura, ma non così, senz’altro, ma dopo averne fissato i limiti e indicato le deficienze parziali ecc.

Questa seconda forma è la più importante e scientificamente degna e deve essere concepita come una collaborazione del recensente al tema trattato dal libro recensito. Quindi necessità di recensori specializzati e lotta contro l’estemporaneità e la genericità dei giudizi critici.

Queste osservazioni e note sulle riviste‑tipo e su altri motivi di tecnica giornalistica potranno essere raccolte e organate insieme col titolo: Manualetto di tecnica giornalistica.

§110 Giornalismo. La rassegna della stampa. Nel giornalismo tradizionale italiano la rubrica della «rassegna della stampa» è sempre stata poco sviluppata, nonostante che in esso la parte polemica abbia sempre avuto una funzione spesso esorbitante: ma appunto si trattava di polemica spicciola, occasionale, legata più al temperamento litigioso dell’individualismo italiano che a un disegno programmatico di rendere un servizio al pubblico dei lettori.

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Occorre distinguere tra la rassegna della stampa dei giornali d’informazione e quella dei giornali d’opinione: la prima è anch’essa un servizio d’informazione, cioè il giornale dato offre quotidianamente ai suoi lettori ordinati e rubricati i giudizi sugli avvenimenti in corso pubblicati dagli altri giornali (così fanno molti giornali francesi: i giornali italiani danno queste informazioni nei servizi da Roma per i giornali della capitale ecc., cioè nel corpo del giornale stesso e come notizie a se stanti); nei giornali d’opinione la rubrica ha un’altra funzione: serve per ribadire i propri punti di vista, per sminuzzarli, per presentarne, in contradditorio, tutte le faccette e tutta la casistica. Appare quanto sia utile «didatticamente» questo modo di «ripetere» non meccanicamente e senza pedanteria le proprie opinioni: la «ripetizione» acquista un carattere quasi «drammatico» e di attualità, come obbligo di replicare a un avversario.

A mia conoscenza la migliore «rassegna della stampa» è quella dell’«Action Française» tanto più se si considera come rassegna della stampa (come è in realtà) anche il quotidiano articolo di Maurras. Si vede che tra lo scritto di Maurras e la «rassegna della stampa» propriamente detta dell’«Action Française» c’è una divisione di lavoro: Maurras si attribuisce i «pezzi» polemici di maggiore importanza teorica.

È da osservare che la rassegna della stampa non può essere lasciata a uno scagnozzo qualsiasi di redazione, come fanno spesso alcuni giornali: essa domanda il massimo di responsabilità politica e intellettuale e il massimo di capacità letteraria e di inventività negli spunti, nei titoletti ecc. poiché le ripetizioni, necessarie, dovrebbero essere presentate col massimo di varietà formale ed esteriore. (Esempio degli Scampoli di G. M. Serrati che, a loro modo, erano una rassegna della stampa: molto letti, forse la prima cosa che il lettore cercava ogni giorno, sebbene non fossero sistematici e non sempre di un alto livello intellettuale; le Opinioni del Missiroli nel «Resto del Carlino» e nella «Stampa» – in volume – così la rubrica del «fromboliere» del «Popolo d’Italia», la Dogana in «Critica fascista», la Rassegna della Stampa nell’«Italia Letteraria»).

§121 Bibliografie. La «Rivista Militare Italiana». Fondata nel marzo 1856 a Torino da Carlo e Luigi Mezzacapo, esuli napoletani rifugiatisi a Torino dopo aver preso parte agli assedi di Roma e di Venezia.

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È da notare anche questo particolare a proposito delle così dette «tradizioni militari» del Piemonte: che la maggiore rivista italiana di carattere militare è stata fondata a Torino da due napoletani. La tradizione scientifico‑tecnica militare di Napoli, formatasi con gli avvenimenti successivi alla Rivoluzione Francese è il maggiore elemento che è entrato a costituire la struttura dell’esercito moderno nazionale). Nel 1859 direttore Mariano D’Ayala ecc. Nel 1918 la pubblicazione della Rivista venne sospesa e ripresa nel 1927 per volontà del generale Badoglio, che ne fissò le direttive. Nel 1906 (cinquantenario della fondazione) pubblicò un numero unico in cui si trovava una rassegna dell’attività precedente.

§147 Giornalismo. La cronaca giudiziaria. Si può osservare che la cronaca giudiziaria dei grandi giornali è redatta come un perpetuo «Mille e una notte» concepito secondo gli schemi del romanzo d’appendice. C’è la stessa varietà di schemi sentimentali e di motivi: la tragedia, il dramma frenetico, l’intrigo abile e intelligente, la farsa. Il «Corriere della Sera» non pubblica romanzi d’appendice: ma la sua pagina giudiziaria ne ha tutte le attrattive, con in più la nozione, sempre presente, che si tratta di fatti veri.

I nipotini di padre Bresciani

§75 I nipotini del padre Bresciani. Giulio Bechi. Cfr l’articoletto di Croce («I seminatori di G. Bechi») riportato nelle Conversazioni critiche, Serie seconda, pp. 348 sgg. Il Croce dà un giudizio favorevole di questo romanzo e in generale dell’opera letteraria del Bechi, specialmente della Caccia grossa, sebbene distingua tra la parte «programmatica e apologetica» del libro e la parte più propriamente artistica e drammatica. Ma anche Caccia grossa non è essenzialmente un libro da politicante e dei peggiori che si possano immaginare?.

§82 I nipotini del padre Bresciani. Ghita, la «ilustre fregona» (novella del Cervantes).

§98 I nipotini del padre Bresciani. G. Papini. Nel marzo 1932 Papini ha scritto un articolo nella «Nuova Antologia» (contro Croce) e uno sul «Corriere della Sera» sull’Edipo di A. Gide. Ho letto finora solo quest’ultimo: è raffazzonato, prolisso, pomposo e vuoto. Nel marzo devono essere nominati i nuovi Accademici che devono completare i seggi dell’Accademia d’Italia: i due articoli sono evidentemente la «tesi» e la «tesina» di laurea di G. Papini.

§104 I nipotini delpadre Bresciani. A. Luzio. Articolo di A. Luzio nel «Corriere della Sera» del 25 marzo 1932 (La morte di Ugo Bassi e di Anita Garibaldi) in cui si tenta una riabilitazione del padre Bresciani. Le opere del Bresciani «al postutto non possono, quanto al contenuto, venir liquidate con sommarie condanne». Il Luzio pone insieme il saggio del De Sanctis con un epigramma del Manzoni (il quale, interrogato se conoscesse l’Ebreo di Verona, avrebbe risposto, secondo il diario di Margherita di Collegno: «Ho letto i due primi periodi; paiono due sentinelle che dicano non andate avanti») e poi chiama «sommarie» le condanne; non c’è del gesuitico in questo furbo giocherello?

   continua

E ancora: «Non simpatico certo è il tono con cui egli, portavoce della reazione susseguita ai moti del ’48‑49, rappresentava e giudicava gli assertori delle aspirazioni nazionali: ma in più d’uno dei suoi racconti, sopratutto nel Don Giovanni ossia il Benefattore occulto (volumi 26‑27 della “Civiltà Cattolica”), non mancano accenti di umana e cristiana pietà per le vittime; parziali episodi vengono equamente messi in bella luce, per esempio la morte di Ugo Bassi e la straziante fine di Anita Garibaldi». Ma forse che il Bresciani poteva far diversamente? Ed è proprio notevole, per giudicare il Luzio, che egli dia per buono al Bresciani proprio il suogesuitismo e la sua demagogia di bassa lega.

§105 I nipotini di padre Bresciani. Papini come apprendista gesuita. L’articolo di Papini nella «Nuova Antologia» del 1° marzo 1932 (Il Croce e la Croce) mi pare dimostri che anche come gesuita il Papini non sarà mai più che un modesto apprendista. Questo è un vecchio somaro che vuole continuare a fare il somarello nonostante il peso degli anni e gli acciacchi e sgambetta e saltella turpemente. Mi pare che la caratteristica di questo articolo sia l’insincerità.

   continua

Vedere come il Papini inizi l’articolo coi soliti lazzi stereotipati e meccanici contro il Croce e come verso la fine, facendo l’agnello pasquale, annunzi untuosamente che nella raccolta delle sue opere, gli scritti sul Croce saranno espurgati di ogni «piacevolezza» e apparirà solo la discussione «teorica».

L’articolo è scritto di getto, si vede, e nel corso della scrittura il Papini ha cambiato atteggiamento, ma non si è curato d’intonare i latrati delle prime pagine ai belati delle ultime: il letterato soddisfatto di sé e dei colpi di fioretto, che egli crede azzeccati, è sempre superiore al pseudocattolico, ma anche al gesuita, ahi lui! e non ha voluto sacrificare il già scritto. Ma tutto lo scritto appare impacciato, tirato, costruito meccanicamente, come una ciliegia tira l’altra, specialmente la seconda parte, in cui l’ipocrisia traspare in modo repugnante. Mi pare però che Papini appaia ossessionato dal Croce: il Croce ha in lui la funzione della coscienza, delle «mani insanguinate» di lady Macbeth, e che egli reagisca a questa ossessione ora facendo lo spavaldo, tentando lo scherzo e lo sfottimento, ora piagnucolando miseramente. Lo spettacolo è sempre pietoso. Lo stesso titolo dell’articolo è sintomatico: che il Papini si serva della «Croce» per fare dei bisticci testimonia della qualità letteraria del suo cattolicesimo.

§115 I nipotini di padre Bresciani. Secondo Luigi Tonelli («L’Italia che scrive», marzo 1932, Pietro Mignosi), nel volume Epica e santità del Mignosi (Palermo, Priulla, 1925) sarebbe contenuto un «bellissimo “Canto” un po’ alla Rimbaud, in lode degli “animali poveri”», e cita: «vermi e sorci, mosche, pidocchi e poeti, che tutte le armi della terra non riescono a sterminare» .

§160 I nipotini di padre Bresciani. Papini. Il cattolicismo atteggia lo stile del Papini. Non dirà più «sette» ma «quanti sono i peccati capitali»: «Non già che mancassero traduzioni italiane del capo d’opera goethiano: il Manacorda ne ha tenute presenti, fra integre e no, tante quanti sono i peccati capitali» (Il Faust svelato in «Corriere della Sera» del 26 aprile 1932).

Lorianesimo

§74 Lorianismo. E. Ferri. Il modo di giudicare la musica e il Verdi di Enrico Ferri è raccontato originariamente dal Croce nelle Conversazioni Critiche (Serie II, p. 314), in un capitoletto sui Ricordi ed affetti di Alessandro D’Ancona pubblicati dai Treves nel 1902 e che sarà apparso nella «Critica» dei primi anni (1903 o 1904): «Noto in quello (“ricordo”) sul centenario del Leopardi una felicissima invettiva contro i critici letterari della cosidetta scuola lombrosiana: invettiva che per altro a me pare ormai superflua, avendo io udito, or è qualche settimana, uno di codesti solenni critici, Enrico Ferri, in una sua commemorazione dello Zola tenuta a Napoli, dichiarare circa la quistione se Verdi sia o no un genio: che egli, Ferri, non intendendosi punto di musica, ossia non essendo esposto alle seduzioni della malia di quell’arte, poteva perciò dare in proposito “un giudizio sulla sua obbiettività sincero” e affermare con pacata coscienza, che il Verdi è un “ingegno” e non un “genio”, tanto vero che suol tenere in perfetto ordine i conti dell’azienda domestica!» L’aneddoto è stato raccontato anche in altra forma: che cioè il Ferri si ritenesse il più adatto a giudicare obbiettivamente e spassionatamente chi fosse più grande genio, Wagner o Verdi, appunto perché non si intendeva affatto di musica.

§76 Lorianesimo. In questa rubrica mi pare di non aver registrato pro‑memoria A. O. Olivetti, che di diritto ci appartiene per ogni rispetto: come inventore di pensamenti genialissimi e come sconnesso e pretensioso erudito da bazar.

§77 Lorianesimo. G. A. Borgese. «Quasi tutte le guerre e le rivolte in ultima analisi si possono ridurre a secchie rapite; l’importante è vedere che cosa nella secchia vedessero rapitori e difensori». «Corriere della Sera» 8 marzo 1932 (Psicologia della proibizione). L’aureo aforisma del Borgese potrebbe essere citato come commento autentico al libriccino in cui G. A. B. parla delle nuove correnti di opinione scientifica (Eddington) e annunzia che esse hanno dato il colpo mortale al materialismo storico. Si può scegliere: tra l’«ultima analisi» economica e l’«ultima analisi» secchia rapita.

§133 Lorianismo. Giuseppe De Lorenzo. Anche alcuni aspetti dell’attività intellettuale del De Lorenzo rientrano nella categoria del Lorianismo. Tuttavia occorre con lui essere discreti.

Costume e Senso comune

§19 Senso comune. Il Manzoni fa distinzione tra senso comune e buon senso (Cfr Promessi Sposi, Cap. XXXII sulla peste e sugli untori). Parlando del fatto che c’era pur qualcuno che non credeva agli untori ma non poteva sostenere la sua opinione contro l’opinione volgare diffusa, aggiunge: «Si vede ch’era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica: il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune».

§29 Buon senso e senso comune. I rappresentanti del «buon senso» sono l’«uomo della strada», il «francese medio» diventato «l’uomo medio», «monsieur Tout‑le-monde». Nella commedia borghese sono specialmente da ricercare i rappresentanti del buon senso.

Argomenti di Cultura

§87 Noterelle di cultura giapponese. Cfr altra nota sulle religioni nel Giappone di fronte allo Stato, sulla riforma apportata allo Shintoismo, che mentre da una parte è stato ridotto a religione (o superstizione) popolare, dall’altra è stato privato dell’elemento costituito dal «culto dell’Imperatore», divenuto elemento a se stante e costituito in dovere civico, in coefficente morale dell’unità dello Stato. Studiare come è nata questa riforma, che ha una grande portata e che è legata alla nascita e allo sviluppo del parlamentarismo e della democrazia nel Giappone. Dopo il suffragio allargato (quando e in che forma?) ogni elezione, con gli spostamenti nelle forze politiche dei partiti, e con i cambiamenti che i risultati possono portare nel governo, opera attivamente a dissolvere la forma mentale «teocratica» e assolutista delle grandi masse popolari giapponesi.

La convinzione che l’autorità e la sovranità non è posta nella persona dell’imperatore, ma nel popolo, conduce a una vera e propria riforma intellettuale e morale, corrispondente a quella avvenuta in Europa per opera dell’illuminismo e della filosofia classica tedesca, portando il popolo giapponese al livello della sua moderna struttura economica e sottraendolo all’influsso politico e ideologico dei baroni e della burocrazia feudale.

§89 Noterelle di cultura americana. G. A. Borgese in Strano interludio («Corriere della Sera», 15 marzo 1932) divide la popolazione degli Stati Uniti in quattro strati: la classe finanziaria, la classe politica, l’Intelligenza, l’Uomo comune. L’Intelligenza è minuscola all’estremo, in confronto alle prime due: alcune decine di migliaia, accentrate specialmente nell’East, fra cui qualche migliaio di scrittori. «Non si giudichi soltanto dal numero. Essa è spiritualmente fra le meglio attrezzate del mondo. Uno che ne fa parte la compara a ciò che fu l’Enciclopedia nella Francia del Settecento. Per ora, a chi non ami esorbitare dai fatti, essa appare un cervello senza membra, un’anima priva di forza operante; la sua influenza sulla cosa pubblica è presso che nulla». Osserva che dopo la crisi, la classe finanziaria che prima padroneggiava la classe politica, in questi ultimi mesi ne ha «subito» il soccorso, virtualmente un controllo. «Il Congresso sorregge la banca e la borsa; il Campidoglio di Washington puntella Wall Street. Ciò mina l’antico equilibrio dello Stato americano; senza che un nuovo ordine sorga».

Poiché in realtà classe finanziaria e classe politica sono in America la stessa cosa, o due aspetti della stessa cosa, il fatto significherebbe solo che è avvenuta una vera e propria differenziazione, cioè che la fase economico‑corporativa della storia americana è in crisi e si sta per entrare in una nuova fase: ciò apparirà chiaramente solo se si verifica una crisi dei partiti storici (repubblicano e democratico) e la creazione di qualche potente nuovo partito che organizzi permanentemente la massa dell’Uomo Comune. I germi di tale sviluppo esistevano già (partito progressista), ma la struttura economico‑corporativa ha finora sempre reagito efficacemente contro di essi.

L’osservazione che l’Intelligenza americana ha una posizione storica come quella dell’Enciclopedia francese nel 700 è molto acuta e può essere sviluppata.

§149 Argomenti di coltura. Una serie di «argomenti» può essere offerta dalla descrizione critica di alcune grandi imprese editoriali di cultura, come la collezione degli economisti italiani 50 volumi del Custodi, la Biblioteca degli Economisti 80 volumi del Ferrara‑Boccardo, la Collezione di storia economica 8 volumi del Pareto‑Ciccotti, la nuova collezione progettata dal Bottai la collezione di scrittori politici di Attilio Brunialti.

§151 Argomenti di coltura. Contro natura, naturale ecc. Cosa significa dire che una certa azione è «naturale», o che essa è invece «contro natura»? Ognuno, nel suo intimo, crede di sapere esattamente cosa ciò significa, ma se si domanda una risposta esplicita, si vede che la cosa non è poi così facile. Intanto occorre fissare che non si può parlare di «natura» come qualcosa di fisso e oggettivo; in questo caso «naturale» significa giusto e normale secondo la nostra attuale coscienza storica, che è poi la nostra «natura». Molte azioni che alla nostra coscienza appaiono contro natura, per altri sono naturali perché gli animali le compiono e non sono forse gli animali gli «esseri più naturali del mondo»?

Queste forme di ragionamento si sentono talvolta fare a proposito di problemi connessi ai rapporti sessuali. Perché l’incesto sarebbe «contro natura» se esso è comune nella «natura»? Intanto anche queste affermazioni sugli animali non sempre sono esatte, perché le osservazioni sono fatte su animali addomesticati dall’uomo per il suo utile e costretti a una forma di vita che per loro non è naturale, ma è secondo la volontà umana. Ma se anche ciò fosse vero, che valore avrebbe ciò per l’uomo? La natura dell’uomo è l’insieme dei rapporti sociali che determina una coscienza storicamente definita, e questa coscienza indica ciò che è «naturale» o no ed esiste così una natura umana contraddittoria perché è l’insieme dei rapporti sociali.

Si parla di «seconda natura»; una certa abitudine è diventata una seconda natura; ma la «prima natura» sarà stata proprio «prima»? Non c’è in questo modo di esprimersi del senso comune l’accenno alla storicità della natura umana? (continua sotto).

§153 Argomenti di coltura. Contro natura, naturale, ecc. Constatato che essendo contraddittorio l’insieme dei rapporti sociali, è contraddittoria la coscienza storica degli uomini, si pone il problema del come si manifesti tale contraddittorietà: si manifesta nell’intero corpo sociale, per l’esistenza di coscienze storiche di gruppo, e si manifesta negli individui come riflesso di queste antinomie di gruppo.

Nei gruppi subalterni, per l’assenza di iniziativa storica, la disgregazione è più grave, è più forte la lotta per liberarsi da principii imposti e non proposti autonomamente, per il raggiungimento di una coscienza storica autonoma. Come si formerà? Come ognuno dovrà scegliere gli elementi che costituiranno la coscienza autonoma? Ogni elemento «imposto» sarà perciò da ripudiare a priori? Sarà da ripudiare come imposto, ma non in se stesso, cioè occorrerà dargli una nuova forma che sia legata al gruppo dato.

Che l’istruzione sia «obbligatoria» non significa che sia da ripudiare: occorre fare «libertà» di ciò che è «necessario», ma perciò occorre riconoscere una necessità «obbiettiva», cioè che sia obbiettiva anche per il gruppo in parola. Bisogna riferirsi quindi ai rapporti tecnici di produzione, a un determinato tipo di produzione che per essere continuato e sviluppato domanda un determinato modo di vivere e quindi determinate regole di condotta.

Bisogna persuadersi che non solo è «oggettivo» e necessario un certo attrezzo, ma anche un certo modo di comportarsi, una certa educazione, una certa civiltà; in questa oggettività e necessità storica si può porre l’universalità del principio morale, anzi non è mai esistita altra universalità che questa oggettiva necessità, spiegata con ideologie trascendenti e presentata nel modo più efficace volta per volta perché si ottenesse lo scopo. (Continua pagina seguente).

§156 Argomenti di coltura. Contro natura, naturale, ecc. Una concezione come quella esposta pare conduca a una forma di relativismo e quindi di scetticismo morale. È da osservare che ciò si può dire di tutte le concezioni precedenti, la cui imperatività categorica e oggettiva è sempre stata riducibile dalla «cattiva volontà» a una forma di relativismo.

Perché la concezione religiosa potesse almeno apparire assoluta e oggettivamente universale, sarebbe stato necessario che essa si presentasse monolitica, per lo meno intellettualmente uniforme in tutti i credenti, ciò che è lungi dalla realtà (differenze di scuola, sette, tendenze, e differenze di classe: semplici e colti ecc.).

Così si dica della formula categorica del Kant: opera come vorresti operassero tutti gli uomini nelle stesse circostanze.

È evidente che ognuno può pensare che tutti dovrebbero operare come lui: un marito geloso che ammazza la moglie infedele pensa che tutti i mariti dovrebbero ammazzare le mogli infedeli; la formula kantiana, analizzata realisticamente, non supera un ambiente dato, con tutte le sue superstizioni morali e i suoi costumi barbarici, è statica è una vuota formula che può essere riempita di qualsiasi contenuto storico attuale (con le sue contraddizioni, naturalmente, per cui ciò che è verità di là dai Pirenei è bugia di qua dai Pirenei).

L’argomento del pericolo del relativismo e scetticismo non è valido pertanto. Il problema da porsi è un altro: cioè questa data concezione ha in sé i caratteri di una certa durata? oppure è mutevole ogni giorno e dà luogo, nello stesso gruppo, alla formulazione della teoria della doppia verità? Risolti questi problemi, la concezione è giustificata. Ma ci sarà un periodo di rilassatezza, anzi di libertinaggio e di dissolvimento morale. Questo è tutt’altro che escluso. Ma è argomento non valido.

I periodi di rilassatezza e di dissolvimento si sono spesso verificati nella storia, predominando sempre la stessa concezione morale; essi sono dipendenti da cause storiche reali e non dalle concezioni morali, essi indicano anzi che una vecchia concezione si disgrega e un’altra nasce, ma quella in disgregamento tenta di mantenersi coercitivamente, costringendo la società a forme di ipocrisia alle quali appunto i periodi di rilassamento e libertinaggio reagiscono.

Il pericolo di non vivacità morale è invece rappresentato dalla teoria fatalistica degli stessi gruppi che dividono la concezione della naturalità secondo la natura dei bruti, per cui tutto è giustificato dall’ambiente sociale; ogni responsabilità individuale così viene ad essere annegata nella responsabilità sociale. Se questo fosse vero, il mondo e la storia sarebbero immobili sempre. Infatti se l’individuo per cambiare ha bisogno che tutta la società cambi, meccanicamente, per chissà quale forza extraumana, il cambiamento non avverrebbe mai.

La storia è una lotta continua di individui o di gruppi per cambiare la società, ma perché ciò sia questi individui e gruppi dovranno sentirsi superiori alla società, educatori della società ecc. L’ambiente quindi non giustifica ma solo «spiega» il comportamento degli individui e specialmente di quelli più passivi storicamente. La spiegazione servirà a rendere talvolta indulgenti verso i singoli e darà materiale per l’educazione, ma non deve mai diventare «giustificazione» senza condurre necessariamente a una delle forme più ipocrite e rivoltanti di conservatorismo e di «retrivismo». (Continua a p. 49).

§159 Argomenti di coltura. Naturale, contro natura, ecc. Al concetto di «naturale» si contrappone quello di «artificiale» o «convenzionale». Ma cosa significa «artificiale» e «convenzionale» quando è riferito alle grandi moltitudini? Significa «storico» e inutilmente si cerca un senso deteriore nella cosa, perché essa è penetrata nella coscienza come una «seconda natura». Si potrà quindi parlare di artificio e di convenzione in riferimento a idiosincrasie personali, non a fenomeni di massa già in atto. Viaggiare in ferrovia è artificiale, ma non certo come l’imbellettarsi per una donna.

Per ciò che si è accennato nei paragrafi precedenti, come positività, si pone il problema di chi dovrà decidere che un determinato contegno morale è il più conforme a un determinato stadio di sviluppo delle forze produttive. Certo non si creerà un ufficio apposta. Le forze dirigenti nasceranno per il fatto stesso che il modo di pensare sarà indirizzato in questo senso realistico, e nasceranno dall’urto stesso dei pareri discordi, senza «convenzionalità» e «artifici».

§157 Argomenti di coltura. Una frase del generale Gazzera nel discorso al Parlamento come ministro della guerra (22 aprile 1932; cfr giornali del 23): «L’ardimento nasce dalla passione, la sagacia dall’intelletto, l’equilibrio dal sapere». Si potrebbe commentare, cercando, ciò che è specialmente interessante, di vedere come ardimento, sagacia ed equilibrio da doti personali diventano, attraverso l’organizzazione dell’esercito, qualità collettive di un insieme organico e articolato di ufficiali, sottufficiali, caporali e soldati, poiché, nell’azione, tutte e quattro le gradazioni hanno vita propria intensa e insieme formano una collettività organica.

§158 Argomenti di coltura. La tendenza a diminuire l’avversario. Mi pare che tale tendenza di per se stessa sia un documento della inferiorità di chi ne è posseduto. Si cerca infatti di diminuire l’avversario per poter credere di esserne vittoriosi; quindi in tale tendenza è anche istintivamente un giudizio sulla propria incapacità e debolezza, ossia un inizio di autocritica, che si vergogna di se stessa, che ha paura di manifestarsi esplicitamente e con coerenza sistematica, perché si crede nella «volontà di credere» come condizione di vittoria, ciò che non sarebbe inesatto se non fosse concepito meccanicamente e non diventasse un autoinganno (contiene una indebita confusione tra massa e capi e finisce coll’abbassare la funzione del capo al livello della funzione del più arretrato e incondito gregario).

Un elemento di tale tendenza è di natura oppiacea: è proprio dei deboli abbandonarsi alla fantasticheria, sognare a occhi aperti che i propri desideri sono realtà, che tutto si svolge secondo essi: da una parte l’incapacità, la stupidaggine, la barbarie, la paurosità, dall’altra le più alte doti di carattere e di intelligenza: la lotta non dovrebbe essere dubbia e già pare di tenere in pugno la vittoria. La lotta rimane lotta sognata e vinta in sogno: nella realtà, da dovunque si cominci ad operare, le difficoltà appaiono gravi, e siccome si deve cominciare sempre necessariamente da piccole cose (poiché, per lo più, le grandi cose sono un insieme di piccole cose), viene a sdegno la «piccola cosa»: è meglio continuare a sognare e rimandare tutto al momento della «grande cosa». La funzione di sentinella è gravosa, noiosa, defatigante; perché «sprecare» così la forza umana e non conservarla invece per la grande battaglia eroica? e così via.

Non si riflette poi che se l’avversario ti domina e tu lo diminuisci, riconosci di essere dominato da uno che consideri inferiore? Ma come è riuscito a dominarti? Come mai ti ha vinto ed è stato superiore a te proprio in quell’attimo decisivo che doveva dare la misura della tua superiorità e della sua inferiorità? Ci sarà stata di mezzo la «coda del diavolo». Ebbene impara ad avere la coda del diavolo dalla tua parte.

Passato e presente

§53 Passato e presente. Hegel aveva affermato che la servitù è la culla della libertà. Per Hegel, come per Machiavelli, il «principato nuovo» e la connessa servitù sono giustificati solo come educazione e disciplina dell’uomo non ancora libero. Lo Spaventa (Principi di etica, Appendice, Napoli, 1904) lo interpretava: «Ma la culla non è la vita. Alcuni ci vorrebbero sempre in culla». Lo stesso si potrebbe dire per il protezionismo doganale, che era presentato come una culla, ma la vita diventava poi sempre una culla.

§71 Passato e Presente. Quistioni e polemiche personali. A chi giovano? A quelli che vogliono ridurre le quistioni di principio e generali a schermaglie e bizze particolari, a casi di ambizione individuale, a trastulli letterari e artistici (quando sono letterari e artistici). L’interesse del pubblico viene sviato: da parte in causa, il pubblico diventa mero «spettatore» di una lotta di gladiatori che si aspetta i «bei colpi», in sé e per sé: la politica, la letteratura, la scienza vengono degradate a gioco «sportivo». In questo senso occorre perciò condurre le polemiche personali, bisogna cioè ottenere che il pubblico senta che «de te fabula narratur».

§72 Passato e presente. L’errore degli antiprotezionisti di sinistra (scrittori della «Voce», «Unità», sindacalisti ecc.).

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Essi impostavano le quistioni come quistioni di principio (scientifico), come scelta di un indirizzo generale della politica statale e anzi nazionale dei governi. Dividevano gli industriali liberisti da quelli protezionisti ecc., invitando a scegliere tra queste due categorie. Ma si potevano esse dividere, oppure i loro interessi non erano già strettamente connessi attraverso le banche e tendevano sempre più a connettersi attraverso i gruppi finanziari e i cartelli industriali? Occorreva quindi, se si voleva creare una forza politica «liberista» efficiente, non proporsi fini irraggiungibili, quali questo di dividere il campo industriale e dare a una parte di esso l’egemonia sulle masse popolari (specialmente sui contadini), ma tendere a creare un blocco fra le classi popolari, con l’egemonia di quella più avanzata storicamente. (Libro di Rerum Scriptor, su Tendenze vecchie e bisogni nuovi del movimento operaio italiano potrebbe essere recensito in tal senso). Infatti Rerum Scriptor e soci ottennero lo scopo meschino di deviare il rancore contadino contro gruppi sociali «innocenti» relativamente ecc.

§49 Passato e presente. La frase che «non si rimane a Roma senza idee» che trovasi citata in altra nota, ed è attribuita al Mommsen, è stata pronunciata il 26 marzo 1861 (in Parlamento) da Giuseppe Ferrari, che sosteneva doversi andare a Roma «colle idee proclamate dalla Rivoluzione Francese», che «ci possono redimere dal pontefice perché riscattano la ragione».

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Nel 1872 (16 dicembre, in Parlamento) il Ferrari osservava che come tante altre cose d’Italia si erano fatte «a poco a poco, lentamente, per una serie di quasi» si era «persino trovato il mezzo di venire a Roma a poco a poco» e aggiungeva: non vorrei «che a poco a poco fossero snaturate le nostre istituzioni e che noi ci trovassimo in un altro mondo: per esempio, nel Medio Evo». Ricordare che dei moderati, Quintino Sella trovava che «bisognava andare a Roma» con un’idea universale, e quest’idea trovava nella «scienza».

Cfr B. Croce, Storia d’Italia, p. 4 (3a ediz.) e nota alla pagina 4, a p. 305. In un articolo del 22 dicembre 1864, all’annunzio della votazione che decide il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, Francesco De Sanctis (nell’«Italia» di Napoli o nel «Diritto»? cercare) scrive: «A Roma noi andiamo per edificarvi la terza civiltà, per farla una terza volta regina del mondo civile. La capitale del mondo pagano e del mondo cattolico è ben degna di essere la capitale dello spirito moderno. Roma dunque è per noi non il passato, ma l’avvenire.

§13 Passato e presente. Manzoni dialettico. Cap. VIII dei Promessi Sposi, episodio della tentata sorpresa di Renzo e Lucia a Don Abbondio per farsi sposare in casa: «Renzo che strepitava di notte in casa altrui, dove s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza di un oppressore; eppure alla fin dei fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure in realtà era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimosettimo».

§16 Passato e presente. La filosofia di Gentile. Selvaggio attacco contro Gentile e i suoi discepoli sferrato nella «Roma fascista» dell’ottobre 1931.

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Gentile è accusato di «alto tradimento», di procedimenti sleali e truffaldini. L’attacco fu fatto cessare d’autorità, ma non pare che l’attaccante (G. A. Fanelli) sia stato colpito da sanzioni, nonostante la estrema gravità delle accuse, evidentemente non provate perché il Gentile è rimasto nei posti occupati. Ricordare il precedente attacco di Paolo Orano ecc.

Appare che la posizione occupata ufficialmente dal Gentile nel campo della cultura nazionale non si vuole rimanga indiscussa e si rafforzi troppo fino a diventare un’istituzione: la filosofia del Gentile non è riconosciuta come ufficiale e nazionale, ciò che significherebbe subordinazione esplicita del cattolicismo e sua riduzione a un compito subalterno ecc.

§17 Passato e presente. Una generazione può essere giudicata dallo stesso giudizio che essa dà della generazione precedente, un periodo storico dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza. È il solito rapporto tra il grande uomo e il cameriere. Fare il deserto per emergere e distinguersi. Una generazione vitale e forte, che si propone di lavorare e di affermarsi, tende invece a sopravalutare la generazione precedente perché la propria energia le dà la sicurezza che andrà anche più oltre; semplicemente vegetare è già superamento di ciò che è dipinto come morto.

Si rimprovera al passato di non aver compiuto il compito del presente: come sarebbe più comodo se i genitori avessero già fatto il lavoro dei figli. Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente: chissà cosa avremmo fatto noi se i nostri genitori avessero fatto questo e quest’altro..., ma essi non l’hanno fatto e quindi noi non abbiamo fatto nulla di più. Una soffitta su un pianterreno è meno soffitta di quella sul decimo o trentesimo piano? Una generazione che sa far solo soffitte si lamenta che i predecessori non abbiano già costruito palazzi di dieci o trenta piani. Dite di esser capaci di costruire cattedrali ma non siete capaci che di costruire soffitte.

Differenza col Manifesto che esalta la grandezza della classe moritura.

§97 Passato e presente. Una riflessione che si legge spesso è quella che il cristianesimo si sia diffuso nel mondo senza bisogno dell’aiuto delle armi. Non mi pare giusto. Si potrà dire così fino al momento in cui il cristianesimo non fu religione di Stato (cioè fino a Costantino), ma dal momento in cui divenne il modo esterno di pensare di un gruppo dominante, la sua fortuna e la sua diffusione non può distinguersi dalla storia generale e quindi dalle guerre; ogni guerra è stata anche guerra di religione, sempre.

§99 Passato e presente. Ho letto riportato un brano del «Tevere» in cui il prof. Orestano, che rappresenta la filosofia italiana nell’Accademia, è chiamato «ridicolo» personaggio o qualcosa di simile. E il «Tevere» ha una certa importanza nel mondo culturale odierno. Ma come tuttavia si aspettano che l’Accademia d’Italia unifichi e centralizzi la vita intellettuale e morale della nazione?

§100 Passato e presente. Il rutto del pievano e altre strapaesanerie. Cesare De Lollis (Reisebilder, pp. 8 e sgg.) scrive alcune note interessanti sui rapporti tra «minoranza» che fece l’Italia e popolo: «… non molti giorni or sono mi capitò di leggere in un giornale quotidiano che da tempo l’Italia si dava troppo pensiero delle scuole elementari e popolari in genere (tra i principali responsabili si designava il Credaro), laddove è l’educazione delle classi superiori che bisogna curare nell’interesse vero della nazione. Or con questo si torna o si vorrebbe tornare al concetto dell’educazione come privilegio di classe; concetto del tutto ancien régime, la controriforma compresa, che si guardò bene anch’essa dall’avvicinare la cultura alla vita, e quindi al popolo. Eppure: perché la nazione sia stilizzata in una vera unità, occorre che quanti la compongono si ritrovin tutti in un certo grado di educazione. Le classi inferiori devono nelle superiori ravvisare i tratti della perfezione conseguita; queste devono in quelle riconoscere la perfettibilità. …

Ora, che si sia fatto molto in questo senso non potran dire che i superficiali osservatori o i retori che empiono la bocca propria e la testa degli altri di paroloni come “stirpe” e “gente”, paroloni i quali tendono, conferendo titoli di nobiltà ereditaria, ad abolire il senso dello sforzo e del dovere personale, così come l’ammirazione ora di moda, e tutta romantica, del costume e dei costumi locali tende a immobilizzare e cristallizzare, invece che incitare sulla via del progresso». (È acuto l’accostamento implicito tra lo strapaesanismo e la cultura privilegio di classe).

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Fatto affine è quello dei nomi delle strade (cfr Corrado Ricci, I nomi delle strade, Nuova Antologia del 1° marzo 1932): il Ricci, nel giugno 1923, al senato, discutendosi un decreto relativo ai mutamenti di nomi delle strade e delle piazze comunali, propose che si facesse una revisione dei nomi vecchi e nuovi, per vedere se non convenisse, in diversi casi, tornare all’antico. (Ciò che avvenne in molti casi, e il fatto che talvolta fu opportuno, non toglie niente al significato dell’indirizzo).

Così le diverse «Famiglie» meneghina, torinese, bolognese ecc. che prosperano in questo stesso periodo. Tutti tentativi di immobilizzare e cristallizzare ecc.

§102 Passato e presente. Cfr Gioacchino Volpe, 23 marzo 1919: 27 ottobre 1922, nel «Corriere della Sera» del 22 marzo 1932 (in occasione dell’anniversario della fondazione del Fascio di Milano). Articolo interessante e abbastanza comprensivo. Sarà da fare una bibliografia di tutti gli scritti del Volpe sugli avvenimenti del dopoguerra: alcuni sono già raccolti in volume. Nel «Corriere» del 23 marzo è uscito un secondo articolo del Volpe, Fascismo al Governo: 1922‑1932, molto meno interessante del primo, ma con elementi notevoli: è evidente il tentativo di scrivere non da apologeta puro, ma da critico che si pone da un punto di vista storico, ma non pare molto riuscito.

§134 Passato e presente. Un giudizio su Paolo Boselli. Nella commemorazione di Paolo Boselli scritta in «Gerarchia» (marzo 1932) da Filippo Caparelli è contenuto questo spunto: «Sembra forse un po’ strano che in quegli anni (del Risorgimento) così pieni di mirabili vicende, egli non pensasse ad attingere ad altre fonti, che pur si presentavano copiose e degnissime, e cioè al diretto contatto con la vita, questi generosi entusiasmi. Invece non bisogna allarmarsi (sic) perché questo era il suo temperamento e la sua inclinazione (!) lo portava più a coltivare gli entusiastici accenti patriottici nelle tranquille contrade letterarie che sui campi sommamente (!) disagevoli dell’azione».

§54 Passato e presente. La Sardegna.

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Nel «Corriere della Sera» tre articoli di Francesco Coletti, col titolo generale La Sardegna che risorge, enumerano alcuni dei più importanti problemi sardi e danno un prospetto sommario dei provvedimenti governativi. Il terzo articolo è del 20 febbraio 1932; gli altri due di qualche settimana prima. Il Coletti si è sempre occupato della Sardegna, anche negli anni prima della guerra, e i suoi scritti sono sempre utili, perché ordinati e riassuntivi di molti fatti. Non so se abbia fatto delle raccolte in volume di scritti vecchi. Vedere.

§106 Passato e presente. La lingua italiana a Malta.

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La difesa della lingua e della cultura italiana a Malta, come appare dagli avvenimenti dei primi mesi del 1932 (cfr articolo del «Corriere della Sera» del 25 marzo 1932), è stata resa più difficile dall’esistenza del Concordato. Finché lo Stato italiano era in conflitto con la Chiesa, l’esistenza di una italianità organizzata a Malta (come in molti altri paesi del mondo) non rappresentava un pericolo per gli Stati egemonici: essa difficilmente poteva svilupparsi nella sfera nazionale e politica; rimaneva nella sfera del folclore e delle culture dialettali.

Col Concordato, la quistione è cambiata: la Chiesa, amministrata da italiani e rappresentata localmente da italiani, non più in conflitto con lo Stato, in realtà si confonde con lo Stato italiano e non più col ricordo folcloristico della cosmopoli cattolica. Ecco dunque che il Concordato, invece di facilitare un’espansione di cultura italiana, la rende più difficile non solo, ma ha creato la situazione per una lotta contro i nuclei di italianità tradizionali. Così appare che nel mondo moderno un imperialismo culturale e spirituale è utopistico: solo la forza politica, fondata sull’espansione economica, può essere la base per un’espansione culturale.

§154 Passato e presente. Franz Weiss, «stelletta» dei «Problemi del Lavoro» potrebbe chiamarsi il «nuovo Masticabrodo» e la raccolta dei suoi scritti il nuovo libro delle Sette Trombe.

L’altra «stelletta», quella del «Lavoro» (Weiss ha sei punte, Ansaldo ha cinque punte: la stelletta di Ansaldo viene identificata anche come «stelletta nera» del «Lavoro») è più «aristocratica» e nello stile e nel contenuto di argomenti.

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La «popolarità» dello stile del Weiss consiste specialmente in ciò che i suoi articoli sono formicolanti di proverbi e di modi di dire popolari più proverbioso di Sancio Pancia: si potrebbe fare una raccolta di «sapienze»: «tanto va la gatta al lardo, bandiera vecchia, gallina vecchia, il senno di poi, due pesi e due misure», ecc.; vedere anche la «falsa» familiarità e il brio da cocotte stanca.

Si ha l’impressione che Weiss abbia uno stock di proverbi e modi di dire da mettere in circolazione, come il commesso viaggiatore ha il suo stock di freddure: quando vuol scrivere un articolo, non gli importa il contenuto dell’articolo, ma la razione di proverbi da esitare. Lo svolgimento letterario è dettato non dalla necessità intima della dimostrazione, ma dal bisogno di collocare le preziose gemme della sapienza dei popoli.

Parallelo con Corso Bovio, che, invece dei proverbi, costella gli articoli di grandi nomi; ogni colonnina di giornale è una passeggiata in un Pincio della Società delle Nazioni: bisogna che appaiano, per colonna, almeno 50 nomi, da Pitagora a Paneroni, dall’Ecclesiaste a Tom Pouce. Si potrebbe, come esempio di ilotismo letterario, analizzare così un articolo di Weiss e uno di Corso Bovio. (C’è però un po’di Bovio in Weiss e un po’di Weiss in Bovio e ambedue fanno rimaner babbeo il lettore operaio al quale si rivolgono).

§155 Passato e presente. Apologhi. Spunti sulla religione. L’opinione corrente è questa: che non si deve distruggere la religione se non si ha qualcosa da sostituirle nell’animo degli uomini. Ma come si fa a capire quando una sostituzione è avvenuta e il vecchio può essere distrutto?

Altro modo di pensare connesso al primo: la religione è necessaria per il popolo, anzi per il «volgo», come si dice in questi casi. Naturalmente ognuno crede di non essere più «volgo», ma che volgo sia ogni suo prossimo e perciò dice necessario anche per sé fingere di essere religioso, per non turbare lo spirito degli altri e gettarli nel dubbio. Avviene così che siano molti a non credere più, ognuno persuaso di essere superiore agli altri perché non ha bisogno di superstizioni per essere onesto ma ognuno persuaso che occorre mostrare di «credere» per rispetto agli altri.

§116 Passato e presente. Phlipot.

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La farsa dei Trois Galants et Phlipot contenuta nel Recueil de farces ecc. par Le Roux de Lincy et F. Michel (Parigi, Techener, 1837, in 4 voll.) (nel 4° vol., n. 12). Phlipot, quando sente il «Qui vive?», risponde subito: «je me rends!», grida successivamente: «Vive France! Vive Angleterre! Vive Bourgogne!», finché minacciato da tutte le parti, e non sapendo dove cacciarsi grida: «Evviva i più forti!» Farsa francese del secolo XV‑XVI.

§152 Passato e presente. Si potrebbe dire che la borghesia francese è il «gargagnan della civiltà europea».

§18 Passato e presente. Gli avvocati in Italia.

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Cfr l’articolo di Mariano D’Amelio, La classe forense in cifre, nel «Corriere della Sera» del 26 gennaio 1932. Cita uno studio di Rodolfo Benini, pubblicato negli Atti dell’Accademia dei Lincei, «ricco di savie e sottili osservazioni circa la classe degli avvocati, dei procuratori e dei causidici, relativo agli anni 1880 e 1913». Libro di Piero Calamandrei (edito dalla «Voce», mi pare, e intitolato Troppi avvocati). Studio recente dello Spallanzani (di circa 20 pp.) L’efficienza della classe forense sulla vita italiana (senza indicazioni bibliografiche). Nel 1880 nei tre albi di avvocati e procuratori, di soli avvocati e soli procuratori, erano inscritti 12 885 professionisti, cioè 45,17 per 100 000 abitanti; nel 1913 il numero era di 21 488, 61,97 per 100 000 abitanti. Nel 1923, 23 925, 54,41 per 100 000. Nel 1927, dopo la revisione straordinaria degli albi disposta dalla nuova legge, il numero ascende a 26 679, 68,85 per 100 000; furono cancellati più di 2000. L’azione di revisione e le nuove norme restrittive per le inscrizioni riducono, nel 29, il numero a 25 353, 64,21 per 100 000. Ora in media si inscrivono 10 avvocati all’anno, meno delle vacanze che si verificano.

Negli altri paesi: Francia: nel 1911 gli avocats e avoués 10 236, 29 per 100 000 abitanti; nel 1921, 15 236, 39 per 100 000. Germania del dopo‑guerra: nel 1925, 13 676 Rechtsanwälte (avvocati e procuratori), 22 per 100 000 nel 1913, 18 per 100 000. Austria: prima della guerra 15 per 100 000; dopo la guerra 18. Inghilterra: nel 1920 17 946, 47 per 100 000, prima della guerra 45 per 100 000.

Nelle facoltà di giurisprudenza italiane ogni anno 9000 studenti: le lauree in legge che nel periodo 1911‑14 furono 1900, nel 1928‑29 furono 2240. Nel 1911‑14 i licenziati dal liceo 4943 in media all’anno, nel 1926‑29, 5640. Nella magistratura superiore (Corti d’Appello, d’Assise, Cassazione) i magistrati nel 1880, 2666; nel 1913, 2553; nel 1922, 2546; nel 1929, 2557.

Americanismo e fordismo

§117 Americanismo. La delinquenza. Di solito si spiega lo sviluppo della delinquenza organizzata in grande stile negli Stati Uniti come una derivazione del proibizionismo e del relativo contrabbando. La vita dei contrabbandieri, le loro lotte ecc. hanno creato un clima di romanticismo che dilaga in tutta la società e determina imitazioni, slanci avventurosi ecc. È vero. Ma un altro fattore occorre cercarlo nei metodi di inaudita brutalità della polizia americana: sempre lo «sbirrismo» crea il «malandrinismo». Questo elemento è molto più efficiente di quanto non paia nello spingere alla delinquenza professionale molti individui che altrimenti continuerebbero nell’attività normale di lavoro. Anche la brutalità delle «terze sezioni» serve a nascondere la corruzione della polizia stessa ecc. L’illegalità elevata a sistema degli organi di esecuzione determina una lotta feroce da parte dei malcapitati ecc.

Scienza

§170 Ideologie scientifiche. L’affermazione di Eddington: «Se nel corpo di un uomo eliminassimo tutto lo spazio privo di materia e riunissimo i suoi protoni ed elettroni in una sola massa, l’uomo (il corpo dell’uomo) sarebbe ridotto a un corpuscolo appena visibile al microscopio» (cfr La natura del mondo fisico, ed. francese, p. 20) ha molto colpito la fantasia di G. A. Borgese (cfr il suo libretto)1. Ma cosa significa poi concretamente l’affermazione di Eddington? Mi pare significhi proprio nulla. Se anche si facesse la riduzione su descritta, e la si estendesse a tutto il mondo, i rapporti non muterebbero, le cose rimarrebbero tali come sono.

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Le cose muterebbero solo se solo l’uomo o determinati uomini subisse questa riduzione, nell’ipotesi: si avrebbe allora una riedizione dei Viaggi di Gulliver, con i Lillipuziani, i giganti ecc.

Si potrebbe anche ricordare, a proposito di questo uomo ridotto a un corpuscolo visibile solo al microscopio, la novellina ebrea della ragazza che ha subito un guasto piccolo piccolo, tic… come un colpettino d’unghia. E poi, cosa significherebbe in questo caso un «microscopio» e chi guarderebbe nel microscopio, se l’uomo è un corpuscolo ecc. ecc.? Si tratta in realtà di giochi di parole, non di pensiero scientifico o filosofico. Questo modo di porre le quistioni serve a far fantasticare le teste vuote. Fu pubblicato una volta che l’uomo altro non è che una «muffa vagabonda» come se ciò dovesse mutare il mondo: le teste vuote che confondono le cose con le parole credettero davvero che il mondo fosse mutato e l’uomo non fosse più ciò che era sempre stato nella storia, o non fosse modificato solo in senso progressivo, dato che avesse fatto una nuova scoperta reale che gli permettesse di conoscere meglio il mondo e i suoi rapporti col mondo.

Nella fisica di Eddington la sorpresa del lettore a‑filosofo dipende dal fatto che le parole adoperate per indicare determinati fatti sono arbitrariamente piegate a indicare fatti assolutamente diversi; un corpo rimane «massiccio», nel senso tradizionale, anche se la nuova fisica dimostra che quel corpo contiene un milione di parti di «vuoto» e solo 1 / 1 000 000 di materia; un corpo è «poroso» nel senso tradizionale e non nel nuovo senso, è «poroso» se si lascia penetrare dall’acqua ecc. Note

§176 La «nuova» scienza. «Considerando la insuperata minutezza di questi metodi di indagine ci tornava alla memoria la espressione di un membro dell’ultimo Congresso filosofico di Oxford il quale, secondo riferisce il Borgese, parlando dei fenomeni infinitamente piccoli cui l’attenzione di tanti è oggi rivolta, osservava che “essi non si possono considerare come esistenti indipendentemente dal soggetto che lo osserva”. Sono parole che inducono a molte riflessioni e che rimettono in campo, da punti di vista completamente nuovi, i grandi problemi dell’esistenza soggettiva dell’universo e del significato delle informazioni sensoriali nel pensiero scientifico». Così scrive Mario Camis nella Nuova Antologia del 10 novembre 1931 nella nota: «Scienze biologiche e mediche: Gösta Ekehorn, On the principles of renal function, Stockolm, 1931», p. 131.

Il curioso è che proprio in questo articolo il Camis implicitamente spiega come quella espressione che tanto ha fatto vaneggiare il Borgese possa e debba intendersi in un senso meramente metaforico e non filosofico.

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Si tratta di elementi così piccoli che non possono essere descritti (e si intenda anche ciò in senso relativo) con parole per gli altri, e che l’esperimentatore perciò non riesce a scindere dalla propria personalità soggettiva: ogni esperimentatore deve giungere alla percezione con mezzi propri, direttamente. L’Ekehorn punge un glomerulo di rene della rana con una canula «la cui preparazione è opera di tanta finezza e tanto legata alle indefinibili ed inimitabili intuizioni manuali dello sperimentatore che lo stesso Ekehorn, nel descrivere l’operazione del taglio a sghembo del capillare di vetro dice di non poterne date i precetti a parole ma deve accontentarsi di una vaga indicazione».

Se fosse vero che i fenomeni infinitamente piccoli in quistione «non si possono considerare esistenti indipendentemente dal soggetto che li osserva» essi non sarebbero «osservati» ma «creati» e cadrebbero nello stesso dominio dell’intuizione personale; non i fenomeni ma queste intuizioni sarebbero allora oggetto della scienza, come le «opere d’arte».

Se il fenomeno si ripete e può essere osservato da vari scienziati, indipendentemente gli uni dagli altri, cosa significa l’affermazione se non appunto che si fa una metafora per indicare le difficoltà inerenti alla descrizione e alla rappresentazione dei fenomeni stessi? Difficoltà che può spiegarsi: 1°) con l’incapacità letteraria degli scienziati, didatticamente formati a descrivere e rappresentare i fenomeni macroscopici; 2°) con l’insufficienza del linguaggio comune, foggiato per i fenomeni macroscopici; 3°) col relativamente piccolo sviluppo di queste scienze minimoscopiche, che attendono un ulteriore sviluppo dei loro metodi per essere comprese dai molti per comunicazione letteraria (e non per visione diretta sperimentale).

Questa fase, transitoria, della scienza produce una forma di «sofistica» che richiama i classici sofismi di Achille e della tartaruga, del mucchio e del granello ecc., sofismi che rappresentarono tuttavia una fase nello sviluppo della filosofia e della logica. (Vedere nota precedente su stesso argomento: Borgese‑Eddington ecc.).

Nozioni enciclopediche

§125 Nozioni enciclopediche e argomenti di cultura. Può essere questo il titolo generale della rubrica in cui raccogliere tutti gli spunti e motivi annotati finora, talvolta sotto titoli vari. Spunti per un dizionario di politica e critica, nozioni enciclopediche propriamente dette, motivi di vita morale, argomenti di cultura, apologhi filosofici ecc.

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1) Ultra. Nomi diversi dati in Francia e in Germania ai cattolici, favorevoli a una influenza del papato nei loro rispettivi paesi, ciò che significa poi in gran parte: che lottavano per accrescere la loro forza di partito con l’aiuto di una potenza straniera (non solo «spirituale e culturale», ma anche temporale – e come! – perché avrebbe voluto prelevare imposte, decime, ecc. e dirigere la politica internazionale). Era una forma di certi tempi di «partito dello straniero» opposto a «gallicano» in Francia.

2) Artigiano. Artigianato. Da un articolo di Ugo Ojetti (Arti e artigiani d’Italia, nel «Corriere» del 10 aprile 1932) tolgo alcuni spunti: per la legge italiana è artigiano chi non occupa più di cinque lavoranti se esercita un mestiere d’arte, più di tre se esercita un mestiere usuale. Definizione imprecisa. «Il proprio dell’artigiano è di lavorare egli stesso con le sue mani all’arte sua o al suo mestiere. Che da lui dipendano cinque o dieci persone, ciò non muta il suo carattere d’artigiano, quello che subito lo distingue dall’industriale». Ma anche questa definizione è imprecisa, perché l’artigiano può non lavorare, ma dirigere il lavoro di una bottega: la definizione deve essere cercata nel modo di produzione e di lavoro.

In Germania esiste la patente di mestiere, che ha tre gradi come il mestiere: dell’apprendista «che noi diremmo meglio garzone o novizio», del «compagno» che ha finito il tirocinio di garzone, del «maestro».

L’Ojetti impiega la parola «compagno» per indicare il lavorante artigiano già formato professionalmente, ma questa parola come si giustifica? Non storicamente, perché in italiano non è rimasto l’uso come in francese e tedesco di una parola che un tempo aveva un significato giuridico preciso, e oggi non ha significato «professionale» ma solo di posizione «economica». Professionalmente il «compagno» è un «maestro», ma non ha la proprietà di una bottega e deve lavorare per un altro che sia appunto proprietario.

§126 Nozioni enciclopediche e argomenti di cultura. Il Medio Evo. Cfr Luigi Sorrento, Medio Evo, il termine e il concetto (Milano, Soc. Ed. «Vita e Pensiero», 1931, pp. 54 in 8°). Il Sorrento è professore all’Università del Sacro Cuore (e la pubblicazione è appunto un discorso tenuto in questa università) ed è da immaginare che studi l’argomento oltre che da un punto di vista cattolico ed apologetico, anche entro limiti storico‑letterari, senza cioè occuparsi del contenuto economico‑sociale del concetto di Medio Evo.

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Occorrerebbe invece studiare in modo completo l’argomento, per giungere alla distinzione del Medio Evo dall’età del mercantilismo e delle monarchie assolute che popolarmente sono incluse nel Medio Evo. (Ancien Régime popolarmente si confonde con Medio Evo, mentre è appunto l’età del mercantilismo e delle monarchie assolute, chiuso dalla Rivoluzione francese). L’opuscolo del Sorrento sarà più utile per l’indicazione delle fonti letterarie.

Un paragrafo si potrebbe dedicare a riassumere ciò che ha significato il termine «Italia» nei vari tempi, prendendo le mosse dallo studio in proposito del prof. Carlo Cipolla pubblicato negli Atti della Accademia delle Scienze di Torino.

§94 Nozioni enciclopediche. Homo homini lupus. Fortuna avuta da questa espressione nella scienza politica, ma specialmente nella scienza politica dei filistei da farmacia provinciale. Pare che l’origine della formula sia da trovarsi in una più vasta formula dovuta agli ecclesiastici medioevali, il latino grosso: Homo homini lupus, foemina foeminae lupior, sacerdos sacerdoti lupissimus.

§45 Nozioni enciclopediche. comandare e obbedire. In che misura sia vero che l’obbedire sia più facile del comandare. Il comandare proprio del caporalismo. L’attendere passivamente gli ordini. Nell’obbedienza c’è un elemento di comando e nel comando un elemento di obbedienza (autocomando e autoobbedienza). Il «perinde ac cadaver» dei gesuiti. Il carattere del comando e dell’obbedienza nell’ordine militare. Bisogna obbedire senza comprendere dove l’obbedienza conduce e a che fine tende? Si obbedisce in questo senso, volentieri, cioè liberamente, quando si comprende che si tratta di forza maggiore: ma perché si sia convinti della forza maggiore occorre che esista collaborazione effettiva quando la forza maggiore non esiste.

Comandare per comandare è il caporalismo; ma si comanda perché un fine sia raggiunto, non solo per coprire le proprie responsabilità giuridiche: «io ho dato l’ordine: non sono responsabile se non è stato eseguito o se è stato eseguito male ecc.; responsabile è l’esecutore che ha mancato».

Il comando del direttore d’orchestra: accordo preventivo raggiunto, collaborazione, il comando è una funzione distinta, non gerarchicamente imposta1.

Note

§46 Nozioni enciclopediche. La concezione melodrammatica della vita. Non è vero che solo in alcuni strati deteriori dell’intelligenza si possa trovare un senso libresco e non nativo della vita. Nelle classi popolari esiste ugualmente la degenerazione «libresca» della vita, che non è solo data dai libri, ma anche da altri strumenti di diffusione della cultura e delle idee. La musica verdiana, o meglio il libretto e l’intreccio dei drammi musicati dal Verdi sono responsabili di tutta una serie di atteggiamenti «artificiosi» di vita popolare, di modi di pensare, di uno «stile». «Artificioso» non è forse la parola propria, perché negli elementi popolari questa artificiosità assume forme ingenue e commoventi. Il barocco, il melodrammatico sembrano a molti popolani un modo di sentire e di operare straordinariamente affascinante, un modo di evadere da ciò che essi ritengono basso, meschino, spregevole nella loro vita e nella loro educazione per entrare in una sfera più eletta, di alti sentimenti e di nobili passioni.

I romanzi d’appendice e da sottoscala (tutta la letteratura sdolcinata, melliflua, piagnolosa) prestano eroi ed eroine; ma il melodramma è il più pestifero, perché le parole musicate si ricordano di più e formano come delle matrici in cui il pensiero prende una forma nel suo fluire. Osservare il modo di scrivere di molti popolani: è ricalcato su un certo numero di frasi fatte.

D’altronde il sarcasmo è troppo corrosivo. Bisogna ricordare che si tratta non di uno snob dilettantesco, ma di qualcosa profondamente sentita e vissuta.

§50 Nozioni enciclopediche. Epigoni e Diadochi.

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Qualcuno impiega il termine «Epigoni» in modo abbastanza curioso e ci ricama intorno tutta una teoria sociologica abbastanza bizzarra e sconclusionata. Perché gli Epigoni dovrebbero essere inferiori ai progenitori? Perché dovrebbe essere legato al concetto di Epigono quello di degenerato?

Nella tragedia greca, gli «Epigoni» realmente portano a compimento l’impresa che i «Sette a Tebe» non erano riusciti a compiere. Il concetto di degenerazione è invece legato ai Diadochi, i successori di Alessandro.

§55 Nozioni enciclopediche. Self‑government e burocrazia. L’autogoverno è una istituzione o un costume politico‑amministrativo, che presuppone condizioni ben determinate: l’esistenza di uno strato sociale che viva di rendita, che abbia una tradizionale pratica degli affari e che goda di un certo prestigio tra le grandi masse popolari per la sua rettitudine e il suo disinteresse (e anche per alcune doti psicologiche, come quella di saper esercitare l’autorità con fermezza dignitosa, ma senza alterigia e distacco superbioso).

Si capisce che perciò l’autogoverno sia stato possibile solo in Inghilterra, dove la classe dei proprietari terrieri, oltre alle condizioni di indipendenza economica, non era stata mai in lotta accanita con la popolazione (ciò che successe in Francia) e non aveva avuto grandi tradizioni militari di corpo (come in Germania), con il distacco e l’atteggiamento autoritario derivanti.

Cambiamento di significato dell’autogoverno in paesi non anglosassoni: lotta contro il centralismo dell’alta burocrazia governativa, ma istituzioni affidate a una burocrazia controllata immediatamente dal basso.

Burocrazia divenuta necessità: la quistione deve essere posta di formare una burocrazia onesta e disinteressata, che non abusi della sua funzione per rendersi indipendente dal controllo del sistema rappresentativo. Si può dire che ogni forma di società ha la sua impostazione o soluzione del problema della burocrazia, e una non può essere uguale all’altra.

§73 Nozioni enciclopediche. Dottrinari ecc. Il carattere «dottrinario» strettamente inteso di un gruppo può essere stabilito dalla sua attività reale (politica e organizzativa) e non dal contenuto «astratto» della dottrina stessa. Un gruppo di «intellettuali» per il fatto stesso che si costituisce in una certa misura quantitativa, mostra di rappresentare «problemi sociali», le condizioni per la cui soluzione esistono già o sono in via di apparizione. Si chiama «dottrinario» perché rappresenta non solo interessi immediati ma anche quelli futuri (prevedibili) di un certo gruppo: è «dottrinario» in senso deteriore quando si mantiene in una posizione puramente astratta e accademica, e alla stregua delle «condizioni già esistenti o in via di apparizione» non si sforza di organizzare, educare e dirigere una forza politica corrispondente. In questo senso i «giacobini» non sono stati per nulla «dottrinari».

§81 Nozioni enciclopediche. Lo spirito di corpo. Nel senso migliore del termine potrebbe significare la concordia degli intenti e delle volontà, la compatta unità morale per cui importa che le cose buone siano fatte nell’interesse dell’unico tutto, non importa se dall’uno o dall’altro componente del tutto.

Di solito però «spirito di corpo» ha assunto un significato deteriore, cioè di «difesa» del tutto contro le sanzioni per il male fatto dai singoli. E si comprende quale sia la radice della degenerazione: è una falsa comprensione di ciò che è il «tutto».

Si assume per «tutto» solo una frazione di esso, una frazione, s’intende, subordinata, e attraverso la «forza» data dallo spirito di corpo, si tende e si tenta di far prevalere la parte (subordinata) al tutto, per esercitare un potere indiretto (se non è possibile quello diretto) e ottenere privilegi.

Se si analizza ancora si vede che alla radice di tale spirito di corpo è l’ambizione di una persona o di un piccolo gruppo di persone (che si chiama allora «consorteria», «cricca», «combriccola», «camarilla» ecc.). L’elemento burocratico, civile, ma specialmente militare, ha le maggiori tendenze allo spirito di corpo, che conduce alla formazione di «caste».

L’elemento psicologico e morale più forte dello spirito di corpo è il punto di onore, dell’onore del corpo, si intende, che crea le passioni più sviate e deteriori. La lotta contro lo spirito di corpo deteriore è la lotta del tutto contro la parte, della collettività contro le ambizioni dei singoli e contro i privilegi, dello Stato contro le caste e le «associazioni a delinquere».

§88 Nozioni enciclopediche. Vette di comando - leve di comando. Espressioni usate in lingue diverse per dire la stessa cosa. L’espressione «vette di comando» ha forse un’origine di carattere militare; quella «leve di comando» un’origine evidentemente industriale. Nella lotta occorre avere le vette o leve di comando, quelle che si chiamano anche le chiavi della situazione ecc., cioè, quando si hanno forze determinate e limitate, occorre distribuirle in modo da avere in mano le posizioni strategiche che dominano l’insieme della situazione e permettono di guidare lo sviluppo degli avvenimenti. (Un capitano che si acquartierasse nel fondo di una valle e non si preoccupasse di occupare e munire le cime circostanti e i passaggi obbligati, facilmente potrebbe essere circondato, fatto prigioniero o distrutto anche se in prevalenza numerica: un grosso cannone in fondo a un burrone o su una cima ha diversa potenzialità ecc.).

§90 Nozioni enciclopediche. La macchina. Articolo di Metron, La diffusione della macchina, nel «Corriere della Sera» del 15 marzo 1932. Significato più largo del concetto di macchina: in Oriente è macchina sia il rasoio di sicurezza che l’automobile. In Occidente si chiama macchina sia l’«ordegno» per cucire e per scrivere che il motore elettrico e la macchina a vapore. Per Metron sono cose diverse: per lui la macchina vera e propria è quella «che permette la utilizzazione delle energie naturali» (formula equivoca, perché anche il rasoio di sicurezza e la leva di Archimede permettono di utilizzare energie naturali prima non utilizzate), le altre sono, a voler parlare con esattezza, soltanto «utensili o trasmissioni». «Le macchine utensili migliorano, rendono più perfetto il lavoro umano; le macchine motrici si sostituiscono del tutto ad esso. La vera rivoluzione nel mondo si deve non alle macchine che, come quella per scrivere o per cucire, hanno pur sempre bisogno del motore uomo, ma a quelle macchine che eliminano del tutto lo sforzo muscolare».

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Osserva Metron: «Secondo i calcoli contenuti in uno studio pubblicato in occasione della Conferenza mondiale dell’energia tenuta il 1930 a Berlino, l’energia meccanica di ogni provenienza (carbone, oli minerali, cadute d’acqua ecc.) consumata nel corso di un anno dall’umanità intera si può valutare a circa un trilione e 700 miliardi di chilowattora, cioè 900 chilowattora per persona. Orbene 900 chilowattora rappresentano pressoché dieci volte il lavoro che un uomo robusto può fare in un anno. In sostanza per ogni uomo di carne ed ossa e a suo benefizio hanno lavorato dieci altri uomini metallici. Se questo processo dovesse continuare, non potrebbe portare ad altro che a una forma ideale di ozio, non l’ozio che abbrutisce, ma quello che eleva: cioè la forza muscolare lasciata completamente a disposizione dell’uomo che dovrebbe lavorare solamente di cervello, vale a dire nella forma più nobile e più ambita». Ciò è scritto nel 1932, cioè quando, proprio nei paesi dove «gli uomini metallici» lavorano per gli altri uomini in proporzione enormemente superiore alla media mondiale, esiste la più terribile crisi di ozio forzato e di miseria degradante. Anche questo è un oppio della miseria!

In realtà la distinzione fatta da Metron tra macchine motrici e macchine utensili, con la prevalenza rivoluzionaria delle prime, non è esatta: le macchine motrici hanno «allargato» il campo del lavoro e della produzione, hanno reso possibili cose che prima della loro scoperta erano impossibili o quasi. Le macchine utensili però sono quelle che realmente hanno sostituito il lavoro umano, e hanno sconvolto tutta l’organizzazione umana della produzione. Osservazione giusta: che dal 1919 in poi la innovazione di maggior portata è l’introduzione nelle officine del trasporto meccanico del materiale, degli uomini e dei convogliatori.

La quistione d’altronde della prevalenza delle macchine motrici o di quelle utensili è oziosa fuori di certi limiti: importa per stabilire il distacco dall’antichità alla modernità. D’altronde anche nelle macchine utensili differenziazioni ecc.

§107 Nozioni enciclopediche. Reich. Per il significato del termine Reich, che non significa affatto «impero» (ho visto che in «Gerarchia» è talvolta stato tradotto addirittura con «regno»), osservare che esso esiste in tutte le lingue germaniche e appare nel termine corrispondente a Reichstag nelle lingue scandinave ecc.; appare realmente che Reich è termine germanico per indicare genericamente lo «Stato» territoriale.

§146 Nozioni enciclopediche. Università. Termine rimasto nel senso medievale di corporazione o comunità: per es. «le Università israelitiche», le «Università agrarie» nelle regioni dove esistono usi civici sulle terre e sui boschi riconosciuti e regolati dalle leggi (come nel Lazio). Nel linguaggio comune il termine Università è rimasto per certi istituti di studi superiori (Università degli Studi) e ricorda l’antica organizzazione corporativa degli studi.

§150 Nozioni enciclopediche. Demiurgo. Dal significato originario di «lavorante per il popolo, per la comunità» (artigiano) fino ai significati attuali di «creatore» ecc. (cfr scritti di Filippo Burzio).

Bibliografia

§66 Storia delle classi subalterne. Bibliografia. Nelle edizioni Remo Sandron molti libri per questa rubrica. Due direzioni. Il Sandron ha avuto un momento di carattere «nazionale»: ha pubblicato molti libri che riguardano la cultura nazionale e internazionale (edizioni originali di opere del Sorel); ed è editore «siciliano», cioè ha pubblicato libri sulle quistioni siciliane, specialmente legate agli avvenimenti del 93‑94. Carattere positivistico da una parte e dall’altra sindacalistico delle pubblicazioni del Sandron. Molte edizioni esauritissime, da ricercare nell’antiquaria. Pare che la collezione degli scritti di Marx‑EngelsLassalle diretta da Ettore Ciccotti, prima che da Luigi Mongini, sia stata iniziata dal Sandron (col Capitale) (vedere questo particolare di storia della cultura)1. Il libro di Bonomi sulle Vie nuove del socialismo, di A. Zerboglio Il socialismo e le obbiezioni più comuni, di Enrico Ferri Discordie positiviste del socialismo, di Gerolamo Gatti Agricoltura e socialismo (ediz. francese con prefazione di Sorel), di G. E. Modigliani La fine della lotta per la vita fra gli uomini, di A. Loria Marx e la sua dottrina, di E. Leone sul Sindacalismo, di Arturo Labriola su La teoria del valore di Carlo Marx (sul III libro del Capitale), di E. Bruni su Socialismo e diritto privato, di Carlo F. Ferraris su Il materialismo storico e lo Stato ecc. Libri sulla quistione meridionale. Del capitano Francesco Piccoli la Difesa del Dr. Nicola Barbato innanzi al Tribunale di Guerra, pronunziata in Palermo, maggio 1894.

Note

§70 Storia delle classi subalterne. Bibliografia. Nel Catalogo Sandron è contenuto anche un libro di Filippo Lo Vetere sull’agricoltura siciliana. Il Lo Vetere (cfr «Problemi del Lavoro» del 1° febbraio 1932) era della generazione dei Fasci siciliani. Dirigeva una rivista «Problemi Siciliani» che sarà interessante ricercare e vedere. È morto nel settembre 1931. Era del gruppo Rigola.

§34 Passato e presente. Bibliografia. Provveditorato Generale dello Stato: Pubblicazioni edite dallo Stato o col suo concorso: Spoglio dei periodici e delle opere collettive 1926‑1930 (Parte 1a: Scritti biografici e critici; parte 2a: Ripartizione per materia), Ed. Libreria dello Stato, Roma.

§41 Intellettuali. Cfr Valeria Benetti Brunelli, Il rinnovamento della politica nel pensiero del secolo XV in Italia (Paravia, Torino, 20 lire). Esame del pensiero politico di Leon Battista Alberti. Tentativo di una revisione di alcuni giudizi sull’Umanesimo e il Rinascimento.

§59 Letteratura Popolare. Per le quistioni teoriche cfr Croce, Conversazioni critiche, seconda serie, pp. 237 sgg.: «I romanzi italiani del Settecento» dove lo spunto è preso dal libro di Giambattista Marchesi Studi e ricerche intorno ai nostri romanzieri e romanzi del Settecento, coll’aggiunta di una bibliografia dei romanzi editi in Italia in quel secolo (Bergamo, Istituto italiano d’arti grafiche, 1903)1.

§67 La Scuola. Cfr C. M. Derada, Gli uomini e le riforme pedagogiche della Rivoluzione Francese. Dall’«ancien régime» alla Convenzione, Remo Sandron, Palermo, L. 7,50.

§95 Cattolici integrali – gesuiti – modernisti. Nelle memorie di Alfred Loisy si troveranno elementi per questa rubrica: Alfred Loisy, Mémoires pour servir à l’histoire ecclésiastique de notre temps, pubblicato nel 1930 o 31 (circa 2000 pp. in 8°).

Note

§63 Azione Cattolica. Sui letterati cattolici cfr «Il Ragguaglio dell’attività culturale e letteraria dei cattolici in Italia. 1932», Firenze, Edizione del «Ragguaglio», 1932, pp. 490, L. 10. Esce dal 1930. (Prefazione di G. Papini).

§65 Nozioni enciclopediche. Bibliografia. Un Dizionario di Sociologia di Fausto Squillace è stato pubblicato dall’ed. Remo Sandron di Palermo, e il libro ha avuto una seconda edizione interamente rifatta (L. 12). Lo Squillace è scrittore di tendenza sindacalistica, molto superficiale, che non è mai riuscito ad emergere accanto ai suoi sodali.

§103 Sulla Cina. M. T. Z. Tyan, Two years of nationalist China, Kelly and Walsh, Shangai (del 1930 o 31). Opera documentaria (di circa 500 pp.) che pare sia molto interessante e ben fatta. Storia di due anni. Kuomintang, organizzazione del Governo Nazionalista, statistiche sulla vita cinese, appendice di documenti.

L’autore è direttore del «The Peking Leader» quotidiano e della «The Chinese Social and Political Review», uno dei giornalisti politici cinesi più abili e più preparati.

§137 Letteratura popolare. Cfr Ernesto Brunetto, Romanzi e romanzieri d’appendice nel «Lavoro Fascista» del 19 febbraio 1932.

§144 Nozioni enciclopediche. Bibliografia. Rezasco, Dizionario del linguaggio italiano storico e amministrativo, Firenze, 1881. (Non lo conosco. Vedere come compilato, di che tendenza politica ecc.; lodato dall’Einaudi).

§148 Nozioni enciclopediche. Bibliografia. Roberto Michels, Introduzione alla storia delle dottrine economiche e politiche, in 16°, pp. XIII‑310, Bologna, Zanichelli, 1932, L. 15.

Dizionari: del Guillaumin Dictionnaire de l’Economie Politique, pubblicato dalla «Librairie de Guillaumin & C.», Parigi (4a ed. del 1873), di Palgrave. Cossa, Introduzione allo studio delle dottrine economiche; Ricca‑Salerno, Storia delle dottrine finanziarie.

§164 Nozioni enciclopediche. Bibliografia. S. E. il generale Carlo Porro, Terminologia geografica, Raccolta di vocaboli di geografia e scienze affini, per uso degli studi di geografia generale e militare, in 8°, pp. x‑794, Utet, Torino, 1902, L. 7,50.

L’avvocato di tutti. Piccola enciclopedia legale, in 8°, pp. VIII‑1250, L. 120, Utet, Torino.

§172 Bibliografie. Vedere la bibliografia di A. Chiappelli (morto in questo novembre 1931). Verso la metà del decennio 90‑900 egli mi pare si sia occupato del materialismo storico (quando furono pubblicati i saggi di Antonio Labriola e di B. Croce) nel libro o saggio: Le premesse filosofiche del socialismo ecc.

§192 Originalità e ordine intellettuale. Una massima di Vauvenargues: «È più facile dire cose nuove che metter d’accordo quelle che sono già state dette»

§194 Logica formale. Vedere il libro di Tobias Dantzig, professore di matematica all’Università di Maryland, Le nombre (Payot, Parigi, 1931 – o 32 –): storia del numero e della successiva formazione dei metodi, delle nozioni, delle ricerche matematiche.

Miscellanea

§161 Quistione degli intellettuali. Sicilia e Sardegna.

   continua

Per il diverso peso che esercita la grande proprietà in Sicilia e in Sardegna, e quindi per la diversa posizione relativa degli intellettuali, ciò che spiega il diverso carattere dei movimenti politico‑culturali, valgono queste cifre: in Sardegna solo il 18% del territorio appartiene a Enti pubblici, il resto proprietà privata: dell’area coltivabile il 50% comprende possessi inferiori a 10 ha, e solo il 4% al di sopra di 200 ha.

Sicilia: nel 1907 il Lorenzoni assegnava 1400 proprietà di oltre 200 ha con una estensione di ha 717 729,16 cioè il 29,79% dell’estensione catastale dell’isola, posseduta da 787 proprietari. Nel 1929 il Molè constatava 1055 latifondi di oltre 200 ha con estensione complessiva di ha 540 700 cioè il 22,2% dell’area agraria e forestale (ma si tratta di vero frazionamento del latifondo?)

Inoltre occorre tener conto della differenza storico‑sociale‑culturale dei grandi proprietari siciliani da quelli sardi: i siciliani hanno una grande tradizione e sono fortemente uniti. In Sardegna niente di ciò.

§226 Più grassa Minerva. Leon Battista Alberti: «Quelli (i matematici) col solo ingegno, separata ogni materia, misurano le forme delle cose. Noi perché vogliamo le cose essere poste da vedere, per questo useremo più grassa Minerva».

§241 Le Pensées di Pascal furono stampate la prima volta nel 1670 dai suoi amici di Port‑Royal molto scorrettamente. Il testo manoscritto autentico è stato segnalato nel 1843 da Victor Cousin e stampato nel 1844 dall’editore Faugère.

§243 2° Risorgimento Italiano. Derivazioni del sistema d’interpretazioni del Rinascimento sono un certo settarismo della mentalità italiana e la tendenza a credersi malgiudicati e mal compresi.



Lista delle schede dei nomi

Lista delle schede di eventi storici, movimenti politici, religiosi, filosofici, ecc.