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    Uomo politico (Barga 1819 - Montecatini in
    Valdinievole 1902). Partecipò ai moti del 1847 a Firenze, poi
    combatté (1848) nel Veneto, si rifugiò quindi a
    Venezia, donde fu espulso da D. Manin per la sua opposizione
    all'intesa con il Piemonte. Si recò allora in Toscana, dove
    fu ministro degli Esteri (e, ad interim, della Guerra) con F. D.
    Guerrazzi. Esiliato, fece parte del Comitato nazionale italiano
    costituitosi a Londra (1850), ma in seguito si distaccò da
    Mazzini, che lasciò definitivamente dopo la tentata
    insurrezione di Genova (1857), pur rimanendo repubblicano. Nel 1859
    combatté in Lombardia, e dopo Villafranca fu eletto deputato
    all'assemblea toscana, e si adoperò a sollecitare l'unione al
    Piemonte. Deputato al parlamento subalpino, non partecipò
    alla spedizione dei Mille, ma raggiunse Palermo (1860);
    prodittatore, attuò il plebiscito che unì l'isola
    all'Italia. Nel 1862 tornò in Sicilia per sconsigliare la
    spedizione di Aspromonte ma al ritorno fu arrestato a Napoli;
    liberato, fu autore dell'interpellanza su Aspromonte che
    causò la caduta del governo. Accostatosi sempre più
    alla Destra, fu ministro dei Lavori pubblici (1867-69) e prefetto di
    Napoli (1872-76). Deputato fino al 1895, poi (1896) senatore.
    
    *
    
    DBI
    
    di Fulvio Conti
    
    MORDINI, Antonio. – Nacque a Barga, in provincia di Lucca, il 1°
    giugno 1819 da Giuseppe e da Marianna Bergamini.
    
    Il padre, membro di un’agiata famiglia da oltre un secolo insignita
    di titolo nobiliare, prese parte attiva alla vita pubblica
    ricoprendo la carica di podestà di Barga e quella di deputato
    all’Assemblea toscana del 1848. Liberale conservatore e molto
    religioso, coltivò interessi letterari e storici.
    
    Mordini studiò fra Barga e Pisa sotto la guida di precettori
    privati, fra i quali il più influente fu l’abate Deodato
    Giuliani. Nel 1833 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza
    dell’Università di Pisa e quattro anni dopo vi
    conseguì la laurea in utroque iure. Nel 1838, insieme ad
    altri giovani avvocati (Fabio e Robustiano Morosoli, Paolo Mochi),
    fondò una Società filonomica per esercitarsi nella
    pratica forense. Nel vivace ambiente politico e culturale gravitante
    intorno all’ateneo pisano, Mordini si accostò alle idee
    democratiche e repubblicane, coltivate ulteriormente a partire dal
    1843, quando decise di trasferirsi a Firenze. Qui nel 1845 fu tra i
    promotori (con Carlo e Sebastiano Fenzi, Antonio Galletti, Leopoldo
    Cempini e altri) di una società segreta, nata per
    «concorrere con ogni mezzo possibile all’acquisto
    dell’indipendenza e alla fondazione di una repubblica
    unitaria» (Rosi, 1906, p. 381) e abile a usare la stampa
    clandestina come mezzo di propaganda.
    
    L’inizio del pontificato di Pio IX, nel giugno 1846, e le sue prime
    aperture in senso liberale e riformista incoraggiarono i democratici
    fiorentini a intensificare la loro attività. Sul finire dello
    stesso anno fu lanciata una sottoscrizione per offrire una spada
    d’onore a Giuseppe Garibaldi, già simbolo della lotta per
    l’indipendenza nazionale in virtù delle sue imprese in
    America latina, e Mordini fu incaricato di consegnarla al generale
    al suo rientro in Italia. In quei primi mesi del 1847 fu poi tra gli
    organizzatori di numerose manifestazioni svolte a Firenze per
    spingere il granduca a concedere le riforme e, nella sua veste di
    avvocato, si occupò della difesa di alcuni degli arrestati.
    Nel settembre 1847, quando venne istituita la guardia civica,
    entrò subito a farne parte e il 20 dicembre fu eletto
    capitano: in quello stesso giorno il padre Giuseppe fu ammesso nella
    guardia civica di Barga con lo stesso grado.
    
    Risale a quei mesi anche la sua presenza, come segretario, nella
    Società nazionale per la fabbricazione delle armi, presieduta
    da Ubaldino Peruzzi e nella quale erano presenti esponenti di
    diverso orientamento politico, fra i quali Ferdinando Bartolommei,
    Luigi Guglielmo Cambray-Digny, Emilio Cipriani e Ferdinando
    Zannetti.
    
    Il 17 febbraio 1848, mentre le agitazioni popolari dilagavano nel
    Granducato di Toscana, alimentate dalle notizie sull’insurrezione
    della Sicilia e sui successi ottenuti dalle forze liberali e
    patriottiche, Leopoldo II fu costretto a concedere la costituzione.
    Ai primi di marzo, appena fu chiara l’imminenza della guerra contro
    l’Austria, Mordini fu tra i primi ad arruolarsi fra i volontari
    intenzionati a partire per l’alta Italia. Lasciata Firenze il 23
    marzo, il 1° aprile entrò come tenente nella legione
    padovana e il 4 maggio come capitano nei Cacciatori del Reno, quale
    addetto allo stato maggiore del colonnello Livio Zambeccari.
    Combatté a Treviso e poi a Venezia, dove prese parte attiva
    alla difesa della laguna e in agosto, dopo l’armistizio di Salasco –
    con il quale Carlo Alberto sceglieva di abbandonare la Lombardia
    agli austriaci – divenne capitano dello stato maggiore di Guglielmo
    Pepe. Non perciò smise di occuparsi di politica.
    
    Fu tra i fondatori a Venezia del Circolo italiano, che
    professò ideali repubblicani e sostenne la necessità
    di proseguire la guerra contro gli austriaci per fare del
    Lombardo-Veneto il primo embrione di un’Italia libera e democratica.
    Insieme a Giuseppe Revere inoltre, il 1° ottobre 1848,
    stilò un documento destinato a tutti i circoli d’Italia, in
    cui mosse severe critiche al governo di Daniele Manin, accusato di
    aver smarrito lo slancio rivoluzionario dei mesi precedenti e di non
    aver combattuto la corruzione amministrativa. Per tutta risposta
    Manin fece arrestare entrambi e li espulse da Venezia.
    
    Mordini tornò allora a Firenze, proprio nei giorni in cui,
    caduto il governo di Gino Capponi, se ne formava uno di spiccata
    connotazione democratica guidato da Giuseppe Montanelli, con
    Francesco Domenico Guerrazzi al ministero dell’Interno. Entrò
    a far parte del Circolo popolare, di cui più tardi assunse la
    presidenza, e il 2 novembre 1848 fu tra i fondatori di un Comitato
    centrale provvisorio sorto con l’obiettivo di arrivare alla
    convocazione di una Costituente nazionale a Roma che, eletta a
    suffragio universale, avrebbe dovuto deliberare il proseguimento
    della guerra all’Austria, affermare il principio della
    sovranità popolare e creare le premesse per l’unificazione
    dell’Italia sotto un sistema repubblicano. Mordini sostenne queste
    idee in un giornale da lui diretto, La Costituente, il cui primo
    numero apparve a Firenze, per i tipi di Felice Le Monnier, il 23
    dicembre 1848.
    
    In alcuni articoli pubblicati sul giornale avversò l’idea di
    una «Costituente federativa», cara a Vincenzo Gioberti,
    e chiese al governo toscano di inviare suoi deputati alla
    Costituente romana del 5 febbraio 1849, che in tal modo avrebbe
    assunto un carattere nazionale, convinto che una simile decisione
    avrebbe potuto spingere su posizioni analoghe anche i delegati di
    Venezia e della Sicilia. Quando però il granduca, l’8
    febbraio, rifiutò di sanzionare la delibera del governo e
    fuggì prima a Siena e poi a Porto Santo Stefano (e da qui il
    20 febbraio a Gaeta), si formò un governo provvisorio guidato
    da Guerrazzi, Montanelli e Giuseppe Mazzoni. Mordini, lasciata la
    direzione de La Costituente a Leonida Biscardi, entrò nel
    governo democratico come titolare del dicastero degli Esteri e, dal
    13 febbraio, in seguito alla rinuncia da parte di Mariano D’Ayala,
    prese l’interim di quello della Guerra.
    
    Il suo compito non fu facile. Le delegazioni diplomatiche dei paesi
    esteri, a cominciare da quella del Regno di Sardegna, rifiutarono di
    instaurare relazioni ufficiali con il governo provvisorio e solo il
    rappresentante della Francia dichiarò di accettare l’offerta
    di rapporti ufficiosi. Mordini si adoperò allora per
    stringere accordi di alleanza con il governo siciliano e soprattutto
    con quelli di Roma e Venezia, ma senza grandi risultati. La sua
    proposta di proclamazione della Repubblica e di unione della Toscana
    a Roma e a Venezia, incontrò infatti l’esitazione e poi
    l’opposizione di Guerrazzi, al quale alla fine di marzo furono
    affidati poteri dittatoriali. Altrettanto vani si rivelarono i
    tentativi di organizzare una forza di difesa mediante la
    costituzione di milizie volontarie che surrogassero l’esercito
    regolare rimasto fedele al granduca.
    
    Il riaprirsi delle ostilità fra Piemonte e Austria e la
    pesante sconfitta, il 23 marzo 1849 a Novara, di Carlo Alberto,
    costretto ad abdicare in favore di Vittorio Emanuele II, favorirono
    anche la caduta del governo toscano. Dopo l’arresto di Guerrazzi,
    l’11 aprile, e la restaurazione del governo legittimo di Leopoldo
    II, Mordini, ricercato dalla polizia, riuscì a fuggire dalla
    Toscana imbarcandosi il 10 maggio a Viareggio e raggiungendo Bastia,
    in Corsica, e poi Nizza.
    
    Cominciò allora per lui un decennio di esilio trascorso
    perlopiù nel Regno di Sardegna, fra Nizza e Genova, ma con
    frequenti spostamenti, spesso sotto falso nome, che lo portarono a
    Londra nel 1851 e nel 1857, dove fu in stretto contatto con Giuseppe
    Mazzini, a Ginevra, a Torino e in varie località dell’Italia
    centro-settentrionale. La condanna all’ergastolo inflittagli nel
    luglio 1853 dal tribunale toscano a conclusione del processo
    intentato contro il governo Guerrazzi (poi tramutata in condanna
    all’esilio) gli rese impossibile ogni ipotesi di rientro nel
    Granducato. Per qualche anno ancora fu molto vicino a Mazzini, con
    cui intrattenne una fitta corrispondenza e, pur non prendendo parte
    attiva ai tentativi insurrezionali mazziniani del 1853, serbò
    intatti i propri ideali repubblicani. Col tempo però, proprio
    muovendo dal giudizio negativo su quei moti, il cui fallimento
    imputava alla fretta e all’insufficiente preparazione, prese le
    distanze da Mazzini e si convinse dell’opportunità di
    collaborare col Regno sabaudo, l’unico ritenuto capace di guidare il
    movimento per l’indipendenza nazionale. La rottura si consumò
    alla fine del 1856, dopo il fallimento del moto in Lunigiana, dei
    cui preparativi anch’egli fu partecipe, così come ebbe parte
    attiva nella raccolta di armi e denaro per sostenere un tentativo
    rivoluzionario che doveva scoppiare in Sicilia nel novembre dello
    stesso anno. Quelle due ennesime delusioni lo indussero a
    disapprovare il successivo moto di Genova del giugno 1857, cui
    restò estraneo, e a esprimere aperto dissenso dalle posizioni
    di Mazzini. Costretto nel dicembre 1857 da una misura cautelare del
    governo piemontese a lasciare Genova per trasferirsi a San Remo,
    Mordini nei due anni seguenti, pur non abiurando la fede
    repubblicana, finì col persuadersi del tutto della
    necessità di un esplicito sostegno alla monarchia sabauda nel
    caso in cui questa avesse dichiarato guerra all’Austria.
    
    Lo scrisse in termini chiari a Nicola Fabrizi il 15 marzo 1859:
    «Se il governo piemontese inizia la guerra al grido Viva
    l’unità italiana, il nostro partito deve dare la sua adesione
    collettiva riservando la questione della forma politica a guerra
    vinta» (Rosi, 1906, p. 167). Era la linea che Garibaldi aveva
    scelto fin dal 1857 aderendo alla Società nazionale e che
    Mazzini, invece, continuava ad avversare.
    
    La caduta della dinastia lorenese, il 27 aprile 1859, e la
    successiva amnistia decretata dal governo provvisorio toscano il 3
    maggio fecero decadere la condanna all’esilio e consentirono a
    Mordini di rientrare a Barga. Da qui il 19 giugno partì per
    raggiungere Garibaldi in Valtellina e partecipare alla seconda
    guerra d’indipendenza nel corpo dei Cacciatori delle Alpi, agli
    ordini di Giacomo Medici. Restò con lui fino ai preliminari
    dell’armistizio di Villafranca (11 luglio), dopo il quale si
    recò a Torino per perorare l’annessione immediata della
    Toscana al Piemonte. Sostenne la medesima causa anche nella sua
    veste di deputato all’Assemblea toscana, carica alla quale fu eletto
    nell’agosto 1859, spingendo affinché si troncassero gli
    indugi diplomatici e fosse la stessa Assemblea a decidere in tal
    senso. L’annessione della Toscana al Regno di Sardegna fu invece
    sancita dal plebiscito del 12 marzo 1860, dopo il quale Mordini fu
    eletto deputato al Parlamento in rappresentanza del collegio di
    Borgo a Mozzano.
    
    Non prese, tuttavia, parte attiva ai lavori parlamentari (anche se
    fu presente alla seduta in cui si approvò la cessione di
    Nizza alla Francia ed espresse voto contrario), perché ai
    primi del giugno 1860 si unì ai Mille in partenza per la
    Sicilia. Garibaldi, che ne apprezzava le capacità politiche e
    organizzative, lo nominò in rapida successione tenente
    colonnello e presidente del consiglio di guerra a Palermo (20
    giugno), auditore generale militare e in quanto tale membro dello
    stato maggiore (3 settembre), e infine prodittatore di Sicilia (17
    settembre).
    
    In quest’ultima carica subentrò ad Agostino Depretis, il
    quale, dichiarandosi favorevole all’immediata annessione dell’isola,
    secondo il volere di Cavour, si era posto in contrasto con
    Garibaldi, intenzionato invece a ritardare la consegna, prolungando
    la sua dittatura e verificando la possibilità di muovere dal
    Sud alla volta di Roma. Le pressioni politiche e popolari per
    affrettare i tempi del congiungimento della Sicilia al Regno di
    Sardegna indussero però Mordini, sgradito a Cavour per i suoi
    trascorsi mazziniani, a convocare le elezioni di un’assemblea
    siciliana, che avrebbe dovuto discutere le condizioni
    dell’annessione armonizzando le leggi locali con lo Statuto
    albertino, per il 1° ottobre. Di lì a poco, rivelatasi
    impraticabile questa strada per la decisione di Giorgio Pallavicino,
    prodittatore di Napoli, di indire il plebiscito per il 21 ottobre,
    anche Mordini si trovò costretto ad adottare analogo
    provvedimento.
    
    Due giorni prima, il 19 ottobre, accogliendo un suggerimento dello
    storico liberale Michele Amari, nominò comunque un Consiglio
    di Stato, composto di 38 membri e presieduto da Gregorio Ugdulena.
    Il Consiglio, riunito all’indomani del plebiscito, predispose una
    relazione da inviare al futuro Parlamento nazionale, nella quale si
    caldeggiava l’adozione da parte del nascente Regno d’Italia di un
    assetto regionalistico tale da garantire alla Sicilia una forte
    autonomia politico-amministrativa e salvaguardare le sue tradizioni.
    
    Il 4 novembre 1860 si ebbero i risultati ufficiali del plebiscito e
    tre giorni dopo Mordini accompagnò Vittorio Emanuele II nel
    suo ingresso trionfale a Napoli, a fianco di Garibaldi e di
    Pallavicino. Il 1° dicembre il re si recò a Palermo,
    prendendo ufficialmente possesso dell’isola e ponendo fine alla
    prodittatura di Mordini. Questi rientrò a Napoli e riassunse
    la carica di auditore generale dell’esercito meridionale tenuta fino
    al febbraio 1861, quando fu eletto deputato nel collegio di Palermo
    per la prima legislatura del Parlamento italiano. Venne
    ininterrottamente confermato nella carica di deputato fino al 1895,
    dapprima nel collegio di Palermo e poi in quello di Lucca,
    finché il 25 ottobre 1896 ricevette la nomina a senatore.
    
    Fin dal biennio 1859-1860 le sue posizioni politiche erano andate
    modificandosi in senso moderato. Accantonata la prospettiva
    repubblicana, si batté, per così dire, per la
    definitiva ‘costituzionalizzazione’ del movimento garibaldino, ossia
    per l’abbandono di ogni velleità insurrezionale da parte dei
    democratici e per il loro pieno inserimento nell’alveo istituzionale
    monarchico. Nei primi anni dopo l’Unità avvertì
    progressivamente l’esigenza di dar vita a un raggruppamento politico
    di sinistra costituzionale moderata che prendesse le distanze dalle
    frange più estreme, presenti anche in Parlamento, e si
    aprisse persino alla possibilità di collaborazione, sui
    grandi temi della politica interna e sulle iniziative necessarie al
    completamento dell’unità nazionale, con la Destra di governo.
    Questo progetto avrebbe assunto contorni più definiti fra il
    1866 e il 1869, quando Mordini riuscì ad aggregare elementi
    della Sinistra e della Destra nel cosiddetto Terzo partito, che pur
    nella sua effimera esistenza esercitò un ruolo non marginale
    nelle vicende politico-parlamentari del periodo.
    
    Il primo sforzo di moderazione Mordini lo compì nell’agosto
    1862, quando insieme ad altri deputati si recò in Sicilia per
    dissuadere Garibaldi dall’intraprendere la spedizione verso Roma,
    conclusasi poi il 29 agosto con lo scontro fra le camice rosse e
    l’esercito regolare in Aspromonte. Non solo non riuscì nel
    suo tentativo, ma il 27 agosto, sospettato di essere coinvolto nelle
    mene garibaldine, fu fatto arrestare a Napoli insieme ai deputati
    Nicola Fabrizi e Salvatore Calvino. Recluso a Castel dell’Ovo, fu
    rimesso in libertà soltanto dopo l’amnistia del 5 ottobre.
    Nel novembre successivo denunciò alla Camera le
    prevaricazioni del potere esecutivo e contribuì alla caduta
    del governo Rattazzi, senza tuttavia che ciò modificasse la
    propria fiducia nella monarchia costituzionale e nella
    possibilità di una collaborazione fra Garibaldi e il re.
    Proprio tale aspettativa lo indusse, fra il 1863 e il 1864, a
    tessere una trama di relazioni con alcuni emigrati ungheresi e
    polacchi per sostenere l’insurrezione scoppiata in Polonia nel
    gennaio 1863, estendendola all’Ungheria e al Veneto e creando
    così le condizioni per un intervento combinato, come
    già accaduto nel 1859- 1860, dei volontari garibaldini e
    dell’esercito sabaudo. Questa azione, poi rivelatasi vana,
    s’intrecciò con le pressioni esercitate su Garibaldi, seguito
    da Mordini nell’aprile 1864 durante il trionfale viaggio in
    Inghilterra, affinché accettasse la guida di un partito
    «democratico costituzionale». Garibaldi rifiutò,
    pur continuando a serbare intatta stima nei confronti dell’ex
    prodittatore di Sicilia, come è dimostrato dalla scelta di
    nominarlo suo delegato allorché, nel maggio 1864, divenne
    gran maestro del Grande oriente d’Italia. Entrambi, peraltro,
    già l’8 agosto seguente, preso atto delle divisioni che
    minavano l’unità della massoneria italiana (a cui Mordini era
    stato iniziato nel 1862 nella loggia Dante Alighieri di Torino),
    rassegnarono le dimissioni. Da quel momento Mordini si
    allontanò ulteriormente dalle posizioni della sinistra
    democratica e nel novembre 1864 non esitò a votare a favore
    del disegno di legge governativo per il trasferimento della capitale
    a Firenze.
    
    Lo spostamento verso il centro dello schieramento politico si
    accentuò a partire dal 1866, quando accettò la
    proposta del presidente del Consiglio Bettino Ricasoli di recarsi
    come commissario regio nella città di Vicenza, abbandonata
    dagli austriaci a seguito della sconfitta subita nella terza guerra
    d’indipendenza. Restò in carica dal 17 luglio al 21 ottobre
    1866, fino allo svolgimento del plebiscito che sancì
    l’annessione del Veneto all’Italia. In quello scorcio conclusivo
    degli anni Sessanta, mentre prese finalmente corpo l’idea del
    «Terzo partito» (sebbene inteso soltanto come mero
    organismo di raccordo di un gruppo di parlamentari, senza alcuna
    struttura organizzativa) e Mordini ne era riconosciuto come leader
    assoluto, il suo nome circolò più volte come candidato
    a ricoprire un incarico ministeriale. L’ipotesi si
    concretizzò il 13 maggio 1869, quando entrò come
    ministro dei Lavori pubblici nel terzo governo Menabrea, che ebbe
    però vita assai breve (cadde il 13 dicembre di quell’anno) e
    non gli consentì di assumere iniziative particolarmente degne
    di nota. Due anni dopo, il 28 novembre 1871, nella veste di
    vicepresidente della Camera, ebbe l’onore di presiedere la prima
    seduta del Parlamento a Roma, divenuta nuova capitale del Regno.
    
    Nel frattempo, nel settembre 1866, si era sposato con una donna di
    Barga, Amalia Cecchini, all’epoca appena ventenne e dunque di ben 27
    anni più giovane di lui, che morì tuttavia
    precocemente, il 5 giugno 1872, dopo aver dato alla luce due figli,
    Leonardo nel 1867 e Antonietta nel 1869.
    
    Nell’agosto 1872, ormai allineato sulle posizioni della Destra,
    Mordini fu nominato prefetto di Napoli, carica conservata fino
    all’avvento della Sinistra al potere (marzo 1876), quando ritenne
    opportuno rassegnare le dimissioni. Rieletto deputato, si
    schierò con l’opposizione di Destra fino a riconoscersi, dal
    1882, nella soluzione trasformista congegnata da Agostino Depretis e
    Marco Minghetti. Negli anni seguenti si distaccò gradualmente
    dalla politica attiva e non accettò neppure l’offerta –
    avanzata nel 1884 da Depretis – di assumere la presidenza della
    Camera. Analogo rifiuto oppose nel 1890 a Crispi, che gli
    offrì il dicastero degli Esteri, proposta che gli venne
    rinnovata l’anno seguente, con identico diniego, nel corso della
    crisi che poi portò alla formazione del governo Giolitti.
    
    Nel marzo 1893 accettò l’ultimo importante incarico: quello
    di presidente e relatore della Commissione dei Sette, l’organismo
    parlamentare che – incaricato dell’inchiesta sugli istituti di
    emissione – denunciò il coinvolgimento nello scandalo della
    Banca Romana di numerosi esponenti della Sinistra, tra i quali lo
    stesso Crispi. Ormai riconosciuto come uno dei grandi notabili della
    politica italiana, fra il 1896 e il 1902 Mordini partecipò
    con una certa assiduità ai lavori del Senato.
    
    Morì a Montecatini Terme il 14 luglio 1902.