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I. Il moderno principe

 

[Noterelle sulla politica del Machiavelli.] Il carattere fondamentale del Principe è quello di non essere una trattazione sistematica ma un libro «vivente», in cui l'ideologia politica e la scienza politica si fondono nella forma drammatica del «mito». Tra l'utopia e il trattato scolastico, le forme in cui la scienza politica si configurava fino al Machiavelli, questi dette alla sua concezione la forma fantastica e artistica, per cui l'elemento dottrinale e razionale si impersona in un condottiero, che rappresenta plasticamente e «antropomorficamente» il simbolo della «volontà collettiva». Il processo di formazione di una determinata volontà collettiva, per un determinato fine politico, viene rappresentato non attraverso disquisizioni e classificazioni pedantesche di principii e criteri di un metodo d'azione, ma come qualità, tratti caratteristici, doveri, necessità di una concreta persona, ciò che fa operare la fantasia artistica di chi si vuol convincere e dà una piú concreta forma alle passioni politiche. (Sarà da cercare negli scrittori politici precedenti al Machiavelli se esistono scritture configurate come il Principe. Anche la chiusa del Principe è legata a questo carattere «mitico» del libro: dopo aver rappresentato il condottiero ideale, il Machiavelli con un passaggio di grande efficacia artistica, invoca il condottiero reale che storicamente lo impersoni: questa invocazione appassionata si riflette su tutto il libro conferendogli appunto il carattere drammatico. Nei Prolegomeni di L. Russo il Machiavelli è detto l'artista della politica e una volta si trova anche l'espressione «mito», ma non precisamente nel senso su indicato).

Il Principe del Machiavelli potrebbe essere studiato come una esemplificazione storica del «mito» sorelliano, cioè di una ideologia politica che si presenta non come fredda utopia né come dottrinario raziocinio, ma come una creazione di fantasia concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva. Il carattere utopistico del Principe è nel fatto che il «principe» non esisteva nella realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza obbiettiva, ma era una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale; ma gli elementi passionali, mitici, contenuti nell'intero volumetto, con mossa drammatica di grande effetto, si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell'invocazione di un principe, «realmente esistente». Nell'intero volumetto Machiavelli tratta di come deve essere il Principe per condurre un popolo alla fondazione del nuovo Stato, e la trattazione è condotta con rigore logico, con distacco scientifico: nella conclusione il Machiavelli stesso si fa popolo, si confonde col popolo, ma non con un popolo «genericamente» inteso, ma col popolo che il Machiavelli ha convinto con la sua trattazione precedente, di cui egli diventa e si sente coscienza ed espressione, si sente medesimezza: pare che tutto il lavoro «logico» non sia che un'autoriflessione del popolo, un ragionamento interno, che si fa nella coscienza popolare e che ha la sua conclusione in un grido appassionato, immediato. La passione, da ragionamento su se stessa, ridiventa «affetto», febbre, fanatismo d'azione. Ecco perché l'epilogo del Principe non è qualcosa di estrinseco, di «appiccicato» dall'esterno, di retorico, ma deve essere spiegato come elemento necessario dell'opera, anzi come quell'elemento che riverbera la sua vera luce su tutta l'opera e ne fa come un «manifesto politico».

Si può studiare come il Sorel, dalla concezione dell'ideologia-mito non sia giunto alla comprensione del partito politico, ma si sia arrestato alla concezione del sindacato professionale. È vero che per il Sorel il «mito» non trovava la sua espressione maggiore nel sindacato, come organizzazione di una volontà collettiva, ma nell'azione pratica del sindacato e di una volontà collettiva già operante, azione pratica, la cui realizzazione massima avrebbe dovuto essere lo sciopero generale, cioè un'«attività passiva» per cosí dire, di carattere cioè negativo e preliminare (il carattere positivo è dato solo dall'accordo raggiunto nelle volontà associate) di una attività che non prevede una propria fase «attiva e costruttiva». Nel Sorel dunque si combattevano due necessità: quella del mito e quella della critica del mito in quanto «ogni piano prestabilito è utopistico e reazionario». La soluzione era abbandonata all'impulso dell'irrazionale, dell'«arbitrario» (nel senso bergsoniano di «impulso vitale») ossia della «spontaneità». (Sarebbe da notare qui una contraddizione implicita nel modo con cui il Croce pone il suo problema di storia e antistoria con altri modi di pensare del Croce: la sua avversione dei «partiti politici» e il suo modo di porre la quistione della «prevedibilità» dei fatti sociali, cfr. Conversazioni Critiche, Serie prima, pp. 150-52, recensione del libro di Ludovico Limentani, La previsione dei fatti sociali, Torino, Bocca, 1907; se i fatti sociali sono imprevedibili e lo stesso concetto di previsione è un puro suono, l'irrazionale non può non dominare e ogni organizzazione di uomini è antistoria, è un «pregiudizio»: non resta che risolvere volta per volta, e con criteri immediati, i singoli problemi pratici posti dallo svolgimento storico – cfr. articolo di Croce, Il partito come giudizio e come pregiudizio in Cultura e Vita morale – e l'opportunismo è la sola linea politica possibile). Può un mito però essere «non-costruttivo», può immaginarsi, nell'ordine di intuizioni del Sorel, che sia produttivo di effettualità uno strumento che lascia la volontà collettiva nella sua fase primitiva ed elementare del suo mero formarsi, per distinzione (per «scissione») sia pure con violenza, cioè distruggendo i rapporti morali e giuridici esistenti? Ma questa volontà collettiva, cosí formata elementarmente, non cesserà subito di esistere, sparpagliandosi in una infinità di volontà singole che per la fase positiva seguono direzioni diverse e contrastanti? Oltre alla quistione che non può esistere distruzione, negazione senza una implicita costruzione, affermazione, e non in senso «metafisico», ma praticamente, cioè politicamente, come programma di partito. In questo caso si vede che si suppone dietro la spontaneità un puro meccanicismo, dietro la libertà (arbitrio-slancio vitale) un massimo di determinismo, dietro l'idealismo un materialismo assoluto.

Il moderno principe, il mito-principe non può essere una persona reale, un individuo concreto, può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell'azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico, la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali. Nel mondo moderno solo un'azione storico-politica immediata e imminente, caratterizzata dalla necessità di un procedimento rapido e fulmineo, può incarnarsi miticamente in un individuo concreto: la rapidità non può essere resa necessaria che da un grande pericolo imminente, grande pericolo che appunto crea fulmineamente l'arroventarsi delle passioni e del fanatismo, annichilendo il senso critico e la corrosività ironica che possono distruggere il carattere «carismatico» del condottiero (ciò che è avvenuto nell'avventura di Boulanger). Ma un'azione immediata di tal genere, per la sua stessa natura, non può essere di vasto respiro e di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuove strutture nazionali e sociali (come era il caso nel Principe del Machiavelli, in cui l'aspetto di restaurazione era solo un elemento retorico, cioè legato al concetto letterario dell'Italia discendente di Roma e che doveva restaurare l'ordine e la potenza di Roma), di tipo «difensivo» e non creativo originale, in cui, cioè, si suppone che una volontà collettiva, già esistente, si sia snervata, dispersa, abbia subito un collasso pericoloso e minaccioso ma non decisivo e catastrofico e occorra riconcentrarla e irrobustirla, e non già che una volontà collettiva sia da creare ex novo, originalmente e da indirizzare verso mete concrete sí e razionali, ma di una concretezza e razionalità non ancora verificate e criticate da una esperienza storica effettuale e universalmente conosciuta.

Il carattere «astratto» della concezione sorelliana del «mito» appare dall'avversione (che assume la forma passionale di una repugnanza etica) per i giacobini che certamente furono una «incarnazione categorica» del Principe di Machiavelli. Il moderno Principe deve avere una parte dedicata al giacobinismo (nel significato integrale che questa nozione ha avuto storicamente e deve avere concettualmente), come esemplificazione di come si sia formata in concreto e abbia operato una volontà collettiva che almeno per alcuni aspetti fu creazione ex novo, originale. E occorre che sia definita la volontà collettiva e la volontà politica in generale nel senso moderno, la volontà come coscienza operosa della necessità storica, come protagonista di un reale ed effettuale dramma storico.

Una delle prime parti dovrebbe appunto essere dedicata alla «volontà collettiva», impostando cosí la quistione: quando si può dire che esistano le condizioni perché possa suscitarsi e svilupparsi una volontà collettiva nazionale-popolare? Quindi un'analisi storica (economica) della struttura sociale del paese dato e una rappresentazione «drammatica» dei tentativi fatti attraverso i secoli per suscitare questa volontà e le ragioni dei successivi fallimenti. Perché in Italia non si ebbe la monarchia assoluta al tempo di Machiavelli? Bisogna risalire fino all'Impero Romano (questione della lingua, degli intellettuali ecc.), comprendere la funzione dei Comuni medioevali, il significato del Cattolicismo ecc.: occorre insomma fare uno schizzo di tutta la storia italiana, sintetico ma esatto.

La ragione dei successivi fallimenti dei tentativi di creare una volontà collettiva nazionale-popolare è da ricercarsi nell'esistenza di determinati gruppi sociali, che si formano dalla dissoluzione della borghesia comunale, nel particolare carattere di altri gruppi che riflettono la funzione internazionale dell'Italia come sede della Chiesa e depositaria del Sacro Romano Impero ecc. Questa funzione e la posizione conseguente determina una situazione interna che si può chiamare «economico-corporativa», cioè, politicamente, la peggiore delle forme di società feudale, la forma meno progressiva e piú stagnante: mancò sempre, e non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che nelle altre nazioni ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazionale-popolare e ha fondato gli Stati moderni. Esistono finalmente le condizioni per questa volontà, ossia quale è il rapporto attuale tra queste condizioni e le forze opposte? Tradizionalmente le forze opposte sono state l'aristocrazia terriera e piú generalmente la proprietà terriera nel suo complesso, col suo tratto caratteristico italiano che è una speciale «borghesia rurale», eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo, come classe, della borghesia comunale (le cento città, le città del silenzio). Le condizioni positive sono da ricercare nell'esistenza di gruppi sociali urbani, convenientemente sviluppati nel campo della produzione industriale e che abbiano raggiunto un determinato livello di cultura storico-politica. Ogni formazione di volontà collettiva nazionale-popolare è impossibile se le grandi masse dei contadini coltivatori non irrompono simultaneamente nella vita politica. Ciò intendeva il Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese, in questa comprensione è da identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe (piú o meno fecondo) della sua concezione della rivoluzione nazionale. Tutta la storia dal 1815 in poi mostra lo sforzo delle classi tradizionali per impedire la formazione di una volontà collettiva di questo genere, per mantenere il potere «economico-corporativo» in un sistema internazionale di equilibrio passivo.

Una parte importante del moderno Principe dovrà essere dedicata alla quistione di una riforma intellettuale e morale, cioè alla quistione religiosa o di una concezione del mondo. Anche in questo campo troviamo nella tradizione assenza di giacobinismo e paura del giacobinismo (l'ultima espressione filosofica di tale paura è l'atteggiamento maltusiano di B. Croce verso la religione). Il moderno Principe deve e non può non essere il banditore e l'organizzatore di una riforma intellettuale e morale, ciò che poi significa creare il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna.

Questi due punti fondamentali – formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare di cui il moderno Principe è nello stesso tempo l'organizzatore e l'espressione attiva e operante, e riforma intellettuale e morale – dovrebbero costituire la struttura del lavoro. I punti concreti di programma devono essere incorporati nella prima parte, cioè dovrebbero «drammaticamente», risultare dal discorso, non essere una fredda e pedantesca esposizione di raziocini.

Può esserci riforma culturale e cioè elevamento civile degli strati depressi della società, senza una precedente riforma economica e un mutamento nella posizione sociale e nel mondo economico? Perciò una riforma intellettuale e morale non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale. Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell'imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume.

 

Oltre che dal modello esemplare delle grandi monarchie assolute di Francia e Spagna, il Machiavelli fu mosso alla sua concezione politica della necessità di uno Stato unitario italiano dal ricordo del passato di Roma. Occorre far risaltare però che non perciò il Machiavelli è da confondere con la tradizione letteraria-retorica. Intanto perché questo elemento non è esclusivo e neanche dominante, e la necessità di un grande Stato nazionale non è dedotta da esso; e poi anche perché lo stesso richiamo a Roma è meno astratto di quanto paia, se collocato puntualmente nel clima dell'Umanesimo e del Rinascimento. Nel libro VII dell'Arte della guerra si legge: «questa provincia (l'Italia) pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura», perché dunque non ritroverebbe la virtú militare? ecc. Saranno da raggruppare gli altri accenni del genere per stabilirne l'esatto carattere.

 

 

[La scienza della politica.] La innovazione fondamentale introdotta dalla filosofia della praxis nella scienza della politica e della storia è la dimostrazione che non esiste una astratta «natura umana» fissa e immutabile (concetto che deriva certo dal pensiero religioso e dalla trascendenza) ma che la natura umana è l'insieme dei rapporti sociali storicamente determinati, cioè un fatto storico accertabile, entro certi limiti, coi metodi della filologia e della critica. Pertanto la scienza politica deve essere concepita nel suo contenuto concreto (e anche nella sua formulazione logica) come un organismo in sviluppo. È da osservare tuttavia che l'impostazione data dal Machiavelli alla quistione della politica (e cioè l'affermazione implicita nei suoi scritti che la politica è una attività autonoma che [ha] suoi principii e leggi diversi da quelli della morale e della religione, proposizione che ha una grande portata filosofica perché implicitamente innova la concezione della morale e della religione, cioè innova tutta la concezione del mondo) è ancora discussa e contraddetta oggi, non è riuscita a diventare «senso comune». Cosa significa ciò? Significa solo che la rivoluzione intellettuale e morale i cui elementi sono contenuti in nuce nel pensiero del Machiavelli non si è ancora attuata, non è diventata forma pubblica e manifesta della cultura nazionale? Oppure ha un mero significato politico attuale, serve a indicare il distacco esistente tra governanti e governati, a indicare che esistono due colture, quella dei governanti e quella dei governati, e che la classe dirigente, come la Chiesa, ha un suo atteggiamento verso i semplici dettato dalla necessità di non staccarsi da loro da una parte, e dall'altra di mantenerli nella convinzione che il Machiavelli è niente altro che un'apparizione diabolica? Si pone cosí il problema del significato che il Machiavelli ha avuto nel tempo suo e dei fini che egli si proponeva scrivendo i suoi libri e specialmente il Principe. La dottrina del Machiavelli non era, al tempo suo, una cosa puramente «libresca», un monopolio di pensatori isolati, un libro segreto che circola tra iniziati. Lo stile del Machiavelli non è quello di un trattatista sistematico, come ne avevano e il Medio Evo e l'Umanesimo, tutt'altro: è stile di uomo d'azione, di chi vuole spingere all'azione, è stile da «manifesto» di partito. L'interpretazione «moralistica» data dal Foscolo è certo sbagliata, tuttavia è vero che il Machiavelli ha svelato qualcosa e non solo teorizzato il reale; ma quale era il fine dello svelare? Un fine moralistico o politico? Si suol dire che le norme del Machiavelli per l'attività politica «si applicano, ma non si dicono»; i grandi politici, si dice, cominciano con maledire Machiavelli, col dichiararsi antimachiavellici, appunto per poterne applicare le norme «santamente». Non sarebbe stato il Machiavelli poco machiavellico, uno di quelli che «sanno il gioco» e stoltamente lo insegnano, mentre il machiavellismo volgare insegna a fare il contrario? L'affermazione del Croce che essendo il machiavellismo una scienza, serve tanto ai reazionari quanto ai democratici, come l'arte della scherma serve ai gentiluomini e ai briganti, a difendersi e ad assassinare, e che in tal senso occorre intendere il giudizio del Foscolo, è vera astrattamente. Il Machiavelli stesso nota che le cose che egli scrive sono applicate e sono sempre state applicate dai piú grandi uomini della storia; non pare perciò che egli voglia suggerire a chi già sa, né il suo stile è quello di una disinteressata attività scientifica (cfr. in una delle pagine precedenti quanto è scritto a proposito del significato dell'invocazione finale del Principe e dell'ufficio che essa può compiere per riguardo all'intera operetta), né può pensarsi che egli sia giunto alle sue tesi di scienza politica per via di speculazione filosofica, ciò che in questa materia particolare avrebbe un po' del miracoloso al tempo suo, se anche oggi trova tanto contrasto e opposizione. Si può quindi supporre che il Machiavelli abbia in vista «chi non sa», che egli intenda fare l'educazione politica di «chi non sa», educazione politica non negativa, di odiatori di tiranni, come parrebbe intendere il Foscolo, ma positiva, di chi deve riconoscere necessari determinati mezzi, anche se propri dei tiranni, perché vuole determinati fini. Chi è nato nella tradizione degli uomini di governo, per tutto il complesso dell'educazione che assorbe dall'ambiente famigliare, in cui predominano gli interessi dinastici o patrimoniali, acquista quasi automaticamente i caratteri del politico realista. Chi dunque «non sa»? La classe rivoluzionaria del tempo, il «popolo» e la «nazione» italiana, la democrazia cittadina che esprime dal suo seno i Savonarola e i Pier Soderini e non i Castruccio e i Valentino. Si può ritenere che il Machiavelli voglia persuadere queste forze della necessità di avere un «capo» che sappia ciò che vuole e come ottenere ciò che vuole, e di accettarlo con entusiasmo anche se le sue azioni possono essere o parere in contrasto con l'ideologia diffusa del tempo, la religione.

Questa posizione della politica del Machiavelli si ripete per la filosofia della praxis: si ripete la necessità di essere «antimachiavellici», sviluppando una teoria e una tecnica della politica che possono servire alle due parti in lotta, quantunque esse si pensa finiranno col servire specialmente alla parte che «non sapeva», perché in essa è ritenuta esistere la forza progressiva della storia e infatti si ottiene subito un risultato: di spezzare l'unità basata sull'ideologia tradizionale, senza la cui rottura la forza nuova non potrebbe acquistare coscienza della propria personalità indipendente. Il machiavellismo è servito a migliorare la tecnica politica tradizionale dei gruppi dirigenti conservatori, cosí come la politica della filosofia della praxis; ciò non deve mascherare il suo carattere essenzialmente rivoluzionario, che è sentito anche oggi e spiega tutto l'antimachiavellismo, da quello dei gesuiti a quello pietistico di P. Villari.

 

 

[La politica come scienza autonoma.] La quistione iniziale da porre e da risolvere in una trattazione sul Machiavelli è la quistione della politica come scienza autonoma, cioè del posto che la scienza politica occupa o deve occupare in una concezione del mondo sistematica (coerente e conseguente) – in una filosofia della praxis –. Il progresso fatto fare dal Croce, a questo proposito, agli studi sul Machiavelli e sulla scienza politica, consiste precipuamente (come in altri campi dell'attività critica crociana) nella dissoluzione di una serie di problemi falsi, inesistenti o male impostati. Il Croce si è fondato sulla sua distinzione dei momenti dello Spirito e sull'affermazione di un momento della pratica, di uno spirito pratico, autonomo e indipendente, sebbene legato circolarmente all'intera realtà per la dialettica dei distinti. In una filosofia della prassi la distinzione non sarà certo tra i momenti dello Spirito assoluto, ma tra i gradi della soprastruttura e si tratterà pertanto di stabilire la posizione dialettica dell'attività politica (e della scienza corrispondente) come determinato grado superstrutturale: si potrà dire, come primo accenno e approssimazione, che l'attività politica è appunto il primo momento o primo grado, il momento in cui la superstruttura è ancora nella fase immediata di mera affermazione volontaria, indistinta ed elementare.

In che senso si può identificare la politica e la storia e quindi tutta la vita e la politica. Come perciò tutto il sistema delle superstrutture possa concepirsi come distinzioni della politica e quindi si giustifichi l'introduzione del concetto di distinzione in una filosofia della prassi. Ma si può parlare di dialettica dei distinti e come si può intendere il concetto di circolo fra i gradi della superstruttura? Concetto di «blocco storico», cioè unità tra la natura e lo spirito (struttura e superstruttura) unità dei contrari e dei distinti.

Il criterio di distinzione si può introdurre anche nella struttura? Come sarà da intendere la struttura: come nel sistema dei rapporti sociali si potrà distinguere l'elemento «tecnica», «lavoro», «classe» ecc. intesi storicamente e non «metafisicamente». Critica della posizione del Croce per cui, ai fini della polemica, la struttura diventa un «dio ascoso», un «noumeno», in contrapposizione alle «apparenze» della superstruttura. «Apparenze» in senso metaforico e in senso positivo. Perché «storicamente» e come linguaggio si è parlato di «apparenze».

È interessante fissare come il Croce, da questa concezione generale, abbia tratto la sua particolare dottrina dell'errore e della origine pratica dell'errore. Per il Croce l'errore ha origine in una «passione» immediata, cioè di carattere individuale o di gruppo; ma che cosa produrrà la «passione» di portata storica piú vasta, la passione come «categoria»? La passione interesse immediato che è origine dell'«errore» è il momento che nelle Glosse al Feuerbach viene chiamato «schmutzig-jüdisch»: ma come la passione-interesse «schmutzig-jüdisch» determina l'errore immediato, cosí la passione del piú vasto gruppo sociale determina l'«errore» filosofico (intermedio l'errore-ideologia, di cui il Croce tratta a parte): l'importante in questa serie: egoismo (errore immediato) - ideologia - filosofia è il termine comune «errore» legato ai diversi gradi di passione, e che sarà da intendere non nel significato moralistico o dottrinario ma nel senso puramente «storico» e dialettico di «ciò che è storicamente caduco e degno di cadere», nel senso della «non definitività» di ogni filosofia, della «morte-vita», «essere-non essere», cioè del termine dialettico da superare nello svolgimento.

Il termine di «apparente», «apparenza», significa proprio questo e niente altro che questo ed è da giustificare contro il dogmatismo: è l'affermazione della caducità di ogni sistema ideologico, accanto all'affermazione di una validità storica di ogni sistema, e di una necessità di esso («nel terreno ideologico l'uomo acquista coscienza dei rapporti sociali»: dire ciò non è affermare la necessità e la validità delle «apparenze»?)

 

La concezione del Croce, della politica-passione, esclude i partiti, perché non si può pensare a una «passione» organizzata e permanente: la passione permanente è una condizione di orgasmo e di spasimo, che determina inettitudine all'operare. Esclude i partiti ed esclude ogni «piano» d'azione concertato preventivamente. Tuttavia i partiti esistono e piani d'azione vengono elaborati, applicati, e spesso realizzati in misura notevolissima; c'è adunque nella concezione del Croce un «vizio». Né vale dire che se i partiti esistono, ciò non ha grande importanza «teorica», perché al momento dell'azione il «partito» che opera non è la stessa cosa del partito che esisteva prima; in parte ciò può esser vero, tuttavia tra i due «partiti» le coincidenze sono tante che in realtà si può dire trattarsi dello stesso organismo. Ma la concezione, per esser valida, dovrebbe potersi applicare anche alla «guerra» e quindi spiegare il fatto degli eserciti permanenti, delle accademie militari, dei corpi di ufficiali. Anche la guerra in atto è «passione», la piú intensa e febbrile, è un momento della vita politica, è la continuazione, in altre forme, di una determinata politica; bisogna dunque spiegare come la «passione» possa diventare «dovere» morale e non dovere di morale politica, ma di etica.

Sui «piani politici» che sono connessi ai partiti come formazioni permanenti, ricordare ciò che Moltke diceva dei piani militari; che essi non possono essere elaborati e fissati in precedenza in tutti i loro dettagli, ma solo nel loro nucleo e disegno centrale, perché le particolarità dell'azione dipendono in una certa misura dalle mosse dell'avversario. La passione si manifesta appunto nei particolari, ma non pare che il principio di Moltke sia tale da giustificare la concezione del Croce: rimarrebbe in ogni caso da spiegare il genere di «passione» dello Stato Maggiore che ha elaborato il piano a mente fredda e «spassionatamente».

 

Se il concetto crociano della passione come momento della politica si urta nella difficoltà di spiegare e giustificare le formazioni politiche permanenti come i partiti e ancor piú gli eserciti nazionali e gli Stati maggiori, poiché non si può concepire una passione organizzata permanentemente senza che essa diventi razionalità e riflessione ponderata, cioè non piú passione, la soluzione non può trovarsi se non nella identificazione di politica ed economia; la politica è azione permanente e dà nascita a organizzazioni permanenti in quanto appunto si identifica con l'economia. Ma essa anche se ne distingue e perciò può parlarsi separatamente di economia e di politica e può parlarsi di «passione politica» come di impulso immediato all'azione che nasce sul terreno «permanente e organico» della vita economica, ma lo supera, facendo entrare in gioco sentimenti e aspirazioni nella cui atmosfera incandescente lo stesso calcolo della vita umana individuale ubbidisce a leggi diverse da quelle del tornaconto individuale ecc.

 

Accanto ai meriti della moderna «machiavellistica» derivata dal Croce, occorre segnalare anche le «esagerazioni» e le deviazioni cui ha dato luogo. Si è formata l'abitudine di considerare troppo il Machiavelli come il «politico in generale», come lo «scienziato della politica», attuale in tutti i tempi. Bisogna considerare maggiormente il Machiavelli come espressione necessaria del suo tempo e come strettamente legato alle condizioni e alle esigenze del tempo suo che risultano: 1) dalle lotte interne della repubblica fiorentina e dalla particolare struttura dello Stato che non sapeva liberarsi dai residui comunali-municipali, cioè da una forma divenuta inceppante di feudalismo; 2) dalle lotte tra gli Stati italiani per un equilibrio nell'ambito italiano, che era ostacolato dall'esistenza del papato e dagli altri residui feudali, municipalistici della forma statale cittadina e non territoriale; 3) dalle lotte degli Stati italiani piú o meno solidali per un equilibrio europeo, ossia dalle contraddizioni tra le necessità di un equilibrio interno italiano e le esigenze degli Stati europei in lotta per l'egemonia. Su Machiavelli opera l'esempio della Francia e della Spagna che hanno raggiunto una forte unità statale territoriale; il Machiavelli fa un «paragone ellittico» (per usare l'espressione crociana) e desume le regole per uno Stato forte in generale e italiano in particolare. Machiavelli è uomo tutto della sua epoca e la sua scienza politica rappresenta la filosofia del tempo che tende all'organizzazione delle monarchie nazionali assolute, la forma politica che permette e facilita un ulteriore sviluppo delle forze produttive borghesi. In Machiavelli si può scoprire in nuce la separazione dei poteri e il parlamentarismo (il regime rappresentativo): la sua «ferocia» è rivolta contro i residui del mondo feudale, non contro le classi progressive. Il Principe deve porre termine all'anarchia feudale e ciò fa il Valentino in Romagna, appoggiandosi sulle classi produttive, mercanti e contadini. Dato il carattere militare-dittatoriale del capo dello Stato, come si richiede in un periodo di lotta per la fondazione e il consolidamento di un nuovo potere, l'indicazione di classe contenuta nell'Arte della guerra si deve intendere anche per la struttura generale statale: se le classi urbane vogliono porre fine al disordine interno e all'anarchia esterna devono appoggiarsi sui contadini come massa, costituendo una forza armata sicura e fedele di tipo assolutamente diverso dalle compagnie di ventura. Si può dire che la concezione essenzialmente politica è cosí dominante nel Machiavelli che gli fa commettere gli errori di carattere militare: egli pensa specialmente alle fanterie, le cui masse possono essere arruolate con un'azione politica e perciò misconosce il significato dell'artiglieria. Il Russo (nei Prolegomeni a Machiavelli) nota giustamente che l'Arte della guerra integra il Principe, ma non trae tutte le conclusioni della sua osservazione. Anche nell'Arte della guerra il Machiavelli deve essere considerato come un politico che deve occuparsi di arte militare; il suo unilateralismo (con altre «curiosità» come la teoria della falange, che danno luogo a facili spiritosaggini come quella piú diffusa ricavata dal Bandello) è dipendente dal fatto che non nella quistione tecnico-militare è il centro del suo interesse e del suo pensiero, ma egli ne tratta solo in quanto è necessario per la sua costruzione politica.

Ma non solo l'Arte della guerra deve essere connessa al Principe, sibbene anche le Istorie fiorentine, che devono servire appunto come un'analisi delle condizioni reali italiane ed europee da cui scaturiscono le esigenze immediate contenute nel Principe.

Da una concezione del Machiavelli piú aderente ai tempi deriva subordinatamente una valutazione piú storicistica dei cosí detti «antimachiavellici», o almeno dei piú «ingenui» tra essi. Non si tratta, in realtà, di antimachiavellici, ma di politici che esprimono esigenze del tempo loro o di condizioni diverse da quelle che operavano sul Machiavelli; la forma polemica è pura accidentalità letteraria. L'esempio tipico di questi «antimachiavellici» mi pare da ricercare in Jean Bodin (1530-96) che fu deputato agli Stati Generali di Blois del 1576 e vi fece rifiutare dal Terzo Stato i sussidi domandati per la guerra civile. (Opere del Bodin: Methodus ad facilem historiarum cognitionem (1566) dove indica l'influenza del clima sulla forma degli Stati, accenna a un'idea di progresso, ecc.; La Republique (1576) dove esprime le opinioni del Terzo Stato sulla monarchia assoluta e i suoi rapporti col popolo; Hentaplomores (inedito fino all'epoca moderna) in cui confronta tutte le religioni e le giustifica come espressioni diverse della religione naturale, sola ragionevole, e tutte egualmente degne di rispetto e di tolleranza).

Durante le guerre civili in Francia, il Bodin è l'esponente del terzo partito, detto dei «politici», che si pone dal punto di vista dell'interesse nazionale, cioè di un equilibrio interno delle classi in cui l'egemonia appartiene al Terzo Stato attraverso il Monarca. Mi pare evidente che classificare il Bodin fra gli «antimachiavellici» sia quistione assolutamente estrinseca e superficiale. Il Bodin fonda la scienza politica in Francia in un terreno molto piú avanzato e complesso di quello che l'Italia aveva offerto al Machiavelli. Per il Bodin non si tratta di fondare lo Stato unitario-territoriale (nazionale) cioè di ritornare all'epoca di Luigi XI, ma di equilibrare le forze sociali in lotta nell'interno di questo Stato già forte e radicato; non il momento della forza interessa il Bodin, ma quello del consenso. Col Bodin si tende a sviluppare la monarchia assoluta: il Terzo Stato è talmente cosciente della sua forza e della sua dignità, conosce cosí bene che la fortuna della Monarchia assoluta è legata alla propria fortuna e al proprio sviluppo, che pone delle condizioni per il suo consenso, presenta delle esigenze, tende a limitare l'assolutismo. In Francia il Machiavelli serviva già alla reazione, perché poteva servire a giustificare che si mantenesse perpetuamente il mondo in «culla» (secondo l'espressione di Bertrando Spaventa), quindi bisognava essere «polemicamente» antimachiavellici. È da notare che nell'Italia studiata dal Machiavelli non esistevano istituzioni rappresentative già sviluppate e significative per la vita nazionale come quelle degli Stati Generali in Francia. Quando modernamente si osserva tendenziosamente che le istituzioni parlamentari in Italia sono state importate dall'estero, non si tiene conto che ciò riflette solo una condizione di arretratezza e di stagnazione della storia italiana politica sociale dal '500 al '700, condizione che era dovuta in gran parte alla preponderanza dei rapporti internazionali su quelli interni, paralizzati e assiderati. Che la struttura statale italiana, per le preponderanze straniere, sia rimasta alla fase semifeudale di un oggetto di «suzeraineté» straniera, è forse «originalità» nazionale distrutta dall'importazione delle forme parlamentari che invece danno una forma al processo di liberazione nazionale? e al passaggio allo Stato territoriale moderno (indipendente e nazionale)? Del resto istituzioni rappresentative sono esistite, specialmente nel Mezzogiorno e in Sicilia, ma con carattere molto piú ristretto che in Francia, per il poco sviluppo in queste regioni del Terzo Stato, cosa per cui i Parlamenti erano strumenti per mantenere l'anarchia dei baroni contro i tentativi innovatori della monarchia, che doveva appoggiarsi ai «lazzari» in assenza di una borghesia. Ricordare lo studio di Antonio Panella sugli Antimachiavellici pubblicato nel «Marzocco» del 1927 (o anche '26? in undici articoli): vedere come vi è giudicato il Bodin in confronto al Machiavelli e come [è] posto in generale il problema dell'antimachiavellismo.

Che il programma o la tendenza di collegare la città alla campagna potesse avere nel Machiavelli solo un'espressione militare si capisce riflettendo che il giacobinismo francese sarebbe inesplicabile senza il presupposto della cultura fisiocratica, con la sua dimostrazione dell'importanza economica e sociale del coltivatore diretto. Le teorie economiche del Machiavelli sono state studiate da Gino Arias (negli «Annali d'Economia» dell'Università Bocconi) ma è da domandarsi se il Machiavelli abbia avuto teorie economiche: si tratterà di vedere se il linguaggio essenzialmente politico del Machiavelli può tradursi in termini economici e a quale sistema economico possa ridursi. Vedere se il Machiavelli che viveva nel periodo mercantilista abbia politicamente preceduto i tempi e anticipato qualche esigenza che ha poi trovato espressione nei fisiocratici.

Anche Rousseau sarebbe stato possibile senza la cultura fisiocratica? Non mi pare giusto affermare che i fisiocratici abbiano rappresentato meri interessi agricoli e che solo con l'economia classica si affermino gli interessi del capitalismo urbano. I fisiocratici rappresentano la rottura col mercantilismo e col regime delle corporazioni e sono una fase per giungere all'economia classica, ma mi pare appunto per ciò che essi rappresentino una società avvenire ben piú complessa di quella contro cui combattono e anche di quella che risulta immediatamente dalle loro affermazioni: il loro linguaggio è troppo legato al tempo ed esprime il contrasto immediato tra città e campagna, ma lascia prevedere un allargamento del capitalismo all'agricoltura. La formula del lasciar fare lasciar passare, cioè della libertà industriale e d'iniziativa, non è certo legata a interessi agrari.

 

Elementi di politica. Bisogna proprio dire che i primi ad essere dimenticati sono proprio i primi elementi, le cose piú elementari; d'altronde, essi, ripetendosi infinite volte, diventano i pilastri della politica e di qualsivoglia azione collettiva. Primo elemento è che esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti. Tutta la scienza e l'arte politica si basano su questo fatto primordiale, irriducibile (in certe condizioni generali). Le origini di questo fatto sono un problema a sé, che dovrà essere studiato a sé (per lo meno potrà e dovrà essere studiato come attenuare e far sparire il fatto, mutando certe condizioni identificabili come operose in questo senso), ma rimane il fatto che esistono dirigenti e diretti, governanti e governati. Dato questo fatto sarà da vedere come si può dirigere nel modo piú efficace (dati certi fini) e come pertanto preparare nel modo migliore i dirigenti (e in questo piú precisamente consiste la prima sezione della scienza e arte politica), e come d'altra parte si conoscono le linee di minore resistenza o razionali per avere l'obbedienza dei diretti o governati.

Nel formare i dirigenti è fondamentale la premessa: si vuole che ci siano sempre governati e governanti oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell'esistenza di questa divisione sparisca? cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni? Occorre tener chiaro tuttavia che la divisione di governati e governanti, seppure in ultima analisi risalga a una divisione di gruppi sociali, tuttavia esiste, date le cose cosí come sono, anche nel seno dello stesso gruppo, anche socialmente omogeneo; in un certo senso si può dire che essa divisione è una creazione della divisione del lavoro, è un fatto tecnico. Su questa coesistenza di motivi speculano coloro che vedono in tutto solo «tecnica», necessità «tecnica» ecc. per non proporsi il problema fondamentale.

Dato che anche nello stesso gruppo esiste la divisione tra governanti e governati, occorre fissare alcuni principii inderogabili, ed è anzi su questo terreno che avvengono gli «errori» piú gravi, che cioè si manifestano le incapacità piú criminali, ma piú difficili a raddrizzare. Si crede che essendo posto il principio dallo stesso gruppo, l'obbedienza debba essere automatica, debba avvenire senza bisogno di una dimostrazione di «necessità» e razionalità non solo, ma sia indiscutibile (qualcuno pensa e, ciò che è peggio, opera secondo questo pensiero, che l'obbedienza «verrà» senza essere domandata, senza che la via da seguire sia indicata). Cosí è difficile estirpare dai dirigenti il «cadornismo», cioè la persuasione che una cosa sarà fatta perché il dirigente ritiene giusto e razionale che sia fatta: se non viene fatta, «la colpa» viene riversata su chi «avrebbe dovuto» ecc. Cosí è difficile estirpare la abitudine criminale di trascurare di evitare i sacrifizi inutili. Eppure il senso comune mostra che la maggior parte dei disastri collettivi (politici) avvengono perché non si è cercato di evitare il sacrifizio inutile, o si è mostrato di non tener conto del sacrifizio altrui e si è giocato con la pelle altrui. Ognuno ha sentito raccontare da ufficiali del fronte come realmente i soldati arrischiassero la vita quando ciò era necessario, ma come invece si ribellassero quando si vedevano trascurati. Per esempio: una compagnia era capace di digiunare molti giorni perché vedeva che i viveri non potevano giungere per forza maggiore, ma si ammutinava se un pasto solo era saltato per la trascuratezza o il burocratismo ecc.

Questo principio si estende a tutte le azioni che domandano sacrifizio. Per cui sempre, dopo ogni rovescio, occorre prima di tutto ricercare le responsabilità dei dirigenti e ciò in senso stretto (per esempio: un fronte è costituito di piú sezioni e ogni sezione ha i suoi dirigenti: è possibile che di una sconfitta siano piú responsabili i dirigenti di una sezione che di un'altra, ma si tratta di piú e meno, non di esclusione di responsabilità per alcuno, mai).

Posto il principio che esistono diretti e dirigenti, governati e governanti, è vero che i partiti sono finora il modo piú adeguato per elaborare i dirigenti e la capacità di direzione (i «partiti» possono presentarsi sotto i nomi piú diversi, anche quello di anti-partito e di «negazione dei partiti»; in realtà anche i cosí detti «individualisti» sono uomini di partito, solo che vorrebbero essere «capipartito» per grazia di dio o dell'imbecillità di chi li segue).

Svolgimento del concetto generale che è contenuto nell'espressione «spirito statale». Questa espressione ha un significato ben preciso, storicamente determinato. Ma si pone il problema: esiste qualcosa [di simile] a ciò che si chiama «spirito statale» in ogni movimento serio, cioè che non sia l'espressione arbitraria di individualismi, piú o meno giustificati? Intanto lo «spirito statale» presuppone la «continuità» sia verso il passato, ossia verso la tradizione, sia verso l'avvenire, cioè presuppone che ogni atto sia il momento di un processo complesso, che è già iniziato e che continuerà. La responsabilità di questo processo, di essere attori di questo processo, di essere solidali con forze «ignote» materialmente, ma che pur si sentono operanti e attive e di cui si tiene conto, come se fossero «materiali» e presenti corporalmente, si chiama appunto in certi casi «spirito statale». È evidente che tale coscienza della «durata» deve essere concreta e non astratta, cioè, in certo senso, non deve oltrepassare certi limiti; mettiamo che i piú piccoli limiti siano una generazione precedente e una generazione futura, ciò che non è dir poco, poiché le generazioni si conteranno per ognuna non trenta anni prima e trenta anni dopo di oggi, ma organicamente, in senso storico, ciò che per il passato almeno è facile da comprendere: ci sentiamo solidali con gli uomini che oggi sono vecchissimi e che per noi rappresentano il «passato» che ancora vive fra noi, che occorre conoscere, con cui occorre fare i conti, che è uno degli elementi del presente e delle premesse del futuro. E coi bambini, con le generazioni nascenti e crescenti, di cui siamo responsabili. (Altro è il «culto» della «tradizione» che ha un valore tendenzioso, implica una scelta e un fine determinato, cioè è a base di una ideologia). Eppure, se si può dire che uno «spirito statale» cosí inteso è in tutti, occorre volta a volta combattere contro deformazioni di esso e deviazioni da esso. «Il gesto per il gesto», la lotta per la lotta ecc. e specialmente l'individualismo gretto e piccino, che poi è un capriccioso soddisfare impulsi momentanei ecc. (In realtà il punto è sempre quello dell'«apoliticismo» italiano che assume queste varie forme pittoresche e bizzarre).

L'individualismo è solo apoliticismo animalesco; il settarismo è «apoliticismo» e se [ben] si osserva, infatti, il settarismo è una forma di «clientela» personale, mentre manca lo spirito di partito, che è l'elemento fondamentale dello «spirito statale». La dimostrazione che lo spirito di partito è l'elemento fondamentale dello spirito statale è uno degli assunti piú cospicui da sostenere e di maggiore importanza; e viceversa che l'«individualismo» è un elemento animalesco, «ammirato dai forestieri» come gli atti degli abitanti di un giardino zoologico.

 

 

[Il partito politico.] Continua del «Nuovo Principe». Si è detto che protagonista del Nuovo Principe non potrebbe essere nell'epoca moderna un eroe personale, ma il partito politico, cioè volta per volta e nei diversi rapporti interni delle diverse nazioni, quel determinato partito che intende (ed è razionalmente e storicamente fondato a questo fine) fondare un nuovo tipo di Stato. È da osservare come nei regimi che si pongono come totalitari, la funzione tradizionale dell'istituto della corona è in realtà assunta dal partito determinato, che anzi è totalitario appunto perché assolve a tale funzione. Sebbene ogni partito sia espressione di un gruppo sociale, e di un solo gruppo sociale, tuttavia determinati partiti appunto rappresentano un solo gruppo sociale, in certe condizioni date, in quanto esercitano una funzione di equilibrio e di arbitrato tra gli interessi del proprio gruppo e gli altri gruppi, e procurano che lo sviluppo del gruppo rappresentato avvenga col consenso e con l'aiuto dei gruppi alleati, se non addirittura dei gruppi decisamente avversari. La formula costituzionale del re o del presidente di repubblica che «regna e non governa» è la formula giuridica che esprime questa funzione di arbitrato; la preoccupazione dei partiti costituzionali di non «scoprire» la corona o il presidente, le formule sulla non responsabilità, per gli atti governativi, del capo dello Stato, ma sulla responsabilità ministeriale, sono la casistica del principio generale di tutela della concezione dell'unità statale, del consenso dei governati all'azione statale, qualunque sia il personale immediato di governo e il suo partito.

Col partito totalitario queste formule perdono di significato e sono quindi diminuite le istituzioni che funzionavano nel senso di tali formule; ma la funzione stessa è incorporata dal partito, che esalterà il concetto astratto di «Stato» e cercherà con vari modi di dare l'impressione che la funzione «di forza imparziale» è attiva ed efficace.

 

È l'azione politica (in senso stretto) necessaria perché si possa parlare di «partito politico»? Si può osservare che nel mondo moderno in molti paesi i partiti organici e fondamentali, per necessità di lotta o per altra causa, si sono frazionati in frazioni, ognuna delle quali assume il nome di Partito e anche di Partito indipendente. Spesso perciò lo Stato Maggiore intellettuale del Partito organico non appartiene a nessuna di tali frazioni ma opera come se fosse una forza direttrice a sé stante, superiore ai partiti e talvolta è anche creduto tale dal pubblico. Questa funzione si può studiare con maggiore precisione se si parte dal punto di vista che un giornale (o un gruppo di giornali), una rivista (o un gruppo di riviste), sono anch'essi «partiti» o «frazioni di partito» o «funzione di determinati partiti». Si pensi alla funzione del «Times» in Inghilterra, a quella che ebbe il «Corriere della Sera» in Italia, e anche alla funzione della cosí detta «stampa d'informazione», sedicente «apolitica», e perfino alla stampa sportiva e a quella tecnica. Del resto il fenomeno offre aspetti interessanti nei paesi dove esiste un partito unico e totalitario di Governo: perché tale Partito non ha piú funzioni schiettamente politiche ma solo tecniche di propaganda, di polizia, di influsso morale e culturale. La funzione politica è indiretta: poiché se non esistono altri partiti legali, esistono sempre altri partiti di fatto o tendenze incoercibili legalmente, contro i quali si polemizza e si lotta come in una partita di mosca cieca. In ogni caso è certo che in tali partiti le funzioni culturali predominano, dando luogo a un linguaggio politico di gergo: cioè le quistioni politiche si rivestono di forme culturali e come tali diventano irrisolvibili.

Ma un partito tradizionale ha un carattere essenziale «indiretto», cioè si presenta esplicitamente come puramente «educativo» (lucus ecc.), moralistico, di cultura (sic): ed è il movimento libertario: anche la cosidetta azione diretta («terroristica») è concepita come «propaganda» con l'esempio: da ciò si può ancora rafforzare il giudizio che il movimento libertario non è autonomo, ma vive al margine degli altri partiti, «per educarli», e si può parlare di un «libertarismo» inerente a ogni partito organico. (Cosa sono i «libertari intellettuali o cerebrali» se non un aspetto di tale «marginalismo» nei riguardi dei grandi partiti dei gruppi sociali dominanti?) La stessa «setta degli economisti» era un aspetto storico di questo fenomeno.

Si presentano pertanto due forme di «partito» che pare faccia astrazione (come tale) dall'azione politica immediata: quello costituito da una élite di uomini di cultura, che hanno la funzione di dirigere dal punto di vista della cultura, dell'ideologia generale, un grande movimento di partiti affini (che sono in realtà frazioni di uno stesso partito organico) e, nel periodo piú recente, partito non di élite, ma di masse, che come masse non hanno altra funzione politica che quella di una fedeltà generica, di tipo militare, a un centro politico visibile o invisibile (spesso il centro visibile è il meccanismo di comando di forze che non desiderano mostrarsi in piena luce ma operare solo indirettamente per interposta persona e per «interposta ideologia»). La massa è semplicemente di «manovra» e viene «occupata» con prediche morali, con pungoli sentimentali, con miti messianici di attesa di età favolose in cui tutte le contraddizioni e miserie presenti saranno automaticamente risolte e sanate.

 

 

Sul concetto di partito politico. Quando si vuol scrivere la storia di un partito politico, in realtà occorre affrontare tutta una serie di problemi molto meno semplici di quanto creda, per es., Roberto Michels che pure è ritenuto uno specialista in materia. Cosa sarà la storia di un partito? Sarà la mera narrazione della vita interna di una organizzazione politica? come essa nasce, i primi gruppi che la costituiscono, le polemiche ideologiche attraverso cui si forma il suo programma e la sua concezione del mondo e della vita? Si tratterebbe in tal caso, della storia di ristretti gruppi intellettuali e talvolta della biografia politica di una singola individualità. La cornice del quadro dovrà, adunque, essere piú vasta e comprensiva. Si dovrà fare la storia di una determinata massa di uomini che avrà seguito i promotori, li avrà sorretti con la sua fiducia, con la sua lealtà, con la sua disciplina o li avrà criticati «realisticamente» disperdendosi o rimanendo passiva di fronte a talune iniziative. Ma questa massa sarà costituita solo dagli aderenti al partito? Sarà sufficiente seguire i congressi, le votazioni, ecc., cioè tutto l'insieme di attività e di modi di esistenza con cui una massa di partito manifesta la sua volontà? Evidentemente occorrerà tener conto del gruppo sociale di cui il partito dato è espressione e parte piú avanzata: la storia di un partito, cioè, non potrà non essere la storia di un determinato gruppo sociale. Ma questo gruppo non è isolato; ha amici, affini, avversari, nemici. Solo dal complesso quadro di tutto l'insieme sociale e statale (e spesso anche con interferenze internazionali) risulterà la storia di un determinato partito, per cui si può dire che scrivere la storia di un partito significa niente altro che scrivere la storia generale di un paese da un punto di vista monografico, per porne in risalto un aspetto caratteristico. Un partito avrà avuto maggiore o minore significato e peso, nella misura appunto in cui la sua particolare attività avrà pesato piú o meno nella determinazione della storia di un paese.

Ecco quindi che dal modo di scrivere la storia di un partito risulta quale concetto si abbia di ciò che è un partito o debba essere. Il settario si esalterà nei fatterelli interni, che avranno per lui un significato esoterico e lo riempiranno di mistico entusiasmo; lo storico, pur dando a ogni cosa l'importanza che ha nel quadro generale, poserà l'accento soprattutto sull'efficienza reale del partito, sulla sua forza determinante, positiva e negativa, nell'aver contribuito a creare un evento e anche nell'aver impedito che altri eventi si compissero.

 

 

Quando si può dire che un partito sia formato e non possa essere distrutto con mezzi normali. Il punto di sapere quando un partito sia formato, cioè abbia un compito preciso e permanente, dà luogo a molte discussioni e spesso anche luogo, purtroppo, a una forma di boria che non è meno ridicola e pericolosa che la «boria delle nazioni» di cui parla il Vico. È vero che si può dire che un partito non è mai compiuto e formato, nel senso che ogni sviluppo crea nuovi compiti e mansioni e nel senso che per certi partiti è vero il paradosso che essi sono compiuti e formati quando non esistono piú, cioè quando la loro esistenza è diventata storicamente inutile. Cosí, poiché ogni partito non è che una nomenclatura di classe, è evidente che per il partito che si propone di annullare la divisione in classi, la sua perfezione e compiutezza consiste nel non esistere piú perché non esistono classi e quindi loro espressioni. Ma qui si vuole accennare a un particolare momento di questo processo di sviluppo, al momento successivo a quello in cui un fatto può esistere e può non esistere, nel senso che la necessità della sua esistenza non è ancora divenuta «perentoria», ma dipende in «gran parte» dall'esistenza di persone di straordinario potere volitivo e di straordinaria volontà. Quando un partito diventa «necessario» storicamente? Quando le condizioni del suo «trionfo», del suo immancabile diventar Stato sono almeno in via di formazione e lasciano prevedere normalmente i loro ulteriori sviluppi. Ma quando si può dire, in tali condizioni, che un partito non può essere distrutto con mezzi normali? Per rispondere occorre sviluppare un ragionamento: perché esista un partito è necessario che confluiscano tre elementi fondamentali (cioè tre gruppi di elementi). 1) Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo. Senza di essi il partito non esisterebbe, è vero, ma è anche vero che il partito non esisterebbe neanche «solamente» con essi. Essi sono una forza in quanto c'è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente. Non si nega che ognuno di questi elementi possa diventare una delle forze coesive, ma di essi si parla appunto nel momento che non lo sono e non sono in condizioni di esserlo, o se lo sono lo sono solo in una cerchia ristretta, politicamente inefficiente e senza conseguenza. 2) L'elemento coesivo principale, che centralizza nel campo nazionale, che fa diventare efficiente e potente un insieme di forze che lasciate a sé conterebbero zero o poco piú; questo elemento è dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche (anzi forse per questo, inventiva, se si intende inventiva in una certa direzione, secondo certe linee di forza, certe prospettive, certe premesse anche): è anche vero che da solo questo elemento non formerebbe il partito, tuttavia lo formerebbe piú che non il primo elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è piú facile formare un esercito che formare dei capitani. Tanto vero che un esercito già esistente è distrutto se vengono a mancare i capitani, mentre l'esistenza di un gruppo di capitani, affiatati, d'accordo tra loro, con fini comuni non tarda a formare un esercito anche dove non esiste. 3) Un elemento medio, che articoli il primo col terzo elemento, che li metta a contatto, non solo «fisico» ma morale e intellettuale. Nella realtà, per ogni partito esistono delle «proporzioni definite» tra questi tre elementi e si raggiunge il massimo di efficienza quando tali «proporzioni definite» sono realizzate.

Date queste considerazioni, si può dire che un partito non può essere distrutto con mezzi normali, quando, esistendo necessariamente il secondo elemento, la cui nascita è legata all'esistenza delle condizioni materiali oggettive (e se questo secondo elemento non esiste, ogni ragionamento è vacuo) sia pure allo stato disperso e vagante, non possono non formarsi gli altri due, cioè il primo che necessariamente forma il terzo come sua continuazione e mezzo di esprimersi. Occorre che perché ciò avvenga si sia formata la convinzione ferrea che una determinata soluzione dei problemi vitali sia necessaria. Senza questa convinzione non si formerà il secondo elemento, la cui distruzione è la piú facile per lo scarso suo numero, ma è necessario che questo secondo elemento, se distrutto, abbia lasciato come eredità un fermento da cui riformarsi. E dove questo fermento sussisterà meglio e potrà meglio formarsi che nel primo e nel terzo elemento, che, evidentemente, sono i piú omogenei col secondo? L'attività del secondo elemento per costituire questo elemento è perciò fondamentale: il criterio di giudizio di questo secondo elemento sarà da cercare: 1) in ciò che realmente fa; 2) in ciò che prepara nell'ipotesi di una sua distruzione. Tra i due fatti è difficile dire quale sia piú importante. Poiché nella lotta si deve sempre prevedere la sconfitta, la preparazione dei propri successori è un elemento altrettanto importante di ciò che si fa per vincere.

A proposito della «boria» del partito, si può dire che essa è peggiore della boria delle nazioni di cui parla Vico. Perché? Perché una nazione non può non esistere e nel fatto che esiste è sempre possibile, sia pure con la buona volontà e sollecitando i testi, trovare che l'esistenza è piena di destino e di significato. Invece un partito può non esistere per forza propria. Non occorre mai dimenticare che nella lotta fra le nazioni, ognuna di esse ha interesse che l'altra sia indebolita dalle lotte interne e che i partiti sono appunto gli elementi delle lotte interne. Per i partiti dunque, è sempre possibile la domanda se essi esistano per forza propria, come propria necessità, o esistano invece solo per interesse altrui (e infatti nelle polemiche questo punto non è mai dimenticato, anzi è motivo d'insistenza anche, specialmente quando la risposta non è dubbia, ciò che significa che ha presa e lascia dubbi). Naturalmente, chi si lasciasse dilaniare da questo dubbio, sarebbe uno sciocco. Politicamente la quistione ha una rilevanza solo momentanea. Nella storia del cosí detto principio di nazionalità, gli interventi stranieri a favore dei partiti nazionali che turbavano l'ordine interno degli Stati antagonisti sono innumerevoli, tanto che quando si parla per esempio della politica «orientale» di Cavour si domanda se si trattava di una «politica» cioè di una linea d'azione permanente, o di uno stratagemma del momento per indebolire l'Austria in vista del '59 e del '66. Cosí nei movimenti mazziniani dei primi del 1870 (esempio, fatto Barsanti) si vede l'intervento di Bismark, che in vista della guerra con la Francia e del pericolo di un'alleanza italo-francese, pensava, con conflitti interni, a indebolire l'Italia. Cosí nei fatti del giugno 1914 alcuni vedono l'intervento dello Stato Maggiore austriaco in vista della successiva guerra. Come si vede, la casistica è numerosa e occorre avere idee chiare in proposito. Ammesso che qualunque cosa si faccia, si fa sempre il gioco di qualcuno, l'importante è di cercare in tutti i modi di fare bene il proprio gioco, cioè di vincere nettamente. In ogni modo occorre disprezzare la «boria» del partito e alla boria sostituire i fatti concreti. Chi ai fatti concreti sostituisce la boria, o fa la politica della boria, è da sospettare di poca serietà senz'altro. Non occorre aggiungere che per i partiti occorre evitare anche l'apparenza «giustificata» che si faccia il gioco di qualcuno, specialmente se il qualcuno è uno Stato straniero: che poi si speculi, nessuno può evitare che non avvenga.

 

 

Partiti politici e funzioni di polizia. È difficile escludere che qualsiasi partito politico (dei gruppi dominanti, ma anche di gruppi subalterni) non adempia anche una funzione di polizia, cioè di tutela di un certo ordine politico e legale. Se questo fosse dimostrato tassativamente, la quistione dovrebbe essere posta in altri termini: e cioè, sui modi e gli indirizzi con cui una tale funzione viene esercitata. Il senso è repressivo o diffusivo, cioè è di carattere reazionario o progressivo? Il partito dato esercita la sua funzione di polizia per conservare un ordine esteriore, estrinseco, pastoia delle forze vive della storia, o la esercita nel senso che tende a portare il popolo a un nuovo livello di civiltà di cui l'ordine politico e legale è un'espressione programmatica? Infatti, una legge trova chi la infrange: 1) tra gli elementi sociali reazionari che la legge ha spodestato; 2) tra gli elementi progressivi che la legge comprime; 3) tra gli elementi che non hanno raggiunto il livello di civiltà che la legge può rappresentare. La funzione di polizia di un partito può dunque essere progressiva e regressiva: è progressiva quando essa tende a tenere nell'orbita della legalità le forze reazionarie spodestate e a sollevare al livello della nuova legalità le masse arretrate. È regressiva quando tende a comprimere le forze vive della storia e a mantenere una legalità sorpassata, antistorica, divenuta estrinseca. Del resto il funzionamento del Partito dato fornisce criteri discriminanti: quando il partito è progressivo esso funziona «democraticamente» (nel senso di un centralismo democratico), quando il partito è regressivo esso funziona «burocraticamente» (nel senso di un centralismo burocratico). Il Partito in questo secondo caso è puro esecutore, non deliberante: esso allora è tecnicamente un organo di polizia e il suo nome di Partito politico è una pura metafora di carattere mitologico.

 

 

[Industriali e agrari.] Si pone il problema se i grandi industriali abbiano un partito politico permanente proprio. La risposta mi pare debba essere negativa. I grandi industriali si servono volta a volta di tutti i partiti esistenti, ma non hanno un partito proprio. Essi non sono perciò «agnostici» o «apolitici» in qualsiasi modo: il loro interesse è un determinato equilibrio, che ottengono appunto rafforzando coi loro mezzi, volta a volta, questo o quello dei partiti del vario scacchiere politico (con eccezione, si intende, del solo partito antagonista, il cui rafforzamento non può essere aiutato neppure per mossa tattica). È certo però che se ciò avviene nella vita «normale», nei casi estremi, che poi sono quelli che contano (come la guerra nella vita nazionale), il partito dei grandi industriali è quello degli agrari, i quali hanno invece un proprio partito permanente.

Si può vedere l'esemplificazione di questa nota in Inghilterra, dove il partito conservatore si è mangiato il partito liberale, che pure tradizionalmente appariva come il partito degli industriali. La situazione inglese, con le sue grandi Trade Unions spiega questo fatto. In Inghilterra non esiste formalmente un partito antagonista agli industriali in grande stile, è vero, ma esistono le organizzazioni operaie di massa, ed è stato osservato come esse, in certi momenti, quelli decisivi, si trasformino costituzionalmente dal basso in alto spezzando l'involucro burocratico (es. nel 1919 e nel 1926). D'altronde esistono interessi permanenti stretti tra agrari e industriali (specialmente ora che il protezionismo è diventato generale, agrario e industriale) ed è innegabile che gli agrari sono «politicamente» molto meglio organizzatori degli industriali, attirano piú gli intellettuali, sono piú «permanenti» nelle loro direttive ecc. La sorte dei partiti «industriali» tradizionali, come quello «liberale-radicale» inglese e quello radicale francese (che però si differenziò sempre molto dal primo) è interessante (cosí quello «radicale italiano» di buona memoria): che cosa rappresentavano essi? Un nesso di classi grandi e piccole, non una sola grande classe; perciò il loro vario divenire e sparire; la truppa di «manovra» era data dalla classe piccola, che si trovò in condizioni sempre diverse nel nesso fino a trasformarsi completamente. Oggi dà la truppa ai «partiti demagogici» e si comprende.

In generale si può dire che in questa storia dei partiti, la comparazione tra i vari paesi è delle piú istruttive e decisive per trovare l'origine delle cause di trasformazione. Ciò anche nelle polemiche tra partiti dei paesi «tradizionalisti» dove cioè sono rappresentati «scampoli» di tutto il «catalogo» storico.

 

 

Concezioni del mondo e atteggiamenti pratici totalitari e parziali. Un criterio primordiale di giudizio sia per le concezioni del mondo, sia e specialmente per gli atteggiamenti pratici è questo: la concezione del mondo o l'atteggiamento pratico può essere concepito «isolato, indipendente» con tutta la responsabilità della vita collettiva su di sé, o ciò è impossibile e la concezione del mondo e l'atteggiamento pratico può solo essere concepito come «integrazione», perfezionamento, contrappeso ecc. di un'altra concezione del mondo e atteggiamento pratico? Se si riflette, si vede che questo criterio è decisivo per un giudizio ideale sui moti ideali e sui moti pratici e si vede anche che esso ha una portata pratica non piccola. Uno degli idoli piú comuni è quello di credere che tutto ciò che esiste è «naturale» esista, non può a meno di esistere e che i propri tentativi di riforma, per male che vadano, non interromperanno la vita, perché le forze tradizionali continueranno ad operare e appunto continueranno la vita. In questo modo di pensare c'è del giusto, certamente, e guai se cosí non fosse, tuttavia questo modo di pensare oltre certi limiti diventa pericoloso (certi casi della politica del peggio) e in ogni modo, come si è detto, sussiste il criterio di giudizio filosofico, politico e storico. È certo che, se si osserva in fondo, certi moti concepiscono se stessi come marginali; presuppongono cioè un moto principale in cui innestarsi per riformare certi presunti o veri mali, cioè certi moti sono puramente riformistici. Questo principio ha importanza politica perché la verità teorica che ogni classe ha un solo partito è dimostrata, nelle svolte decisive, dal fatto che aggruppamenti varii, ognuno dei quali si presentava come partito «indipendente», si riuniscono e bloccano in unità. La molteplicità esistente prima era solo di carattere «riformistico», cioè riguardava questioni parziali, in un certo senso era una divisione del lavoro politico (utile, nei suoi limiti); ma ogni parte presupponeva l'altra, tanto che nei momenti decisivi, cioè appunto quando le quistioni principali sono state messe in gioco, l'unità si è formata, il blocco si è verificato. Da ciò la conclusione che nella costruzione dei partiti, occorre basarsi su un carattere «monolitico» e non su quistioni secondarie, quindi attenta osservazione che ci sia omogeneità tra dirigenti e diretti, tra capi e massa. Se nei momenti decisivi, i capi passano al loro «vero partito» le masse rimangono in tronco, inerti e senza efficacia.

Si può dire che nessun moto reale acquista coscienza della sua totalitarietà d'un colpo, ma solo per esperienze successive, cioè quando s'accorge, dai fatti, che niente di ciò che è, è naturale (nel senso bislacco della parola) ma esiste perché ci sono certe condizioni, la cui sparizione non rimane senza conseguenze. Cosí il moto si perfeziona, perde i caratteri di arbitrarietà, di «simbiosi», diventa davvero indipendente, nel senso che per avere certe conseguenze crea le premesse necessarie e anzi sulla creazione di queste premesse impegna tutte le sue forze.

 

 

Alcuni aspetti teorici e pratici dell'«economismo». Economismo – movimento teorico per il libero scambio – sindacalismo teorico. È da vedere in che misura il sindacalismo teorico abbia avuto origine dalla filosofia della praxis e in quanto dalle dottrine economiche del libero scambio, cioè, in ultima analisi, dal liberalismo. E perciò è da vedere se l'economismo, nella sua forma piú compiuta, non sia una filiazione diretta del liberalismo e abbia avuto, anche alle origini, ben pochi rapporti colla filosofia della praxis, rapporti in ogni modo solo estrinseci e puramente verbali. Da questo punto di vista è da vedere la polemica Einaudi-Croce, determinata dalla prefazione nuova (del 1917) al volume sul Materialismo storico: la esigenza, prospettata dall'Einaudi, di tener conto della letteratura di storia economica suscitata dall'economia classica inglese, può essere soddisfatta in questo senso, che una tale letteratura, per una contaminazione superficiale con la filosofia della praxis, ha originato l'economismo; perciò quando l'Einaudi critica (in modo, a dir vero, impreciso) alcune degenerazioni economistiche, non fa altro che tirare sassi in piccionaia. Il nesso tra ideologie libero-scambiste e sindacalismo teorico è specialmente evidente in Italia, dove sono note l'ammirazione per Pareto dei sindacalisti come Lanzillo e C. Il significato di queste due tendenze è però molto diverso: il primo è proprio di un gruppo sociale dominante e dirigente, il secondo di un gruppo ancora subalterno, che non ha ancora acquistato coscienza della sua forza e delle sue possibilità e modi di sviluppo e non sa perciò uscire dalla fase di primitivismo. L'impostazione del movimento del libero scambio si basa su un errore teorico di cui non è difficile identificare l'origine pratica: sulla distinzione cioè tra società politica e società civile, che da distinzione metodica viene fatta diventare ed è presentata come distinzione organica. Cosí si afferma che l'attività economica è propria della società civile e che lo Stato non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma siccome nella realtà effettuale società civile e Stato si identificano, è da fissare che anche il liberismo è una «regolamentazione» di carattere statale, introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva: è un fatto di volontà consapevole dei propri fini e non l'espressione spontanea, automatica del fatto economico. Pertanto il liberismo è un programma politico, destinato a mutare, in quanto trionfa, il personale dirigente di uno Stato e il programma economico dello Stato stesso, cioè a mutare la distribuzione del reddito nazionale. Diverso è il caso del sindacalismo teorico, in quanto si riferisce a un gruppo subalterno, al quale con questa teoria si impedisce di diventare mai dominante, di svilupparsi oltre la fase economico-corporativa per elevarsi alla fase di egemonia etico-politica nella società civile e dominante nello Stato. Per ciò che riguarda il liberismo si ha il caso di una frazione del gruppo dirigente che vuole modificare non la struttura dello Stato, ma solo l'indirizzo di governo, che vuole riformare la legislazione commerciale e solo indirettamente industriale (poiché è innegabile che il protezionismo, specialmente nei paesi a mercato povero e ristretto, limita la libertà di iniziativa industriale e favorisce morbosamente il nascere dei monopoli): si tratta di rotazione dei partiti dirigenti al governo, non di fondazione e organizzazione di una nuova società politica e tanto meno di un nuovo tipo di società civile. Nel movimento del sindacalismo teorico la quistione si presenta piú complessa: è innegabile che in esso l'indipendenza e l'autonomia del gruppo subalterno che si dice di esprimere sono invece sacrificate all'egemonia intellettuale del gruppo dominante, poiché appunto il sindacalismo teorico non è che un aspetto del liberismo, giustificato con alcune affermazioni mutilate, e pertanto banalizzate, della filosofia della praxis. Perché e come avviene questo «sacrifizio»? Si esclude la trasformazione del gruppo subordinato in dominante, o perché il problema non è neppure prospettato (fabianesimo, De Man, parte notevole del laburismo) o perché è presentato in forme incongrue e inefficienti (tendenze socialdemocratiche in generale) o perché si afferma il salto immediato dal regime dei gruppi a quello della perfetta eguaglianza e dell'economia sindacale.

È per lo meno strano l'atteggiamento dell'economismo verso le espressioni di volontà, di azione e di iniziativa politica e intellettuale, come se queste non fossero una emanazione organica di necessità economiche e anzi la sola espressione efficiente dell'economia; cosí è incongruo che l'impostazione concreta della quistione egemonica sia interpretata come un fatto che subordina il gruppo egemone. Il fatto dell'egemonia presuppone indubbiamente che sia tenuto conto degli interessi e delle tendenze dei gruppi sui quali l'egemonia verrà esercitata, che si formi un certo equilibrio di compromesso, che cioè il gruppo dirigente faccia dei sacrifizi di ordine economico-corporativo, ma è anche indubbio che tali sacrifizi e tale compromesso non possono riguardare l'essenziale, poiché se l'egemonia è etico-politica, non può non essere anche economica, non può non avere il suo fondamento nella funzione decisiva che il gruppo dirigente esercita nel nucleo decisivo dell'attività economica.

L'economismo si presenta sotto molte altre forme oltre che il liberismo e il sindacalismo teorico. Gli appartengono tutte le forme di astensionismo elettorale (esempio tipico l'astensionismo dei clericali italiani dopo il 1870, dopo il 1900 sempre piú attenuato, fino al 1919 e alla formazione del Partito popolare: la distinzione organica che i clericali facevano tra Italia reale e Italia legale era una riproduzione della distinzione tra mondo economico e mondo politico-legale), che sono molte, nel senso che può esserci semi-astensionismo, un quarto ecc. All'astensionismo è legata la formula del «tanto peggio, tanto meglio» e anche la formula della cosí detta «intransigenza» parlamentare di alcune frazioni di deputati. Non sempre l'economismo è contrario all'azione politica e al partito politico, che viene però considerato mero organismo educativo di tipo sindacale.

Un punto di riferimento per lo studio dell'economismo e per comprendere i rapporti tra struttura e superstrutture è quel passaggio della Miseria della Filosofia dove si dice che una fase importante nello sviluppo di un gruppo sociale è quella in cui i singoli componenti di un sindacato non lottano solo piú per i loro interessi economici, ma per la difesa e lo sviluppo dell'organizzazione stessa (vedere la affermazione esatta; la Miseria della Filosofia è un momento essenziale nella formazione della filosofia della praxis; essa può essere considerata come lo svolgimento delle Tesi su Feuerbach, mentre la Sacra Famiglia è una fase intermedia indistinta e di origine occasionale, come appare dai brani dedicati al Proudhon e specialmente al materialismo francese. Il brano sul materialismo francese è piú che altro un capitolo di storia della cultura e non un brano teoretico, come spesso viene interpretato, e come storia della cultura è ammirevole. Ricordare l'osservazione che la critica contenuta nella Miseria della Filosofia contro Proudhon e la sua interpretazione della dialettica hegeliana può essere estesa al Gioberti e allo hegelismo dei liberali moderati italiani in genere. Il parallelo Proudhon-Gioberti, nonostante rappresentino fasi storico-politiche non omogenee, anzi appunto per questo, può essere interessante e fecondo). È da ricordare insieme l'affermazione di Engels che l'economia solo in «ultima analisi» è la molla della storia (nelle due lettere sulla filosofia della praxis pubblicate anche in italiano) da collegarsi direttamente al passo della prefazione della Critica dell'Economia politica, dove si dice che gli uomini diventano consapevoli dei conflitti che si verificano nel mondo economico sul terreno delle ideologie.

In varie occasioni è affermato in queste note che la filosofia della praxis è molto piú diffusa di quanto non si voglia concedere. L'affermazione è esatta se si intende che è diffuso l'economismo storico, come il prof. Loria chiama ora le sue concezioni piú o meno sgangherate, e che pertanto l'ambiente culturale è completamente mutato dal tempo in cui la filosofia della praxis iniziò le sue lotte; si potrebbe dire, con terminologia crociana, che la piú grande eresia sorta nel seno della «religione della libertà» ha anch'essa, come la religione ortodossa, subito una degenerazione, si è diffusa come «superstizione», cioè è entrata in combinazione col liberismo e ha prodotto l'economismo. È da vedere però se, mentre la religione ortodossa si è ormai imbozzacchita, la superstizione eretica non abbia sempre mantenuto un fermento che la farà rinascere come religione superiore, se cioè le scorie di superstizione non siano facilmente liquidabili.

Alcuni punti caratteristici dell'economismo storico: 1) nella ricerca dei nessi storici non si distingue ciò che è «relativamente permanente» da ciò che è fluttuazione occasionale e si intende per fatto economico l'interesse personale e di piccolo gruppo, in senso immediato e «sordidamente giudaico». Non si tiene conto cioè delle formazioni di classe economica, con tutti i rapporti inerenti, ma si assume l'interesse gretto e usurario, specialmente quando coincide con forme delittuose contemplate dai codici criminali; 2) la dottrina per cui lo svolgimento economico viene ridotto al susseguirsi dei cangiamenti tecnici negli strumenti di lavoro. Il prof. Loria ha fatto un'esposizione brillantissima di questa dottrina applicata nell'articolo sull'influsso sociale dell'aeroplano, pubblicato nella «Rassegna contemporanea» del 1912; 3) la dottrina per cui lo svolgimento economico e storico viene fatto dipendere immediatamente dai mutamenti di un qualche elemento importante della produzione, la scoperta di una nuova materia prima, di un nuovo combustibile ecc., che portano con sé l'applicazione di nuovi metodi nella costruzione e nell'azionamento delle macchine. In questi ultimi tempi c'è tutta una letteratura sul petrolio: si può vedere come tipico un articolo di Antonino Laviosa nella «Nuova Antologia» del 1929. La scoperta di nuovi combustibili e di nuove energie motrici, come di nuove materie prime da trasformare, hanno certo grande importanza, perché può mutare la posizione dei singoli Stati, ma non determina il moto storico ecc.

Avviene spesso che si combatte l'economismo storico, credendo di combattere il materialismo storico. È questo il caso, per esempio, di un articolo dell'«Avenir» di Parigi del 10 ottobre 1930 (riportato nella «Rassegna Settimanale della Stampa Estera» del 21 ottobre 1930, pp. 2303-4) e che si riporta come tipico: «Ci si dice da molto tempo, ma sopratutto dopo la guerra, che le quistioni d'interesse dominano i popoli e portano avanti il mondo. Sono i marxisti che hanno inventato questa tesi, sotto l'appellativo un po' dottrinario di "materialismo storico". Nel marxismo puro, gli uomini presi in massa non obbediscono alle passioni, ma alle necessità economiche. La politica è una passione. La Patria è una passione. Queste due idee esigenti non godono nella storia che una funzione di apparenza perché in realtà la vita dei popoli, nel corso dei secoli, si spiega con un gioco cangiante e sempre rinnovato di cause di ordine materiale. L'economia è tutto. Molti filosofi ed economisti "borghesi" hanno ripreso questo ritornello. Essi assumono una certa aria da spiegarci col corso del grano, dei petroli o del caucciú, la grande politica internazionale. Essi si ingegnano a dimostrarci che tutta la diplomazia è comandata da quistioni di tariffe doganali e di prezzi di costo. Queste spiegazioni sono molto in auge. Esse hanno una piccola apparenza scientifica e procedono da una specie di scetticismo superiore che vorrebbe passare per una eleganza suprema. La passione in politica estera? Il sentimento in materia nazionale? Suvvia! Questa roba è buona per la gente comune. I grandi spiriti, gli iniziati sanno che tutto è dominato dal dare e dall'avere. Ora questa è una pseudo-verità assoluta. È completamente falso che i popoli non si lasciano guidare che da considerazioni di interesse ed è completamente vero che essi obbediscono [piú che mai al sentimento. Il materialismo storico è una buona scemenza. Le nazioni obbediscono] sopratutto a delle considerazioni dettate da un desiderio e da una fede ardente di prestigio. Chi non comprende questo non comprende nulla». La continuazione dell'articolo (intitolato La mania del prestigio) esemplifica con la politica tedesca e italiana, che sarebbe di «prestigio» e non dettata da interessi materiali. L'articolo racchiude in breve una gran parte degli spunti piú banali di polemica contro la filosofia della praxis, ma in realtà la polemica è contro l'economismo sgangherato di tipo loriano. D'altronde lo scrittore non è molto ferrato in argomento anche per altri rispetti: egli non capisce che le «passioni» possono essere niente altro che un sinonimo degli interessi economici e che è difficile sostenere essere l'attività politica uno stato permanente di esasperazione passionale e di spasimo; proprio la politica francese è presentata come una «razionalità» sistematica e coerente, cioè depurata di ogni elemento passionale ecc.

Nella sua forma piú diffusa di superstizione economistica, la filosofia della praxis perde una gran parte della sua espansività culturale nella sfera superiore del gruppo intellettuale, per quanta ne acquista tra le masse popolari e tra gli intellettuali di mezza tacca, che non intendono affaticarsi il cervello ma vogliono apparire furbissimi ecc. Come scrisse Engels, fa molto comodo a molti credere di poter avere, a poco prezzo e con nessuna fatica, in saccoccia, tutta la storia e tutta la sapienza politica e filosofica concentrata in qualche formuletta. Avendo dimenticato che la tesi secondo cui gli uomini acquistano coscienza dei conflitti fondamentali nel terreno delle ideologie non è di carattere psicologico o moralistico, ma ha un carattere organico gnoseologico, si è creata la forma mentis di considerare la politica e quindi la storia come un continuo marché de dupes, un gioco di illusionismi e di prestidigitazione. L'attività «critica» si è ridotta a svelare trucchi, a suscitare scandali, a fare i conti in tasca agli uomini rappresentativi.

Si è cosí dimenticato che essendo o presumendo di essere anche l'«economismo» un canone obbiettivo di interpretazione (obbiettivo-scientifico), la ricerca nel senso degli interessi immediati dovrebbe esser valida per tutti gli aspetti della storia, per gli uomini che rappresentano la «tesi» come per quelli che rappresentano l'«antitesi». Si è dimenticato inoltre un'altra proposizione della filosofia della praxis: quella che le «credenze popolari» o le credenze del tipo delle credenze popolari hanno la validità delle forze materiali.

Gli errori di interpretazione nel senso delle ricerche degli interessi «sordidamente giudaici» sono stati talvolta grossolani e comici e hanno cosí reagito negativamente sul prestigio della dottrina originaria. Occorre perciò combattere l'economismo non solo nella teoria della storiografia, ma anche e specialmente nella teoria e nella pratica politica. In questo campo la lotta può e deve essere condotta sviluppando il concetto di egemonia, cosí come è stata condotta praticamente nello sviluppo della teoria del partito politico e nello sviluppo pratico della vita di determinati partiti politici (la lotta contro la teoria della cosí detta rivoluzione permanente, cui si contrapponeva il concetto di dittatura democratico-rivoluzionaria, importanza avuta dal sostegno dato alle ideologie costituentiste ecc.). Si potrebbe fare una ricerca sui giudizi emessi a mano a mano che si sviluppavano certi movimenti politici, prendendo come tipo il movimento boulangista (dal 1886 al 1890 circa), o il processo Dreyfus o addirittura il colpo di Stato del 2 dicembre (un'analisi del libro classico sul 2 dicembre, per studiare quale importanza relativa vi si dà al fattore economico immediato e quale posto invece vi abbia lo studio concreto delle «ideologie»). Di fronte a questo evento, l'economismo si pone la domanda: a chi giova immediatamente l'iniziativa in quistione? e risponde con un ragionamento tanto semplicistico quanto paralogistico. Giova immediatamente a una certa frazione del gruppo dominante e per non sbagliare questa scelta cade su quella frazione che evidentemente ha una funzione progressiva e di controllo sull'insieme delle forze economiche. Si può esser sicuri di non sbagliare, perché necessariamente, se il movimento preso in esame andrà al potere, prima o poi la frazione progressiva del gruppo dominante finirà col controllare il nuovo governo e col farsene uno strumento per rivolgere a proprio benefizio l'apparato statale. Si tratta adunque di una infallibilità molto a buon mercato e che non solo non ha significato teorico, ma ha scarsissima portata politica ed efficacia pratica: in generale non produce altro che prediche moralistiche e quistioni personali interminabili.

Quando un movimento di tipo boulangista si produce, l'analisi dovrebbe realisticamente essere condotta secondo questa linea: 1) contenuto sociale della massa che aderisce al movimento; 2) questa massa che funzione aveva nell'equilibrio di forze che va trasformandosi come il nuovo movimento dimostra col suo stesso nascere? 3) le rivendicazioni che i dirigenti presentano e che trovano consenso quale significato hanno politicamente e socialmente? a quali esigenze effettive corrispondono? 4) esame della conformità dei mezzi al fine proposto; 5) solo in ultima analisi e presentata in forma politica e non moralistica si prospetta l'ipotesi che tale movimento necessariamente verrà snaturato e servirà a ben altri fini da quelli che le moltitudini seguaci se ne attendono. Invece questa ipotesi viene affermata preventivamente, quando nessun elemento concreto (che cioè appaia tale con l'evidenza del senso comune e non per una analisi «scientifica» esoterica) esiste ancora per suffragarla, cosí che essa appare come un'accusa moralistica di doppiezza e di malafede o di poca furberia, di stupidaggine (per i seguaci). La lotta politica cosí diventa una serie di fatti personali tra chi la sa lunga, avendo il diavolo nell'ampolla, e chi è preso in giro dai propri dirigenti e non vuole convincersene per la sua inguaribile buaggine.

D'altronde, finché questi movimenti non hanno raggiunto il potere, si può sempre pensare che essi falliscano e alcuni infatti sono falliti (il boulangismo stesso, che è fallito come tale ed è poi stato schiacciato definitivamente col movimento dreyfusardo, il movimento di Giorgio Valois, quello del Generale Gajda); la ricerca deve quindi dirigersi all'identificazione degli elementi di forza, ma anche degli elementi di debolezza che essi contengono nel loro intimo: l'ipotesi «economistica» afferma un elemento immediato di forza, cioè la disponibilità di un certo apporto finanziario diretto o indiretto (un grande giornale che appoggi il movimento è anche esso un apporto finanziario indiretto) e basta. Troppo poco.

Anche in questo caso l'analisi dei diversi gradi di rapporto delle forze non può culminare che nella sfera dell'egemonia e dei rapporti etico-politici.

 

Un elemento da aggiungere al paragrafo dell'economismo, come esemplificazione delle teorie cosí dette dell'intransigenza, è quello della rigida avversione di principio ai cosí detti compromessi, che ha come manifestazione subordinata quella che si può chiamare la «paura dei pericoli». Che l'avversione di principio ai compromessi sia strettamente legata all'economismo è chiaro, in quanto la concezione su cui si fonda questa avversione non può essere altro che la convinzione ferrea che esistano per lo sviluppo storico leggi obbiettive dello stesso carattere delle leggi naturali, con in piú la persuasione di un finalismo fatalistico di carattere simile a quello religioso: poiché le condizioni favorevoli dovranno fatalmente verificarsi e da esse saranno determinati, in modo alquanto misterioso, avvenimenti palingenetici, risulta l'inutilità non solo, ma il danno di ogni iniziativa volontaria tendente a predisporre queste situazioni secondo un piano. Accanto a queste convinzioni fatalistiche sta tuttavia la tendenza ad affidarsi «in seguito» ciecamente e scriteriatamente alla virtú regolatrice delle armi, ciò che però non è completamente senza una logica e una coerenza, poiché si pensa che l'intervento della volontà è utile per la distruzione, non per la ricostruzione (già in atto nel momento stesso della distruzione). La distruzione viene concepita meccanicamente non come distruzione-ricostruzione. In tali modi di pensare non si tiene conto del fattore «tempo» e non si tiene conto, in ultima analisi, della stessa «economia» nel senso che non si capisce come i fatti ideologici di massa sono sempre in arretrato sui fenomeni economici di massa e come pertanto in certi momenti la spinta automatica dovuta al fattore economico è rallentata, impastoiata o anche spezzata momentaneamente da elementi ideologici tradizionali, che perciò deve esserci lotta cosciente e predisposta per far «comprendere» le esigenze della posizione economica di massa che possono essere in contrasto con le direttive dei capi tradizionali. Una iniziativa politica appropriata è sempre necessaria per liberare la spinta economica dalle pastoie della politica tradizionale, per mutare cioè la direzione politica di certe forze che è necessario assorbire per realizzare un nuovo, omogeneo, senza contraddizioni interne, blocco storico economico-politico, e poiché due forze «simili» non possono fondersi in organismo nuovo che attraverso una serie di compromessi o con la forza delle armi, alleandole su un piano di alleanza o subordinando l'una all'altra con la coercizione, la quistione è se si ha questa forza e se sia «produttivo» impiegarla. Se l'unione di due forze è necessaria per vincere una terza, il ricorso alle armi e alla coercizione (dato che se ne abbia la disponibilità) è una pura ipotesi metodica e l'unica possibilità concreta è il compromesso, poiché la forza può essere impiegata contro i nemici, non contro una parte di se stessi che si vuole rapidamente assimilare e di cui occorre la «buona volontà» e l'entusiasmo.

 

 

[Previsione e prospettiva.] Altro punto da fissare e da svolgere è quello della «doppia prospettiva» nell'azione politica e nella vita statale. Vari gradi in cui può presentarsi la doppia prospettiva, dai piú elementari ai piú complessi, ma che possono ridursi teoricamente a due gradi fondamentali, corrispondenti alla doppia natura del Centauro machiavellico, ferina ed umana, della forza e del consenso, dell'autorità e dell'egemonia, della violenza e della civiltà, del momento individuale e di quello universale (della «Chiesa» e dello «Stato»), dell'agitazione e della propaganda, della tattica e della strategia ecc. Alcuni hanno ridotto la teoria della «doppia prospettiva» a qualcosa di meschino e di banale, a niente altro cioè che a due forme di «immediatezza» che si succedono meccanicamente nel tempo con maggiore o minore «prossimità». Può invece avvenire che quanto piú la prima «prospettiva» è «immediatissima», elementarissima, tanto piú la seconda debba essere «lontana» (non nel tempo, ma come rapporto dialettico) complessa, elevata, cioè può avvenire come nella vita umana, che quanto piú un individuo è costretto a difendere la propria esistenza fisica immediata, tanto piú sostiene e si pone dal punto di vista di tutti i complessi e piú elevati valori della civiltà e dell'umanità.

 

Sul concetto di previsione o prospettiva. È certo che prevedere significa solo veder bene il presente e il passato in quanto movimento: veder bene, cioè identificare con esattezza gli elementi fondamentali e permanenti del processo. Ma è assurdo pensare a una previsione puramente «oggettiva». Chi fa la previsione in realtà ha un «programma» da far trionfare e la previsione è appunto un elemento di tale trionfo. Ciò non significa che la previsione debba sempre essere arbitraria e gratuita o puramente tendenziosa. Si può anzi dire che solo nella misura in cui l'aspetto oggettivo della previsione è connesso con un programma esso aspetto acquista oggettività: 1) perché solo la passione aguzza l'intelletto e coopera a rendere piú chiara l'intuizione; 2) perché essendo la realtà il risultato di una applicazione della volontà umana alla società delle cose (del macchinista alla macchina), prescindere da ogni elemento volontario o calcolare solo l'intervento delle altrui volontà come elemento oggettivo del gioco generale mutila la realtà stessa. Solo chi fortemente vuole identifica gli elementi necessari alla realizzazione della sua volontà. Perciò ritenere che una determinata concezione del mondo e della vita abbia in se stessa una superiorità di capacità di previsione è un errore di grossolana fatuità e superficialità. Certo una concezione del mondo è implicita in ogni previsione e pertanto che essa sia una sconnessione di atti arbitrari del pensiero o una rigorosa e coerente visione non è senza importanza, ma l'importanza appunto l'acquista nel cervello vivente di chi fa la previsione e la vivifica con la sua forte volontà. Ciò si vede dalle previsioni fatte dai cosí detti «spassionati»: esse abbondano di oziosità, di minuzie sottili, di eleganze congetturali. Solo l'esistenza nel «previsore» di un programma da realizzare fa sí che egli si attenga all'essenziale, a quegli elementi che essendo «organizzabili», suscettibili di essere diretti o deviati, in realtà sono essi soli prevedibili. Ciò va contro il comune modo di considerare la quistione. Si pensa generalmente che ogni atto di previsione presuppone la determinazione di leggi di regolarità del tipo di quelle delle scienze naturali. Ma siccome queste leggi non esistono nel senso assoluto o meccanico che si suppone, non si tiene conto delle altrui volontà e non si «prevede» la loro applicazione. Pertanto si costruisce su una ipotesi arbitraria e non sulla realtà.

 

Il «troppo» (e quindi superficiale e meccanico) realismo politico porta spesso ad affermare che l'uomo di Stato deve operare solo nell'ambito della «realtà effettuale», non interessarsi del «dover essere», ma solo dell'«essere». Ciò significherebbe che l'uomo di Stato non deve avere prospettive oltre la lunghezza del proprio naso. Questo errore ha condotto Paolo Treves a trovare nel Guicciardini e non nel Machiavelli il «vero politico». Bisogna distinguere oltre che tra «diplomatico» e «politico», anche tra scienziato della politica e politico in atto. Il diplomatico non può non muoversi solo nella realtà effettuale, perché la sua attività specifica non è quella di creare nuovi equilibri, ma di conservare entro certi quadri giuridici un equilibrio esistente. Cosí anche lo scienziato deve muoversi solo nella realtà effettuale in quanto mero scienziato. Ma il Machiavelli non è un mero scienziato; egli è un uomo di parte, di passioni poderose, un politico in atto, che vuol creare nuovi rapporti di forze e perciò non può non occuparsi del «dover essere», certo non inteso in senso moralistico. La quistione non è quindi da porre in questi termini, è piú complessa: si tratta cioè di vedere se il «dover essere» è un atto arbitrario o necessario, è volontà concreta, o velleità, desiderio, amore con le nuvole. Il politico in atto è un creatore, un suscitatore, ma né crea dal nulla, né si muove nel vuoto torbido dei suoi desideri e sogni. Si fonda sulla realtà effettuale, ma cos'è questa realtà effettuale? È forse qualcosa di statico e immobile o non piuttosto un rapporto di forze in continuo movimento e mutamento di equilibrio? Applicare la volontà alla creazione di un nuovo equilibrio delle forze realmente esistenti ed operanti, fondandosi su quella determinata forza che si ritiene progressiva, e potenziandola per farla trionfare è sempre muoversi nel terreno della realtà effettuale ma per dominarla e superarla (o contribuire a ciò). Il «dover essere» è quindi concretezza, anzi è la sola interpretazione realistica e storicistica della realtà, è sola storia in atto e filosofia in atto, sola politica. L'opposizione Savonarola-Machiavelli non è l'opposizione tra essere e dover essere (tutto il paragrafo del Russo su questo punto è pura belletristica) ma tra due dover essere, quello astratto e fumoso del Savonarola e quello realistico del Machiavelli, realistico anche se non diventato realtà immediata, poiché non si può attendere che un individuo o un libro mutino la realtà ma solo la interpretino e indichino la linea possibile dell'azione. Il limite e l'angustia del Machiavelli consistono solo nell'essere egli stato una «persona privata», uno scrittore e non il capo di uno Stato o di un esercito, che è pure una singola persona, ma avente a sua disposizione le forze di uno Stato o di un esercito e non solo eserciti di parole. Né perciò si può dire che il Machiavelli sia stato anche egli un «profeta disarmato»: sarebbe fare dello spirito a troppo buon mercato. Il Machiavelli non dice mai di pensare o di proporsi egli stesso di mutare la realtà, ma solo e concretamente di mostrare come avrebbero dovuto operare le forze storiche per essere efficienti.

 

 

[Analisi delle situazioni. Rapporti di forza.] Le note scritte a proposito dello studio delle situazioni e di ciò che occorre intendere per «rapporti di forza». Lo studio di come occorre analizzare le «situazioni», cioè di come occorre stabilire i diversi gradi di rapporto di forze può prestarsi a una esposizione elementare di scienza ed arte politica, intesa come un insieme di canoni pratici di ricerca e di osservazioni particolari utili per risvegliare l'interesse per la realtà effettuale e suscitare intuizioni politiche piú rigorose e vigorose. Insieme è da porre l'esposizione di ciò che occorre intendere in politica per strategia e tattica, per «piano» strategico, per propaganda e agitazione, per organica, o scienza dell'organizzazione e dell'amministrazione in politica. Gli elementi di osservazione empirica che di solito sono esposti alla rinfusa nei trattati di scienza politica (si può prendere come esemplare l'opera di G. Mosca: Elementi di scienza politica) dovrebbero, in quanto non sono quistioni astratte o campate in aria, trovar posto nei vari gradi del rapporto di forze, a cominciare dai rapporti delle forze internazionali (in cui troverebbero posto le note scritte su ciò che è una grande potenza, sugli aggruppamenti di Stati in sistemi egemonici e quindi sul concetto di indipendenza e sovranità per ciò che riguarda le potenze piccole e medie) per passare ai rapporti obbiettivi sociali, cioè al grado di sviluppo delle forze produttive, ai rapporti di forza politica e di partito (sistemi egemonici nell'interno dello Stato) e ai rapporti politici immediati (ossia potenzialmente militari).

I rapporti internazionali precedono o seguono (logicamente) i rapporti sociali fondamentali? Seguono indubbiamente. Ogni innovazione organica nella struttura modifica organicamente i rapporti assoluti e relativi nel campo internazionale, attraverso le sue espressioni tecnico-militari. Anche la posizione geografica di uno Stato nazionale non precede ma segue (logicamente) le innovazioni strutturali, pur reagendo su di esse in una certa misura (nella misura appunto in cui le superstrutture reagiscono sulla struttura, la politica sull'economia ecc.). D'altronde i rapporti internazionali reagiscono passivamente e attivamente sui rapporti politici (di egemonia dei partiti). Quanto piú la vita economica immediata di una nazione è subordinata ai rapporti internazionali, tanto piú un determinato partito rappresenta questa situazione e la sfrutta per impedire il sopravvento dei partiti avversari (ricordare il famoso discorso di Nitti sulla rivoluzione italiana tecnicamente impossibile!). Da questa serie di fatti si può giungere alla conclusione che spesso il cosí detto «partito dello straniero» non è proprio quello che come tale viene volgarmente indicato, ma proprio il partito piú nazionalistico, che, in realtà, piú che rappresentare le forze vitali del proprio paese, ne rappresenta la subordinazione e l'asservimento economico alle nazioni o a un gruppo di nazioni egemoniche (un accenno a questo elemento internazionale «repressivo» delle energie interne si trova negli articoli pubblicati da G. Volpe nel «Corriere della Sera» del 22 e 23 marzo 1932).

 

È il problema dei rapporti tra struttura e superstrutture che bisogna impostare esattamente e risolvere per giungere a una giusta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato periodo e determinare il loro rapporto. Occorre muoversi nell'ambito di due principii: 1) quello che nessuna società si pone dei compiti per la cui soluzione non esistano già le condizioni necessarie e sufficienti o esse non siano almeno in via di apparizione e di sviluppo; 2) e quello che nessuna società si dissolve e può essere sostituita se prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei suoi rapporti (controllare l'esatta enunciazione di questi principii).

«Una formazione sociale non perisce, prima che non siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa è ancora sufficiente e nuovi piú alti rapporti di produzione non ne abbiano preso il posto, prima che le condizioni materiali di esistenza di questi ultimi siano state covate nel seno stesso della vecchia società. Perciò l'umanità si pone sempre solo quei compiti che essa può risolvere; se si osserva con piú accuratezza si troverà sempre che il compito stesso sorge solo dove le condizioni materiali della sua risoluzione esistono già o almeno sono nel processo del loro divenire» (Introduzione a Critica dell'Economia Politica).

Dalla riflessione su questi due canoni si può giungere allo svolgimento di tutta una serie di altri principii di metodologia storica. Intanto nello studio di una struttura occorre distinguere i movimenti organici (relativamente permanenti) da i movimenti che si possono chiamare di congiuntura (e si presentano come occasionali, immediati, quasi accidentali). I fenomeni di congiuntura sono certo dipendenti anch'essi da movimenti organici, ma il loro significato non è di vasta portata storica: essi danno luogo a una critica politica spicciola, del giorno per giorno, che investe i piccoli gruppi dirigenti e le personalità responsabili immediatamente del potere. I fenomeni organici danno luogo alla critica storico-sociale, che investe i grandi aggruppamenti, di là dalle persone immediatamente responsabili e di là dal personale dirigente. Nello studiare un periodo storico appare la grande importanza di questa distinzione. Si verifica una crisi, che talvolta si prolunga per decine di anni. Questa durata eccezionale significa che nella struttura si sono rivelate (sono venute a maturità) contraddizioni insanabili e che le forze politiche operanti positivamente alla conservazione e difesa della struttura stessa si sforzano tuttavia di sanare entro certi limiti e di superare. Questi sforzi incessanti e perseveranti (poiché nessuna forma sociale vorrà mai confessare di essere superata) formano il terreno dell'«occasionale» sul quale si organizzano le forze antagonistiche che tendono a dimostrare (dimostrazione che in ultima analisi riesce solo ed è «vera» se diventa nuova realtà, se le forze antagonistiche trionfano, ma immediatamente si svolge in una serie di polemiche ideologiche, religiose, filosofiche, politiche, giuridiche ecc., la cui concretezza è valutabile dalla misura in cui riescono convincenti e spostano il preesistente schieramento delle forze sociali) che esistono già le condizioni necessarie e sufficienti perché determinati compiti possano e quindi debbano essere risolti storicamente (debbano, perché ogni venir meno al dovere storico aumenta il disordine necessario e prepara piú gravi catastrofi).

L'errore in cui si cade spesso nelle analisi storico-politiche consiste nel non saper trovare il giusto rapporto tra ciò che è organico e ciò che è occasionale: si riesce cosí o ad esporre come immediatamente operanti cause che invece sono operanti mediatamente, o ad affermare che le cause immediate sono le sole cause efficienti; nell'un caso si ha l'eccesso di «economismo» o di dottrinarismo pedantesco, dall'altro l'eccesso di «ideologismo», nell'un caso si sopravalutano le cause meccaniche; nell'altro si esalta l'elemento volontaristico e individuale. (La distinzione tra «movimenti» e fatti organici e movimenti e fatti di «congiuntura» o occasionali deve essere applicata a tutti i tipi di situazione, non solo a quelle in cui si verifica uno svolgimento regressivo o di crisi acuta, ma a quelle in cui si verifica uno svolgimento progressivo o di prosperità e a quelle in cui si verifica una stagnazione delle forze produttive). Il nesso dialettico tra i due ordini di movimento e quindi di ricerca difficilmente viene stabilito esattamente e se l'errore è grave nella storiografia, ancor piú grave diventa nell'arte politica, quando si tratta non di ricostruire la storia passata ma di costruire quella presente e avvenire: i proprii desideri e le proprie passioni deteriori e immediate sono la causa dell'errore, in quanto essi sostituiscono l'analisi obbiettiva e imparziale e ciò avviene non come «mezzo» consapevole per stimolare all'azione ma come autoinganno. La biscia, anche in questo caso, morde il ciarlatano ossia il demagogo è la prima vittima della sua demagogia.

Il non aver considerato il momento immediato dei «rapporti di forza» è connesso a residui della concezione liberale volgare, di cui il sindacalismo è una manifestazione che credeva di essere piú avanzata in quanto faceva realmente un passo indietro. Infatti la concezione liberale volgare dando importanza al rapporto delle forze politiche organizzate nelle diverse forme di partito (lettori di giornali, elezioni parlamentari e locali, organizzazione di massa dei partiti e dei sindacati in senso stretto) era piú avanzata del sindacalismo che dava importanza primordiale al rapporto fondamentale economico-sociale e solo a questo. La concezione liberale volgare teneva conto implicito anche di tale rapporto (come appare da tanti segni) ma insisteva di piú sul rapporto delle forze politiche che era un'espressione dell'altro e in realtà lo conteneva. Questi residui della concezione liberale volgare si possono rintracciare in tutta una serie di trattazioni che si dicono connesse alla filosofia della prassi e hanno dato luogo a forme infantili di ottimismo e di scempiaggine.

Questi criteri metodologici possono acquistare visibilmente e didatticamente tutto il loro significato se applicati all'esame di fatti storici concreti. Si potrebbe farlo utilmente per gli avvenimenti che si svolsero in Francia dal 1789 al 1870. Mi pare che per maggior chiarezza dell'esposizione sia proprio necessario abbracciare tutto questo periodo. Infatti solo nel 1870-71, col tentativo comunalistico si esauriscono storicamente tutti i germi nati nel 1789 cioè non solo la nuova classe che lotta per il potere sconfigge i rappresentanti della vecchia società che non vuole confessarsi decisamente superata, ma sconfigge anche i gruppi nuovissimi che sostengono già superata la nuova struttura sorta dal rivolgimento iniziatosi nel 1789 e dimostra cosí di essere vitale e in confronto al vecchio e in confronto al nuovissimo. Inoltre, col 1870-71, perde efficacia l'insieme di principii di strategia e tattica politica nati praticamente nel 1789 e sviluppati ideologicamente intorno al '48 (quelli che si riassumono nella formula della «rivoluzione permanente»: sarebbe interessante studiare quanto di tale formula è passata nella strategia mazziniana – per es. per l'insurrezione di Milano del 1853 – e se è avvenuto consapevolmente o meno). Un elemento che mostra la giustezza di questo punto di vista è il fatto che gli storici non sono per nulla concordi (ed è impossibile che lo siano) nel fissare i limiti di quel gruppo di avvenimenti che costituisce la rivoluzione francese. Per alcuni (per es. il Salvemini) la rivoluzione è compiuta a Valmy: la Francia ha creato un nuovo Stato e ha saputo organizzare la forza politico-militare che ne afferma e ne difende la sovranità territoriale. Per altri la Rivoluzione continua fino al Termidoro, anzi essi parlano di piú rivoluzioni (il 10 agosto sarebbe una rivoluzione a sé ecc.; cfr. la Rivoluzione francese di A. Mathiez nella collezione Colin). Il modo di interpretare il Termidoro e l'opera di Napoleone offre le piú aspre contradizioni: si tratta di rivoluzione o di controrivoluzione? ecc. Per altri la storia della Rivoluzione continua fino al 1830, 1848, 1870 e persino fino alla guerra mondiale del 1914.

In tutti questi modi di vedere c'è una parte di verità. Realmente le contraddizioni interne della struttura sociale francese che si sviluppano dopo il 1789 trovano una loro relativa composizione solo con la terza repubblica e la Francia ha 60 anni di vita politica equilibrata dopo 80 anni di rivolgimenti a ondate sempre piú lunghe: '89-94-99-1804-1815-1830-1848-1870. È appunto lo studio di queste «ondate» a diversa oscillazione che permette di ricostruire i rapporti tra struttura e superstruttura da una parte e dall'altra tra lo svolgersi del movimento organico e quello del movimento di congiuntura della struttura. Si può dire intanto che la mediazione dialettica tra i due principii metodologici enunziati all'inizio di questa nota si può trovare nella formula politicostorica di rivoluzione permanente.

Un aspetto dello stesso problema è la quistione cosí detta dei rapporti di forza. Si legge spesso nelle narrazioni storiche l'espressione generica: rapporti di forza favorevoli, sfavorevoli a questa o a quella tendenza. Cosí, astrattamente, questa formulazione non spiega nulla o quasi nulla, perché non si fa che ripetere il fatto che si deve spiegare presentandolo una volta come fatto e una volta come legge astratta e come spiegazione. L'errore teorico consiste dunque nel dare un canone di ricerca e di interpretazione come «causa storica».

Intanto nel «rapporto di forza» occorre distinguere diversi momenti o gradi, che fondamentalmente sono questi:

1) Un rapporto di forze sociali strettamente legato alla struttura, obbiettivo, indipendente dalla volontà degli uomini, che può essere misurato coi sistemi delle scienze esatte o fisiche. Sulla base del grado di sviluppo delle forze materiali di produzione si hanno i raggruppamenti sociali, ognuno dei quali rappresenta una funzione e ha una posizione data nella produzione stessa. Questo rapporto è quello che è, una realtà ribelle: nessuno può modificare il numero delle aziende e dei suoi addetti, il numero delle città con la data popolazione urbana ecc. Questo schieramento fondamentale permette di studiare se nella società esistono le condizioni necessarie e sufficienti per una sua trasformazione, permette cioè di controllare il grado di realismo e di attuabilità delle diverse ideologie che sono nate nel suo stesso terreno, nel terreno delle contraddizioni che esso ha generato durante il suo sviluppo.

2) Un momento successivo è il rapporto delle forze politiche, cioè la valutazione del grado di omogeneità, di autocoscienza e di organizzazione raggiunto dai vari gruppi sociali. Questo momento può essere a sua volta analizzato e distinto in vari gradi, che corrispondono ai diversi momenti della coscienza politica collettiva, cosí come si sono manifestati finora nella storia. Il primo e piú elementare è quello economico-corporativo: un commerciante sente di dover essere solidale con un altro commerciante, un fabbricante con un altro fabbricante, ecc., ma il commerciante non si sente ancora solidale col fabbricante; è cioè sentita l'unità omogenea, e il dovere di organizzarla, del gruppo professionale, ma non ancora del gruppo sociale piú vasto. Un secondo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza della solidarietà di interessi fra tutti i membri del gruppo sociale, ma ancora nel campo meramente economico. Già in questo momento si pone la quistione dello Stato, ma solo nel terreno di raggiungere una eguaglianza politico-giuridica coi gruppi dominanti, poiché si rivendica il diritto di partecipare alla legislazione e all'amministrazione e magari di modificarle, di riformarle, ma nei quadri fondamentali esistenti. Un terzo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza che i propri interessi corporativi, nel loro sviluppo attuale e avvenire, superano la cerchia corporativa, di gruppo meramente economico, e possono e debbono divenire gli interessi di altri gruppi subordinati. Questa è la fase piú schiettamente politica, che segna il netto passaggio dalla struttura alla sfera delle superstrutture complesse, è la fase in cui le ideologie germinate precedentemente diventano «partito», vengono a confronto ed entrano in lotta fino a che una sola di esse o almeno una sola combinazione di esse, tende a prevalere, a imporsi, a diffondersi su tutta l'area sociale, determinando oltre che l'unicità dei fini economici e politici, anche l'unità intellettuale e morale, ponendo tutte le quistioni intorno a cui ferve la lotta non sul piano corporativo ma su un piano «universale» e creando cosí l'egemonia di un gruppo sociale fondamentale su una serie di gruppi subordinati. Lo Stato è concepito sí come organismo proprio di un gruppo, destinato a creare le condizioni favorevoli alla massima espansione del gruppo stesso, ma questo sviluppo e questa espansione sono concepiti e presentati come la forza motrice di una espansione universale, di uno sviluppo di tutte le energie «nazionali», cioè il gruppo dominante viene coordinato concretamente con gli interessi generali dei gruppi subordinati e la vita statale viene concepita come un continuo formarsi e superarsi di equilibri instabili (nell'ambito della legge) tra gli interessi del gruppo fondamentale e quelli dei gruppi subordinati, equilibri in cui gli interessi del gruppo dominante prevalgono ma fino a un certo punto, non cioè fino al gretto interesse economico-corporativo. Nella storia reale questi momenti si implicano reciprocamente, per cosí dire orizzontalmente e verticalmente, cioè secondo le attività economico-sociali (orizzontali) e secondo i territori (verticalmente), combinandosi e scindendosi variamente: ognuna di queste combinazioni può essere rappresentata da una propria espressione organizzata economica e politica. Ancora bisogna tener conto che a questi rapporti interni di uno Stato-nazione si intrecciano i rapporti internazionali, creando nuove combinazioni originali e storicamente concrete. Una ideologia, nata in un paese piú sviluppato, si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel gioco locale delle combinazioni. (La religione, per es., è sempre stata una fonte di tali combinazioni ideologico-politiche nazionali e internazionali, e con la religione le altre formazioni internazionali, la massoneria, il Rotary Club, gli ebrei, la diplomazia di carriera che suggeriscono espedienti politici di origine storica diversa e li fanno trionfare in determinati paesi, funzionando come partito politico internazionale che opera in ogni nazione con tutte le sue forze internazionali concentrate; ma religione, massoneria, Rotary, ebrei ecc., possono rientrare nella categoria sociale degli «intellettuali», la cui funzione, su scala internazionale, è quella di mediare gli estremi, di «socializzare» i ritrovati tecnici che fanno funzionare ogni attività di direzione, di escogitare compromessi e vie d'uscita tra le soluzioni estreme). Questo rapporto tra forze internazionali e forze nazionali è ancora complicato dall'esistenza nell'interno di ogni Stato di parecchie sezioni territoriali di diversa struttura e di diverso rapporto di forza in tutti i gradi (cosí la Vandea era alleata con le forze internazionali reazionarie e le rappresentava nel seno dell'unità territoriale francese; cosí Lione nella Rivoluzione Francese rappresentava un nodo particolare di rapporti ecc.).

3) Il terzo momento è quello del rapporto delle forze militari, immediatamente decisivo volta per volta. (Lo sviluppo storico oscilla continuamente tra il primo e il terzo momento, con la mediazione del secondo). Ma anche esso non è qualcosa di indistinto e di identificabile immediatamente in forma schematica; si possono anche in esso distinguere due gradi: quello militare in senso stretto o tecnico-militare e il grado che si può chiamare politico-militare. Nello sviluppo della storia questi due gradi si sono presentati in una grande varietà di combinazioni. Un esempio tipico che può servire come dimostrazione-limite, è quello del rapporto di oppressione militare di uno Stato su una nazione che cerca di raggiungere la sua indipendenza statale. Il rapporto non è puramente militare, ma politico-militare e infatti un tale tipo di oppressione sarebbe inspiegabile senza lo stato di disgregazione sociale del popolo oppresso e la passività della sua maggioranza; pertanto l'indipendenza non potrà essere raggiunta con forze puramente militari, ma militari e politico-militari. Se la nazione oppressa, infatti, per iniziare la lotta d'indipendenza, dovesse attendere che lo Stato egemone le permetta di organizzare un proprio esercito nel senso stretto e tecnico della parola, avrebbe da attendere un pezzo (può avvenire che la rivendicazione di avere un proprio esercito sia soddisfatta dalla nazione egemone, ma ciò significa che già una gran parte della lotta è stata combattuta e vinta sul terreno politico-militare). La nazione oppressa opporrà dunque inizialmente alla forza militare egemone una forza che è solo «politico-militare», cioè opporrà una forma di azione politica che abbia la virtú di determinare riflessi di carattere militare nel senso: 1) che abbia efficacia di disgregare intimamente l'efficienza bellica della nazione egemone; 2) che costringa la forza militare egemone a diluirsi e disperdersi in un grande territorio, annullandone gran parte dell'efficienza bellica. Nel Risorgimento italiano si può notare l'assenza disastrosa di una direzione politico-militare specialmente nel Partito d'Azione (per congenita incapacità), ma anche nel partito piemontese-moderato sia prima che dopo il 1848 non certo per incapacità ma per «maltusianismo economico-politico», cioè perché non si volle neanche accennare alla possibilità di una riforma agraria e perché non si voleva la convocazione di una assemblea nazionale costituente, ma si tendeva solo a che la monarchia piemontese, senza condizioni o limitazioni di origine popolare, si estendesse a tutta Italia, con la pura sanzione di plebisciti regionali.

Altra quistione connessa alle precedenti è quella di vedere se le crisi storiche fondamentali sono determinate immediatamente dalle crisi economiche. La risposta alla quistione è contenuta implicitamente nei paragrafi precedenti, dove [sono] trattate quistioni che sono un altro modo di presentare quella ora trattata, tuttavia è sempre necessario, per ragioni didattiche, dato il pubblico particolare, esaminare ogni modo di presentarsi di una stessa quistione come fosse un problema indipendente e nuovo. Si può escludere che, di per se stesse, le crisi economiche immediate producano eventi fondamentali; solo possono creare un terreno piú favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, di impostare e risolvere le quistioni che coinvolgono tutto l'ulteriore sviluppo della vita statale. Del resto, tutte le affermazioni che riguardano i periodi di crisi o di prosperità possono dar luogo a giudizi unilaterali. Nel suo compendio di storia della Rivoluzione francese (ed. Colin) il Mathiez, opponendosi alla storia volgare tradizionale, che aprioristicamente «trova» una crisi in coincidenza con le grandi rotture di equilibri sociali, afferma che verso il 1789 la situazione economica era piuttosto buona immediatamente, per cui non si può dire che la catastrofe dello Stato assoluto sia dovuta a una crisi di immiserimento (cfr. l'affermazione esatta del Mathiez). Occorre osservare che lo Stato era in preda a una mortale crisi finanziaria e si poneva la quistione su quale dei tre ordini sociali privilegiati dovevano cadere i sacrifizi e i pesi per rimettere in sesto le finanze statali e regali. Inoltre: se la posizione economica della borghesia era florida, certamente non era buona la situazione delle classi popolari delle città e delle campagne, specialmente di queste, tormentate da miseria endemica. In ogni caso, la rottura dell'equilibrio delle forze non avvenne per cause meccaniche immediate di immiserimento del gruppo sociale che aveva interesse a rompere l'equilibrio e di fatto lo ruppe, ma avvenne nel quadro di conflitti superiori al mondo economico immediato, connessi al «prestigio» di classe (interessi economici avvenire), ad una esasperazione del sentimento di indipendenza, di autonomia e di potere. La quistione particolare del malessere o benessere economico come causa di nuove realtà storiche è un aspetto parziale della quistione dei rapporti di forza nei loro vari gradi. Possono prodursi novità sia perché una situazione di benessere è minacciata dal gretto egoismo di un gruppo avversario, come perché il malessere è diventato intollerabile e non si vede nella vecchia società nessuna forza che sia capace di mitigarlo e di ristabilire una normalità con mezzi legali. Si può dire pertanto che tutti questi elementi sono la manifestazione concreta delle fluttuazioni di congiuntura dell'insieme dei rapporti sociali di forza, nel cui terreno avviene il passaggio di questi a rapporti politici di forza per culminare nel rapporto militare decisivo. Se manca questo processo di sviluppo da un momento all'altro, ed esso è essenzialmente un processo che ha per attori gli uomini e la volontà e capacità degli uomini, la situazione rimane inoperosa, e possono darsi conclusioni contradditorie: la vecchia società resiste e si assicura un periodo di «respiro», sterminando fisicamente l'élite avversaria e terrorizzando le masse di riserva, oppure anche la distruzione reciproca delle forze in conflitto con l'instaurazione della pace dei cimiteri, magari sotto la vigilanza di una sentinella straniera.

Ma l'osservazione piú importante da fare a proposito di ogni analisi concreta dei rapporti di forza è questa: che tali analisi non possono e non debbono essere fine a se stesse (a meno che non si scriva un capitolo di storia del passato) ma acquistano un significato solo se servono a giustificare una attività pratica, una iniziativa di volontà. Esse mostrano quali sono i punti di minore resistenza, dove la forza della volontà può essere applicata piú fruttuosamente, suggeriscono le operazioni tattiche immediate, indicano come si può meglio impostare una campagna di agitazione politica, quale linguaggio sarà meglio compreso dalle moltitudini ecc. L'elemento decisivo di ogni situazione è la forza permanentemente organizzata e predisposta di lunga mano che si può fare avanzare quando si giudica che una situazione è favorevole (ed è favorevole solo in quanto una tale forza esista e sia piena di ardore combattivo); perciò il compito essenziale è quello di attendere sistematicamente e pazientemente a formare, sviluppare, rendere sempre piú omogenea, compatta, consapevole di se stessa questa forza. Ciò si vede nella storia militare e nella cura con cui in ogni tempo sono stati predisposti gli eserciti ad iniziare una guerra in qualsiasi momento. I grandi Stati sono stati grandi Stati appunto perché erano in ogni momento preparati a inserirsi efficacemente nelle congiunture internazionali favorevoli e queste erano tali perché c'era la possibilità concreta di inserirsi efficacemente in esse.

 

 

Osservazioni su alcuni aspetti della struttura dei partiti politici nei periodi di crisi organica (da connettere con le note sulle situazioni e i rapporti di forza). A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono piú riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe. Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericola, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all'attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici. Come si formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e rappresentati, che dal terreno dei partiti (organizzazioni di partito in senso stretto, campo elettorale-parlamentare, organizzazione giornalistica) si riflette in tutto l'organismo statale, rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell'alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell'opinione pubblica? In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e di piccoli borghesi intellettuali) sono passati di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione. Si parla di «crisi di autorità» e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso.

La crisi crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifizi, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere, lo rafforza per il momento e se ne serve per schiacciare l'avversario e disperderne il personale di direzione, che non può essere molto numeroso e molto addestrato. Il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell'intera classe è un fenomeno organico e normale, anche se il suo ritmo sia rapidissimo e quasi fulmineo in confronto di tempi tranquilli: rappresenta la fusione di un intero gruppo sociale sotto un'unica direzione ritenuta sola capace di risolvere un problema dominante esistenziale e allontanare un pericolo mortale. Quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella del capo carismatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere disparati, ma in cui prevale l'immaturità delle forze progressive) che nessun gruppo, né quello conservativo né quello progressivo, ha la forza necessaria alla vittoria e che anche il gruppo conservativo ha bisogno di un padrone (cfr. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte).

Questo ordine di fenomeni è connesso a una delle quistioni piú importanti che riguardano il partito politico, e cioè alla capacità del partito di reagire contro lo spirito di consuetudine, contro le tendenze a mummificarsi e a diventare anacronistico. I partiti nascono e si costituiscono in organizzazione per dirigere la situazione in momenti storicamente vitali per le loro classi; ma non sempre essi sanno adattarsi ai nuovi compiti e alle nuove epoche, non sempre sanno svilupparsi secondo che si sviluppano i rapporti complessivi di forza (e quindi posizione relativa delle loro classi) nel paese determinato o nel campo internazionale. Nell'analizzare questi sviluppi dei partiti occorre distinguere: il gruppo sociale; la massa di partito; la burocrazia e lo stato maggiore del partito. La burocrazia è la forza consuetudinaria e conservatrice piú pericolosa; se essa finisce col costituire un corpo solidale, che sta a sé e si sente indipendente dalla massa, il partito finisce col diventare anacronistico, e nei momenti di crisi acuta viene svuotato del suo contenuto sociale e rimane come campato in aria. Si può vedere cosa avviene a una serie di partiti tedeschi per l'espansione dell'hitlerismo. I partiti francesi sono un campo ricco per tali ricerche: essi sono tutti mummificati e anacronistici, documenti storico-politici delle diverse fasi della storia passata francese, di cui ripetono la terminologia invecchiata: la loro crisi può diventare ancora piú catastrofica di quella dei partiti tedeschi.

Nell'esaminare questo ordine di avvenimenti di solito si trascura di fare un giusto posto all'elemento burocratico, civile e militare, e non si tiene presente, inoltre, che in tali analisi non devono rientrare solo gli elementi militari e burocratici in atto, ma gli strati sociali da cui, nei complessi statali dati, la burocrazia è tradizionalmente reclutata. Un movimento politico può essere di carattere militare anche se l'esercito come tale non vi partecipa apertamente; un governo può essere di carattere militare anche se l'esercito come tale non partecipa al governo. In determinate situazioni può avvenire che convenga non «scoprire» l'esercito, non farlo uscire dalla costituzionalità, non portare la politica tra i soldati, come si dice, per mantenere l'omogeneità tra ufficiali e soldati in un terreno di apparente neutralità e superiorità sulle fazioni: eppure è l'esercito, cioè lo Stato Maggiore e l'ufficialità, che determina la nuova situazione e la domina. D'altronde non è vero che l'esercito, secondo le costituzioni, non deve mai fare della politica; l'esercito dovrebbe appunto difendere la costituzione, cioè la forma legale dello Stato, con le istituzioni connesse; perciò la cosí detta neutralità significa solo appoggio alla parte retriva, ma occorre, in tali situazioni, porre cosí la quistione per impedire che nell'esercito si riproduca il dissenso del paese e quindi sparisca il potere determinante dello Stato Maggiore per la disgregazione dello strumento militare. Tutti questi elementi di osservazione non sono certo assoluti, nei diversi momenti storici e nei vari paesi essi hanno pesi molto diversi.

La prima ricerca da fare è questa: esiste in un determinato paese uno strato sociale diffuso per il quale la carriera burocratica, civile e militare, sia elemento molto importante di vita economica e di affermazione politica (partecipazione effettiva al potere, sia pure indirettamente, per «ricatto»)? Nell'Europa moderna questo strato si può identificare nella borghesia rurale media e piccola che è piú o meno diffusa nei diversi paesi a seconda dello sviluppo delle forze industriali da una parte e della riforma agraria dall'altra. Certo la carriera burocratica (civile e militare) non è un monopolio di questo strato sociale, tuttavia essa gli è particolarmente adatta per la funzione sociale che questo strato svolge e per le tendenze psicologiche che la funzione determina o favorisce, questi due elementi danno all'insieme del gruppo sociale una certa omogeneità ed energia di direttive, e quindi un valore politico e una funzione spesso decisiva nell'insieme dell'organismo sociale. Gli elementi di questo gruppo sono abituati a comandare direttamente nuclei di uomini sia pure esigui e a comandare «politicamente», non «economicamente»; cioè nella loro arte di comando non c'è attitudine a ordinare le «cose», a ordinare «uomini e cose» in un tutto organico, come avviene nella produzione industriale, perché questo gruppo non ha funzioni economiche nel senso moderno della parola. Esso ha un reddito perché giuridicamente è proprietario di una parte del suolo nazionale e la sua funzione consiste nel contendere «politicamente» al contadino coltivatore di migliorare la propria esistenza, perché ogni miglioramento della posizione relativa del contadino sarebbe catastrofica per la sua posizione sociale. La miseria cronica e il lavoro prolungato del contadino, col conseguente abbrutimento, sono per esso una necessità primordiale. Perciò spiega la massima energia nella resistenza e nel contrattacco a ogni minimo tentativo di organizzazione autonoma del lavoro contadino e a ogni movimento culturale contadino che esca dai limiti della religione ufficiale. Questo gruppo sociale trova i suoi limiti e le ragioni della sua intima debolezza nella sua dispersione territoriale e nella «inomogeneità» che è intimamente connessa a tale dispersione; ciò spiega anche altre caratteristiche: la volubilità, la molteplicità dei sistemi ideologici seguiti, la stessa stranezza delle ideologie talvolta seguite. La volontà è decisa verso un fine, ma essa è tarda e ha bisogno, di solito, di un lungo processo per centralizzarsi organizzativamente e politicamente. Il processo si accelera quando la «volontà» specifica di questo gruppo coincide con la volontà e gli interessi immediati della classe alta; non solo il processo si accelera, ma si manifesta subito la «forza militare» di questo strato, che talvolta, organizzatosi, detta legge alla classe alta, almeno per ciò che riguarda la «forma» della soluzione se non per il contenuto. Si vedono qui funzionare le stesse leggi che sono state notate per i rapporti città-campagna nei riguardi delle classi subalterne: la forza della città automaticamente diventa forza della campagna, ma poiché in campagna i conflitti assumono subito una forma acuta e «personale», per l'assenza di margini economici e per la normalmente piú pesante compressione esercitata dall'alto in basso, cosí in campagna i contrattacchi devono essere piú rapidi e decisi. Questo gruppo capisce e vede che l'origine dei suoi guai è nelle città, nella forza delle città e perciò capisce di «dover» dettare la soluzione alle classi alte urbane, affinché il focolaio principale sia spento, anche se ciò alle classi alte urbane non conviene immediatamente o perché troppo dispendioso o perché pericoloso a lungo andare (queste classi vedono cicli piú ampi di sviluppo, in cui è possibile manovrare e non solo l'interesse «fisico» immediato). In questo senso deve intendersi la funzione direttiva di questo strato e non in senso assoluto; tuttavia non è piccola cosa.

Un riflesso di questo gruppo si vede nell'attività ideologica degli intellettuali conservatori, di destra. Il libro di Gaetano Mosca Teorica dei governi e governo parlamentare (II ed. del 1925, I ed. del 1883) è esemplare per questo rispetto; fin dal 1883 il Mosca era terrorizzato da un possibile contatto tra città e campagna. Il Mosca, per la sua posizione difensiva (di contrattacco) comprendeva meglio nel 1883 la tecnica della politica delle classi subalterne di quanto non la comprendessero, anche parecchi decenni dopo, i rappresentanti di queste forze subalterne anche urbane.

(È da notare come questo carattere «militare» del gruppo sociale in quistione, che era tradizionalmente un riflesso spontaneo di certe condizioni di esistenza, viene ora consapevolmente educato e predisposto organicamente. In questo movimento consapevole rientrano gli sforzi sistematici per far sorgere e per mantenere stabilmente associazioni varie di militari in congedo e di ex-combattenti dei vari corpi ed armi, specialmente di ufficiali, che sono legate agli Stati Maggiori e possono essere mobilitate all'occorrenza senza bisogno di mobilitare l'esercito di leva, che manterrebbe cosí il suo carattere di riserva allarmata, rafforzata e immunizzata dalla decomposizione politica da queste forze «private» che non potranno non influire sul suo «morale», sostenendolo e irrobustendolo. Si può dire che si verifica un movimento del tipo «cosacco», non in formazioni scaglionate lungo i confini di nazionalità, come avveniva per i cosacchi zaristi, ma lungo i «confini» di gruppo sociale).

In tutta una serie di paesi, pertanto, influenza dell'elemento militare nella vita statale non significa solo influenza e peso dell'elemento tecnico militare, ma influenza e peso dello strato sociale da cui l'elemento tecnico militare (specialmente gli ufficiali subalterni) trae specialmente origine. Questa serie di osservazioni sono indispensabili per analizzare l'aspetto piú intimo di quella determinata forma politica che si suole chiamare cesarismo o bonapartismo, per distinguerla da altre forme in cui l'elemento tecnico militare, come tale, predomina, in forme forse ancor piú appariscenti ed esclusive. La Spagna e la Grecia offrono due esempi tipici, con tratti simili e dissimili. Nella Spagna occorre tener conto di alcuni particolari: grandezza e scarsa densità della popolazione contadina. Tra il nobile latifondista e il contadino non esiste una numerosa borghesia rurale, quindi scarsa importanza dell'ufficialità subalterna come forza a sé (aveva invece una certa importanza antagonistica l'ufficialità delle armi dotte, artiglieria e genio, di origine borghese urbana, che si opponeva ai generali e tentava di avere una politica propria). I governi militari sono pertanto governi di «grandi» generali. Passività delle masse contadine come cittadinanza e come truppa. Se nell'esercito si verifica disgregazione politica, è in senso verticale, non orizzontale, per la concorrenza delle cricche dirigenti: la truppa si scinde per seguire i capi in lotta tra loro. Il governo militare è una parentesi tra due governi costituzionali; l'elemento militare è la riserva permanente dell'ordine e della conservazione, è una forza politica operante in «modo pubblico» quando la «legalità» è in pericolo. Lo stesso avviene in Grecia con la differenza che il territorio greco è sparpagliato in un sistema di isole e che una parte della popolazione piú energica e attiva è sempre sul mare, ciò che rende piú facile l'intrigo e il complotto militare; il contadino greco è passivo come quello spagnuolo, ma nel quadro della popolazione totale, il greco piú energico ed attivo essendo marinaio e quasi sempre lontano dal suo centro di vita politica, la passività generale deve essere analizzata diversamente e la soluzione del problema non può essere la stessa (le fucilazioni avvenute in Grecia anni fa dei membri di un governo rovesciato, probabilmente sono da spiegarsi con uno scatto di collera di questo elemento energico e attivo che volle dare una sanguinosa lezione). Ciò che è specialmente da osservare è che in Grecia e in Ispagna l'esperienza del governo militare non ha creato una ideologia politica e sociale permanente e formalmente organica, come avviene invece nei paesi potenzialmente bonapartisti per cosí dire. Ma le condizioni storiche generali dei due tipi sono le stesse: equilibrio dei gruppi urbani in lotta, che impedisce il gioco della democrazia «normale», il parlamentarismo; è diverso però l'influsso della campagna in questo equilibrio. Nei paesi come la Spagna, la campagna, completamente passiva, permette ai generali della nobiltà terriera di servirsi politicamente dell'esercito per ristabilire l'equilibrio pericolante, cioè il sopravvento dei gruppi alti. In altri paesi la campagna non è passiva, ma il suo movimento non è politicamente coordinato a quello urbano: l'esercito deve rimanere neutrale poiché è possibile che altrimenti esso si disgreghi orizzontalmente (rimarrà neutrale fino ad un certo punto, s'intende), ed entra invece in azione la classe militare-burocratica che con mezzi militari soffoca il movimento in campagna (immediatamente piú pericoloso), in questa lotta trova una certa unificazione politica e ideologica, trova alleati nelle classi medie urbane (medie in senso italiano) rafforzate dagli studenti di origine rurale che stanno in città, impone i suoi metodi politici alle classi alte, che devono farle molte concessioni e permettere una determinata legislazione favorevole; insomma riesce a permeare lo Stato dei suoi interessi fino ad un certo punto e a sostituire una parte del personale dirigente, continuando a mantenersi armata nel disarmo generale e prospettando il pericolo di una guerra civile tra i propri armati e l'esercito di leva se la classe alta mostra troppe velleità di resistenza.

Queste osservazioni non devono essere concepite come schemi rigidi, ma solo come criteri pratici di interpretazione storica e politica. Nelle concrete analisi di avvenimenti reali le forme storiche sono individuate e quasi «uniche». Cesare rappresenta una combinazione di circostanze reali molto diversa da quella rappresentata da Napoleone I, come Primo De Rivera da quella di Zivkovic ecc.

Nell'analisi del terzo grado o momento del sistema dei rapporti di forza esistenti in una determinata situazione, si può ricorrere utilmente al concetto che nella scienza militare è chiamato della «congiuntura strategica» ossia, con piú precisione, del grado di preparazione strategica del teatro della lotta, uno dei cui principali elementi è dato dalle condizioni qualitative del personale dirigente e delle forze attive che si possono chiamare di prima linea (comprese in queste quelle d'assalto). Il grado di preparazione strategica può dare la vittoria a forze «apparentemente» (cioè quantitativamente) inferiori a quelle dell'avversario. Si può dire che la preparazione strategica tende a ridurre a zero i cosí detti «fattori imponderabili», cioè le reazioni immediate, di sorpresa, da parte, in un momento dato, delle forze tradizionalmente inerti e passive. Tra gli elementi della preparazione di una favorevole congiuntura strategica sono da porre appunto quelli considerati nelle osservazioni su l'esistenza e l'organizzazione di un ceto militare accanto all'organismo tecnico dell'esercito nazionale.

Altri elementi si possono elaborare da questo brano del discorso tenuto al Senato il 19 maggio 1932 dal ministro della guerra generale Gazzera (cfr. «Corriere della Sera» del 20 maggio): «Il regime di disciplina del nostro Esercito per virtú del Fascismo appare oggi una norma direttiva che ha valore per tutta la Nazione. Altri eserciti hanno avuto e tuttora conservano una disciplina formale e rigida. Noi teniamo sempre presente il principio che l'Esercito è fatto per la guerra e che a quella deve prepararsi; la disciplina di pace deve essere quindi la stessa del tempo di guerra, che nel tempo di pace deve trovare il suo fondamento spirituale. La nostra disciplina si basa su uno spirito di coesione tra i capi e i gregari che è frutto spontaneo del sistema seguito. Questo sistema ha resistito magnificamente durante una lunga e durissima guerra fino alla vittoria; è merito del Regime fascista di avere esteso a tutto il popolo italiano una tradizione disciplinare cosí insigne. Dalla disciplina dei singoli dipende l'esito della concezione strategica e delle operazioni tattiche. La guerra ha insegnato molte cose, e anche che vi è un distacco profondo tra la preparazione di pace e la realtà della guerra. Certo è che, qualunque sia la preparazione, le operazioni iniziali della campagna pongono i belligeranti innanzi a problemi nuovi che danno luogo a sorprese da una parte e dall'altra. Non bisogna trarne però la conseguenza che non sia utile avere una concezione a priori e che nessun insegnamento possa derivarsi dalla guerra passata. Se ne può ricavare una dottrina di guerra che deve essere intesa con disciplina intellettuale e come mezzo per promuovere modi di ragionamento non discordi e uniformità di linguaggio tale da permettere a tutti di comprendere e di farsi comprendere. Se, talvolta, l'unità di dottrina ha minacciato di degenerare in schematismo, si è subito reagito prontamente, imprimendo alla tattica, anche per i progressi della tecnica, una rapida rinnovazione. Tale regolamentazione quindi non è statica, non è tradizionale, come taluno crede. La tradizione è considerata solo come forza e i regolamenti sono sempre in corso di revisione non per desiderio di cambiamento, ma per poterli adeguare alla realtà». (Una esemplificazione di «preparazione della congiuntura strategica» si può trovare nelle Memorie di Churchill, dove parla della battaglia dello Yutland).

(A proposito del «ceto militare» è interessante ciò che scrive T. Tittoni nei Ricordi personali di politica interna, «Nuova Antologia», 1° aprile - 16 aprile 1929. Racconta il Tittoni di aver meditato sul fatto che per riunire la forza pubblica necessaria a fronteggiare i tumulti scoppiati in una località, occorreva sguarnire altre regioni: durante la settimana rossa del giugno 1914, per reprimere i moti di Ancona si era sguarnita Ravenna, dove poi il prefetto, privato della forza pubblica, dovette chiudersi nella Prefettura abbandonando la città ai rivoltosi. «Piú volte io ebbi a domandarmi, che cosa avrebbe potuto fare il Governo se un movimento di rivolta fosse scoppiato contemporaneamente in tutta la penisola». Tittoni propose al Governo l'arruolamento dei «volontari dell'ordine », ex-combattenti inquadrati da ufficiali in congedo. Il progetto di Tittoni parve degno di considerazione, ma non ebbe seguito).

 

 

Il cesarismo. Cesare, Napoleone I, Napoleone III, Cromwell, ecc. Compilare un catalogo degli eventi storici che hanno culminato in una grande personalità «eroica». Si può dire che il cesarismo esprime una situazione in cui le forze in lotta si equilibrano in modo catastrofico, cioè si equilibrano in modo che la continuazione della lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca. Quando la forza progressiva A lotta con la forza regressiva B, può avvenire non solo che A vinca B o B vinca A, può avvenire anche che non vinca né A né B, ma si svenino reciprocamente e una terza forza C intervenga dall'esterno assoggettando ciò che resta di A e di B. Nell'Italia dopo la morte del Magnifico è appunto successo questo, come era successo nel mondo antico con le invasioni barbariche.

Ma il cesarismo, se esprime sempre la soluzione «arbitrale», affidata a una grande personalità, di una situazione storico-politica caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica, non ha sempre lo stesso significato storico. Ci può essere un cesarismo progressivo e uno regressivo e il significato esatto di ogni forma di cesarismo, in ultima analisi, può essere ricostruito dalla storia concreta e non da uno schema sociologico. È progressivo il cesarismo, quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare sia pure con certi compromessi e temperamenti limitativi della vittoria; è regressivo quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza regressiva, anche in questo caso con certi compromessi e limitazioni, che però hanno un valore, una portata e un significato diversi che non nel caso precedente. Cesare e Napoleone I sono esempi di cesarismo progressivo. Napoleone III e Bismark di cesarismo regressivo. Si tratta di vedere se nella dialettica «rivoluzione-restaurazione» è l'elemento rivoluzione o quello restaurazione che prevale, poiché è certo che nel movimento storico non si torna mai indietro e non esistono restaurazioni «in toto». Del resto il cesarismo è una formula polemica-ideologica e non un canone di interpretazione storica. Si può avere soluzione cesarista anche senza un Cesare, senza una grande personalità «eroica» e rappresentativa. Il sistema parlamentare ha dato anch'esso un meccanismo per tali soluzioni di compromesso. I governi «laburisti» di Mac Donald erano soluzioni di tale specie in un certo grado, il grado di cesarismo si intensificò quando fu formato il governo con Mac Donald presidente e la maggioranza conservatrice. Cosí in Italia nell'ottobre 1922, fino al distacco dei popolari e poi gradatamente fino al 3 gennaio 1925 e ancora fino all'8 novembre 1926 si ebbe un moto politico-storico in cui diverse gradazioni di cesarismo si succedettero fino a una forma piú pura e permanente, sebbene anch'essa non immobile e statica. Ogni governo di coalizione è un grado iniziale di cesarismo, che può e non può svilupparsi fino ai gradi piú significativi (naturalmente l'opinione volgare è invece che i governi di coalizione siano il piú «solido baluardo» contro il cesarismo).

Nel mondo moderno, con le sue grandi coalizioni di carattere economico-sindacale e politico di partito, il meccanismo del fenomeno cesarista è molto diverso da quello che fu fino a Napoleone III. Nel periodo fino a Napoleone III le forze militari regolari o di linea erano un elemento decisivo per l'avvento del cesarismo, che si verificava con colpi di Stato ben precisi, con azioni militari ecc. Nel mondo moderno, le forze sindacali e politiche, coi mezzi finanziari incalcolabili di cui possono disporre piccoli gruppi di cittadini, complicano il problema. I funzionari dei partiti e dei sindacati economici possono essere corrotti o terrorizzati, senza bisogno di azione militare in grande stile, tipo Cesare o 18 brumaio. Si riproduce in questo campo la stessa situazione esaminata a proposito della formula giacobina-quarantottesca della cosí detta «rivoluzione permanente». La tecnica politica moderna è completamente mutata dopo il '48, dopo l'espansione del parlamentarismo, del regime associativo sindacale e di partito, del formarsi di vaste burocrazie statali e «private» (politico-private, di partiti e sindacali) e le trasformazioni avvenute nell'organizzazione della polizia in senso largo, cioè non solo del servizio statale destinato alla repressione della delinquenza, ma dell'insieme delle forze organizzate dallo Stato e dai privati per tutelare il dominio politico ed economico delle classi dirigenti. In questo senso, interi partiti «politici» e altre organizzazioni economiche o di altro genere devono essere considerati organismi di polizia politica, di carattere investigativo e preventivo.

Lo schema generico delle forze A e B in lotta con prospettiva catastrofica, cioè con la prospettiva che non vinca né A né B nella lotta per costituire (o ricostituire) un equilibrio organico, da cui nasce (può nascere) il cesarismo, è appunto un'ipotesi generica, uno schema sociologico (di comodo per l'arte politica). L'ipotesi può essere resa sempre piú concreta, portata a un grado sempre maggiore di approssimazione alla realtà storica concreta e ciò può ottenersi precisando alcuni elementi fondamentali. Cosí, parlando di A e di B si è solo detto che esse sono una forza genericamente progressiva e una forza genericamente regressiva: si può precisare di quale tipo di forze progressive e regressive si tratta e ottenere cosí maggiori approssimazioni. Nel caso di Cesare e di Napoleone I si può dire che A e B, pur essendo distinte e contrastanti, non erano però tali da non poter venire «assolutamente» ad una fusione ed assimilazione reciproca dopo un processo molecolare, ciò che infatti avvenne, almeno in una certa misura (sufficiente tuttavia ai fini storico-politici della cessazione della lotta organica fondamentale e quindi del superamento della fase catastrofica). Questo è un elemento di maggiore approssimazione. Un altro elemento è il seguente: la fase catastrofica può emergere per una deficienza politica «momentanea» della forza dominante tradizionale e non già per una deficienza organica necessariamente insuperabile. Ciò si è verificato nel caso di Napoleone III. La forza dominante in Francia dal 1815 al 1848 si era scissa politicamente (faziosamente) in quattro frazioni: quella legittimista, quella orleanista, quella bonapartista, quella giacobino-repubblicana. Le lotte interne di fazione erano tali da rendere possibile l'avanzata della forza antagonista B (progressista) in forma «precoce»; tuttavia la forma sociale esistente non aveva ancora esaurito le sue possibilità di sviluppo, come la storia successiva dimostrò abbondantemente. Napoleone III rappresentò (a suo modo, secondo la statura dell'uomo, che non era grande) queste possibilità latenti e immanenti: il suo cesarismo dunque ha un colore particolare. È obbiettivamente progressivo sebbene non come quello di Cesare e di Napoleone I. Il cesarismo di Cesare e di Napoleone I è stato, per cosí dire, di carattere quantitativo-qualitativo, ha cioè rappresentato la fase storica di passaggio da un tipo di Stato a un altro tipo, un passaggio in cui le innovazioni furono tante e tali da rappresentare un completo rivolgimento. Il cesarismo di Napoleone III fu solo e limitatamente quantitativo, non ci fu passaggio da un tipo di Stato ad un altro tipo, ma solo «evoluzione» dello stesso tipo, secondo una linea ininterrotta.

Nel mondo moderno i fenomeni di cesarismo sono del tutto diversi, sia da quelli del tipo progressivo Cesare-Napoleone I, come anche da quelli del tipo Napoleone III, sebbene si avvicinino a quest'ultimo. Nel mondo moderno l'equilibrio a prospettive catastrofiche non si verifica tra forze che in ultima analisi potrebbero fondersi e unificarsi, sia pure dopo un processo faticoso e sanguinoso, ma tra forze il cui contrasto è insanabile storicamente e anzi si approfondisce specialmente coll'avvento di forme cesaree. Tuttavia il cesarismo ha anche nel mondo moderno un certo margine, piú o meno grande, a seconda dei paesi e del loro peso relativo nella struttura mondiale, perché una forma sociale ha «sempre» possibilità marginali di ulteriore sviluppo e sistemazione organizzativa e specialmente può contare sulla debolezza relativa della forza progressiva antagonistica, per la natura e il modo di vita peculiare di essa, debolezza che occorre mantenere: perciò si è detto che il cesarismo moderno piú che militare è poliziesco.

 

 

Cesarismo ed equilibrio «catastrofico» delle forze politico-sociali. Sarebbe un errore di metodo (un aspetto del meccanicismo sociologico) ritenere che, nei fenomeni di cesarismo, sia progressivo, sia regressivo, sia di carattere intermedio episodico, tutto il nuovo fenomeno storico sia dovuto all'equilibrio delle forze «fondamentali»; occorre anche vedere i rapporti che intercorrono tra i gruppi principali (di vario genere, sociale-economico e tecnico-economico) delle classi fondamentali e le forze ausiliarie guidate o sottoposte all'influenza egemonica. Cosí non si comprenderebbe il colpo di Stato del 2 dicembre senza studiare la funzione dei gruppi militari e dei contadini francesi.

Un episodio storico molto importante da questo punto di vista è il cosí detto movimento per l'affare Dreyfus in Francia; anche esso rientra in questa serie di osservazioni non perché abbia portato al «cesarismo», anzi proprio per il contrario, perché ha impedito l'avvento di un cesarismo che si stava preparando, di carattere nettamente reazionario. Tuttavia il movimento Dreyfus è caratteristico perché sono elementi dello stesso blocco sociale dominante che sventano il cesarismo della parte piú reazionaria del blocco stesso, appoggiandosi non ai contadini, alla campagna, ma agli elementi subordinati della città guidati dal riformismo socialista (però anche alla parte piú avanzata del contadiname). Del tipo Dreyfus troviamo altri movimenti storico-politici moderni, che non sono certo rivoluzioni, ma non sono completamente reazioni, nel senso almeno che anche nel campo dominante spezzano cristallizzazioni statali soffocanti, e immettono nella vita dello Stato e nelle attività sociali un personale diverso e piú numeroso di quello precedente: anche questi movimenti possono avere un contenuto relativamente «progressivo» in quanto indicano che nella vecchia società erano latenti forze operose non sapute sfruttare dai vecchi dirigenti, sia pure «forze marginali», ma non assolutamente progressive, in quanto non possono «fare epoca». Sono rese storicamente efficienti dalla debolezza costruttiva dell'antagonista, non da una intima forza propria, e quindi sono legate a una situazione determinata di equilibrio delle forze in lotta, ambedue incapaci nel proprio campo a esprimere una volontà ricostruttiva in proprio.

 

 

Lotta politica e guerra militare. Nella guerra militare, raggiunto il fine strategico, distruzione dell'esercito nemico e occupazione del suo territorio, si ha la pace. È inoltre da osservare che perché la guerra finisca, basta che il fine strategico sia raggiunto solo potenzialmente: basta cioè che non ci sia dubbio che un esercito non può piú combattere e che l'esercito vittorioso «può» occupare il territorio nemico. La lotta politica è enormemente piú complessa: in un certo senso può essere paragonata alle guerre coloniali o alle vecchie guerre di conquista, quando cioè l'esercito vittorioso occupa o si propone di occupare stabilmente tutto o una parte del territorio conquistato. Allora l'esercito vinto viene disarmato e disperso, ma la lotta continua nel terreno politico e di «preparazione» militare. Cosí la lotta politica dell'India contro gli Inglesi (e in una certa misura della Germania contro la Francia o dell'Ungheria contro la Piccola Intesa) conosce tre forme di guerre: di movimento, di posizione e sotterranea. La resistenza passiva di Gandhi è una guerra di posizione, che diventa guerra di movimento in certi momenti e in altri guerra sotterranea: il boicottaggio è guerra di posizione, gli scioperi sono guerra di movimento, la preparazione clandestina di armi e di elementi combattivi d'assalto è guerra sotterranea. C'è una forma di arditismo, ma essa è impiegata con molta ponderazione. Se gli Inglesi avessero la convinzione che si prepara un grande movimento insurrezionale destinato ad annientare l'attuale loro superiorità strategica (che consiste in un certo senso nella loro possibilità di manovrare per linee interne e di concentrare le loro forze nel punto «sporadicamente» piú pericoloso) col soffocamento di massa, cioè costringendoli a diluire le forze in un teatro bellico divenuto simultaneamente generale, ad essi converrebbe provocare l'uscita prematura delle forze combattenti indiane per identificarle e decapitare il movimento generale. Cosí alla Francia converrebbe che la destra nazionalista tedesca fosse coinvolta in un colpo di stato avventuroso, che costringerebbe l'organizzazione militare illegale sospettata a manifestarsi prematuramente, permettendo un intervento, tempestivo dal punto di vista francese. Ecco che in queste forme di lotta miste, a carattere militare fondamentale e a carattere politico preponderante (ma ogni lotta politica ha sempre un sostrato militare), l'impiego degli arditi domanda uno sviluppo tattico originale, alla concezione del quale l'esperienza di guerra può dare solo uno stimolo, non un modello.

Una trattazione a parte deve avere la quistione dei «comitagi» balcanici, che sono legati a particolari condizioni dell'ambiente fisico-geografico regionale, alla formazione delle classi rurali e anche all'efficienza reale dei governi. Cosí è delle bande irlandesi, la cui forma di guerra e di organizzazione era legata alla struttura sociale irlandese. I comitagi, gli irlandesi, e le altre forme di guerra da partigiani devono essere staccate dalla quistione dell'arditismo, sebbene paiano avere con esso punti di contatto. Queste forme di lotta sono proprie di minoranze deboli ma esasperate contro maggioranze bene organizzate: mentre l'arditismo moderno presuppone una grande riserva, immobilizzata per varie ragioni, ma potenzialmente efficiente, che lo sostiene e lo alimenta con apporti individuali.

 

 

Arte militare e arte politica. Ancora degli arditi. I rapporti che esistettero nel '17-18 tra le formazioni di arditi e l'esercito nel suo complesso possono portare ed hanno portato già i dirigenti politici ad erronee impostazioni di piani di lotta. Si dimentica: 1°) che gli arditi sono semplici formazioni tattiche e presuppongono sí un esercito poco efficiente, ma non completamente inerte: perché se la disciplina e lo spirito militare si sono allentati fino a consigliare una nuova disposizione tattica, essi esistono ancora in una certa misura, cui appunto corrisponde la nuova formazione tattica; altrimenti ci sarebbe stata, senz'altro, la disfatta e la fuga; 2°) che non bisogna considerare l'arditismo come un segno della combattività generale della massa militare, ma viceversa, come un segno della sua passività e della sua relativa demoralizzazione.

Ciò sia detto mantenendo implicito il criterio generale che i paragoni tra l'arte militare e la politica sono sempre da stabilire cum grano salis, cioè solo come stimoli al pensiero e come termini semplificativi ad absurdum: infatti nella milizia politica manca la sanzione penale implacabile per chi sbaglia o non obbedisce esattamente, manca il giudizio marziale, oltre al fatto che lo schieramento politico non è neanche lontanamente paragonabile allo schieramento militare. Nella lotta politica oltre alla guerra di movimento e alla guerra d'assedio o di posizione, esistono altre forme. Il vero arditismo, cioè l'arditismo moderno, è proprio della guerra di posizione, cosí come si è rivelata nel '14-18. Anche la guerra di movimento e la guerra d'assedio dei periodi precedenti avevano i loro arditi, in un certo senso: la cavalleria leggera e pesante, i bersaglieri ecc., le armi celeri in generale avevano in parte una funzione di arditi; cosí nell'arte di organizzare le pattuglie era contenuto il germe dell'arditismo moderno. Nella guerra d'assedio piú che nella guerra di movimento era contenuto questo germe: servizio di pattuglie piú estese e specialmente arte di organizzare sortite improvvise e improvvisi assalti con elementi scelti.

Un altro elemento da tener presente è questo: che nella lotta politica non bisogna scimiottare i metodi di lotta delle classi dominanti, senza cadere in facili imboscate. Nelle lotte attuali questo fenomeno si verifica spesso: una organizzazione statale indebolita è come un esercito infiacchito: entrano in campo gli arditi, cioè le organizzazioni armate private, che hanno due compiti: usare l'illegalità, mentre lo Stato sembra rimanere nella legalità, come mezzo di riorganizzare lo Stato stesso. Credere che alla attività privata illegale si possa contrapporre un'altra attività simile, cioè combattere l'arditismo con l'arditismo è una cosa sciocca; vuol dire credere che lo Stato rimanga eternamente inerte, ciò che non avviene mai, a parte le altre condizioni diverse. Il carattere di classe porta a una differenza fondamentale: una classe che deve lavorare ogni giorno a orario fisso non può avere organizzazioni d'assalto permanenti e specializzate, come una classe che ha ampie disponibilità finanziarie e non è legata, in tutti i suoi membri, a un lavoro fisso. In qualsiasi ora del giorno e della notte, queste organizzazioni, divenute professionali, possono vibrare colpi decisivi e cogliere alla sprovvista. La tattica degli arditi non può avere dunque per certe classi la stessa importanza che per altre; a certe classi è necessaria, perché propria, la guerra di movimento e di manovra, che nel caso della lotta politica, può combinare un utile e forse indispensabile uso della tattica da arditi. Ma fissarsi nel modello militare è da sciocchi: la politica deve, anche qui, essere superiore alla parte militare e solo la politica crea la possibilità della manovra e del movimento.

Da tutto ciò che si è detto risulta che nel fenomeno dell'arditismo militare, occorre distinguere tra funzione tecnica di arma speciale legata alla moderna guerra di posizione e funzione politico-militare: come funzione di arma speciale l'arditismo si è avuto in tutti gli eserciti della guerra mondiale; come funzione politico-militare si è avuta nei paesi politicamente non omogenei e indeboliti, quindi aventi come espressione un esercito nazionale poco combattivo e uno stato maggiore burocratizzato e fossilizzato nella carriera.

 

A proposito dei confronti tra i concetti di guerra manovrata e guerra di posizione nell'arte militare e i concetti relativi nell'arte politica è da ricordare il libretto della Rosa tradotto in italiano nel 1919 da C. Alessandri (tradotto dal francese). Nel libretto si teorizzano un po' affrettatamente e anche superficialmente le esperienze storiche del 1905: la Rosa infatti trascurò gli elementi «volontari» e organizzativi che in quegli avvenimenti furono molto piú diffusi ed efficienti di quanto la Rosa fosse portata a credere per un certo suo pregiudizio «economistico» e spontaneista. Tuttavia questo libretto (e altri saggi dello stesso autore) è uno dei documenti piú significativi della teorizzazione della guerra manovrata applicata all'arte politica. L'elemento economico immediato (crisi, ecc.) è considerato come l'artiglieria campale che in guerra apriva il varco nella difesa nemica, varco sufficiente perché le proprie truppe facciano irruzione e ottengano un successo definitivo (strategico) o almeno un successo importante nella direttrice della linea strategica. Naturalmente nella scienza storica l'efficacia dell'elemento economico immediato è ritenuta molto piú complessa di quella dell'artiglieria pesante nella guerra di manovra, perché questo elemento era concepito come avente un doppio effetto: 1) di aprire il varco nella difesa nemica dopo aver scompaginato e fatto perdere la fiducia in sé e nelle sue forze e nel suo avvenire al nemico stesso; 2) di organizzare fulmineamente le proprie truppe, di creare i quadri, o almeno di porre i quadri esistenti (elaborati fino allora dal processo storico generale) fulmineamente al loro posto di inquadramento delle truppe disseminate; 3) di creare fulmineamente la concentrazione ideologica dell'identità di fine da raggiungere. Era una forma di ferreo determinismo economistico, con l'aggravante che gli effetti erano concepiti come rapidissimi nel tempo e nello spazio; perciò era un vero e proprio misticismo storico, l'aspettazione di una specie di fulgurazione miracolosa.

L'osservazione del generale Krasnov (nel suo romanzo) che l'Intesa (che non voleva una vittoria della Russia imperiale, perché non fosse risolta definitivamente a favore dello zarismo la quistione orientale) impose allo Stato Maggiore russo la guerra di trincea (assurda dato l'enorme sviluppo del fronte dal Baltico al mar Nero, con grandi zone paludose e boscose) mentre unica possibile era la guerra manovrata, è una mera scempiaggine. In realtà l'esercito russo tentò la guerra di manovra e di sfondamento, specialmente nel settore austriaco (ma anche nella Prussia orientale) ed ebbe successi brillantissimi, per quanto effimeri. La verità è che non si può scegliere la forma di guerra che si vuole, a meno di avere subito una superiorità schiacciante sul nemico, ed è noto quante perdite abbia costato l'ostinazione degli Stati Maggiori nel non voler riconoscere che la guerra di posizione era «imposta» dai rapporti generali delle forze in contrasto. La guerra di posizione non è infatti solo costituita dalle trincee vere e proprie, ma da tutto il sistema organizzativo e industriale del territorio che è alle spalle dell'esercito schierato, ed è imposta specialmente dal tiro rapido dei cannoni delle mitragliatrici dei moschetti, dalla concentrazione delle armi in un determinato punto, oltre che dall'abbondanza del rifornimento che permette di sostituire rapidamente il materiale perduto dopo uno sfondamento e un arretramento. Un altro elemento è la grande massa d'uomini che partecipano allo schieramento, di valore molto diseguale e che appunto possono operare solo come massa. Si vide come nel fronte orientale altra cosa era fare irruzione nel settore tedesco e altra nel settore austriaco e come anche nel settore austriaco, rinforzato da truppe scelte tedesche e comandato da tedeschi, la tattica irruenta finí nel disastro. Lo stesso si vide nella guerra polacca del 1920, quando l'avanzata che sembrava irresistibile fu fermata dinanzi a Varsavia dal generale Weygand sulla linea comandata da ufficiali francesi. Gli stessi tecnici militari che ormai si sono fissati sulla guerra di posizione come prima lo erano su quella manovrata, non sostengono certo che il tipo precedente debba essere considerato come espunto dalla scienza; ma nelle guerre tra gli Stati piú avanzati industrialmente e civilmente esso deve considerarsi ridotto a funzione tattica piú che strategica, deve considerarsi nella stessa posizione in cui era prima la guerra d'assedio in confronto a quella manovrata. La stessa riduzione deve avvenire nell'arte e nella scienza politica, almeno per ciò che riguarda gli Stati piú avanzati, dove la «società civile» è diventata una struttura molto complessa e resistente alle «irruzioni» catastrofiche dell'elemento economico immediato (crisi, depressioni ecc.); le superstrutture della società civile sono come il sistema delle trincee nella guerra moderna. Come in questa avveniva che un accanito attacco d'artiglieria sembrava aver distrutto tutto il sistema difensivo avversario ma ne aveva solo invece distrutto la superficie esterna e al momento dell'attacco e dell'avanzata gli assalitori si trovavano di fronte una linea difensiva ancora efficiente, cosí avviene nella politica durante le grandi crisi economiche; né le truppe assalitrici, per effetto della crisi, si organizzano fulmineamente nel tempo e nello spazio, né tanto meno acquistano uno spirito aggressivo; per reciproca, gli assaliti non si demoralizzano né abbandonano le difese, pur tra le macerie, né perdono la fiducia nella propria forza e nel proprio avvenire. Le cose certo non rimangono tali e quali, ma è certo che viene a mancare l'elemento della rapidità, del tempo accelerato, della marcia progressiva definitiva come si aspetterebbero gli strateghi del cadornismo politico. L'ultimo fatto del genere nella storia della politica sono stati gli avvenimenti del 1917. Essi hanno segnato una svolta decisiva nella storia dell'arte e della scienza della politica. Si tratta dunque di studiare con «profondità» quali sono gli elementi della società civile che corrispondono ai sistemi di difesa nella guerra di posizione. Si dice con «profondità» a disegno, perché essi sono stati studiati, ma da punti di vista superficiali e banali, come certi storici del costume studiano le stranezze della moda femminile, o da un punto di vista «razionalistico» cioè con la persuasione che certi fenomeni sono distrutti appena spiegati «realisticamente», come se fossero superstizioni popolari (che del resto anch'esse non si distruggono con lo spiegarle).

A questo nesso di problemi è da riattaccare la quistione dello scarso successo ottenuto da nuove correnti nel movimento sindacale.

Un tentativo di iniziare una revisione dei metodi tattici avrebbe dovuto essere quello esposto da L. Davidovic Bronstein alla quarta riunione quando fece un confronto tra il fronte orientale e quello occidentale, quello cadde subito ma fu seguito da lotte inaudite: in questo le lotte si verificherebbero «prima». Si tratterebbe cioè se la società civile resiste prima o dopo l'assalto, dove questo avviene ecc. La quistione però è stata esposta solo in forma letteraria brillante, ma senza indicazioni di carattere pratico.

 

 

Guerra di posizione e guerra manovrata o frontale. È da vedere se la famosa teoria di Bronstein sulla permanenza del movimento non sia il riflesso politico della teoria della guerra manovrata (ricordare osservazione del generale dei cosacchi Krasnov), in ultima analisi il riflesso delle condizioni generali-economiche-culturali-sociali di un paese in cui i quadri della vita nazionale sono embrionali e rilasciati e non possono diventare «trincea o fortezza». In questo caso si potrebbe dire che Bronstein, che appare come un «occidentalista» era invece un cosmopolita, cioè superficialmente nazionale e superficialmente occidentalista o europeo. Invece Ilici era profondamente nazionale e profondamente europeo. Bronstein nelle sue memorie ricorda che gli fu detto che la sua teoria si era dimostrata buona dopo... quindici anni e risponde all'epigramma con un altro epigramma. In realtà la sua teoria, come tale, non era buona né quindici anni prima né quindici anni dopo: come avviene agli ostinati, di cui parla il Guicciardini, egli indovinò all'ingrosso, cioè ebbe ragione nella previsione pratica piú generale; come a dire che si predice che una bambina di quattro anni diventerà madre e quando lo diventa a venti anni si dice «l'avevo indovinato», non ricordando però che quando aveva quattro anni si voleva stuprare la bambina sicuri che sarebbe diventata madre. Mi pare che Ilici aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel '17, alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente, dove, come osserva Krasnov, in breve spazio gli eserciti potevano accumulare sterminate quantità di munizioni, dove i quadri sociali erano di per sé ancora capaci di diventare trincee munitissime. Questo mi pare significare la formula del «fronte unico» che corrisponde alla concezione di un solo fronte dell'Intesa sotto il comando unico di Foch. Solo che Ilici non ebbe il tempo di approfondire la sua formula, pur tenendo conto che egli poteva approfondirla solo teoricamente, mentre il compito fondamentale era nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno e una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza rappresentati dagli elementi di società civile ecc. In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell'Occidente tra Stato e società civile c'era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; piú o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un'accurata ricognizione di carattere nazionale.

La teoria del Bronstein può essere paragonata a quella di certi sindacalisti francesi sullo sciopero generale e alla teoria di Rosa nell'opuscolo tradotto da Alessandri: l'opuscolo di Rosa e la teoria di Rosa hanno del resto influenzato i sindacalisti francesi come appare da certi articoli di Rosmer sulla Germania nella «Vie Ouvrière» (prima serie in fascicoletti): dipende in parte anche dalla teoria della spontaneità.

 

 

[Il concetto di rivoluzione passiva.] Il concetto di rivoluzione passiva deve essere dedotto rigorosamente dai due principii fondamentali di scienza politica: 1) che nessuna formazione sociale scompare fino a quando le forze produttive che si sono sviluppate in essa trovano ancora posto per un loro ulteriore movimento progressivo; 2) che la società non si pone compiti per la cui soluzione non siano già state covate le condizioni necessarie ecc. S'intende che questi principii devono prima essere svolti criticamente in tutta la loro portata e depurati da ogni residuo di meccanicismo e fatalismo. Cosí devono essere riportati alla descrizione dei tre momenti fondamentali in cui può distinguersi una «situazione» o un equilibrio di forze, col massimo di valorizzazione del secondo momento, o equilibrio delle forze politiche e specialmente del terzo momento o equilibrio politico-militare. Si può osservare che il Pisacane, nei suoi Saggi, si preoccupa appunto di questo terzo momento: egli comprende, a differenza del Mazzini, tutta l'importanza che ha la presenza in Italia di un agguerrito esercito austriaco, sempre pronto a intervenire in ogni parte della penisola, e che inoltre ha dietro di sé tutta la potenza militare dell'Impero absburgico, cioè una matrice sempre pronta a formare nuovi eserciti di rincalzo.

Altro elemento storico da richiamare è lo sviluppo del Cristianesimo nel seno dell'Impero Romano, cosí come il fenomeno attuale del Gandhismo in India e la teoria della non resistenza al male di Tolstoi che tanto si avvicinano alla prima fase del Cristianesimo (prima dell'editto di Milano). Il Gandhismo e il tolstoismo sono teorizzazioni ingenue e a tinta religiosa della «rivoluzione passiva». Sono anche da richiamare alcuni movimenti cosí detti «liquidazionisti» e le reazioni che suscitarono, in rapporto ai tempi e alle forme determinate di situazioni (specialmente del terzo momento).

Il punto di partenza dello studio sarà la trattazione di Vincenzo Cuoco, ma è evidente che l'espressione del Cuoco a proposito della Rivoluzione Napoletana del 1799 non è che uno spunto, poiché il concetto è completamente modificato e arricchito.

 

Il concetto di «rivoluzione passiva» nel senso di Vincenzo Cuoco attribuita al primo periodo del Risorgimento italiano può essere messo in rapporto col concetto di «guerra di posizione» in confronto alla guerra manovrata? Cioè questi concetti si sono avuti dopo la Rivoluzione francese e il binomio Proudhon-Gioberti può essere giustificato col panico creato dal terrore del 1793 come il sorellismo col panico successivo alle stragi parigine del 1871? Cioè esiste una identità assoluta tra guerra di posizione e rivoluzione passiva? O almeno esiste o può concepirsi tutto un periodo storico in cui i due concetti si debbano identificare, fino al punto in cui la guerra di posizione ridiventa guerra manovrata? È un giudizio «dinamico» che occorre dare sulle «Restaurazioni» che sarebbero una «astuzia della provvidenza» in senso vichiano. Un problema è questo: nella lotta Cavour-Mazzini, in cui Cavour è l'esponente della rivoluzione passiva – guerra di posizione e Mazzini dell'iniziativa popolare – guerra manovrata, non sono indispensabili ambedue nella stessa precisa misura? Tuttavia bisogna tener conto che mentre Cavour era consapevole del suo compito (almeno in una certa misura) in quanto comprendeva il compito di Mazzini, Mazzini non pare fosse consapevole del suo e di quello del Cavour; se invece Mazzini avesse avuto tale consapevolezza, cioè fosse stato un politico realista e non un apostolo illuminato (cioè non fosse stato Mazzini) l'equilibrio risultante dal confluire delle due attività sarebbe stato diverso, piú favorevole al mazzinianismo: cioè lo Stato italiano si sarebbe costituito su basi meno arretrate e piú moderne. E poiché in ogni evento storico si verificano quasi sempre situazioni simili, è da vedere se non si possa trarre da ciò qualche principio generale di scienza e di arte politica. Si può applicare al concetto di rivoluzione passiva (e si può documentare nel Risorgimento italiano) il criterio interpretativo delle modificazioni molecolari che in realtà modificano progressivamente la composizione precedente delle forze e quindi diventano matrice di nuove modificazioni. Cosí nel Risorgimento italiano si è visto come il passaggio al Cavourrismo dopo il 1848 di sempre nuovi elementi del Partito d'Azione ha modificato progressivamente la composizione delle forze moderate, liquidando il neoguelfismo da una parte e dall'altra impoverendo il movimento mazziniano (a questo processo appartengono anche le oscillazioni di Garibaldi ecc.). Questo elemento pertanto è la fase originaria di quel fenomeno che è stato chiamato piú tardi «trasformismo» e la cui importanza non è stata, pare, finora, messa nella luce dovuta come forma di sviluppo storico.

Insistere nello svolgimento del concetto che mentre Cavour era consapevole del suo compito in quanto era consapevole criticamente del compito di Mazzini, Mazzini, per la scarsa o nulla consapevolezza del compito di Cavour, era in realtà anche poco consapevole del suo proprio compito, perciò i suoi tentennamenti (cosí a Milano nel periodo successivo alle cinque giornate e in altre occasioni) e le sue iniziative fuori tempo, che pertanto diventavano elementi solo utili alla politica piemontese. È questa una esemplificazione del problema teorico del come doveva essere compresa la dialettica, impostato nella Miseria della Filosofia: che ogni membro dell'opposizione dialettica debba cercare di essere tutto se stesso e gettare nella lotta tutte le proprie «risorse» politiche e morali, e che solo cosí si abbia un superamento reale, non era capito né da Proudhon né da Mazzini. Si dirà che non era capito neanche da Gioberti e dai teorici della rivoluzione passiva e «rivoluzione-restaurazione», ma la quistione cambia: in costoro la «incomprensione» teorica era l'espressione pratica delle necessità della «tesi» di sviluppare tutta se stessa, fino al punto di riuscire a incorporare una parte dell'antitesi stessa, per non lasciarsi «superare», cioè nell'opposizione dialettica solo la tesi in realtà sviluppa tutte le sue possibilità di lotta, fino ad accaparrarsi i sedicenti rappresentanti dell'antitesi: proprio in questo consiste la rivoluzione passiva o rivoluzione-restaurazione. Certo è da considerare a questo punto la quistione del passaggio della lotta politica da «guerra manovrata» a «guerra di posizione», ciò che in Europa avvenne dopo il 1848 e che non fu compreso da Mazzini e dai mazziniani come invece fu compreso da qualche altro; lo stesso passaggio si ebbe dopo il 1871 ecc. La quistione era difficile da capire allora per uomini come il Mazzini, dato che le guerre militari non avevano dato il modello, ma anzi le dottrine militari si sviluppavano nel senso della guerra di movimento: sarà da vedere se in Pisacane, che del mazzinianismo fu il teorico militare, ci siano accenni in questo senso. (Sarà da vedere la letteratura politica sul '48 dovuta a studiosi della filosofia della prassi; ma non pare che ci sia molto da aspettarsi in questo senso. Gli avvenimenti italiani, per esempio, furono esaminati solo con la guida dei libri di Bolton King ecc.). Pisacane è tuttavia da vedere perché fu il solo che tentò di dare al Partito d'Azione un contenuto non solo formale, ma sostanziale di antitesi superatrice delle posizioni tradizionali. Né è da dire che per ottenere questi risultati storici fosse necessaria perentoriamente l'insurrezione armata popolare, come pensava Mazzini fino all'ossessione, cioè non realisticamente, ma da missionario religioso. L'intervento popolare che non fu possibile nella forma concentrata e simultanea dell'insurrezione, non si ebbe neanche nella forma «diffusa» e capillare della pressione indiretta, ciò che invece era possibile e forse sarebbe stata la premessa indispensabile della prima forma. La forma concentrata o simultanea era resa impossibile dalla tecnica militare del tempo, ma solo in parte, cioè l'impossibilità esistette in quanto alla forma concentrata e simultanea non fu fatto precedere una preparazione politica ideologica di lunga lena, organicamente predisposta per risvegliare le passioni popolari e renderne possibile la concentrazione e lo scoppio simultaneo.

Dopo il 1848 una critica dei metodi precedenti al fallimento fu fatta solo dai moderati e infatti tutto il movimento moderato si rinnovò, il neoguelfismo fu liquidato, uomini nuovi occuparono i primi posti di direzione. Nessuna autocritica invece da parte del mazzinianismo oppure autocritica liquidatrice, nel senso che molti elementi abbandonarono Mazzini e formarono l'ala sinistra del partito piemontese; unico tentativo «ortodosso», cioè dall'interno, furono i saggi del Pisacane, che però non divennero mai piattaforma di una nuova politica organica e ciò nonostante che il Mazzini stesso riconoscesse che il Pisacane aveva una «concezione strategica» della Rivoluzione nazionale italiana.

 

 

Il rapporto «rivoluzione passiva - guerra di posizione» nel Risorgimento italiano può essere studiato anche in altri aspetti. Importantissimo quello che si può chiamare del «personale» e l'altro della «radunata rivoluzionaria». Quello del «personale» può essere appunto paragonato a quanto si verificò nella guerra mondiale nel rapporto tra ufficiali di carriera e ufficiali di complemento da una parte e tra soldati di leva e volontari-arditi dall'altra. Gli ufficiali di carriera corrisposero nel Risorgimento ai partiti politici regolari, organici, tradizionali, ecc., che al momento dell'azione (1884) si dimostrarono inetti o quasi e furono nel 1848-49 soverchiati dall'ondata popolare-mazziniana-democratica, ondata caotica, disordinata, «estemporanea» per cosí dire, ma che tuttavia, al seguito di capi improvvisati o quasi (in ogni caso non di formazioni precostituite com'era il partito moderato) ottennero successi indubbiamente maggiori di quelli ottenuti dai moderati: la Repubblica romana e Venezia mostrarono una forza di resistenza molto notevole. Nel periodo dopo il '48 il rapporto tra le due forze, quella regolare e quella «carismatica», si organizzò intorno a Cavour e Garibaldi e diede il massimo risultato, sebbene questo risultato fosse poi incamerato dal Cavour.

Questo aspetto è connesso all'altro, della «radunata». È da osservare che la difficoltà tecnica contro cui andarono sempre a spezzarsi le iniziative mazziniane fu quella appunto della «radunata rivoluzionaria». Sarebbe interessante, da questo punto di vista, studiare il tentativo di invadere la Savoia col Ramorino, poi quello dei fratelli Bandiera, del Pisacane ecc., paragonato con la situazione che si offrí a Mazzini nel '48 a Milano e nel '49 a Roma e che egli non ebbe la capacità di organizzare. Questi tentativi di pochi non potevano non essere schiacciati in germe, perché sarebbe stato maraviglioso che le forze reazionarie, che erano concentrate e potevano operare liberamente (cioè non trovavano nessuna opposizione in larghi movimenti della popolazione) non schiacciassero le iniziative tipo Ramorino, Pisacane, Bandiera, anche se queste fossero state preparate meglio di quanto furono in realtà. Nel secondo periodo (1859-60) la radunata rivoluzionaria, come fu quella dei Mille di Garibaldi, fu resa possibile dal fatto che Garibaldi si innestava nelle forze statali piemontesi prima e poi che la flotta inglese protesse di fatto lo sbarco di Marsala, la presa di Palermo, e sterilizzò la flotta borbonica. A Milano dopo le cinque giornate, a Roma repubblicana, Mazzini avrebbe avuto la possibilità di costituire piazze d'armi per radunate organiche, ma non si propose di farlo, onde il suo conflitto con Garibaldi a Roma e la sua inutilizzazione a Milano di fronte a Cattaneo e al gruppo democratico milanese.

In ogni modo lo svolgersi del processo del Risorgimento, se pose in luce l'importanza enorme del movimento «demagogico» di massa, con capi di fortuna, improvvisati ecc., in realtà fu riassunto dalle forze tradizionali organiche, cioè dai partiti formati di lunga mano, con elaborazione razionale dei capi ecc. In tutti gli avvenimenti politici dello stesso tipo sempre si ebbe lo stesso risultato (cosí nel 1830, in Francia, la prevalenza degli orleanisti sulle forze popolari radicali democratiche, e cosí in fondo anche nella Rivoluzione Francese del 1789, in cui Napoleone, rappresenta, in ultima analisi, il trionfo delle forze borghesi organiche contro le forze piccolo-borghesi giacobine). Cosí nella guerra mondiale il sopravvento dei vecchi ufficiali di carriera su quelli di complemento ecc. (su questo argomento cfr. note in altri quaderni). In ogni caso, l'assenza nelle forze radicali popolari di una consapevolezza del compito dell'altra parte impedí ad esse di avere piena consapevolezza del loro proprio compito e quindi di pesare nell'equilibrio finale delle forze, in rapporto al loro effettivo peso d'intervento, e quindi di determinare un risultato piú avanzato, su una linea di maggiore progresso e modernità.

 

Sempre a proposito del concetto di rivoluzione passiva o rivoluzione-restaurazione nel Risorgimento italiano è da notare che occorre porre con esattezza il problema che in alcune tendenze storiografiche è chiamato dei rapporti tra condizioni oggettive e condizioni soggettive dell'evento storico. Appare evidente che mai possono mancare le cosidette condizioni soggettive quando esistano le condizioni oggettive in quanto si tratta di semplice distinzione di carattere didascalico: pertanto è nella misura delle forze soggettive e della loro intensità che può vertere discussione, e quindi nel rapporto dialettico tra le forze soggettive contrastanti. Occorre evitare che la quistione sia posta in termini «intellettualistici» e non storico-politici. Che la «chiarezza» intellettuale dei termini della lotta sia indispensabile, è pacifico, ma questa chiarezza è un valore politico in quanto diventa passione diffusa ed è la premessa di una forte volontà. Negli ultimi tempi, in molte pubblicazioni sul Risorgimento, è stato «rivelato» che esistevano personalità che vedevano chiaro ecc. (ricordare la valorizzazione dell'Ornato fatta da Piero Gobetti), ma queste «rivelazioni» si distruggono da se stesse appunto perché rivelazioni; esse dimostrano che si trattava di elucubrazioni individuali, che oggi rappresentano una forma del «senno di poi». Infatti mai si cimentarono con la realtà effettuale, mai diventarono coscienza popolare-nazionale diffusa e operante. Tra il Partito d'Azione e il Partito moderato quale rappresentò le effettive «forze soggettive» del Risorgimento? Certo il Partito moderato, e appunto perché ebbe consapevolezza del compito anche del Partito d'Azione: per questa consapevolezza la sua «soggettività» era di una qualità superiore e piú decisiva. Nell'espressione sia pure da sergente maggiore, di Vittorio Emanuele II: «Il Partito d'Azione noi l'abbiamo in tasca» c'è piú senso storico-politico che in tutto Mazzini.

 

 

Sulla burocrazia. 1) Il fatto che nello svolgimento storico delle forme politiche ed economiche si sia venuto formando il tipo del funzionario «di carriera», tecnicamente addestrato al lavoro burocratico (civile e militare) ha un significato primordiale nella scienza politica e nella storia delle forme statali. Si è trattato di una necessità o di una degenerazione in confronto dell'autogoverno (self-government) come pretendono i liberisti «puri»? È certo che ogni forma sociale e statale ha avuto un suo problema dei funzionari, un suo modo di impostarlo e risolverlo, un suo sistema di selezione, un suo tipo di funzionario da educare. Ricostruire lo svolgimento di tutti questi elementi è di importanza capitale. Il problema dei funzionari coincide in parte col problema degli intellettuali. Ma se è vero che ogni nuova forma sociale e statale ha avuto bisogno di un nuovo tipo di funzionario, è vero anche che i nuovi gruppi dirigenti non hanno mai potuto prescindere, almeno per un certo tempo, dalla tradizione e dagli interessi costituiti, cioè dalle formazioni di funzionari già esistenti e precostituiti al loro avvento (ciò specialmente nella sfera ecclesiastica e in quella militare). L'unità del lavoro manuale e intellettuale e un legame piú stretto tra il potere legislativo e quello esecutivo (per cui i funzionari eletti, oltre che del controllo, si interessino dell'esecuzione degli affari di Stato) possono essere motivi ispiratori sia per un indirizzo nuovo nella soluzione del problema degli intellettuali che di quello dei funzionari.

2) Connessa con la quistione della burocrazia e della sua organizzazione «ottima» è la discussione sui cosidetti «centralismo organico» e «centralismo democratico» (che d'altronde non ha niente a che fare con la democrazia astratta, tanto che la Rivoluzione francese e la terza Repubblica hanno sviluppato delle forme di centralismo organico che non avevano conosciuto né la monarchia assoluta né Napoleone I). Saranno da ricercare ed esaminare i reali rapporti economici e politici che trovano la loro forma organizzativa, la loro articolazione e la loro funzionalità nelle diverse manifestazioni di centralismo organico e democratico in tutti i campi: nella vita statale (unitarismo, federazione, unione di Stati federati, federazione di Stati o Stato federale ecc.), nella vita interstatale (alleanza, forme varie di «costellazione» politica internazionale), nella vita delle associazioni politiche e culturali (massoneria, Rotary Club, Chiesa cattolica), sindacali economiche (cartelli, trusts), in uno stesso paese, in diversi paesi ecc.

Polemiche sorte nel passato (prima del 1914) a proposito del predominio tedesco nella vita dell'alta cultura e di alcune forze politiche internazionali: era poi reale questo predominio o in che cosa realmente consisteva? Si può dire: a) che nessun nesso organico e disciplinare stabiliva una tale supremazia, che pertanto era un mero fenomeno di influsso culturale astratto e di prestigio molto labile; b) che tale influsso culturale non toccava per nulla l'attività effettuale, che viceversa era disgregata, localistica, senza indirizzo d'insieme. Non si può parlare perciò di nessun centralismo, né organico né democratico né d'altro genere o misto. L'influsso era sentito e subito da scarsi gruppi intellettuali, senza legame con le masse popolari e appunto questa assenza di legame caratterizzava la situazione. Tuttavia un tale stato di cose è degno di esame perché giova a spiegare il processo che ha condotto a formulare le teorie del centralismo organico, che sono state appunto una critica unilaterale e da intellettuali di quel disordine e di quella dispersione di forze.

Occorre intanto distinguere nelle teorie del centralismo organico tra quelle che velano un preciso programma di predominio reale di una parte sul tutto (sia la parte costituita da un ceto come quello degli intellettuali, sia costituita da un gruppo territoriale «privilegiato») e quelle che sono una pura posizione unilaterale di settari e fanatici, e che pur potendo nascondere un programma di predominio (di solito di una singola individualità, come quella del papa infallibile per cui il cattolicismo si è trasformato in una specie di culto del pontefice), immediatamente non pare nascondere un tale programma come fatto politico consapevole. Il nome piú esatto sarebbe quello di centralismo burocratico. L'«organicità» non può essere che del centralismo democratico il quale è un «centralismo» in movimento, per cosí dire, cioè una continua adeguazione dell'organizzazione al movimento reale, un contemperare le spinte dal basso con il comando dall'alto, un inserimento continuo degli elementi che sbocciano dal profondo della massa nella cornice solida dell'apparato di direzione che assicura la continuità e l'accumularsi regolare delle esperienze: esso è «organico» perché tiene conto del movimento, che è il modo organico di rivelarsi della realtà storica e non si irrigidisce meccanicamente nella burocrazia, e nello stesso tempo tiene conto di ciò che è relativamente stabile e permanente o che per lo meno si muove in una direzione facile a prevedersi ecc. Questo elemento di stabilità nello Stato si incarna nello sviluppo organico del nucleo centrale del gruppo dirigente cosí come avviene in piú ristretta scala nella vita dei partiti. Il prevalere del centralismo burocratico nello Stato indica che il gruppo dirigente è saturato diventando una consorteria angusta che tende a perpetrare i suoi gretti privilegi regolando o anche soffocando il nascere di forze contrastanti, anche se queste forze sono omogenee agli interessi dominanti fondamentali (per es. nei sistemi protezionistici a oltranza in lotta col liberismo economico). Nei partiti che rappresentano gruppi socialmente subalterni l'elemento di stabilità è necessario per assicurare l'egemonia non a gruppi privilegiati ma agli elementi progressivi, organicamente progressivi in confronto di altre forze affini e alleate ma composite e oscillanti.

In ogni caso occorre rilevare che le manifestazioni morbose di centralismo burocratico sono avvenute per deficienza di iniziativa e responsabilità nel basso, cioè per la primitività politica delle forze periferiche, anche quando esse sono omogenee con il gruppo territoriale egemone (fenomeno del piemontesismo nei primi decenni dell'unità italiana). Il formarsi di tali situazioni può essere estremamente dannoso e pericoloso negli organismi internazionali (Società delle Nazioni).

Il centralismo democratico offre una formula elastica, che si presta a molte incarnazioni; essa vive in quanto è interpretata e adattata continuamente alle necessità: essa consiste nella ricerca critica di ciò che è uguale nell'apparente disformità e invece distinto e anche opposto nell'apparente uniformità per organare e connettere strettamente ciò che è simile, ma in modo che l'organamento e la connessione appaiano una necessità pratica e «induttiva», sperimentale e non il risultato di un processo razionalistico, deduttivo, astrattistico, cioè proprio degli intellettuali puri (o puri asini). Questo lavorio continuo per sceverare l'elemento «internazionale» e «unitario» nella realtà nazionale e localistica è in realtà l'azione politica concreta, l'attività sola produttiva di progresso storico. Esso richiede una organica unità tra teoria e pratica, tra ceti intellettuali e masse popolari, tra governanti e governati. Le formule di unità e federazione perdono gran parte del loro significato da questo punto di vista, mentre conservano il loro veleno nella concezione burocratica, per la quale finisce col non esistere unità ma palude stagnante, superficialmente calma e «muta» e non federazione ma «sacco di patate», cioè giustapposizione meccanica di singole «unità» senza nesso tra loro.

 

 

Il teorema delle proporzioni definite. Questo teorema può essere impiegato utilmente per rendere piú chiari e di uno schematismo piú evidente molti ragionamenti riguardanti la scienza dell'organizzazione (lo studio dell'apparato amministrativo, della composizione demografica ecc.) e anche la politica generale (nelle analisi delle situazioni, dei rapporti di forza, nel problema degli intellettuali ecc.). S'intende che occorre sempre ricordare come il ricorso al teorema delle proporzioni definite ha un valore schematico e metaforico, cioè non può essere applicato meccanicamente, poiché negli aggregati umani l'elemento qualitativo (o di capacità tecnica e intellettuale dei singoli componenti) ha una funzione predominante, mentre non può essere misurato matematicamente. Perciò si può dire che ogni aggregato umano ha un suo particolare principio ottimo di proporzioni definite. Specialmente la scienza dell'organizzazione può ricorrere utilmente a questo teorema e ciò appare con chiarezza nell'esercito. Ma ogni forma di società ha un suo tipo di esercito e ogni tipo di esercito ha un suo principio di proporzioni definite, che del resto cambia anche per le diverse armi o specialità. C'è un determinato rapporto tra uomini di truppa, graduati, sottufficiali, ufficiali subalterni, ufficiali superiori, stati maggiori, stato maggiore generale ecc. C'è un rapporto tra le varie armi e specialità tra loro ecc. Ogni mutamento in una parte determina la necessità di un nuovo equilibrio col tutto ecc. Politicamente il teorema si può vedere applicato nei partiti, nei sindacati, nelle fabbriche e vedere come ogni gruppo sociale ha una propria legge di proporzioni definite, che varia a seconda del livello di cultura, di indipendenza mentale, di spirito d'iniziativa e di senso della responsabilità e della disciplina dei suoi membri piú arretrati e periferici.

La legge delle proporzioni definite è cosí riassunta dal Pantaleoni nei Principii di Economia pura: «... I corpi si combinano chimicamente soltanto in proporzioni definite e ogni quantità di un elemento che superi la quantità richiesta per una combinazione con altri elementi, presenti in quantità definite, resta libera; se la quantità di un elemento è deficiente per rapporto alla quantità di altri elementi presenti, la combinazione non avviene che nella misura in cui è sufficiente la quantità dell'elemento che è presente in quantità minore degli altri». Si potrebbe servirsi metaforicamente di questa legge per comprendere come un «movimento» o tendenza di opinioni, diventa partito, cioè forza politica efficiente dal punto di vista dell'esercizio del potere governativo; nella misura appunto in cui possiede (ha elaborato nel suo interno) dirigenti di vario grado e nella misura in cui essi dirigenti hanno acquisito determinate capacità. L'«automatismo» storico di certe premesse (l'esistenza di certe condizioni obbiettive) viene potenziato politicamente dai partiti e dagli uomini capaci: la loro assenza o deficienza (quantitativa e qualitativa) rende sterile l'«automatismo» stesso (che pertanto non è automatismo): ci sono astrattamente le premesse, ma le conseguenze non si realizzano perché il fattore umano manca. Perciò si può dire che i partiti hanno il compito di elaborare dirigenti capaci, sono la funzione di massa che seleziona, sviluppa, moltiplica i dirigenti necessari perché un gruppo sociale definito (che è una quantità «fissa», in quanto si può stabilire quanti sono i componenti di ogni gruppo sociale) si articoli e da caos tumultuoso diventi esercito politico organicamente predisposto. Quando in elezioni successive dello stesso grado o di grado diverso (per esempio nella Germania prima di Hitler: elezioni per il presidente della repubblica, per il Reichstag, per le diete dei Länder, per i consigli comunali e giú giú fino ai comitati d'azienda) un partito oscilla nella sua massa di suffragi da massimi a minimi che sembrano strani e arbitrari, si può dedurre che i quadri di esso sono deficienti per quantità e per qualità, o per quantità e non per qualità (relativamente) o per qualità e non per quantità. Un partito che ha molti voti nelle elezioni locali e meno in quelle di piú alta importanza politica, è certo deficiente qualitativamente nella sua direzione centrale: possiede molti subalterni o almeno in numero sufficiente, ma non possiede uno stato maggiore adeguato al paese e alla sua posizione nel mondo, ecc. Analisi di questo genere sono accennate in altri paragrafi.

 

 

Sociologia e scienza politica (vedere i paragrafi sul Saggio popolare). La fortuna della sociologia è in relazione con la decadenza del concetto di scienza politica e di arte politica verificatasi nel secolo XIX (con piú esattezza nella seconda metà, con la fortuna delle dottrine evoluzionistiche e positivistiche). Ciò che di realmente importante è nella sociologia non è altro che scienza politica. «Politica» divenne sinonimo di politica parlamentare o di cricche personali. Persuasione che con le costituzioni e i parlamenti si fosse iniziata un'epoca di «evoluzione» «naturale», che la società avesse trovato i suoi fondamenti definitivi perché razionali ecc. ecc. Ecco che la società può essere studiata col metodo delle scienze naturali. Impoverimento del concetto di Stato conseguente a tal modo di vedere. Se scienza politica significa scienza dello Stato e Stato è tutto il complesso di attività pratiche e teoriche con cui la classe dirigente giustifica e mantiene il suo dominio non solo ma riesce a ottenere il consenso attivo dei governati, è evidente che tutte le quistioni essenziali della sociologia non sono altro che le quistioni della scienza politica. Se c'è un residuo, questo non può essere che di falsi problemi cioè di problemi oziosi. La quistione che pertanto si poneva all'autore del Saggio popolare era quella di determinare in che rapporti poteva essere posta la scienza politica con la filosofia della praxis, se tra le due esiste identità (cosa non sostenibile, o sostenibile solo da un punto di vista del piú gretto positivismo) o se la scienza politica è l'insieme di principii empirici o pratici che si deducono da una piú vasta concezione del mondo o filosofia propriamente detta, o se questa filosofia è solo la scienza dei concetti o categorie generali che nascono dalla scienza politica ecc. Se è vero che l'uomo non può essere concepito se non come uomo storicamente determinato, cioè che si è sviluppato e vive in certe condizioni, in un determinato complesso sociale o insieme di rapporti sociali, si può concepire la sociologia come studio solo di queste condizioni e delle leggi che ne regolano lo sviluppo? Poiché non si può prescindere dalla volontà e dall'iniziativa degli uomini stessi, questo concetto non può non essere falso.

Il problema di che cosa è la «scienza» stessa è da porre.

La scienza non è essa stessa «attività politica» e pensiero politico, in quanto trasforma gli uomini, li rende diversi da quelli che erano prima? Se tutto è «politico» occorre, per non cadere in un frasario tautologico e noioso distinguere con concetti nuovi la politica che corrisponde a quella scienza che tradizionalmente si chiama «filosofia», dalla politica che si chiama scienza politica in senso stretto. Se la scienza è «scoperta» di realtà ignorata prima, questa realtà non viene concepita come trascendente in un certo senso? e non si pensa che esiste ancora qualcosa di «ignoto» e quindi di trascendente? E il concetto di scienza come «creazione» non significa poi come «politica»? Tutto sta nel vedere se si tratta di creazione «arbitraria» o razionale, cioè «utile» agli uomini per allargare il loro concetto della vita, per rendere superiore (sviluppare) la vita stessa.

A proposito del Saggio popolare e della sua appendice Teoria e pratica è da vedere nella «Nuova Antologia» del 16 marzo 1933 la rassegna filosofica di Armando Carlini, da cui risulta che l'equazione, Teoria: pratica = matematica pura: matematica applicata, è stata enunziata da un inglese (mi pare Whittaker).

 

 

Il numero e la qualità nei regimi rappresentativi. Uno dei luoghi comuni piú banali che si vanno ripetendo contro il sistema elettivo di formazione degli organi statali è questo, che il «numero sia in esso legge suprema» e che la «opinione di un qualsiasi imbecille che sappia scrivere (e anche di un analfabeta, in certi paesi), valga, agli effetti di determinare il corso politico dello Stato, esattamente quanto quella di chi allo Stato e alla Nazione dedichi le sue migliori forze» ecc. (le formulazioni sono molte, alcune anche piú felici di questa riportata, che è di Mario da Silva, nella «Critica Fascista» del 15 agosto 1932, ma il contenuto è sempre uguale). Ma il fatto è che non è vero, in nessun modo, che il numero sia «legge suprema», né che il peso dell'opinione di ogni elettore sia «esattamente» uguale. I numeri, anche in questo caso, sono un semplice valore strumentale, che danno una misura e un rapporto e niente di piú. E che cosa poi si misura? Si misura proprio l'efficacia e la capacità di espansione e di persuasione delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle élites, delle avanguardie ecc. ecc. cioè la loro razionalità o storicità o funzionalità concreta. Ciò vuol dire che non è vero che il peso delle opinioni dei singoli sia «esattamente» uguale. Le idee e le opinioni non «nascono» spontaneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di formazione, di irradiazione, di diffusione, di persuasione, un gruppo di uomini o anche una singola individualità che le ha elaborate e presentate nella forma politica d'attualità. La numerazione dei «voti» è la manifestazione terminale di un lungo processo in cui l'influsso massimo appartiene proprio a quelli che «dedicano allo Stato e alla Nazione le loro migliori forze» (quando lo sono). Se questo presunto gruppo di ottimati, nonostante le forze materiali sterminate che possiede, non ha il consenso della maggioranza, sarà da giudicare o inetto o non rappresentante gli interessi «nazionali» che non possono non essere prevalenti nell'indurre la volontà nazionale in un senso piuttosto che in un altro. «Disgraziatamente» ognuno è portato a confondere il proprio «particulare» con l'interesse nazionale e quindi a trovare «orribile» ecc. che sia la «legge del numero» a decidere; è certo miglior cosa diventare élite per decreto. Non si tratta pertanto di chi «ha molto» intellettualmente che si sente ridotto al livello dell'ultimo analfabeta, ma di chi presume di aver molto e che vuole togliere all'uomo «qualunque» anche quella frazione infinitesima di potere che egli possiede nel decidere sul corso della vita statale.

Dalla critica (di origine oligarchica e non di élite) al regime parlamentaristico (è strano che esso non sia criticato perché la razionalità storicistica del consenso numerico è sistematicamente falsificata dall'influsso della ricchezza), queste affermazioni banali sono state estese a ogni sistema rappresentativo, anche non parlamentaristico, e non foggiato secondo i canoni della democrazia formale. Tanto meno queste affermazioni sono esatte. In questi altri regimi il consenso non ha nel momento del voto una fase terminale, tutt'altro. Il consenso è supposto permanentemente attivo, fino al punto che i consenzienti potrebbero essere considerati come «funzionari» dello Stato e le elezioni un modo di arruolamento volontario di funzionari statali di un certo tipo, che in un certo senso potrebbe ricollegarsi (in piani diversi) al self-government. Le elezioni avvenendo non su programmi generici e vaghi, ma di lavoro concreto immediato, chi consentite si impegna a fare qualcosa di piú del comune cittadino legale, per realizzarli, a essere cioè una avanguardia di lavoro attivo e responsabile. L'elemento «volontariato» nell'iniziativa non potrebbe essere stimolato in altro modo per le piú larghe moltitudini, e quando queste non siano formate di cittadini amorfi, ma di elementi produttivi qualificati, si può intendere l'importanza che la manifestazione del voto può avere. (Queste osservazioni potrebbero essere svolte piú ampiamente e organicamente, mettendo in rilievo anche altre differenze tra i diversi tipi di elezionismo, a seconda che mutano i rapporti generali sociali e politici: rapporto tra funzionari elettivi e funzionari di carriera ecc.).

 

 

La proposizione che «la società non si pone problemi per la cui soluzione non esistano già le premesse materiali». È il problema della formazione di una volontà collettiva che dipende immediatamente da questa proposizione e analizzare criticamente cosa la proposizione significhi importa ricercare come appunto si formino le volontà collettive permanenti, e come tali volontà si propongano dei fini immediati e mediati concreti, cioè una linea d'azione collettiva. Si tratta di processi di sviluppo piú o meno lunghi, e raramente di esplosioni «sintetiche» improvvise. Anche le «esplosioni» sintetiche si verificano, ma, osservando da vicino, si vede che allora si tratta di distruggere piú che ricostruire, di rimuovere ostacoli esteriori e meccanici allo sviluppo autoctono e spontaneo: cosí può assumersi come esemplare il Vespro Siciliano.

Si potrebbe studiare in concreto la formazione di un movimento storico collettivo, analizzandolo in tutte le sue fasi molecolari, ciò che di solito non si fa perché appesantirebbe ogni trattazione: si assumono invece le correnti d'opinione già costituite intorno a un gruppo o a una personalità dominante. È il problema che modernamente si esprime in termini di partito o di coalizione di partiti affini: come si inizia la costituzione di un partito, come si sviluppa la sua forza organizzata e di influenza sociale ecc. Si tratta di un processo molecolare, minutissimo, di analisi estrema, capillare, la cui documentazione è costituita da una quantità sterminata di libri, di opuscoli, di articoli di rivista e di giornale, di conversazioni e dibattiti a voce che si ripetono infinite volte e che nel loro insieme gigantesco rappresentano questo lavorio da cui nasce una volontà collettiva di un certo grado di omogeneità, di quel certo grado che è necessario e sufficiente per determinare un'azione coordinata e simultanea nel tempo e nello spazio geografico in cui il fatto storico si verifica.

Importanza delle utopie e delle ideologie confuse e razionalistiche nella fase iniziale dei processi storici di formazione delle volontà collettive: le utopie, il razionalismo astratto hanno la stessa importanza delle vecchie concezioni del mondo storicamente elaborate per accumulazione di esperienze successive. Ciò che importa è la critica a cui tale complesso ideologico viene sottoposto dai primi rappresentanti della nuova fase storica: attraverso questa critica si ha un processo di distinzione e di cambiamento nel peso relativo che gli elementi delle vecchie ideologie possedevano: ciò che era secondario e subordinato o anche incidentale, viene assunto come principale, diventa il nucleo di un nuovo complesso ideologico e dottrinale. La vecchia volontà collettiva si disgrega nei suoi elementi contradittori, perché di questi elementi quelli subordinati si sviluppano socialmente ecc.

Dopo la formazione del regime dei partiti, fase storica legata alla standardizzazione di grandi masse della popolazione (comunicazioni, giornali, grandi città ecc.) i processi molecolari avvengono piú rapidamente che nel passato, ecc.

 

 

Quistione dell'«uomo collettivo» o del «conformismo sociale». Compito educativo e formativo dello Stato, che ha sempre il fine di creare nuovi e piú alti tipi di civiltà, di adeguare la «civiltà» e la moralità delle piú vaste masse popolari alle necessità del continuo sviluppo dell'apparato economico di produzione, quindi di elaborare anche fisicamente dei tipi nuovi d'umanità. Ma come ogni singolo individuo riuscirà a incorporarsi nell'uomo collettivo e come avverrà la pressione educativa sui singoli ottenendone il consenso e la collaborazione, facendo diventare «libertà» la necessità e la coercizione? Quistione del «diritto», il cui concetto dovrà essere esteso, comprendendovi anche quelle attività che oggi cadono sotto la formula di «indifferente giuridico» e che sono di dominio della società civile che opera senza «sanzioni» e senza «obbligazioni» tassative, ma non per tanto esercita una pressione collettiva e ottiene risultati obbiettivi di elaborazione nei costumi, nei modi di pensare e di operare, nella moralità ecc.

Concetto politico della cosí detta «rivoluzione permanente» sorto prima del 1848, come espressione scientificamente elaborata delle esperienze giacobine dal 1789 al Termidoro. La formula è propria di un periodo storico in cui non esistevano ancora i grandi partiti politici di massa e i grandi sindacati economici e la società era ancora, per dir cosí, allo stato di fluidità sotto molti aspetti: maggiore arretratezza della campagna e monopolio quasi completo dell'efficienza politico-statale in poche città o addirittura in una sola (Parigi per la Francia), apparato statale relativamente poco sviluppato e maggiore autonomia della società civile dall'attività statale, determinato sistema delle forze militari e dell'armamento nazionale, maggiore autonomia delle economie nazionali dai rapporti economici del mercato mondiale ecc. Nel periodo dopo il 1870, con l'espansione coloniale europea, tutti questi elementi mutano, i rapporti organizzativi interni e internazionali dello Stato diventano piú complessi e massicci e la formula quarantottesca della «rivoluzione permanente» viene elaborata e superata nella scienza politica nella formula di «egemonia civile». Avviene nell'arte politica ciò che avviene nell'arte militare: la guerra di movimento diventa sempre piú guerra di posizione e si può dire che uno Stato vince una guerra in quanto la prepara minutamente e tecnicamente nel tempo di pace. La struttura massiccia delle democrazie moderne, sia come organizzazioni statali che come complesso di associazioni nella vita civile costituiscono per l'arte politica come le «trincee» e le fortificazioni permanenti del fronte nella guerra di posizione: essi rendono solo «parziale» l'elemento del movimento che prima era «tutta» la guerra ecc.

La quistione si pone per gli Stati moderni, non per i paesi arretrati e per le colonie, dove vigono ancora le forme che altrove sono superate e divenute anacronistiche. Anche la quistione del valore delle ideologie (come si può trarre dalla polemica Malagodi-Croce) – con le osservazioni del Croce sul «mito» soreliano, che si possono ritorcere contro la «passione» – deve essere studiata in un trattato di scienza politica.

 

 

Fase economica-corporativa dello Stato. Il Guicciardini segna un passo indietro nella scienza politica di fronte al Machiavelli. Il maggiore «pessimismo» del Guicciardini significa solo questo. Il Guicciardini ritorna a un pensiero politico puramente italiano, mentre il Machiavelli si era innalzato a un pensiero europeo. Non si comprende il Machiavelli se non si tiene conto che egli supera l'esperienza italiana nell'esperienza europea (internazionale in quell'epoca): la sua «volontà» sarebbe utopistica, senza l'esperienza europea. La stessa concezione della «natura umana» diventa per questo fatto diversa nei due. Nella «natura umana» del Machiavelli è compreso l'«uomo europeo» e questo uomo in Francia e in Ispagna ha effettualmente superato la fase feudale disgregata nella monarchia assoluta: dunque non è la «natura umana» che si oppone a che in Italia sorga una monarchia assoluta unitaria, ma condizioni transitorie che la volontà può superare. Il Machiavelli è «pessimista» (o meglio «realista») nel considerare gli uomini e i moventi del loro operare; il Guicciardini non è pessimista, ma scettico e gretto.

Paolo Treves (cfr. Il realismo politico di Francesco Guicciardini, in «Nuova Rivista Storica», novembre-dicembre 1930) commette molti errori nei giudizi sul Guicciardini e Machiavelli. Non distingue bene «politica» da «diplomazia», ma proprio in questa non distinzione è la causa dei suoi errati apprezzamenti. Nella politica infatti l'elemento volitivo ha un'importanza molto piú grande che nella diplomazia. La diplomazia sanziona e tende a conservare le situazioni create dall'urto delle politiche statali; è creativa solo per metafora o per convenzione filosofica (tutta l'attività umana è creativa). I rapporti internazionali riguardano un equilibrio di forze in cui ogni singolo elemento statale può influire molto debolmente: Firenze poteva influire rafforzando se stessa, per esempio, ma questo rafforzamento, se pure avesse migliorato la sua posizione nell'equilibrio italiano ed europeo non poteva certo essere pensato come decisivo per capovolgere l'insieme dell'equilibrio stesso. Perciò il diplomatico, per lo stesso abito professionale, è portato allo scetticismo e alla grettezza conservatrice.

Nei rapporti interni di uno Stato, la situazione è incomparabilmente piú favorevole all'iniziativa centrale, a una volontà di comando, cosí come la intendeva il Machiavelli. Il giudizio dato dal De Sanctis del Guicciardini è molto piú realistico di quanto il Treves creda. È da porre la domanda perché il De Sanctis fosse meglio preparato del Treves a dare questo giudizio storicamente e scientificamente piú esatto. Il De Sanctis partecipò a un momento creativo della storia politica italiana, a un momento in cui l'efficienza della volontà politica, rivolta a suscitare forze nuove ed originali e non solo a calcolare su quelle tradizionali, concepite come impossibili di sviluppo e di riorganizzazione (scetticismo politico guicciardinesco), aveva mostrato tutta la sua potenzialità non solo nell'arte di fondare uno stato dall'interno ma anche di padroneggiare i rapporti internazionali, svecchiando i metodi professionali e abitudinari della diplomazia (con Cavour). L'atmosfera culturale era propizia a una concezione piú comprensivamente realistica della scienza e dell'arte politica. Ma anche senza questa atmosfera era impossibile al De Sanctis di comprendere Machiavelli? L'atmosfera data dal momento storico arricchisce i saggi del De Sanctis di un pathos sentimentale che rende piú simpatico e appassionante l'argomento, piú artisticamente espressiva e cattivante l'esposizione scientifica, ma il contenuto logico della scienza politica potrebbe essere stato pensato anche nei periodi di peggiore reazione. Non è forse la reazione anch'essa un atto costruttivo di volontà? E non è atto volontario la conservazione? Perché dunque sarebbe «utopistica» la volontà del Machiavelli perché rivoluzionaria e non utopistica la volontà di chi vuol conservare l'esistente e impedire il sorgere e l'organizzarsi di forze nuove che turberebbero e capovolgerebbero l'equilibrio tradizionale? La scienza politica astrae l'elemento «volontà» e non tiene conto del fine a cui una volontà determinata è applicata. L'attributo di «utopistico» non è proprio della volontà politica in generale, ma delle particolari volontà che non sanno connettere il mezzo al fine e pertanto non sono neanche volontà, ma velleità, sogni, desideri, ecc.

Lo scetticismo del Guicciardini (non pessimismo dell'intelligenza, che può essere unito a un ottimismo della volontà nei politici realistici attivi) ha diverse origini: 1) l'abito diplomatico, cioè di una professione subalterna, subordinata, esecutivo-burocratica che deve accettare una volontà estranea (quella politica del proprio governo o principe) alle convinzioni particolari del diplomatico (che può, è vero, sentire quella volontà come propria, in quanto corrisponde alle proprie convinzioni, ma può anche non sentirla: l'essere la diplomazia divenuta necessariamente una professione specializzata, ha portato a questa conseguenza, di poter staccare il diplomatico dalla politica dei governi mutevoli ecc.), quindi scetticismo e, nell'elaborazione scientifica, pregiudizi extrascientifici; 2) le convinzioni stesse del Guicciardini che era conservatore, nel quadro generale della politica italiana, e perciò teorizza le proprie opinioni, la propria posizione politica, ecc.

Gli scritti del Guicciardini sono piú segno dei tempi, che scienza politica, e questo è il giudizio del De Sanctis; come segno dei tempi e non saggio di storia della scienza politica è lo scritto di Paolo Treves.

 

 

Egemonia (società civile) e divisione dei poteri. La divisione dei poteri e tutta la discussione avvenuta per la sua realizzazione e la dogmatica giuridica nata dal suo avvento, sono il risultato della lotta tra la società civile e la società politica di un determinato periodo storico, con un certo equilibrio instabile delle classi, determinato dal fatto che certe categorie d'intellettuali (al diretto servizio dello Stato, specialmente burocrazia civile e militare) sono ancora troppo legate alle vecchie classi dominanti. Si verifica cioè nell'interno della società quello che il Croce chiama il «perpetuo conflitto tra Chiesa e Stato», in cui la Chiesa è presa a rappresentare la società civile nel suo insieme (mentre non ne è che un elemento gradatamente meno importante) e lo Stato ogni tentativo di cristallizzare permanentemente un determinato stadio di sviluppo, una determinata situazione. In questo senso la Chiesa stessa può diventare Stato e il conflitto può manifestarsi tra Società civile laica e laicizzante e Stato-Chiesa (quando la Chiesa è diventata una parte integrante dello Stato, della società politica monopolizzata da un determinato gruppo privilegiato che si aggrega la Chiesa per sostenere meglio il suo monopolio col sostegno di quella zona di società civile rappresentata dalla Chiesa). Importanza essenziale della divisione dei poteri per il liberalismo politico ed economico: tutta l'ideologia liberale, con le sue forze e le sue debolezze, può essere racchiusa nel principio della divisione dei poteri e appare quale sia la fonte della debolezza del liberalismo: è la burocrazia, cioè la cristallizzazione del personale dirigente che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta. Onde la rivendicazione popolare della eleggibilità di tutte le cariche, rivendicazione che è estremo liberalismo e nel tempo stesso sua dissoluzione (principio della Costituente in permanenza ecc.; nelle Repubbliche l'elezione a tempo del capo dello Stato dà una soddisfazione illusoria a questa rivendicazione popolare elementare).

Unità dello Stato nella distinzione dei poteri: il Parlamento piú legato alla società civile, il potere giudiziario tra Governo e Parlamento, rappresenta la continuità della legge scritta (anche contro il Governo). Naturalmente tutti e tre i poteri sono anche organi dell'egemonia politica, ma in diversa misura: 1) Parlamento; 2) Magistratura; 3) Governo. È da notare come nel pubblico facciano specialmente impressione disastrosa le scorrettezze della amministrazione della giustizia: l'apparato egemonico è piú sensibile in questo settore, al quale possono ricondursi anche gli arbitri della polizia e dell'amministrazione politica.

 

 

[Concezione del diritto.] Una concezione del diritto che deve essere essenzialmente rinnovatrice. Essa non può essere trovata, integralmente, in nessuna dottrina preesistente (neanche nella dottrina della cosí detta scuola positiva, e particolarmente nella dottrina del Ferri). Se ogni Stato tende a creare e a mantenere un certo tipo di civiltà e di cittadino (e quindi di connivenza e di rapporti individuali), tende a far sparire certi costumi e attitudini e a diffonderne altri, il diritto sarà lo strumento per questo fine (accanto alla scuola ed altre istituzioni ed attività) e deve essere elaborato affinché sia conforme al fine, sia massimamente efficace e produttivo di risultati positivi. La concezione del diritto dovrà essere liberata da ogni residuo di trascendenza e di assoluto, praticamente di ogni fanatismo moralistico, tuttavia mi pare non possa partire dal punto di vista che lo Stato non «punisce» (se questo termine è ridotto al suo significato umano) ma lotta solo contro la «pericolosità» sociale. In realtà lo Stato deve essere concepito come «educatore» in quanto tende appunto a creare un nuovo tipo o livello di civiltà. Per il fatto che si opera essenzialmente sulle forze economiche, che si riorganizza e si sviluppa l'apparato di produzione economica, che si innova la struttura, non deve trarsi la conseguenza che i fatti di soprastruttura debbano abbandonarsi a se stessi, al loro sviluppo spontaneo, a una germinazione casuale e sporadica. Lo Stato, anche in questo campo, è uno strumento di «razionalizzazione», di accelerazione e di taylorizzazione, opera secondo un piano, preme, incita, sollecita, e «punisce», poiché, create le condizioni in cui un determinato modo di vita è «possibile», l'«azione o l'omissione criminale» devono avere una sanzione punitiva, di portata morale, e non solo un giudizio di pericolosità generica. Il diritto è l'aspetto repressivo e negativo di tutta l'attività positiva di incivilimento svolta dallo Stato. Nella concezione del diritto dovrebbero essere incorporate anche le attività «premiatrici» di individui, di gruppi ecc.; si premia l'attività lodevole e meritoria, come si punisce l'attività criminale (e si punisce in modi originali, facendo intervenire l'«opinione pubblica», come sanzionatrice).

 

 

[Politica e diritto costituzionale.] Nella «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1929 è pubblicata una noticina di certo M. Azzalini, La politica, scienza ed arte di Stato, che può essere interessante come presentazione degli elementi tra cui si dibatte lo schematismo scientifico. L'Azzalini incomincia affermando che fu gloria «fulgidissima» del Machiavelli «l'aver circoscritto nello Stato l'ambito della politica». Cosa voglia dire l'Azzalini non è facile da capire: egli riporta dal cap. III del Principe il periodo: «Dicendomi el cardinale di Roano che li italiani non si intendevano della guerra, io li risposi ch'e' Franzesi non si intendevano dello Stato» e su questa sola citazione basa l'affermazione che, dunque, per Machiavelli «la politica dovesse intendersi come scienza e come scienza dello Stato» e che fu sua gloria ecc. (il termine «scienza di Stato» per politica sarebbe stato adoperato, nel corretto significato moderno, prima di Machiavelli solo da Marsilio da Padova). L'Azzalini è abbastanza leggero e superficiale. L'aneddoto del cardinale di Roano, avulso dal testo, non significa nulla. Nel contesto assume un significato che non si presta a deduzioni scientifiche: si tratta evidentemente di un motto di spirito, di una battuta di ritorsione immediata. Il cardinale di Roano aveva affermato che gli italiani non si intendono di guerra: per ritorsione il Machiavelli risponde che i francesi non si intendono dello Stato, perché altrimenti non avrebbero permesso al Papa di ampliare il suo potere in Italia, ciò che era contro gli interessi dello Stato francese. Il Machiavelli era ben lungi dal pensare che i francesi non s'intendevano di Stato, perché anzi egli ammirava il modo con cui la monarchia (Luigi XI) aveva ridotto a unità statale la Francia e dell'attività francese di Stato faceva un termine di paragone per l'Italia. In quel suo discorso col cardinale di Roano egli fece della «politica» in atto e non della «scienza politica» poiché, secondo lui, se era dannoso alla «politica estera» francese che il Papa si rafforzasse, ciò era ancor piú dannoso alla politica interna italiana.

Il curioso è che partendo da tale incongrua citazione l'Azzalini continui che «pur enunciandosi che quella scienza studia lo Stato, si dà una definizione (!?) del tutto imprecisa (!) perché non si indica con che criterio debba riguardarsi l'oggetto dell'indagine. E la imprecisione è assoluta dato che tutte le scienze giuridiche in generale ed il diritto pubblico in particolare, si riferiscano indirettamente e direttamente a quell'elemento». Cosa vuol dire tutto ciò, riferito al Machiavelli? Meno di niente: confusione mentale.

Il Machiavelli ha scritto dei libri di «azione politica immediata», non ha scritto un'utopia in cui uno Stato già costituito, con tutte le sue funzioni e i suoi elementi costituiti, fosse vagheggiato. Nella sua trattazione, nella sua critica del presente, ha espresso dei concetti generali, che pertanto si presentano in forma aforistica e non sistematica, e ha espresso una concezione del mondo originale, che si potrebbe anch'essa chiamare «filosofia della praxis» o «neo-umanesimo» in quanto non riconosce elementi trascendentali o immanentici (in senso metafisico) ma si basa tutta sull'azione concreta dell'uomo che per le sue necessità storiche opera e trasforma la realtà. Non è vero, come pare credere l'Azzalini, che nel Machiavelli non sia tenuto conto del «diritto costituzionale», perché in tutto il Machiavelli si trovano sparsi principii generali di diritto costituzionale ed anzi egli afferma, abbastanza chiaramente, la necessità che nello Stato domini la legge, dei principi fissi, secondo i quali i cittadini virtuosi possano operare sicuri di non cadere sotto i colpi dell'arbitrario. Ma giustamente il Machiavelli riconduce tutto alla politica, cioè all'arte di governare gli uomini, di procurarsene il consenso permanente, di fondare quindi i «grandi Stati». Bisogna ricordare che il Machiavelli sentiva che non era Stato il Comune o la Repubblica e la signoria comunale, perché mancava loro con il vasto territorio una popolazione tale da essere la base di una forza militare che permettesse una politica internazionale autonoma: egli sentiva che in Italia, col Papato, permaneva una situazione di non-Stato e che essa sarebbe durata finché anche la religione non fosse diventata «politica» dello Stato e non piú politica del Papa per impedire la formazione di forti Stati in Italia intervenendo nella vita interna dei popoli da lui non dominati temporalmente per interessi che non erano quelli degli Stati e perciò erano perturbatori e disgregatori.

Si potrebbe trovare nel Machiavelli la conferma di ciò che ho altrove notato, che la borghesia italiana medioevale non seppe uscire dalla fase corporativa per entrare in quella politica perché non seppe completamente liberarsi dalla concezione medioevale-cosmopolitica rappresentata dal Papa, dal clero e anche dagli intellettuali laici (umanisti), cioè non seppe creare uno Stato autonomo, ma rimase nella cornice medioevale feudale e cosmopolita.

Scrive l'Azzalini che «basta [...] la sola definizione di Ulpiano e, meglio ancora, gli esempi di lui, recati nel digesto, [...] la identità estrinseca (e allora?) dell'oggetto delle due scienze: "Ius publicum ad statum rei (publicae) romanae spectat. – Publicum ius, in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit". Si ha quindi una identità d'oggetto nel diritto pubblico e nella scienza politica, ma non sostanziale perché i criteri con cui l'una o l'altra scienza riguardano la medesima materia sono del tutto diversi. Diverse infatti sono le sfere dell'ordine giuridico e dell'ordine politico. E per vero mentre la prima osserva l'organismo pubblico sotto un punto di vista statico, come il prodotto naturale di una determinata evoluzione storica, la seconda osserva quel medesimo organismo da un punto di vista dinamico, come un prodotto che può essere valutato nei suoi pregi e nei suoi difetti e che, conseguentemente, deve essere modificato a seconda delle nuove esigenze e delle ulteriori evoluzioni». Perciò si potrebbe dire che «l'ordine giuridico è ontologico ed analitico, perché studia ed analizza i diversi istituti pubblici nel loro reale essere» mentre «l'ordine politico, deontologico e critico perché studia i vari istituti non come sono, ma come dovrebbero essere e cioè con criteri di valutazione e giudizi di opportunità che non sono né possono essere giuridici».

E un tal barbassore crede di essere un ammiratore di Machiavelli e di esserne discepolo, magari, anzi, perfezionatore!

«Da ciò consegue che alla formale identità suddescritta si oppone una sostanziale diversità tanto profonda e notevole da non consentire, forse, il giudizio espresso da uno dei massimi pubblicisti contemporanei che riteneva difficile se non impossibile creare una scienza politica completamente distinta dal diritto costituzionale. A noi sembra che il giudizio espresso sia vero solo se si arresta a questo punto l'analisi dell'aspetto giuridico e dell'aspetto politico, ma non se si prosegue oltre individuando quell'ulteriore campo che è di esclusiva competenza della scienza politica. Quest'ultima, infatti, non si limita a studiare l'organizzazione dello Stato con un criterio deontologico e critico e però diverso da quello usato per il medesimo oggetto dal diritto pubblico, ma amplia la sua sfera ad un campo che le è proprio, indagando le leggi che regolano il sorgere, il divenire, il declinare degli Stati. Né vale raffermare che tale studio è della storia (!) intesa con significato generale (!), perché pur ammettendo che sia indagine storica la ricerca delle cause, degli effetti, dei mutui vincoli d'interdipendenza delle leggi naturali che governano l'essere e il divenire degli Stati, rimarrà sempre di pertinenza esclusivamente politica, non storica quindi, né giuridica, la ricerca di mezzi idonei per presiedere praticamente all'indirizzo generale politico. La funzione che il Machiavelli si riprometteva di svolgere e sintetizzava dicendo: "disputerò come questi principati si possano governare e tenere" (Principe, c. II) è tale per importanza intrinseca di argomento e per specificazione, non solo da legittimare l'autonomia della politica, ma da consentire, almeno sotto l'aspetto ultimamente delineato, una distinzione anche formale fra essa ed il diritto pubblico». Ed ecco cosa intende per autonomia della politica!

Ma, dice l'Azzalini, oltre una scienza, esiste un'arte politica. «Esistono uomini che traggono o trassero dall'intuizione personale la visione dei bisogni e degli interessi dei paesi governati, che nell'opera di governo attuarono nel mondo esterno la visione dell'intuito personale. Con ciò non vogliamo certamente dire che l'attività intuitiva e però artistica sia l'unica e la prevalente nell'uomo di Stato; vogliamo solo dire che in esso, accanto alle attività pratiche, economiche e morali, deve sussistere anche quell'attività teoretica sopraindicata, sia sotto l'aspetto soggettivo dell'intuizione che sotto l'aspetto oggettivo (!) dell'espressione e che, mancando tali requisiti, non può sussistere l'uomo di governo e tanto meno (!) l'uomo di Stato il cui fastigio è caratterizzato appunto da quella inacquistabile (?) facoltà. Anche nel campo politico, quindi, oltre lo scienziato in cui prevale la attività teoretica conoscitiva, sussiste l'artista in cui prevale l'attività teoretica intuitiva. Né con ciò si esaurisce interamente la sfera d'azione dell'arte politica che oltre all'essere osservata in relazione allo statista che colle funzioni pratiche del governo estrinseca la rappresentazione interna dell'intuito, può essere valutata in relazione allo scrittore che realizza nel mondo esterno (!) la verità politica intuita non con atti di potere ma con opere e scritti che traducono l'intuito dell'autore. È il caso dell'indiano Kamandaki (III secolo d. C.), del Petrarca nel Trattatello pei Carraresi, del Botero nella Ragion di Stato e, sotto certi aspetti, del Machiavelli e del Mazzini».

È veramente un bel pasticcio, degno del... Machiavelli, ma specialmente di Tittoni, direttore della «Nuova Antologia». L'Azzalini non sa orientarsi né nella filosofia, né nella scienza della politica. Ma ho voluto prendere tutte queste note per cercare di sbrogliarne l'intrigo e vedere di giungere a concetti chiari per conto mio.

È da distrigare, per es., ciò che può significare «intuizione» nella politica e l'espressione «arte» politica, ecc. – Ricordare insieme alcuni punti del Bergson: «L'intelligenza non ci offre della vita (la realtà in movimento) che una traduzione in termini di inerzia. Essa gira tutt'attorno, prendendo dal di fuori il piú gran numero possibile di vedute dell'oggetto che essa attira presso di sé invece di entrare in esso. Ma nell'interno stesso della vita ci condurrà l'intuizione: intendo dire l'istinto divenuto disinteressato». «Il nostro occhio percepisce i tratti dell'essere vivente, ma avvicinati l'uno all'altro, non organizzati tra loro. L'intenzione della vita, il movimento semplice che corre attraverso le linee, che le lega una con l'altra e dà loro un significato, gli sfugge; ed è questa intenzione che l'artista tende ad affermare collocandosi nell'interno dell'oggetto con una specie di simpatia, abbassando con uno sforzo di intuizione la barriera che lo spazio pone fra lui e il modello. È vero però che l'intuizione estetica non afferra che l'individuale». «L'intelligenza è caratterizzata da una incomprensibilità naturale della vita poi che essa non rappresenta chiaramente che il discontinuo e l'immobilità». Distacco, intanto, dell'intuizione politica dall'intuizione estetica, o lirica, o artistica: solo per metafora si parla di arte politica. L'intuizione politica non si esprime nell'artista, ma nel «capo» e si deve intendere per «intuizione» non la «conoscenza degli individuali» ma la rapidità di connettere fatti apparentemente estranei tra loro e di concepire i mezzi adeguati al fine per trovare gli interessi in gioco e suscitare le passioni degli uomini e indirizzare questi a una determinata azione. L'«espressione» del «capo» è l'«azione» (in senso positivo o negativo: scatenare un'azione o impedire che avvenga una determinata azione, congruente o incongruente col fine che si vuol raggiungere). D'altronde il «capo in politica» può essere un individuo, ma anche un corpo politico piú o meno numeroso, nel qual ultimo caso la unità d'intenti sarà raggiunta da un individuo o da un piccolo gruppo interno e nel piccolo gruppo da un individuo che può mutare volta a volta pur rimanendo il gruppo unitario e coerente nella sua opera continuativa.

Se si dovesse tradurre in linguaggio politico moderno la nozione di «Principe», cosí come essa serve nel libro del Machiavelli, si dovrebbe fare una serie di distinzioni: «principe» potrebbe essere un capo di Stato, un capo di governo, ma anche un capo politico che vuole conquistare uno Stato o fondare un nuovo tipo di Stato; in questo senso «principe» potrebbe tradursi in lingua moderna «partito politico». Nella realtà di qualche Stato il «capo dello Stato», cioè l'elemento equilibratore dei diversi interessi in lotta contro l'interesse prevalente, ma non esclusivista in senso assoluto, è appunto il «partito politico»; esso però a differenza che nel diritto costituzionale tradizionale né regna, né governa giuridicamente: ha «il potere di fatto», esercita la funzione egemonica e quindi equilibratrice di interessi diversi, nella «società civile», che però è talmente intrecciata di fatto con la società politica che tutti i cittadini sentono che esso invece regna e governa. Su questa realtà che è in continuo movimento, non si può creare un diritto costituzionale, del tipo tradizionale, ma solo un sistema di principii che affermano come fine dello Stato la sua propria fine, il suo proprio sparire, cioè il riassorbimento della società politica nella società civile.