CAVOUR, Camillo Benso conte di

 

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di Ettore Passerin d'Entrèves

Nacque a Torino il 10 ag. 1810, secondogenito di Michele e Adele de Sellon, nell'avito palazzo nel quale convissero a lungo quattro famiglie componenti un vero clan, dominato dalla figura della energica nonna paterna, la marchesa Filippina di Cavour nata de Sales. Il giovane C. avrebbe detto un giorno che essa poteva intenderlo, perché era stata sempre "un po' giacobina" (Berti, Ilconte di C., pp. 21 s.). In realtà i Cavour si erano adattati all'ambiente aulico, nel clima dell'amalgame napoleonico espresso in Piemonte dapprima dal gen. Menou, e meglio ancora dal principe C. Borghese, presso il quale il marchese Michele ottenne incarichi di fiducia. Ma il C. crebbe poi nel clima più angusto della Restaurazione, di fronte al quale suo padre rivelava un'adattabilità estrema.

Nell'aprile del 1820 fu fatto entrare nella Regia militare accademia, dove fu relativamente "protetto" dal comandante e direttore generale degli studi, cavalier C. Saluzzo, amico di famiglia.

Una certa insofferenza per la disciplina impostagli, che non escludeva un forte desiderio di affermarsi, creò non lievi problemi all'allievo ed ovviamente anche ai superiori. Già affiorano elementi contrastanti nel suo carattere, ed in specie quell'"eccesso di volontà" di cui farà cenno il cugino W. De La Rive nella sua biografia, non senza rievocarne anche "l'espressione amabile, gaia, dolcemente luminosa" che ne costituiva il fascino. Accanto a questo, uno spirito di contraddizione che era anche il segno di "indipendenza di giudizio, rifiuto di piegarsi a norme e valori ricevuti" (Romeo, Cavour, I, p. 200). In una relazione su di un "passeggio militare" del C. tredicenne si trova già, ad esempio, un accenno ai valdesi "qui ont tant souffert pour leur religion" (Tutti gli scritti, I, p. 5). Più congeniali furono gli studi di matematica, nei quali rivelò, fin dai quindici-sedici anni, un notevole talento. Un gruppo di scritti del C. diciottenne mostrano un ingegno e una cultura pressoché eccezionali in tal campo (cfr. nota introduttiva a Tutti gli scritti, I, p. XXI).

Nel 1824 il padre gli ottenne l'iscrizione fra i paggi di corte del principe di Carignano, e ciò riuscì sgradito al C., tanto che manifestò pubblicamente il suo disagio, e poi la sua gioia di lasciare quella "livrea da gambero", provocando l'ira del Carignano ("le petit C. a fait 19 Jacobin et je l'ai mis á la porte": 31 dic. 1826): Carlo Alberto avrebbe voluto anche le sue dimissioni dal grado di sottotenente, conquistato nell'agosto 1826. Concluse tuttavia il corso in Accademia, e percorse vari itinerari fra il Piemonte, la Savoia e la Riviera di Ponente, quale ufficiale del genio, addetto a lavori di fortificazione. Poté far brevi soggiorni a Ginevra, nel '27 e nel '29, riprendendo più diretti contatti con i parenti e con uno dei centri più vivi della cultura europea.

Gli anni fra il '26 e il '29 sono quelli in cui rivela tutte le sue inquietudini, ed esprime una finale, accorata protesta contro le critiche mossegli nello stesso ambito familiare: in una lettera scritta al fratello Gustavo, da Ventimiglia, il 30 nov. '28, rifiutava di scusarsi per colpe inesistenti. Non poteva rinuniare ad un "sentiment inné de dignité morale", per scivolare nell'opportunismo, o fingere dei sentimenti che non provava, camminando "sous les bannières de l'absolutisme". Perciò non voleva dissociarsi dall'amico S. Cassio, che condivideva le sue idee. Invocava, fra l'altro, l'autorità di un liberale dottrinario francese, Royer-Collard (Epist., I, pp. 60-63). Seguiva dunque già con attenzione gli sviluppi della cultura e della lotta politica d'oltralpe, tanto da prevedere, fin dal 1828, la probabile liquidazione dell'eredità del Villèle e della "faction contre-révolutionnaire". Discuteva sui problemi della pace europea con lo zio J.-J. de Sellon, contestando la possibilità di un esito positivo dell'azione di tribunali o congressi internazionali, finché perdurava in Europa il contrasto tra i "partisans des lumières" "e i "fauteurs de l'obscurantisine", e ricordando che la "Sainte-Alliance a fait fermer l'école de Mr. Comte à Lausanne" (Epist., I, pp. 74-78: 5 marzo '28). Accettava, commentando il primo libro del Traité de législation del Bentham, inviatogli dallo stesso zio, la tesi che le riforme positive dovessero sostituire ogni appello a un indefinito diritto di natura, ed accettava il "principe de l'utilité", che riteneva conciliabile col Vangelo cristiano (Epist., I, pp. 90 ss.: 29 nov. 1829).

S'infittivano, nei suoi zibaldoni di quel tempo, le osservazioni polemiche contro ognipassivo conformismo: sul terreno religioso invocava Lessing a favore d'un progressivo arricchimento del cristianesimo, e A. Smith per la sua previsione d'un attenuarsi delle controversie confessionali. Sul terreno politico, rilevava le implicazioni liberali del pensiero dei maggiori economisti della scuola classica, da Smith a Malthus e Ricardo (Tutti gli scritti, I, pp. 59 ss., 181). Citava ampi brani delle famose lezioni del Guizot sulla civiltà europea, ed opere di B. Constant, della Stael, di Sismondi; stendeva un Journal de la Révolution piémontaise del '21, utilizzando varie fonti (ibid., pp. 69 ss.).

La "crisi razionalistica" (Ruffini) del giovane C., rivelata da due famose lettere del '29 (Epist., II, pp. 5 s., 9 s.), si accentuò, senza dubbio alcuno, quando il moto francese del luglio 1830 venne ad acuire i furori degli ultras da cui era circondato a Torino nello stesso clan familiare. Ma contarono qualcosa anche i contatti avuti con gruppi radicaleggianti a Genova, dove era stato inviato, per servizio, proprio nella primavera del '30. Frequentò il salotto della "ribelle" Nina Giustiniani, a cui restò legato sentimentalmente per più di quattro anni. Si sapeva sorvegliato, e comunque le più assidue letture di giornali inglesi e di autori francesi non paiono averlo trascinato allora verso tesi democratiche. Anzi, egli giunse a respingere con lo stesso impegno gli eccessi d'un rinato giacobinismo e quelli d'una "classe aristocratique" che, ben lungi dall'aprire gli occhi, gli pareva "inferocita" (a J.-J. de Sellon, 5 febbr. '31: Epist., II, pp. 15 s.): soltanto le classi medie comprendevano, per quanto notava il C., il senso positivo del moto francese.

Deciso a staccarsi dai vili "courtisans", chiese al padre che gli desse modo, lasciato l'esercito, di occuparsi dell'amministrazione dei beni familiari. Atteggiamento di rinuncia, come è stato notato, ma che non escludeva le speranze in una "guerre italienne", in un più vivace appoggio, da parte dei liberali inglesi, alla causa della libertà italiana (specie per i "compatriotes de la Romagne e lett. al Brockedon, del '32: Epist., II, pp. 25 ss.). Nel 1832 il padre, temendo forse anche le conseguenze che sarebbero derivate dai rapporti tosto instaurati tra il figlio e P. de Barante, inviato della monarchia orleanista a Torino ed esponente del gruppo liberale dottrinario, certo sgraditi al nuovo re Carlo Alberto, gli affidava lo auspicato compito agricolo-amministrativo, a Grinzane, presso Alba.

Il C. però continuava a coltivare, accanto alla vigna e alle barbabietole, le sue idee benthamiste, il suo liberalismo iuste-milieu, le sue amare riflessioni sugli spergiuri di Carlo Alberto (Tutti gli scritti, I, p. 145). Ilpadre lo avrebbe pure spinto, nel '34, a fornire all'incaricato di affari inglese a Torino, Foster, un rapporto sul problema della mendicità in Piemonte, in collegamento con le indagini ordinate dal Foreign Office per la grande inchiesta intorno alle leggi sui poveri annunziata dal governo whig nel '32. Con questo primo, lavoro economico-sociale, pubblicato con altre relazioni dall'estero in una apposita sezione della citata inchiesta, il C. usciva da uno stato di depressione, di scoraggiamento, al quale avevano contribuito le delusioni del '30-31 e le repressioni dei tentativi mazziniani del '31in cui, pur senza guardare con simpatia ai congiurati, vedeva un sintomo della profonda crisi del regime carlo-albertino, debole e crudele (Diario, agosto-ottobre 1833,in Romeo, I, pp. 392 s.).

La sua attenzione si concentrò in quegli anni sul tema della "carità legale", e più specialmente sulla riforma inglese della Poor Law, sulla quale stendeva una relazione riassuntiva del Report originale - redatto dal Senior - pubblicata poi anonima in poche copie a Torino, nel '35. Oltre a suscitare una discussione fra colti liberaleggianti, sulla Gazzetta piemontese (recens. di C. Balbo) e sugli Annali universali di statistica di Milano (recens. di G. Giovanetti), e un benevolo giudizio di N. W. Senior, il C. poteva aver la sensazione di trovarsi in sintonia colla corrente riformistica che emergeva nel torpido mondo subalpino grazie al Pralormo, ministro dell'Interno (a G. Nomis di Pollone, del '37: Epist., I, pp. 286 s.).

Malgrado le vivacissime puntate anticlericaliche costellano il diario e gli zibaldoni giovanili del C. degli anni '30 - più illuminista che cristiano -, un filone di religiosità laica si muove nella sua mente, e, lo induce a biasimare un amico "qui ne tient aucun compte du sentiment religieux" (Diario, 1888, agosto '33, p. 11), a parlare della "marche des idées religieuses" come del "grand mystère du siècle" (ad A. De La Rive, 23 dic. '35: Epist., I, pp. 235-238).Mentre dogmi e sistemi filosofici si esauriscono, restano vivi i problemi dell'etica sociale, in rapporto ai quali il cristianesimo ha ancora una missione da svolgere, e la "bienfaisance" ne rappresenta l'aspetto laico: nel '36 poneancora l'alternativa tra la "influence de la charité" e la "action de la force matérielle" nei rapporti fra benestanti e "classes malheureuses" (a J.-J. de Sellon, Epist., I, p. 253), con riferimento all'opera di F.-M. L. Naville De la charité légale, allora edita, alla quale peraltro mosse poi forti riserve.

Nel grande viaggio d'istruzione fatto insieme con il nipote di S. di Santarosa, Pietro, nei primi sei mesi del '35, visitando, dopo una sosta a Ginevra, Parigi, Londra e alcune altre città inglesi, Bruxelles e altre città del Belgio (a Bruxelles incontrò Gioberti), e percorrendo poi la Renania, l'idea d'uno studio comparativo sui problemi della pubblica assistenza è sempre viva nel C., e spiega la sua intensa curiosità per ogni istituzione di tal tipo, carceri incluse. Ma non minore è l'interesse per i dibattiti parlamentari, allora in corso, a Parigi e a Londra, e mentre a Parigi si conferma nel suo indirizzo juste-milieu, a Londra assume come modello R. Peel, tanto da auspicare che sotto la sua guida si formi un ministero "qui réunirait toutes les nuances des opinions réformistes, mais raisonnables" (a P. de Barante, 9 giugno 1835: Epist., II, pp. 44-50: benché troppo ottimistico, il quadro della situazione politico-sociale inglese rivela l'acutezza del giovane osservatore).

Tornato in patria, ottenne dal padre incarico di amministrare i beni familiari attorno a Leri, nel Vercellese (novembre '35), e s'occupò pure (dal '37) del patrimonio della zia Vittoria, vedova. del duca di Clermont-Tonnerre, compiendo frequenti viaggi in Francia, e assumendo il volto dell'uomo d'affari, se non dello speculatore (anche in proprio, talora), giocando su amicizie preziose, come quella dei banchieri De la Rüe, ginevrini fissati da tempo a Genova, mentre il padre era assorbito da nuovi compiti, come vicario di polizia a. Torino. La passione politica, a cui si aggiunge l'entusiasmo "progressista" per le costruzioni ferroviarie, provocherà anche forti perdite al C., che gioca in Borsa, al ribasso, nell'ipotesi di una guerra ideologica della Francia liberatrice di patrie, nel '40. Più gli costò il dissesto della società ferroviaria Savoyarde: ma fu una lezione preziosa.

Dopo il '40 il C. era ormai in grado di affermarsi come innovatore agricolo, specie nel campo dei concimi e delle tecniche agricole, ispirate a modelli inglesi, e fra breve polemizzerà come "uomo di pratica" contro i teorici dei "poderi modello" sul giornale dell'Associazione agraria subalpina, fondata nel 1842. Nel '43 avrebbe pubblicato sulla Bibliothèque universelle de Genève un saggio sui Voyages agronomiques dello Châteauvieux, con spunti autobiografici. Il cugino A. De La Rive, che dirigeva la rivista, avrebbe ottenuto ancora da lui, nel '44, un saggio sulle condizioni dell'Irlanda (in cui l'ottimismo riformistico è spinto all'estremo: Tutti gli scritti, II, pp. 797 ss.) e uno studio sulla "legislazione commerciale inglese sul commercio dei grani" (1845), che costituiva una ragionata apologia della riforma in senso liberista, appoggiata a una vasta conoscenza delle dispute pro e contro le tesi smithiane e ad un'acuta analisi storica. Tradotto anche in italiano negli Annali universali di statistica, il saggio ebbe una vasta eco (Tutti gli scritti, II, pp. 837-894). Nell'anno successivo, le speranze del C. sulla vittoria dell'"Anti-Corn-Law League" si sarebbero realizzate.

Un più lungo soggiorno a Parigi, nel '43 gli aveva permesso di rinsaldare i legami con uomini e gruppi a lui più vicini in quella che considerava la "capitale intellettuale" d'Europa. Il salotto dei Circourt gli permetteva di valutare anche il peso di correnti conservatrici: v'incontrava il barone d'Eckstein, e anche dei legittimisti, ma le sue simpatie andavano ad altri ospiti del salotto, come il duca di Broglie, il Jouffroy (cui faceva pervenire un lavoro inedito del fratello Gustavo). Non condivideva l'apprezzamento positivo della Circourt per un famoso opuscolo del gesuita Ravignan. Per contro aveva valutato, fin dal '40, il peso di un nuovo partito, "religieux et libéral", che prendeva forza nel clero francese (a P. di Santarosa, in Epist., I, pp. 468 ss.) e dopo aver ascoltato l'abate Coeur, nel '43, giungeva a dirsi fiducioso nella "alliance des principes catholiques avec le dogme du progrès social" (allo stesso, ibid., II, pp. 372-378). Temeva peraltro l'accostarsi del Gioberti ai gesuiti (ibid., p. 381). L'eventuale affermarsi d'un "parti catholique" destava insomma in lui sentimenti contrastanti: non ammetteva comunque che si togliesse al clero di "entrer en lice librement avec l'Université", che in Francia esercitava il monopolio dell'insegnamento (a P.-E. Maurice, ibid., III, pp. 90 s.).

Non è privo di rilievo il fatto che il problema nazionale italiano venga affrontato direttamente dal C. solo nel '46, in un articolo di commento all'opera di I. Petitti, del '45, di cui ricalcava il titolo: Des chemins de fer en Italie. Il C.politicizzava il tema, attribuendo i "malheurs de l'Italie" alla "influence politique que les étrangers exercent depuis des siècles parmi nous".

Le rivalità e "antipatie" tra le varie "fractions de là grande famille italienne" si sarebbero presto attenuate, quando un fitto interscambio, e più intensi rapporti personali, fossero stati instaurati con una rete ferroviaria nazionale. Poneva sotto accusa anche le "passioni demagogiche" e le dottrine "sovversive" della Giovine Italia, rivendicando alla corrente moderata, di cui C. Balbo si era fatto portabandiera, il compito di guidare l'Italia verso l'"emancipazione". In una lettera al Cousin del 4febbr. 1846,dava rilievo a questa tesi, che avrebbe dovuto servire da contrappeso a quella esposta da G. Ferrari sulla Revue des Deux Mondes, nel '44 (Epist., III, p. 274).Ma la rivista non volle accogliere l'articolo del C., che uscì invece sulla Revue nouvelle, ed anche in estratto (cfr. Tutti gli scritti, II, p. 931 n.).

Nel 1847 finalmente riusciva a stendere in italiano - lingua che usava con fatica - uno scritto sull'influenza che la riforma della politica commerciale inglese, in senso liberista, avrebbe avuto in Europa e in Italia. Accoglieva così l'esortazione del Balbo, che avrebbe riveduto tale scritto (cfr. Tutti gli scritti, II, p. 971 n.), e completava l'acuta analisi svolta nel citato studio del '45.

Pur entrando così nel circolo dei liberali moderati, che collaboravano all'Antologia italiana del Predari, dette l'impressione di volersi opporre puntigliosamente alle tesi dei "progressisti" in seno all'Associazione agraria subalpina, in alcuni articoli usciti sulla gazzetta della società (cfr. Tutti gli scritti, II, p. 895 n.). La sua passionalità traspare del resto da un brano di lettera citato dall'amico Salmour (Cart. C.-Salmour, p. 24). Per di più egli era sospetto come figlio di un personaggio impopolare e come amico del marchese C. Ferrero della Marmora, regio commissario (o quindi "controllore") presso l'Associazione (Tutti gli scritti, II, p. 895 n.).

Era sostanzialmente difficile, al C. di quegli anni, sfuggire all'immagine (che talvolta lo opprimeva) di un ricco figlio di famiglia, legato al suo clan, ad una vita mondana di aristocratico o di alto-borghese (si pensi alla fondazione della Società del Whist, nel 1841), anche se egli emergeva progressivamente, di fronte agli occhi di osservatori esperti, come il ginevrino J.-E. Naville, per una "capacità imprenditoriale" (Romeo, II, 1, p. 185)nella quale si giovava delle molteplici relazioni col mondo francese, ginevrino, ligure-piemontese e savoiardo. Può darsi, peraltro, che i maggiori successi da lui ottenuti nelle iniziative bancarie, specie con l'istituzione della Banca di Torino, nel '47,suscitassero in ambienti democraticheggianti ulteriori sospetti sulle sue inclinazioni - diciamo così - a speculare. Tali iniziative ci inducono anche a sottolineare i legami da lui contratti con i personaggi più rilevanti del mondo finanziario torinese e ligure (si può vedere l'importante Mémoire collettivo pubblicato ora in Tutti gli scritti, II, pp. 957-969, nel quale vien sottolineato il fatto che l'iniziativa torinese non avrebbe recato danno alla Banca di Genova, già costituita nel 1844).Si può rilevare infine che le molteplici attività del C., fra banca industria e agricoltura, si traducono in un crescente ampliamento di orizzonti, che comporta, ad un tempo, una più adeguata presa di coscienza dei limiti della politica "liberale" del governo francese (in specie del Guizot, che ne era il principale responsabile), e del crescente contrasto tra le velleità "italianiste" e vagamente riformatrici di Carlo Alberto e l'indirizzo retrivo da lui seguito nella politica interna. Non è possibile fare il liberale, avrebbe scritto nell'ottobre del '47,al di là del Ticino "et vouloir comprimer tout mouvement en deça de ce fleuve" (al Costa de Beauregard, in Romeo, II, 1, p. 259).

Il C. poteva intravvedere, in tal senso, lo spiraglio attraverso il quale penetrare in un terreno fin allora precluso, date le diffidenze che destava sia fra i liberali più avanzati sia fra i fedeli servitori del regime carloalbertino. Le riforme, del 30 ott. 1847 inducevano il gruppo moderato torinese, del quale il Balbo restava idealmente la guida, a fondare un giornale politico, di cui il C. sarebbe stato il vero animatore, e che si sarebbe intitolato Il Risorgimento. Già nel primo numero, uscito il 15 dicembre, il C. dava grande rilievo al nesso tra risorgimento politico e risorgimento economico, tra liberalismo e liberismo. Nel gruppo promotore del nuovo giornale era rappresentato anche l'ambiente finanziario torinese: si potrebbe tuttavia notare che le tesi liberistiche del C. non esprimevano propriamente le esigenze di un determinato gruppo, ed in specie potevano riuscir sgradite a settori produttivi e del commercio cui giovavano le misure protezionistiche (come risulta dalla bella analisi contenuta in una lettera del C. a P. de Sales, del maggio 1847, edita da P. Guichonnet in C. agronomo e uomo d'affari, Milano 1961, p. 221).

Quando ancora Carlo Alberto dibatteva, tormentosamente, con i suoi incerti consiglieri sul da farsi, il C. notava sul Risorgimento, il 7febbr. 1848, che il re non poteva lasciare il suo paese "privo d'istituzioni deliberative", quando Firenze e Napoli ormai ne erano state dotate. Dopo il proclama reale dell'8 febbraio, pubblicava una serie di articoli sulla legge elettorale, intesi a sciogliere le residue apprensioni dei conservatori, ma tendeva anche a confutare la tesi di coloro che, nella Sinistra, avevano progettato di "fondare sulle istituzioni municipali una Costituzione ultra democratica" (lettera al Giovanetti: Romeo, II, I, p. 291). Va notato che mentre per il C., che aveva difeso la soluzione costituzionale prima di quasi tutti i leaders liberali o democratici, l'autorità monarchica non aveva altro mezzo per rafforzarsi, per Carlo Alberto la concessione si era presentata come un cedimento, anzi quasi come una mezza abdicazione. A malincuore, il re si affidò al liberali moderatissimi del gruppo del Risorgimento:Balbo avrebbe presieduto il primo ministero costituzionale, e il C. sarebbe stato l'anima della commissione elaboratrice d'una legge elettorale, ovviamente moderata.

Fin dal 4 febbraio il C. aveva dedicato un articolo a dissipare i "vani timori dei sinceri, ma timidi amici del progresso": il "risorgimento italiano" non sarebbe stato "ostile alla Chiesa", poiché era "benedetto da un pontefice", promosso da "piissimi prìncipi", sostenuto anche dalla maggior parte del clero; non trovava ostile il patriziato, né impreparati i popoli. Quando scriveva queste parole, il moto francese non costituiva ancora per lui uno spauracchio: più tardi, avrebbe dedicato diversi articoli alla rivoluzione di febbraio, dapprima in tono sereno (6 marzo: Tutti gli scritti, III, pp. 1110 ss.), poi via via sempre più preoccupato, e dominato dalla pregiudiziale avversione contro azzardati esperimenti sociali. Ma ciò non gli impediva di lodare, il 19 maggio, il nuovo regolamento dell'Assemblea nazionale francese, né di valutare realisticamente, il 23 maggio, i rischi a cui la Francia si sarebbe esposta muovendo verso la Polonia, per liberarla, "contro il manifesto volere dei popoli germanici". Prospettava così, senza ambagi, la difficoltà di contemperare insieme le spinte dei diversi, movimenti nazionali. La prova dei fatti era crudele anche all'interno di un movimento nazionale come l'italiano. Di fronte alle esigenze esorbitanti della battagliera Milano il C. sarebbe divenuto presto un difensore della sua Torino, città "monarchica". Non va dimenticato peraltro che il Risorgimento non si era lasciato sopravanzare dai giornali democratici nell'esortare Carlo Alberto ad una "guerra immediata", col famoso articolo cavouriano su L'ora suprema della monarchia del 23 marzo. Si trattava di una scelta temeraria, ma necessaria, poiché "Milano è assediata [e] ad ogni costo bisogna andare a soccorrerla". L'articolo si concludeva con un caratteristico appellò all'Inghilterra, "primogenita della libertà", perché non assistesse passiva alla lotta per la libertà dei popoli. È significativa l'omissione d'ogni accenno a un aiuto francese.

Anche dopo l'inizio della guerra nazionale, le questioni interne non lo distolgono da un'attenta analisi comparativa tra le situazioni politiche e istituzionali dei vari paesi liberi d'Europa - ed anche l'esempio della Confederazione, americana viene invocato, in un articolo del 26 giugno, sul compito d'una Assemblea costituente - per esorcizzare progetti che porterebbero ad imporre "il ferreo giogo d'una nuova Convenzione" sul nuovo Regno italico (Tutti gli scritti, III, p. 1279). Si rallegra del trionfo, del "partito dell'ordine" in Francia (30 giugno) e più tardi anche del "gran fatto" dell'elezione "a immensa maggioranza" del suo candidato, Luigi Bonaparte, certo che questi riuscirà a "spegnere i germi d'anarchia che da un anno travagliano quel paese" (21 febbr. '49).

Gli scacchi militari, la crisi generale del piano di guerra regia e federale, che svelarono l'insufficienza degli uomini e delle idee guelfo-moderate, non portarono il C. a dubitare delle strutture portanti dello Stato sabaudo, ed in specie dell'esercito. Fin dal 24 apr. 1848 criticava però sul Risorgimento i mancaticambiamenti nella composizione dello Stato Maggiore dell'esercito (Tutti gli scritti, III, p. 1252). Entrò poi alla Camera, come deputato di un collegio di Torino, con le elezioni suppletive del giugno. Ebbe in quei mesi non poche amarezze - prima fra tutte la morte sul campo del nipote Augusto,a Goito - che lo portarono a un atteggiamento misoneistico.

Dopo l'armistizio Salasco (5 agosto) recò un contributo prezioso, sul piano finanziario, all'opera del ministero Alfieri di Sostegno, che cercava di uscire dalla stretta, coi decreti del 7 settembre (coi quali si stimolò pure la fusione tra le banche di Genova e di Torino: Romeo, I, p. 358). Ma spostandosi più a destra con l'avvento al potere dei democratici, verso la fine del '48 il C. si trovò investito da. una campagna di vera e propria denigrazione da parte degli avversari, del resto quasi volutamente provocata con certi suoi atteggiamenti. La sua candidatura cadde, nelle elezioni del gennaio '49.

Tra il febbraio e il marzo il C. vide in La Marmora l'unico possibile "salvatore", prima sul terreno militare, poi anche su quello della resistenza all'offensiva rivoluzionaria, che pareva prender consistenza all'indomani della sconfitta di Novara con la rivolta di Genova, domata appunto da La Marmora (aprile '49). Il furore antigiacobino lo avvicinò più che mai alla Destra piemontesista (Romeo rievoca l'ironia del Brofferio: II, 1, p. 375).

Rientrato alla Camera per il collegio di Torino I con le nuove elezioni del luglio '49, riprese animo. Rifiutò una missione diplomatica a Londra, propostagli dall'Azeglio, perché gli parve di "essere più utile al ... paese in Patria e nel Parlamento che in Londra" (ad A. Bixio: in Romeo, II, 1, p. 397). Nel novembre osò dichiarare che era possibile evitare lo scioglimento della Camera e il famoso proclama azegliano di Moncalieri, ma tornò poi a considerare utopistica la conciliazione che aveva desiderato, come risulta da un articolo sul Risorgimento del 28 novembre del 1849.

Nella nuova Camera ebbe un ruolo rilevante: appoggiò Siccardi, che era divenuto guardasigilli nel ministero azegliano, e che promosse, alzando un'insegna, anticoncordataria, le prime riforme ecclesiastiche, partendo dall'abolizione del foro privilegiato. Il noto episodio del rifiuto dei sacramenti al morente ministro P. di Santarosa, che portò all'arresto del l'arcivescovo Franzoni, stimolò il suo spirito polemico (art. del 7 ag. 1850 sul Risorgimento).

Il2 luglio il C. aveva esposto, in polemica con la Sinistra, le sue idee sulla necessità d'un "nuovo sistema di finanza", proponendo varie misure in campo tributario e amministrativo e asserendo che la ricchezza nazionale doveva crescere proprio attraverso più equilibrati e drastici prelievi di tributi. Appena entrato a far parte del ministero azegliano, come ministro dell'Agricoltura, Commercio e Marina, nell'ottobre del '50, ribadì la sua tesi sull'urgenza della riforma del sistema amministrativo e propose l'istituzione di una nuova Camera dei conti. In un discorso del 20 febbr. '51 alla Camera difese la tassa sulle successioni in linea diretta, e quindi, a più riprese (arriviamo fino al 1° marzo 1858, se lo seguiamo su questa via), i trattati di ispirazione liberista che via via propose.

Il 19 apr. 1851 riuscì a sbalzar di sella l'onesto banchiere G. Nigra, assumendo l'interim al dicastero delle Finanze. Provò subito la sua maggior capacità nell'esposizione della politica finanziaria del ministero svolta alla Camera l'8 maggio. Fra il maggio e il giugno ebbe parte preminente nel dibattito sulla riforma generale delle tariffe doganali. Si approvarono pure, in tal periodo, vari trattati commerciali, e l'abolizione del porto franco di Nizza. Più lunghe e ardue le negoziazioni per, una convenzione addizionale con la Francia, in cui il C. si giovò della "conversione" al liberismo del principe presidente (Romeo, I, p. 473).

Occorre dar rilievo anche agli scacchi che subì nella sua politica economica e tributaria, e che rivelano la tenace resistenza di un'intera classe dirigente, o meglio di ambienti misoneisti (lo Stato sabaudo era spezzato in minori "patrie", ed in "corpi" e ceti adusi a particolari situazioni di privilegio). Anche la ricordata riforma amministrativa, proposta col disegno di legge del 5 maggio '52, restò in buona parte disattesa. In questo clima, e di fronte all'offensiva reazionaria internazionale, il C. concepì il disegno di allargare il fronte liberale, e di spezzare il cerchio del "partito aristocratico" a cui pareva ancora troppo legato, anche socialmente (lo nota il Castelli nei suoi Ricordi). Revel ironizzò subito sul "connubio", ma questa reazione negativa al grande discorso che il C. pronunciò alla Camera il 5 febbr. 1852 - dichiarando a nome del ministero che non si sarebbe dato un senso più restrittivo alle misure previste nel progettodi legge sulla stampa, e che si sarebbe accettato l'appoggio del leader del centrosinistra, Rattazzi - fu condivisa dal presidente del Consiglio e da quasi tutto il gruppo del Risorgimento. La mediazione del C. giovò a far passare il progetto di legge (10 febbraio) e provocò anche quel rimpasto del ministero, nel quale egli si vide promosso titolare delle Finanze, di cui già aveva l'interim (27 febbraio).

L'ascesa del Rattazzi alla presidenza della Camera fece aggravare la tensione fra il C., l'Azeglio e gli "azegliani". Si aprì una crisi ministeriale (16 maggio), e si formò un nuovo ministero Azeglio, da cui il C. restò ovviamente escluso. Il re giocò contro il C. le sue carte (Romeo, II, 2, pp. 584-593). Nell'interludio, riuscì a riprender contatto con gli ambienti politici inglesi e francesi. Si persuase che il Piemonte era meno isolato che cinque mesi prima, e spinse la sua audacia fino a chiedere un incontro col principe presidente, assieme al Rattazzi, accreditando così il connubio, che pareva pericoloso alla diplomazia francese. Senza ignorare i lati oscuri del regime bonapartista, il C. svelava la sua adattabilità estrema, paragonabile (salvi i principi) a quella del padre. A Parigi, del resto, aveva visto anche il repubblicano Manin. Quando poi, nell'ottobre, il re venne ai ferri corti, coll'Azeglio per la proposta di legge sul matrimonio civile a lui sgradita, il C. si trovò nuovamente candidato, anziché ad un Posto ministeriale, addirittura alla presidenza del Consiglio. Il sovrano poneva tuttavia come condizione che fosse ritirata la legge - ma il C. rifiutò - e che si avviassero trattative con la S. Sede. Il C. accettò di formare un ministero, il 2 novembre, soltanto dopo che il re ebbe sperimentato l'impossibilità di una soluzione Balbo-Revel: si prestò anche ad un compromesso per il matrimonio civile, ed accolse nel nuovo gabinetto, per volere del re, Dabormida agli Esteri, La Marmora alla Guerra, e Cibrario (che passò dalle Finanze all'Istruzione). Restarono inoltre altri componenti del precedente ministero: Bon Compagni alla Giustizia, Paleocapa ai Lavori Pubblici, mentre agli Interni trovò posto San Martino. Il C. tenne per sé le Finanze, con la presidenza del Consiglio.

Non era un taglio netto col passato, tutt'altro; eppure alla Destra più conservatrice parve un passo verso la rivoluzione. Anche di fronte all'accennata resistenza dell'establishment "carloalbertino" (specie nell'esercito, nella burocrazia, nella diplomazia), egli ricorse a compromessi, non meno dell'Azeglio. Per le riforme nel campo tributario occorreva anche far fronte ad opposizioni nelle zone critiche: in Savoia, a Genova, dove agivano forze che si potrebbero definire, sia pur con accezioni diverse, centrifughe. Perciò il C. giunse a far l'elogio del "sistema di transazione", per la legge sull'imposta a carico del reddito personale e mobiliare, nel marzo del '53. Abbandonò anche il tentativo d'introdurre un'imposta sulla rendita ispirata al modello inglese.

L'audacia cavouriana si rivelò nella politica di promozione del commercio e dell'industria, e delle vie e mezzi di trasporto. Più del 10% del bilancio fu impegnato, in un periodo di congiuntura'sempre meno favorevole, a sviluppare le infrastrutture dello sviluppo: cioè in contributi per costruzioni di ferrovie, di strade, per sussidi a compagnie di navigazione. La Sardegna, in specie, fu "ravvicinata", affine, al regno al quale dava il nome. Il capitale privato fu stimolato appunto, con tali incoraggiamenti, a entrare in nuove imprese (a Genova nacquero gli stabilimenti Ansaldo, ecc.). Si trattava comunque d'una politica economica complessa, che destava diffidenze sia nei liberisti puri - come il Ferrara, o come C. I. Giulio - sia nei conservatori routiniers, che notarono il pericolo dell'eccessiva espansione del credito, e dell'ampio indebitamento (sia per la fipubblica che per quella locale), ignorando quanto ne venisse stimolata l'espansione produttiva. Ma appunto in quel momento si profilò una crisi collegata a. complicazioni internazionali, e caratterizzata dall'alto prezzo dei grani, dacché la importazione dalle sponde del Mar Nero venne frenata, poi bloccata. Ne soffrirono le zone e i ceti meno favoriti dall'accennato processo di sviluppo, mentre la stessa classe dirigente era restia, a coprire le spese in rapido aumento con nuovi tributi, o con più forti aliquote. Va notato che il 25% del bilancio era assorbito dalle spese militari, che risentivano delle ambizioni patriottiche. Così si spiegano episodi come quello del moto valdostano (antiliberale, oltreché antigovernativo) del dicembre del '53, o il tumulto torinese contro il C. stesso. Infine, s'acuì l'opposizione in Senato, e ciò lo indusse a indire nuove elezioni (20 novembre 1853).

Anche la situazione internazionale spingeva il C. a cercare un più vigoroso appoggio nell'opinione: la questione dei sequestri aveva dato luogo a una più forte tensione fra Piemonte ed Austria, imponendo un'azione di sostegno a favore dei lombardi divenuti cittadini del regno sardo. Fra le vittime dei sequestri vi era G. Pallavicino, che stava gettando, insieme con Manin, le basi d'un movimento per l'unificazione nazionale sciolto dalle rigidezze di un repubblicanesimo a priori. Manin cominciò a dichiararsi pronto al sacrificio della sua fede repubblicana, ponendo alla casa di Savoia, nel '55, il dilemma: "se fate l'Italia son con voi. Se no, no s. Fu il momento nel quale si definì l'atteggiamento della Società nazionale, costituita ufficialmente solo nel '57. Il siciliano La Farina, nel '56, contribuì a sciogliere i sospetti che ancora gravavano sull'atteggiamento del C. da parte dei patrioti unitari, e gli avvicinò l'uomo che avrebbe più contato, sul terreno della lotta armata, fra gli adepti della Società nazionale: Garibaldi.

Intanto il C. aveva condotto innanzi varie misure riformatrici. La legge del 23 marzo 1853 condusse a buon fine una parte del più ampio piano di riforma amministrativa, di cui si è detto, trasformando e razionalizzando in specie il sistema di contabilità. Sul terreno politicoreligioso il C. non abbandonò la linea che aveva tracciato fin dal 1851, dichiarandosi contrario ad ogni incameramento di beni che portasse il clero a dipendere strettamente dallo Stato. Il progetto di . legge preparato dal Rattazzi, come guardasigilli, e discusso alla Camera nel febbraio del '55, attribuiva allo Stato soltanto un compito: "secondare il voto più volte espresso dalla Camera, che dal bilancio dello Stato scomparissero spese di culto, e così gli assegni ai parroci poveri" considerati come "i più necessari tra i ministri degli altari" (Jemolo, p. 218). E per non far pesare su cittadini di diversa fede tali spese, intaccando quell'incompetenza in materia religiosa che è propria dello Stato laico, questo si arrogava tuttavia il diritto di sciogliere Ordini religiosi non impegnati in compiti di educazione o di assistenza, di versare in un fondo per il culto il provento della vendita dei loro beni, di ridistribuire insomma il patrimonio della Chiesa. La Sinistra più avanzata avrebbe scelto la via più radicale della attribuzione allo Stato di tutti i beni della Chiesa: la "via media" di Rattazzi e del C. rischiava di suscitare più irritazione, sia fra i cattglici che fra i radicali di Sinistra, per una certa sua ambiguità che fa pensare al giuseppinismo austriaco. Il re era ostile alla legge, e nella cosiddetta crisi Calabiana (provocata cioè dall'offerta fatta a nome dell'episcopato dal vescovo senatore Nazari di Calabiana, di versare una somma sufficiente a coprire le suaccennate spese per il culto), il C. ed il suo ministero furon posti in crisi. La difficoltà di formare un altro ministero, le esortazioni dell'Azeglio e d'altri autorevoli consiglieri spinsero infine il re a cedere su quella che era anche una questione di principio: non era più ammissibile governare all'infuori delle indicazioni che venivano dalla maggioranza parlamentare. E la maggioranza restituì il potere al C., il 3 maggio 1855. Il 29 maggio la legge di soppressione di comunità religiose poté esser promulgata; questa vittoria ebbe però un prezzo abbastanza alto, poiché preparò le delusioni della battaglia elettorale del '57.

La questione d'Oriente aveva intanto gravato di nuove nubi l'orizzonte europeo: Francia ed Inghilterra premevano sul Piemonte perché aderisse al trattato di alleanza antrusso del 10 apr. 1854, e le pressioni assumevano a momenti un aspetto minaccioso, poiché la Francia esigeva che la politica di Torino si adeguasse allo sfondo conservatore che si addiceva alle richieste di Vienna, per un'azione comune contro il gigante russo. Un po' più elastica la posizione del governo inglese che, per quanto ugualmente favorevole all'ingresso dell'Austria nell'alleanza, rivalutava il pur modesto apporto che sarebbe venuto dal Piemonte, quasi contrapponendo all'alleanza austriaca quella del regno sardo per "sottolineare che non prendeva posizioni di principio" (Valsecchi, p. 379). Quando poi l'Austria ebbe assunto un formale impegno il 2 dic. '54 accanto alle, potenze occidentali - e ciò comportava, il rischio dun totaleIsolamento del Piemonte e d'una liquidazione della "questione italiana" -, il C. fece dichiarare spavaldamente da un articolista a lui vicino, sul giornale di Farini, il Piemonte, che l'intervento, piemontese era utile, e che si doveva cogliere l'occasione senza neppur contrattare l'adesione al patto (l'articolo uscì il 9 genn. '55). Egli era quasi solo a sostenere questa tesi, nel suo ministero, e poiché Dabormida, ministro degli Esteri, resisteva, per fierezza allo sprezzante atteggiamento del duca di Guiche, il C. caricò sulle proprie spalle la "tremenda responsabilità" di firmare il patto, assumendo anche l'interim del dicastero degli Esteri abbandonato da Dabormida (10 genn. '55). Il re gradiva l'intervento.

Soltanto i fatti avrebbero potuto dimostrare che il C. non aveva torto e che (per dirla con Matter) inseguendo l'Austria si sarebbe riusciti a sopravanzarla. Alla Camera egli cercò di risuscitare lo scenario della guerra ideologica, condotta contro l'autocrate russo da chi amava la libertà - scenario da lui stesso ritenuto inappropriato a definire la dura realtà, ma che esprimeva se non altro una speranza ancora viva nel cuore di alcuni patrioti, per l'avvenire -, e inseriva abilmente nel quadro alcuni elementi di Realpolitik, come l'accenno alla chimera del "sistema di neutralità", inattingibile da parte di Stati che hanno una certa collocazione tra potenze maggiori, e al prestigio che l'intervento d'un "bel corpo di truppe" del Regno di Sardegna forniva allo Stato sabaudo innalzandolo nella i scala delle nazioni". Nonmeno realistiche appaiono le considerazioni del C. sulla minaccia rappresentata da una possibile egemonia russa sul Mediterraneo, e quelle sul danno recato al commercio (specie in Liguria) dal blocco imposto dal governo russo nei porti del Mar Nero danni che sarebbero nati comunque dalla guerra aperta da altri, e sarebbero cresciuti se i mercantili liguri non fossero stati ingaggiati a portar merci e armati per le potenze alleate dell'Occidente. Notevolissimo, infine, l'accenno alla coerenza delle sue scelte politiche a partire dal connubio: qui il C. rispondeva a Revel. A partire dal momento in cui lo "spettro della rivoluzione" era sparito con la "elezione presidenziale" e col "fatto del 2 dicembre" in Francia, era "non solo opportuno, ma necessario... di costituire un grande partito liberale, chiamando a farne parte tutte le persone che... consentivano... nei grandi principi di progresso e di civiltà", pur differendo su punti particolari. Così riusciva a giustificare il proprio bonapartismo, pur segnando cautamente le distanze.

Non è necessario indugiare su aspetti ed episodi minori. Come i contatti avuti con uomini politici francesi e inglesi durante il viaggio fatto con Vittorio Emanuele, che si recava in visita ufficiale a Napoleone III e alla regina Vittoria, fra il novembre e il dicembre del '55. Va notato l'atteggiamento un po' più avanzato di quello azegliano, che traspare dagli argomenti che il C. metteva innanzi in un breve memoriale (diverso da quello preparato dall'Azeglio) nel gennaio 1856, ad uso degli alleati, per far fronte a una ripresa del prestigio austriaco, sul terreno diplomatico. Vanno anche citati alcuni dispacci all'ambasciatore sardo a Londra, E. d'Azeglio, e a Rattazzi, stesi dal C. in veste di plenipotenziario al Congresso di Parigi che doveva concludere la guerra d'Oriente. Pur senza scartare la via dei compensi e dei trasferimenti di sovrani, conforme alla logica degli Stati dinastico-patrimoniali dell'antico regime, il C. faceva presente, fta l'altro, a Rattazzi, il 2 marzo '56, che installare il duca di Modena nei principati danubiani, per ottenere ch'egli cedesse al Regno sardo il suo territorio, era pur sempre "rendersi colpevoli di lesa nazionalità"(Cavour e l'Inghilterra, I, p. 241).

A Parigi cercò di "congiurare" diplomaticamente con Napoleone III, ma poté soltanto ottenere che la questione degli Stati romani (intesa in senso lato) fosse posta di fronte al congresso, grazie soprattutto all'appoggio del Clarendon. Ciò avvenne in una seduta suppletiva, che si tenne l'8 aprile, e per quanto egli ottenesse in tal modo una assai platonica soddisfazione - in adempimento dei segreti impegni presi dai governi francese e inglese al momento dell'accessione del Regno sardo all'alleanza - restò lontano dal traguardo che si era proposto, se son sincere le dichiarazioni contenute in una sua lettera a Rattazzi, - del 12 aprile (Cavour e l'Inghilterra, I, pp. 460-463).

Nel maggio il C. tornò ad assumere l'interim del dicastero degli Esteri, togliendolo, con un voluto sgarbo, a Cibrario, e assunse subito la difesa della propria opera di plenipotenziario al congresso. Alla Camera venne incontro alle impazienze dei patrioti più accesi con un accenno - che del resto appare sincero - alla "diplomazia... impotente a cambiare le sorti dei popoli", affermando peraltro, e non a torto, che finalmente era stato possibile di portare "la causa d'Italia [dinanzi] al tribunale della pubblica opinione". In Senato, con più cautela, ricordava che egli aveva preso come base della sua perorazione contro l'occupazione austriaca delle Legazioni i vigenti trattati del 1815. L'opposizione fu vinta da tali argomenti,anche in quanto il recuperato prestigio dell'esercito cancellava il ricordo di Novara, e le frazioni più avanzate non erano insensibili al fatto che l'Austria fosse stata posta sotto accusa, per la prima volta, di fronte ad un consesso europeo, insieme al governo pontificio, definito dal Clarendon come "il peggiore fra quanti siano mai esistiti", (Matter, II, p. 384).

La realtà era tuttavia più grigia di quanto le perorazioni dell'aprile facessero pensare: Clarendon chiedeva un atteggiamento più conciliante del Piemonte verso l'Austria, vantandosi di aver ottenuto la revoca dei sequestri. Il C. poté tuttavia profittare di una nuova serie di piccole angherie austriache per rompere ogni rapporto ufficiale, mentre faceva chiedere ironicamente dall'inviato a Londra se si intendeva "abbandonare" il Piemonte e trattarlo quasi come il governo di "Re Bomba" (Cavour e l'Inghilterra, II, pp. 120-124: marzo-aprile '57). L'atteggiamento scoraggiante del governo inglese non impedì al C. di persistere nelle sue iniziative più o meno palesemente orientate verso una "guerra nazionale". Le fortificazioni, solo apparentemente difensive, di Alessandria, e tutta l'orchestrazione connessa (le sottoscrizioni per i cento cannoni della fortezza, e per un monumento all'esercito sardo, estese anche ai territori soggetti all'Austria), per non parlare dei fitti incontri con La Farina e dell'utilizzazione delle migliori intelligenze di vane regioni d'Italia - Minghetti era stato chiamato dal C. a Parigi nel '56, per stendere una memoria sul cattivo governo papale -, tutto ciò definisce una politica quasi aggressiva, che investiva, assieme alla dommazione austriaca, anche la potenza spirituale del Papato.

Il fatto che Rattazzi non avesse previsto la mossa mazziniana del 29 giugno, né la grande offensiva dei clericali fra l'ottobre e il novembre del '57, non attenua una certa responsabilità del C.: egli aveva sottovalutato la distanza che separava ancora il paese legale (quello rappresentato alla Camera) dal paese reale, che non soltanto era soggetto all'influenza dell'efficiente organizzazione cattolico-conservatrice, ma era ferito (lo avrebbe ammesso con il consueto acume il C. stesso) dalle "esagerazioni della stampa anticlericale" (al Bon Compagni, 23 nov. '57).

Le elezioni del novembre di quell'anno costituirono un duro scacco per il ministero. Il C. disse che si sarebbe dimesso, se il paese si fosse trovato in una situazione più "normale". Alludeva ovviamente in primo luogo alla tensione coll'Austria, ma si potrebbe notare ch'egli era anche riuscito a riconquistare, in quell'anno, la fiducia dell'alleato-protettore francese, come risulta anche dalla presenza del principe Napoleone all'inaugurazione dei lavori per il traforo del Moncenisio, a Modane, e sarebbe stato assai difficile trovare un altro leader atto a condurre innanzi una politica liberale, ed entro certi limiti nazionale, senza portare il Piemonte a un totale isolamento, o a ripiegare su se stesso. Conducendo innanzi progetti audaci, sia pacifici sia militari, il C. faceva dello Stato subalpino un modello, un punto di forza per un moto nazionale non rivoluzionario. Quasi senza volerlo - poiché ancora nel '56 aveva dichiarato utopistico l'unitarismo di Manin - accettava la tesi giobertiana della "egemonia" sabaudo-piemontese, che sfociava nell'unitarismo.

All'inizio del 1858 profittò di alcune mosse false di Rattazzi per suggerirgli le dimissioni (e nel tempo stesso cercava di scagionarlo contro sospetti che avrebbero indebolito l'intero, ministero, attraverso un dispaccio all'inviato sardo a Parigi. Villamarina). Assumeva egli stesso gli Intemi, e passava a Lanza il dicastero delle Finanze. Come ministro degli Interni, inviava agli intendenti una notevole circolare in cui precisava il senso e i limiti dell'intervento, che definiva doveroso, da parte di quei funzionari, in periodo-elettorale: intervento da farsi "con mezzi scritti e leali", per "illuminare", non per coartare la volontà degli elettori. Nei dibattiti parlamentati dell'aprile scelse la via di una moderazione non codarda: dichiarava dl restar fedele a quella politica di alleanze che al radicale Brofferio appariva spregevole, ma che avrebbe operato nell'opinione politica europea un deciso cambiamento a favore dell'Italia. Ai clericali faceva notare come fossero infondate le accuse rivolte al suo ministero, di voler "distruggere la religione".

Fu assai difficile al C., in quel momento, segnare una sua linea politica tra le esigenze avanzate dalle due ali opposte dello schieramento polifico, e difendere un progetto di legge - quello presentato alla Camera il 17 febbraio '58 - che imponeva alcuni limiti alla libertà di stampa, obbedendo alle pressioni di Napoleone III e del suo inviato a Torino, ancora sotto l'impressione delle bombe di Orsini (14 gennaio). Il progetto appariva troppo largo a Solaro della Margherita, mentre il relatore della commissione, Valerio, ne denunciava i lati negativi, partendo dalle teorie di giuristi liberali come P. Rossi. Trovò appoggio in Buffa e in Farini, poi difese a fondo non il progetto in se stesso, ma la linea politica ch'esso suggeriva, aperta verso ulteriori progressi, pur se concedeva qualcosa, nelle gravi contingenze, alla necessità. Contro la linea rivoluzionaria - e va pur ricordato che Mazzini aveva utilizzato le citate frasi del C. sull'"impotenza della diplomazia" per dichiarare che il ministro implicitamente aveva giustificato quei cospiratori che poi faceva condannare - scagliava la dura formula di "dottrina dell'assassinio politico", respinta da Mazzini ma difesa sul Diritto da Manin in una lettera aperta a Valerio. Faceva inoltre notare come dallo Stato pontificio fossero respinti dei sospetti, che venivano a rifugiarsi nello Stato sardo: era un abile modo per sottolineare le colpe dei governi assoluti, di fronte alle critiche rivolte al troppo turbolento Regno di Sardegna, e per attirare l'attenzione sulla gravità della "questione italiana". Anche Napoleone III aveva cooperato col C. in tal senso, suggerendo di pubblicare sulla Gazzetta piemontese una delle patetiche lettere scritte dall'Orsini, e rese note durante il processo, nel marzo del 1858.

Sfuggito alla stretta diplomatica e parlamentare, il C. riuscì ancora a far varare col consenso della Camera un prestito di quaranta milioni (ed in questo caso gli giovò il personale intervento del re, che chiarì ai capi dell'opposizione, Valerio e Brofferio, le ragioni patriottiche di tal misura). Quindi giocò a fondo la carta della diplomazia segreta, utilizzando il giovane C. Nigra, che era allora suo segretario privato, per più frequenti contatti col medico di Napoleone III, Conneau. Il 9 maggio apprese per tali tramiti che l'imperatore era disposto al "gran disegno" di una guerra all'Austria, di un ampliamento del Regno sardo, e di un matrimonio che legasse le due dinastie (Carteggio C.-Nigra, I, p. 87). Il 20-21 luglio ne avrebbe personalmente discusso, a Plombières, coll'imperatore, scavalcando la diplomazia ufficiale.

Si pose così al crocevia di tre linee politiche: quella dell'espansionismo francese, che s'incarnava nel Secondo Impero; quella dello sviluppo d'un nucleo statale-nazionale italiano; e quella dell'interesse dinastico sabaudo. Il problema di conciliare, o meglio di far convergere queste linee, fu quello che dominò su di lui, e talora contro di lui, da quel momento, e fino alla sua morte. Sul terreno diplomatico, egli avvertì il pericolo di appoggiarsi in modo troppo esclusivo ad un solo alleato e cercò, subito dopo Plombières, di conquistare altre simpatie, e in specie quella russa. Ma giocava anche su di un altro registro, impegnando Garibaldi attraverso La Farina, e prendendo contatti con patrioti ungheresi (Klapka, Szarvady), per promuovere moti nazionali paralleli.

Il 1859 fu aperto da Napoleone III con un "discorsetto" duro all'inviato austriaco a Parigi, von Hübner, "molto imprudente - come notò lo stesso Hübner -, se l'Imperatore non vuole la guerra, e molto ben scelto, se invece la vuole". Dieci giorni dopo re Vittorio poteva inserire nel discorso pronunziato dinanzi alle Camere un accenno al "grido di dolore" che gli giungeva da molte parti di Italia, autorizzato o suggerito dallo stesso Napoleone. Entro la fine del mese, il triplice accordo politico, militare e finanziario con la Francia era concluso, e lo suggellava in qualche modo il matrimonio tra Gerolamo Napoleone e la principessa Clotilde, a favore del quale molto aveva insistito il C. in nome d'una piuttosto crudele ragion di Stato. La battaglia diplomatica divampò tuttavia, e rischiò ancora di travolgere la politica bellicosa del C., che era riuscito, con i suoi discorsi del 9 febbraio alla Camera, e del 17 al Senato, a creare un clima di unione nazionale in, favore della proposta per un prestito di cinquanta milioni, lasciando intravvedere la possibilità d'un prossimo attacco austriaco. Per la prima volta, in Senato, due voci di savoiardi si alzarono a dichiarare un senso di estraneità di fronte all'indirizzo nazionale della politica del C., presaghe delle sue conseguenze.

Il 17 marzo il C. controfirmava i decreti di istituzione dei Cacciatori delle Alpi, e di nomina di Garibaldi a maggior generale sardo come loro comandante. Ma, tre giorni dopo, un'iniziativa russa, per un congresso delle cinque maggiori potenze d'Europa, concordata con lo stesso Napoleone III, provò al C. quanto fosse ancora incerto il suo stesso alleato, e invano tentò di smuovere le acque con un rapido viaggio a Parigi. Il 18 aprile il Piemonte, diplomaticamente sconfitto, accettava di presentarsi dinanzi al tribunale delle gran di potenze, sia pur ottenendo di esservi rappresentato, e doveva accettare, su istanza del governo inglese, il principio del disarmo generale. Il C. non dominava la passionalità che permeava il suo gioco sottile: secondo Castelli, avrebbe pensato al suicidio. Ma il 20 aprile il governo austriaco inviava a quello sardo l'ultimatum che permetteva al C. di dichiarare alla Camera essere necessario "combattere per la libertà e l'indipendenza", dopo aver proposto di conferire al re i pieni poteri per la durata della guerra. Re Vittorio poteva realizzare il suo sogno, essere "la spada d'Italia": ma non riuscì facile amalgamare il motivo dinastico con quello nazionale né adattare un esercito che La Marmora si era sforzato di riformare, ma che sostanzialmente non era ancora adeguato a compiti offensivi, alla grande prova.

Il C. doveva tener testa agli Interni e agli Esteri, e restò gravato perfino dell'interim del ministero della Guerra e Marina, poiché La Marmora assumeva le funzioni di ministro "all'armata" o "presso il re", e cercò di tenere i collegamenti fra Torino e il Quartier generale. Il sovrano, geloso della tutela cui il C. lo sottoponeva sul terreno politico, come di quella di La Marmora (e quindi anche del Comando supremo francese) sul terreno militare, creò al già oberato C. non poche difficoltà. Questi giocava tutti i giochi anche in zone che Napoleone III avrebbe voluto lasciare quiete, per non destare le ire dei clericali in Francia. In luogo della Società nazionale, che si era sciolta, creò una Direzione generale per le province italiane, che gli consentiva di appoggiare (e di controllare) i patrioti di idee più avanzate - provenienti spesso dal Partito d'azione, che allargavano il moto fin nelle Romagne e nel cuore dello Stato pontificio - attraverso commissari regi che avrebbero preso il potere in nome della libertà e di Vittorio Emanuele. Il Diario di G. Massari conserva notazioni prese sul vivo di questa battaglia combattuta dal C., mentre gli eserciti già si muovevano e si affrontavano, e che tendeva a fiancheggiare con moti popolari, e a formare, in breve tempo, nuove divisioni: il C. scriveva a La Marmora, alla vigilia di Villafranca, che sperava di veder presto allineate otto divisioni, di cui tre "italiane", a integrazione dell'esercito sabaudo, contro gli Austriaci. Senonché la sua azione, se per un verso veniva incontro alle insistenze di Napoleone III, che auspicava un maggior apporto di forze italiane nella lotta, per un altro portò a una prima incrinatura fra il C. e le ambiziose mire dei napoleonidi. Lo rivela bene quanto scriveva Massari sulle ire del C. contro V. Salvagnoli, che aveva fornito il pretesto per l'invio d'un corpo di truppe francesi a Firenze, agli ordini del Principe Napoleone.

Dalla Toscana, il 26 aprile, era giunto a Torino B. Ricasoli, prevedendo l'esito del moto che, promosso da patrioti democratici, fu sfruttato dai moderati: i notabili toscani già da tempo puntavano sul Piemonte, pur chiedendo che le loro esigenze autonomistiche venissero tenute presenti. Il problema non si poneva quasi per Modena e per le Romagne, dove non vi era nessuna tradizione politico-giuridica rilevante da ricuperare o da salvare. Si poneva semmai in Lombardia, e il C. ne tenne conto affidando ad una commissione, che fu presieduta da C. Giulini, lo studio di un progetto per l'organizzazione provvisoria della Lombardia, dopo l'auspicata liberazione, fin dai primi di maggio del '59. Ma è caratteristico il fatto ch'egli inviasse poi il piemontese Vigliani come governatore della Lombardia, e gli desse l'ordine di non transigere di fronte a manifestazioni di popolo. Vigliani faceva notare (il 16 giugno '59) che per quanto alcuni "lombardi piemontizzati" chiedessero che fossero inviati dei piemontesi (fors'anche a garantire l'egemonia di un certo ceto ed a frenare spinte democratiche), era bene evitare l'accusa di "un'invasione dei buoni piemontesi nei pubblici uffici della Lombardia". Il C. stesso aveva del resto dichiarato a Giulini che. il Piemonte aveva molto da imparare, nel campo degli ordini amministrativi, dalla Lombardia (Raponi, p. 272). Senonché, sia per temperamento sia per difendersi dall'assalto di forze divergenti, il C. assunse una via rigida, e non poté abbandonarlay a maggior ragione, dopo la rottura col protettore imperiale, che seguì Villafranca: fu quello il periodo delle annessioni, della politica delle annessioni, contrapposta ai rischi del metodo federativo, come pure al progetto democratico della o delle assemblee costituenti.

Di fronte all'accordo fra i due imperatori, fatto alle spalle di re Vittorio e del C., questi reagì, di nuovo, emotivamente. A Kossuth avrebbe detto, il 15 luglio, che "quell'accordo non avrebbe avuto esecuzione". E si adoprò in tal senso dopo di essersi dimesso da ogni incarico. Il contrasto sorto tra lui e il re, negli incontri del 10 e dell'11 luglio, la umiliazione subita (diceva che Napoleone III l'aveva "disonorato"), la stanchezza per l'immenso sforzo lasciarono nel C. una profonda traccia. Ma il 7 agosto, da Ginevra, si diceva già pronto a dar consigli al rivale Rattazzi, capo del nuovo ministero. Nel settembre, a Leri, riceveva Manzoni, Verdi, Hudson, e il russo Stackelberg. Sapendo di essere considerato come il miglior rappresentante possibile per il previsto dibattito sulla questione italiana dinanzi al progettato congresso, sentì come un'offesa l'apparente esclusione (a La Farina, 14 nov. '59). Il re fu quasi costretto, infine, a nominarlo, dalle pressioni dell'opinione, il 22 dicembre: in quel giorno usciva a Parigi un opuscolo, tosto famoso, ispirato dall'alto, in cui si demoliva il dogma dell'intangibilità del territorio pontificio, suggerendo che l'autorità del papa sarebbe cresciuta se il suo Stato fosse diminuito. Con ciò si rinnegavano anche implicitamente gli accordi di Villafranca, e si rendeva impossibile il congresso. Walewski, visto che l'imperatore faceva sua la tesi in una lettera al papa del 31 dicembre, si dimetteva, e veniva sostituito col Thouvenel. Si parlava già a Parigi dell'intenzione, nutrita da Napoleone III, di accordarsi con il governo inglese "per le questioni di Italia", all'infuori d'un dibattito congressuale (Matter, III, p. 280).

Il C. si trovava di fronte a una situazione più serena, sul piano della politica estera. All'interno, doveva fare i conti con la convergente ostilità brofferiana, rattazziana e garibaldina. Ma fu proprio l'ibrido progetto politico-militare della "nazione armata", che allarmava gli ambienti diplomatici e del commercio (così diceva al re il gen. Solaroli: Massari, Diario, 5 genn. '60), a porre in crisi quel connubio anticavouriano (Pischedda, pp. 145-151). Hudson mise il fuoco alla miccia, intervenendo a favore del C., e poi cercando di mediare fra lui, il re e Rattazzi in una riunione clandestina col gen. Solaroli, che provocò le dimissioni di La Marmora. Il ministero cadde. Il punto in discussione era la data delle elezioni e della convocazione del Parlamento, che avrebbe posto fine alla dittatura regia e rattazziana (Pischedda, pp. 162-169). Nel frattempo da Parigi era giunta la richiesta di discutere le questioni pendenti, e collegate, della situazione dell'Italia centrale e della Savoia col C., ma questi voleva qualcosa di più di una missione straordinaria a Parigi: il 20 genn. 1860 tornò al potere presiedendo un ministero in cui il modenese M. Fanti era ministro della Guerra, il lombardo F. Jacini aveva i Lavori Pubblici, e T. Mamiani, ex ministro di Pio IX, l'Istruzione. Essi già rappresentavano uno Stato più ampio infieri. IlC. teneva per sé gli Esteri e l'interim degli Interni.

La benevolenza del Russell non bastò per liberare il C. dalle spine sparse sul suo sentiero dalla diplomazia francese, che lo poneva in nuove difficoltà sia svelando l'impegno segreto di Plombières per le province transalpine, sia pretendendo rinnovate votazioni delle Assemblee degli Stati dell'Italia centrale. Riusciva a tener fermo sulla precedenza della soluzione dei problemi delle province appenniniche, e perché la cessione delle terre transalpine non assumesse l'aspetto d'un mero baratto insisteva sull'approvazione da parte di un libero Parlamento (del quale avrebbero fatto parte anche deputati toscani ed emiliani. per non parlar dei lombardi) del passaggio alla Francia della Savoia e del Nizzardo, previo plebiscito. Aveva superato il passo più arduo nel marzo, quando la voce dell'imminente cessione delle province transalpine si era diffusa e aveva permesso all'opposizione democratica di attaccarlo in pieno periodo elettorale. Forzando la mano alla diplomazia napoleonica, riusciva a far svolgere in Emilia e in Toscana, sostenuto dai rispettivi "dittatori" Farini e Ricasoli, il plebiscito, e ne apprendeva il positivo risultato nel momento stesso in cui firmava un accordo segreto per Nizza e Savoia (12-14 marzo), cui, seguiva un accordo pubblico dieci giorni più tardi. La legislatura si aprì il 2 aprile, ed il 6 il C. dovette già respingere, come prematura - non essendo la Camera ancora costituita - una richiesta di Garibaldi che voleva fare una "breve interpellanza" su Nizza.

Il C. aveva compiuto un atto anticostituzionale, e s'apprestava a risponderne di fronte alla nuova Camera. Era riuscito appunto afarvi entrare deputati emiliani e toscani, che per ovvie ragioni dovevano apprezzare positivamente un gesto rischioso, fatto per aggirare i maggiori ostacoli che la diplomazia europea poteva frapporre, in base ai decreti del trattato di Zurigo, contro la libera scelta compiuta dalle regioni da cui provenivano. Pure, fu proprio il toscano Guerrazzi a lanciare alla Camera, il 26 maggio, l'attacco più virulento, paragonando il C. al traditore lord Clarendon, mandato in esilio da Carlo II d'Inghilterra per aver ceduto il porto di Dunkerque alla Francia. Confutata puntualmente la "lezione storica" che gli si voleva impartire, il C. sviluppava nella sua autodifesa una serie di concrete osservazioni sulle esigenze della pubblica opinione in Francia, e notava (qui sta il punto chiave del discorso) che occorreva conquistare simpatie in Francia per condurre a buon fine l'impresa della liberazione dell'Italia.

L'appartenenza della Savoia alla patria culturale e linguistica era indiscutibile. Quanto poi a Nizza, egli distingueva abilmente tra la città e il retroterra definito correntemente France rustique, pei suoi prevalenti legami materiali e morali con la Francia. Nella stessa Nizza, notava, il vernacolo si differenzia da quello ligure, e il francese è la lingua più diffusa fra i colti: argomenti un po' capziosi, ma non proprio infondati. Entrando nel concreto dei problemi politico-economici (emigrazione per lavoro in Francia, facilità di comunicazioni), si sforzava infine di provare che il voto plebiscitario del 21 aprile non era stato dovuto, a Nizza, a una manipolazione artificiosa. In Senato, dopo esser torhato sul tema del dialetto provenzale parlato a Nizza, accennava: "è doloroso dover dire che la patria di Garibaldi non è italiana ... Ma voi colpireste forse di molto stupore i Francesi ... se diceste che Massena era di nazionalità diversa dalla loro" (disc. dell'8 giugno: il C. rispondeva al nizzardo sen. De Foresta).

Omettiamo di far riferimento ad altre parti rilevanti - come i cenni a favore del nuovo confine e quelli sulla difesa di Torino - del discorso del 26 maggio, in cui il C. rivela meglio che altrove qual fosse il suo concetto della nazionalità.

Fin dal 18 maggio aveva dovuto pubblicare una nota sulla Gazzetta ufficiale per respingere l'accusa di aver favorito l'impresa dei Mille, partiti il 5 maggio da Quarto. Il sospetto di connivenza era già stato avanzato dal console francese a Livorno, il 27 aprile. Senza dubbio, quando il C. faceva sapere all'inviato, russo Stackelberg che "il governo piemontese aveva tollerato l'imbarco dei volontari per garantirsi la maggioranza nella discussione sul trattato del 24 marzo alla Camera", non mentiva in pieno (Matter, III, p. 350). Ma avrebbe bloccato, potendo, un tentativo contro una spedizione che puntasse direttamente verso Roma, dove si sarebbe scontrata con la Francia, prima che col pontefice. L'atto politico più rilevante per definire la linea politica del C. in quei mesi drammatici - nei quali l'iniziativa pareva fosse in mano ai soli democratici, grazie alle gloriose gesta di Garibaldi, e all'azione politica dei suoi consiglieri più autorevoli, avversi alla politica delle annessioni per ragioni ideologiche - fu quello di decidere la spedizione nelle province pontificie, Marche ed Umbria, che consentivano di raggiungere il Mezzogiorno, stendendo una sorta di cordone sanitario intorno al nucleo centrale dello Stato romano, e portando le forze regie e regolari ad affermare il principio nazionale in concorrenza coi garibaldini. Napoleone III era stato avvertito da Farini e Cialdini, verso la fine d'agosto, e il C. gli aveva fornito ulteriori chiarimenti sulle sue intenzioni attraverso Arese. Il valoroso comandante delle truppe pontificie, Lamoricière, dovette arrendersi e cedere a Fanti i forti di Ancona, dove poi giunse il re per proseguire verso, il Garigliano, cogliere i primi allori contro i borbonici, e incontrare Garibaldi, il 23 ottobre, nei pressi di Teano.

Dal momento in cui Garibaldi, installato a Napoli e circondato ancora dai suoi temuti consiglieri, poteva influire direttamente sul re - al quale già aveva chiesto di allontanare dal potere i suoi "nemici", il C. e Farini (lett. dell'11 settembre, in Carteggio C.-Nigra, IV, pp. 212 s.), la situazione ridiventava critica. Altrettanto critica pareva la situazione internazionale: il C. avvertiva il re, il 23 ottobre, che si profilava la minaccia di un attacco austriaco (La liberazione del Mezzogiorno, III, p. 177); ma era disposto a "jouer le tout pour le tout" (alla Circourt, 24 ottobre: Cavour e l'Inghilterra, II,2, pp. 278 s.). La sua più grave preoccupazione, in fondo, restò quella di vedere il re diventare "zimbello dei settari e degli ambiziosi" (La liberazione del Mezzogiorno, III, p. 384): poiché poteva stimare il Garibaldi guerrigliero, e raccomandare che non si facesse torto ai garibaldini dimenticandone i meriti (occorre "fare in modo - scriveva a Farini - che l'Europa imparziale non ci accusi d'ingratitudine": ibid., p. 179),ma politicamente non intendeva concedere spazio ad un'opposizione che scivolava verso soluzioni dittatoriali, o che avrebbe sostituito l'iniziativa rivoluzionaria a quella che partiva da Torino e da quel Parlamento che il C. considerava come matrice d'ogni libertà. Si ricordi che aveva respinto l'idea di far proclamare la dittatuza regia anche quando la proposta gli era venuta da destra, quando Ricasoli voleva farla votare dal Parlamento (ibid., pp. 1 e 180). Di fronte all'idea di amnistiare Mazzini e altri patrioti repubblicani, avrebbe scritto che l'amnistia non appariva possibile, dato che "avrebbe prodotto in Europa un effetto deplorevole" (a Farini, 13 novembre: ibid., p. 318).

Mazzini aveva raccomandato, pro tempore, anche attraverso il giornale che pubblicava a Napoli, di appoggiare la soluzione monarchica. Nella nuova Camera dei deputati di tutta Italia (tolto il Lazio e il Veneto) sarebbero entrati alcuni amici di Mazzini, come Bertani, Crispi e Libertini. A quest'ultimo il Mazzini avrebbe scritto, nel marzo del '61, per esortarlo a promuovere una sottoscrizione che consentisse di "sommergere Cavour con l'insurrezione europea", puntando qui Balcani e sulla spada di Garibaldi. Nello stesso momento, paradossalmente, anche il C. prendeva in considerazione la possibilità d'un'azione nei Balcani, per prevenire un temuto attacco dell'Austria. Le distanze ideologiche non si colmarono mai, anche se sulle due sponde, moderata e democratica, si rendeva omaggio agli ideali della libertà civile e politica, e alla liberazione delle patrie. L'esempio italiano, ha notato F. Venturi, ridestò le speranze dei Polacchi, e contribuì a tener vivi i sentimenti antiasburgici dei patrioti ungheresi fra il '61 e il '63. Ma Garibaldi, col suo fascino di eroe popolare, eclissava quello del politico lungimirante, e alla Camera, nel dibattito sui volontari dell'aprile '61, il C. e Garibaldi si scontrarono ancora come antagonisti.

La carriera politica del C. si chiuse con un ultimo, grandioso appello alla tolleranza, lanciato come una sfida all'internazionaie cattolica, mediante una formula ch'egli rubava ad un cattolico liberale, ma temporalista: "libera Chiesa in libero Stato". Il motivo unitario, estraneo alla linea politica del C. almeno fino al '59, e tuttavia divenutogli progressivamente accessibile attraverso i più intensi contatti con gli esuli d'altre regioni d'Italia e con gli uomini della Società nazionale, veniva posto in primo piano nei discorsi su Roma capitale, ma non si trattava per lui, come per Mazzini o Garibaldi, di un a priori. Si trattava di un problema da risolvere dopo altri problemi, quando fosse maturo.

Pare che nel delirio, sul letto di morte, avvenuta a Torino il 6 giugno 1861, il C. mormorasse: "L'Italia è fatta, tutto è salvo" (Castelli, Carteggio, p. 361: a M. d'Azeglio, 7 giugno).