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Dizionario di filosofia (2009)
Composto del gr. τέλος τέλεος «fine» e di λόγος
«discorso». Termine con cui si indica una concezione
secondo la quale gli eventi, anche quelli non legati all’azione
volontaria e consapevole propria degli uomini, avvengono in funzione
di un fine o scopo. Sebbene il termine sia piuttosto recente (sembra
infatti sia stato introdotto da Wolff nella sua Philosophia
rationalis sive logica, 1728, per definire «quella parte della
filosofia naturale che spiega i fini delle cose»), il concetto
da esso indicato è assai più antico e si ritrova
già nel Fedone di Platone, dove si espone una
spiegazione della realtà naturale basata sul principio del
«meglio», e dove dunque alla conoscenza della causa
meccanica si contrappone e antepone quella del «fine»
che coglie la più intima natura delle cose.
Alla visione teleologica della realtà aderirono in sostanza
quasi tutti i filosofi dell’antichità, da Aristotele, agli
stoici, ai neoplatonici. A essa si opposero invece gli atomisti, che
concepirono gli eventi naturali come espressione di un sistema di
rapporti causali al di fuori di qualsivoglia intervento ordinatore
da parte della divinità, esistente ma indifferente agli
accadimenti mondani.
Il cristianesimo, ma anche le religioni ebraica e musulmana, e, nel
complesso, la filosofia medievale, presentano un’impostazione
nettamente teleologica nell’interpretazione dei vari problemi
filosofici, ma, pur nella comune adesione a una visione finalistica,
è dato distinguere posizioni diverse: in alcuni casi, come in
quello esemplare di Tommaso d’Aquino, si tenta di dimostrare il
carattere teleologico della realtà per via puramente naturale
e razionale; in altri, come nel caso altrettanto indicativo di
Guglielmo di Occam, si nega tale possibilità, anzi, si
sottolinea il carattere «afinalistico» del mondo
considerato dal punto di vista della ragione naturale, anche se si
afferma comunque la necessità di ammettere il finalismo per
fede e sul fondamento della rivelazione.
Non molto più che una «verità di fede» si
presenta ormai la concezione teleologica agli occhi degli artefici
della rivoluzione scientifica: la ricerca delle cause finali viene
bandita dalla scienza. F. Bacone, Descartes, Spinoza e Hobbes hanno
a disposizione strumenti metodologici che consentono una spiegazione
dei fenomeni naturali in base a leggi meccaniche di valore
universale e necessario, e il ricorso alla spiegazione finalistica
viene giustificato soltanto in relazione a problemi di carattere
religioso e morale. Già in Leibniz si avverte però la
tendenza a riaffermare il valore della spiegazione teleologica e a
subordinare a essa la stessa spiegazione meccanicistica che dalla
prima riceverebbe il suo significato e la sua stessa ragion
d’essere.
Ma soprattutto importante, quale sbocco della complessa problematica
che si sviluppa sul tema dei rapporti fra finalismo e meccanicismo,
è la soluzione offerta da Kant, soprattutto nella Critica del
giudizio (1790), introducendo il giudizio teleologico, ossia il
giudizio secondo il quale l’ordine naturale è pensato in
accordo con le esigenze della vita morale, e cioè come
determinato dal concetto di fine. Con ciò non si attribuisce
al finalismo alcuna validità sul piano conoscitivo e
scientifico, ma si considera la spiegazione teleologica solo dotata
di alta probabilità per quanto riguarda i fenomeni della
«vita» e in quelli di natura estetica.
Nell’ambito della filosofia della scienza contemporanea è
stato più volte riproposto il problema della spiegazione
teleologica intesa come spiegazione della esistenza di un organismo,
di un sistema, ecc. in funzione di stati, condizioni, risultati che
esso realizza e della sua legittimità scientifica. Da un lato
infatti questo genere di spiegazione sembrava porsi in aperto
contrasto con le spiegazioni di tipo deterministico-causale (la
causa «finale» è posteriore al suo effetto),
ampiamente applicate nelle scienze naturali, dall’altro serviva ad
avventurose ipotesi metafisiche, sanzionando una diversità
essenziale dei fenomeni cui veniva applicata da quelli considerati
dalla fisica e dalla chimica. Valga per tutti l’esempio dei fenomeni
biologici e il sopravvivere per lungo tempo delle teorie
vitalistiche.
Il problema della riducibilità della spiegazione teleologica
a quella nomologica (sussunzione di fenomeni sotto leggi e teorie di
tipo causale) e il connesso e più generale problema della
riducibilità dei fenomeni biologici ai fenomeni
fisico-chimici sono stati i temi d’indagine più rilevanti
nell’analisi filosofico-scientifica contemporanea. Così Nagel
ha proposto un’analisi non-teleologica dei sistemi biologici in
termini di autoregolazione e di meccanismi di retroazione;
sostanzialmente sulle stesse posizioni (con alcune differenze
d’accento) si sono posti sia Braithwaite, sia Hempel. Prescindendo
dalla tematica della riducibilità, hanno affrontato i
problemi della spiegazione teleologica nell’ambito delle scienze
umane (azione, motivazione, intenzione) Ch. Taylor e soprattutto
G.H. von Wright, analizzandone la logica e rivendicandone la
legittimità d’uso. Ulteriori aspetti della spiegazione
teleologica sono stati oggetto di dibattito da parte di altri autori
(tra cui Hempel, sulla base di suggerimenti di R.K. Merton), specie
in rapporto alla sua connessione con la spiegazione in termini di
funzioni in biologia e in sociologia.
*
Enciclopedia italiana 1937
di G. C., G. Mon.
TELEOLOGIA. - Termine filosofico designante in generale la
considerazione del τέλος, cioè del "fine" (v.). La
teleologia, in quanto dottrina della finalità, si contrappone
perciò, quando si badi alla precisa rispondenza etimologica,
alla "aitiologia" o "eziologia", in quanto dottrina della
causalità. Ma nell'uso corrente essa ha piuttosto la sua
antitesi nel "meccanismo", cioè nella considerazione del
divenire quale risultante meccanica di un processo puramente
causale, implicita nelle varie concezioni naturalistiche,
positivistiche, materialistiche. A questo concetto la considerazione
teleologica oppone l'idea di un mondo in cui quel che accade non
deriva ineluttabilmente da cause, ma s'indirizza verso il
raggiungimento di fini.
L'antitesi è con ciò sostanzialmente basata sulla
differenza che distingue l'accadere determinato da una
volontà intelligente da quello che non appare determinato in
tal modo. Le concezioni che considerano il divenire cosmico come
dipendente per intero da una volontà divina sono quindi per
ciò stesso totalmente teleologiche. Ma la stessa
volontà divina (così come quella umana, ad immagine
della quale è del resto concepita anche l'altra), quando sia
considerata dall'esterno, si configura a sua volta come un rapporto
causale, in cui causa è il fine prospettato nella
consapevolezza come tale che esiga attuazione, ed effetto questa
medesima attuazione. Di qui il concetto di "causa finale", che
rappresenta in certo modo un compromesso tra le idee della
causalità e della finalità prese nel loro pieno
rigore. E s'intende come tale concetto abbia avuto particolare
fortuna nel pensiero greco, il quale, sopravalutando la teoria
rispetto alla prassi, concepiva l'azione stessa come effetto causale
di un'irresistibile attrazione, che la consapevolezza di un bene,
cioè di un desiderabile, esercitava sulla volontà. La
concezione platonico-aristotelica dell'universo come sistema di
cause finali e delle loro influenze, dipendente in ultima analisi da
quella suprema causa finale che è la perfetta verità e
bontà di quanto è oggetto dell'inattiva
autocontemplazione di Dio, non è con ciò che il
più grandioso portato della concezione socratica della
volontà, come rapporto di causalità finale, onde
quanto è consaputo nel desiderio determina teleologicamente
quanto viene realizzato, nell'azione.
Nettamente distinta da questa specie di compromesso tra finalismo e
causalismo, che costituisce la forma tipica della teleologia greca
classica e che di conseguenza sopravvive anche negli adattamenti
dell'aristotelismo alla teologia compiuti dalla tradizione
albertino-tomistica, è invece la concezione teleologica
implicita nel radicale capovolgimento cristiano della supremazia
greca della conoscenza sull'azione. Ciò appare con maggiore
evidenza in quella tradizione volontaristica, che meglio interpreta
tale carattere del cristianesimo: per essa infatti la saggezza
divina non è più il fine che determina l'accadere del
mondo e l'operatore stesso della divinità secondo lo schema
della causa, unico principio motore essendo invece la divina
volontà, che orienta momento per momento il suo fine nella
sua stessa presenza operante.
Si potrebbe quindi schematizzare la storia delle concezioni
teleologiche imperniandola sull'antitesi di tali due posizioni
fondamentali, e mostrando come esse siano state variamente
approfondite o combinate. Ogni concezione teleologica moderna, in
quanto culminante comunque in una certa posizione oggettivistica
della realtà qual'è, rappresenta infatti sempre una
certa maniera di adattare il teleologismo classico delle cause
finali a quel motivo volontaristico, che esclude ogni
ontologizzazione della volontà in causa. Così, per non
citare che un esempio famoso, il Kant considera come "giudizio
teleologico" quello che si dà del mondo quando si considera
il suo accadere come orientato verso fini, e cioè quando non
si tien conto del fatto che l'unica categoria legittima della
realtà oggettiva è la causa e non la libertà,
mentre l'unica categoria legittima del volere è, viceversa,
la libertà e non la causa. Con un'ambiguità di
posizione che è in fondo un indice della forza del suo
pensiero, dissolvendo esso nella sostanza ciò che pur
mantiene nello schema. Analogamente, una teleologia delle cause
finali, di classico stile aristotelico, sopravvive oggi in alcune
filosofie della biologia (per es., nel vitalismo del Driesch),
proprio in quanto la presupposizione della causa finale permette di
mascherare, con l'indeterminatezza in essa implicita, la non ancor
raggiunta bastevole determinazione della causa vera e propria. Il
rigoroso approfondimento della teleologia puramente volontaristica
porta invece all'avvertimento del fatto che anche il problema
teleologico, al pari di ogni altro problema speculativo, si
manifesta insussistente quando sia prospettato sul piano
dell'ontologia, mentre serba un contenuto quando sia ridotto a quel
suo nucleo concreto, per cui esso si risolve nel problema della
volontà.
Biologia. - Di tutti i fenomeni del mondo esterno, quelli che
più di ogni altro sembrano rivelare una finalità, sono
indubbiamente quelli biologici. Pertanto la considerazione dei
fenomeni della vita è servita di base a molti filosofi, che
hanno creato dottrine finalistiche generali, come, ad es.,
Aristotele.
Tuttavia anche la finalità dei processi vitali è stata
messa in dubbio o negata da alcuni autori, e specialmente da coloro
che, sotto l'influenza del materialismo scientifico e delle
concezioni biologiche meccaniciste (v. meccanicismo e Vitalismo),
hanno creduto di poter ricondurre tutti i fenomeni vitali e psichici
sotto le stesse leggi che governano il mondo inorganico.
Fra gli autori moderni che si sono occupati della questione della
finalità biologica, alcuni ritengono che quei fenomeni, come
lo sviluppo organico, l'adattamento funzionale, l'evoluzione, la
massima parte dei processi psico-fisiologici, ecc., che sembrano
rivelare nettamente la tendenza a un fine, non sono che il risultato
di una causalità senza scopo e affermano che l'aspetto
finalistico della vita non è che una nostra illusione, un
punto di vista puramente antropomorfico (E. Rabaud, G. Dumas, J.
Needham, E. Gagnebin, F. Christmann, K. Sapper, ecc.). Altri invece
ritengono che la finalità sia una realtà che emerge
dalla considerazione spassionata dei fenomeni e si sforzano di dare
un'adeguata interpretazione delle apparenti eccezioni. Fra questi
biologi ricordiamo particolarmente H. Driesch, O. Hertwig, Ch.
Richet, P. Celesia, L. Cuénot, R. Wolterek, E.S. Russel, E.
Le Roy, E. Rignano, L. v. Bertalanffy, J. v. Uexküll, ecc.
Fra i concetti generali che sono stati precisati dagli studî
recenti su questo antichissimo argomento, sono degni di nota
soprattutto quelli che risaltano dalle opere del Driesch e del
Rignano. Al Driesch spetta il merito di avere distinto fra
teleologia "statica" cioè fondata su una data struttura
prestabilita e teleologia "dinamica", cioè risultato di
processi in atto negli organismi, che agiscono e si modificano a
volta a volta, diretti sempre verso un fine. La prima è la
concezione antica, che può avvicinarsi a concezioni
meccanicistiche, la seconda è la concezione moderna, cara
soprattutto ai neovitalisti. Il Rignano poi tenta di fornire un
criterio obiettivo per riconoscere i processi teleologici: "se, al
variare delle circostanze esteriori, variano anche i processi
stessi, e il risultato finale, il processo è ateleologico; se
i processi si modificano al variare delle circostanze esterne, ma il
risultato finale resta invariato, questi processi sono finalisti"
(A. Bizzarri). La comroversia sulla finalità dei processi
biologici, così come quella fra vitalismo e meccanicismo, si
può dunque dire tuttora aperta, e anche di recente è
stata oggetto di ampie discussioni. Contro una interpretazione
esclusivamente finalistica parlano i casi di disteleologia (v.) di
cui si deve tener conto.