FOSCOLO, Ugo

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Nacque a Zante, isola dell'arcipelago Ionio allora sotto il dominio di Venezia, il 6 febbr. 1778. Suo padre, Andrea, medico corcirese, contava ventiquattro anni, sua madre, Diamantina - figlia di Narciso Spathis, un sarto zantioto, e di Rubina Serra - trentuno, e dal 1768 era vedova del nobiluomo Giovanni Aquila Serra.

Al battesimo gli venne imposto il nome dell'avo paterno, Nicolò, cui, nella prima giovinezza, finì per preferire quello di Ugo. L'impulso a tale scelta dovette derivargli dalla notizia che capostipite della sua famiglia fosse un Ugo Foscolo, della romana gens Aurelia, console inviato nel 423-424 da Padova a edificare Rialto. Ma queste origini non sono suffragate da documenti sicuri.

Non certo patrizie erano, comunque, le condizioni materiali della famiglia, anche se la sua fanciullezza non conobbe disagi. Alla sua nascita erano seguite a breve intervallo quelle di una sorella, Rubina (1779), di un fratello, Gian Dioniso, chiamato più semplicemente Giovanni (1781), e più tardi (1787, a Spalato) di un secondo fratello Costantino Angelo, cui, nel 1795, sarebbe stato aggiunto il nome di Giulio prevalso sugli altri.

La casa natale e della prima fanciullezza, una casa povera, sorgeva di fronte alla chiesa della Beata Vergine Odigitria. La vita vi trascorreva calda di affetti: Diamantina esercitò il suo matriarcato con mite fermezza, riuscendo a temperare i difetti del marito, prodigo e irascibile di natura, e a creare una unione molto stretta dei figli con i genitori e dei figli tra loro.

Una duplicità di ascendenza caratterizza la personalità umana ed artistica del F., condiziona certe sue scelte dall'apparente antinomia, infonde l'elemento vitale nelle figurazioni del suo Olimpo, radica alla terra e alla storia la sua metafisica poetica. Zante e Venezia, cioè la Grecia e l'Italia, dovettero nella sua fanciullezza incarnarsi nelle figure diverse ma non conflittuali della madre e del padre; e, forse, sin da allora rappresentarono nella sua vita affettiva e fantastica due presenze del pari vagheggiate, di cui l'una non escludeva l'altra.

Il F. non troncò mai o l'uno o l'altro ramo in cui avvertiva divisa la sua radice. La sua opzione per la patria degli avi paterni e per la lingua italiana non implicava il distacco dalla patria materna, dalle memorie e dagli affetti che vi si legavano. Il pensiero della Grecia affiora nella sua poesia non come momentaneo abbandono nostalgico, ma come riflesso di quella costante affettiva che animava le sue dichiarazioni di valenza politica e culturale, i suoi progetti operativi, il suo desiderio di concludere la vita nella terra delle sue origini.

Né d'altro canto la sua aspirazione alla costanza degli affetti domestici, alla misura e all'armonia trionfanti sulle passioni incomposte, era solo un ideale estetico o il vagheggiamento, per contrasto, di una condizione di vita diversa da quella realizzata: l'animava la breve ma intensa esperienza dell'unità familiare. Così, sul piano artistico, la sua Grecia non coincideva, o non coincideva in tutto, con la immagine vulgata dal neoclassicismo europeo del tardo Settecento: non solo per gioco letterario egli amò ricondurre la sua mitopoiesi a un retaggio ancestrale e considerare la sua origine etnica come via privilegiata all'intelligenza della Grecia.

Non regolare e sistematica fu la prima istruzione che egli ricevette a Zante dal parroco della chiesa dell'Odigitria e dal canonico Reinaud. Dei pochi aneddoti concernenti la sua fanciullezza uno (la cui veridicità è confermata da un documento, che l'assegna al 1785, ma forse potrebbe trattarsi del 1789) ce lo presenta mentre a capo di una brigata di compagni assale le porte del ghetto, onde liberare gli ebrei, finendo per essere arrestato.

Nell'estate 1785 la famiglia si trasferì a Spalato, ove dal precedente autunno già risiedeva il dottor Andrea, nominato primo medico dell'ospedale militare. Nella città dalmata il F. frequentò la scuola del seminario arcivescovile, ma questa esperienza di studio regolare dovette limitarsi al solo anno scolastico 1787-88.

Concordi testimonianze lo presentano come scolaro sempre pronto, benché si applicasse di rado, capace di improvvisare poesie in tutti i metri, generoso e disponibile verso gli altri, ma irascibile e violento.

La serenità della famiglia fu bruscamente sconvolta dalla morte del padre, avvenuta a soli trentaquattro anni (24 ott. 1788). L'avvenimento comportò l'abbandono di Spalato: Diamantina, affidati i figli alle sorelle e alla madre, tra la fine del 1788 e l'inizio dell'anno seguente partì alla volta di Venezia, onde cercarvi una stabile sistemazione per i suoi.

Nel 1792 la famiglia era riunita a Venezia, in una modesta casa in campo delle Gatte. Il F., secondo una tradizione per solito accettata, sarebbe stato messo alle scuole di S. Cipriano, o del seminario patriarcale, in Murano, ma più verosimilmente frequentò quelle pubbliche, che, allogate nell'antico collegio gesuitico, continuarono a chiamarsi dei Gesuiti anche dopo la soppressione della Compagnia.

Per quanto avesse indole e vocazione di autodidatta, pure non fu estraneo alla sua formazione l'insegnamento di alcuni maestri entro e fuori l'ambito scolastico. Di greco antico ebbe a Venezia un valoroso docente in G.B. Gallicciolli; dovette inoltre seguire il corso di eloquenza tenuto da U. Bregolini, e forse ascoltarne, sia pure saltuariamente, le lezioni di diritto, che dovettero esercitare un qualche influsso su di lui (anche se la sua concezione hobbesiana e machiavellica discordava dal razionalismo giuridico professato dal maestro). Simpatia ed affetto lo legarono ad A. Dalmistro: dovette certo colpirlo l'entusiasmo con cui questo discepolo di G. Gozzi leggeva Dante; probabilmente fu lui a destargli interesse per la letteratura inglese, in particolare per autori quali A. Pope e Th. Gray, e certo da lui, buon traduttore e verseggiatore, gli venne incoraggiamento al noviziato poetico: alcuni suoi componimenti, infatti, videro luce, nel '96 e nel '97, nell'Anno poetico ossia Raccolta annuale di poesie inedite di autori viventi, almanacco pubblicato a Venezia dal 1793 al 1800 per opera appunto del Dalmistro. E dovettero essere questi e il custode della Marciana J. Morelli a introdurlo nei due più celebri salotti letterari della città: quello di Giustina Renier, moglie di M.A. Michiel, e quello della corcirese Isabella Teotochi che, quindicenne, nel 1776 era venuta a Venezia sposa del nobiluomo C.A. Marin, da cui viveva separata di fatto dal 1793 (ottenuto poi l'annullamento del matrimonio, avrebbe sposato nel '96 il conte Giuseppe Albrizzi).

Tra i frequentatori dei due salotti, con cui strinse rapporti destinati a incidere sulla sua vita e sulla sua opera, v'erano A. Bertola De Giorgi e M. Cesarotti, I. Pindemonte, P. Costa, L. Cicognara, A. Mustoxidi, i fratelli T. e G. Olivi. Ma altri, e forse lo stesso Pindemonte, dovevano avvertire una qualche diffidenza per le idee rivoluzionarie che egli andava maturando; e, d'altro canto, la rapida evoluzione intellettuale e artistica del F. ergeva un diaframma tra le sue tensioni e un ambiente che scopriva volto al passato. Più affini egli sentì quanti erano legati al Cesarotti, che rappresentava il nuovo sul piano letterario, e quanti inclinavano alle idee di rinnovamento politico provenienti dalla Francia: A.G. Vianelli, traduttore di L. Sterne, e i bresciani G. Fornasini, G. Labus, L. Scevola.

Al suo attivo contava già un buon numero di componimenti poetici, tra originali e tradotti. Nel 1794, fatta una cernita delle poesie e ordinatene una quarantina, le trascrisse in un quadernetto, che inviò in dono a C. Naranzi, un isolano di famiglia imparentata con la sua. Dal manoscritto fu tratta nel 1831 una stampa di cui si ignora il curatore. Il lessico, la sintassi, i metri, i temi sono quelli di un classicismo arcadico divenuto maniera nell'esercizio di un epigono: pure, qua e là, si ravvisano spunti destinati a ulteriori sviluppi.

Col 1795 la sua creatività poetica ha una svolta, sveste le fogge arcadiche della melica anacreontica e ne abbandona il repertorio tematico. Cambiano anche i modelli di questo sperimentalismo lirico, che si muove in più direzioni, non offrendo ancora un'immagine unitaria e coerente del poeta: nei versi composti tra il '95 e il '99 traspaiono in filigrana il Varano delle Visioni, il Monti delle terzine e degli sciolti, il Parini delle Odi, il Cesarotti dell'Ossian, l'Alfieri dei sonetti e delle odi, Dante attinto per via diretta o attraverso la mediazione montiana.

Dei componimenti che si collocano in questo periodo furono editi postumi La campagna (1854), la canzone e i cinque sonetti In morte del padre (1888), il sonetto Quando la terra è d'ombre ricoverta, prima stesura di Così gl'interi giorni… (1862), il poemetto La Giustizia e la Pietà (1882). Gli altri videro luce lo stesso anno della loro composizione o quello successivo: nel Mercurio d'Italia (A Dante e In morte di…, 1796); nella citata miscellanea di poesia l'Anno poetico (La Verità, 1796; A Dante, e In morte di…, ottobre 1796; Le rimembranze, il sonetto A Venezia, gli sciolti Al sole, l'ode Ai novelli repubblicani e l'ode Bonaparte liberatore, 1797: di queste due non fu l'unica stampa); In morte di Amaritte in un opuscolo del '96, che riuniva i componimenti di alcuni autori dedicati alla contessa Marietta de' Medici scomparsa a soli ventidue anni; La Croce e Il mio tempo, composti per la monacazione di Maria Toderini Pappafava, in un opuscolo di cui nel '96 apparvero cinque edizioni.

Del 1796 è anche il Piano di studi, importante documento della sua formazione culturale e artistica: nel progetto che fissa le direttrici da seguire nei vari campi del sapere si coglie il segno di una individualità già originalmente delineata; nell'unito bilancio di un'attività letteraria aperta a varie sollecitazioni si individua, più che il prefigurato disegno di ulteriori sviluppi, una volontà creativa che si fonda sul senso autocritico del già compiuto. Certe caratteristiche del Piano rivelano l'impronta dell'epoca: l'accampare in limine la filosofia, la prevalenza accordata agli scrittori della classicità greco-latina, la visione universalistica della letteratura per cui sotto le rubriche dei generi si trovano indistintamente autori o libri italiani, francesi, inglesi, tedeschi, spagnoli.

La scansione puntuale della sua vita relativa agli anni 1795-96 sfugge. Nell'estate del '95 si ammalò di risipola, in quella del '96 appare malato nell'animo. La causa di questo "male di malinconia", come egli ebbe a chiamarlo, dovette essere, o dovette anche essere, il divampare più forte della passione per Isabella Teotochi nel momento in cui la donna, passando a seconde nozze, intese mutare in amicizia il più intimo rapporto con lui.

Che avesse iniziato il diciottenne F., ella che contava trentacinque anni, ai misteri d'amore e, amante per pochi giorni ma amica per tutta la vita, gli avesse dato il consiglio di non innamorarsi mai; che Laura, il nome da cui si intitolava il romanzo annunciato nel Piano di studi, fosse il senhal di lei, non diversamente da Temira del Sesto tomo dell'io; e, ancora, che non una fanciulla a noi sconosciuta ma lei, la bella greca, fosse la Laura di cui è cenno in lettere al Cesarotti e all'Olivi; tutto ciò può essere accolto come probabile, o anche molto probabile. Non va tuttavia dimenticato che in questo e in altri casi si è spesso attribuito valore documentario ad opere o a tratti di opere di carattere o di presunto carattere autobiografico, senza la cautela richiesta dall'ovvio fatto che l'arte è immagine trasfigurata e mediata della vita, mai speculare riflesso della sua pratica contingenza.

Certo il mutamento intervenuto nel suo rapporto con la Teotochi si accompagnò con un crescente disagio nei confronti della società letteraria e mondana di Venezia, di cui il salotto di lei era uno dei centri d'incontro. Il F. non poteva che suscitare diffidenza negli ambienti conservatori, mentre nel contempo cresceva in lui l'intolleranza e l'avversione per quegli ambienti.

Sempre nel '96 progettò di trasferirsi a Padova per seguire un regolare corso universitario: ma fu costretto a rinunciarvi per motivi economici. Verso la fine di luglio si recò a Ceriole di Teolo sugli Euganei, ove trascorse il resto dell'estate, sia per rimettersi nel fisico e nel morale, sia per tenersi un qualche tempo alla larga da Venezia, dove si era acquistato dei nemici ed era caduto in sospetto delle autorità di polizia.

Nell'autunno di quell'anno, precisamente il 29 ottobre, visitò per la prima volta S. Bettinelli: l'attacco di cui lo aveva fatto segno nell'ode A Dante non fu ostacolo all'instaurarsi di una reciproca stima, pur nella diversità di gusti dovuta a ragioni individuali e storiche.

L'anno seguente, il 1797, si aprì con il successo del Tieste, andato in scena al teatro veneziano di S. Angelo la sera del 4 gennaio e replicato per altre nove volte consecutive. Al memorabile esito della rappresentazione contribuì il talento della giovane attrice Anna Fiorilli Pellandi, che impersonava Erope. Ma l'accoglienza favorevole fu anche determinata da quel che di originale il pubblico avvertì nel lavoro.

Pur senza riuscire nell'insieme un carattere artistico veramente nuovo, Tieste ha tratti che ne fanno un eroe preromantico: l'evocazione delle sue sventure si muove tra l'autocompianto e la ribellione disperata; alla fredda logica del potere e al cupo desiderio di vendetta del tiranno Atreo si contrappone, pur nel fiero spirito di rivalsa, la sua coscienza di una giustizia violata e il suo parteggiare per gli oppressi. Alfieriana nello spirito libertario, nella struttura, nello stile (e tale fino al vero e proprio calco), questa tragedia rappresentava una sfida ai modi del coevo teatro veneto. Stampata che fu la tragedia, il F. ne inviò copia all'Alfieri con una lettera di accompagnamento: ma una risposta non dovette giungergli mai.

Coeva, se non anche precedente, al Tieste fu l'altra tragedia, l'Edippo. Nelle carte del F. esistono due autografi concernenti una tragedia su questo tema: il primo, una sola pagina di appunti provvisori; il secondo, un fascicoletto che presenta uno schematico abbozzo dei primi tre atti. Gli elementi interni ed esterni permettono di assegnarli alla maturità del poeta. Ma se il progetto della nuova tragedia naufragò quasi in sul nascere, di quella giovanile, sempre che il F. non avesse dato per compiuta un'opera solo ideata, s'era persa ogni traccia. Tuttavia in un fascicolo di suoi manoscritti, conservato fra le carte Pellico, fu rinvenuto (e pubblicato nel 1979) un Edippo che può ritenersi, con buona probabilità, la giovanile tragedia perduta.

Con la primavera del '97 inizia per il F. un breve ed intenso periodo, in cui la sua passione politica passa dal piano delle battaglie ideologiche a quello dell'azione. Nel settembre il ministro francese J.-B. Lallement aveva proposto al governo veneto un'alleanza, rifiutata in nome di una neutralità che non aveva, né avrebbe reso inviolabile il territorio della Repubblica di S. Marco. In questa occasione il F. compose il sonetto A Venezia, in cui bollava la pace, comprata a prezzo di viltà, e prediceva il giorno, affrettato dall'esempio francese, in cui il popolo avrebbe fatto vendetta dei suoi tiranni.

Nell'ultima decade di aprile, abbandonata Venezia, cercò rifugio nella Repubblica Cispadana. A Bologna si arruolò, volontario, nel corpo dei cacciatori a cavallo come brigadiere: pochi giorni dopo fu congedato su sua richiesta per motivi di salute.

Il 12 maggio, nella sua ultima assemblea, il Maggior Consiglio proclamava l'autoscioglimento; il 16 le truppe francesi entrarono a Venezia. Lo stesso giorno veniva spedito dalla Giunta di difesa generale della Cispadana alla Municipalità di Reggio Emilia un pacco di copie dell'ode Bonaparte liberatore.

L'ode, composta a Bologna nei primi giorni del maggio '97, esaltava, attraverso una prosopopea della Libertà, l'impresa napoleonica in Italia: in Napoleone era celebrato l'eroe della guerra repubblicana, l'affrancatore dei popoli da servitù inveterate, il garante di un nuovo e libero assetto degli Stati. Le ampie strofe, improntate ai moduli della lirica eroica e pindarica sei-settecentesca, si dipanano faticose e artificiose in una tessitura espressiva che, nel suo classicismo di maniera, affianca moduli eterogenei. Non diversa negli spiriti e nelle forme l'altra ode politica, Ai novelli repubblicani, composta nell'estate del '97. Anche qui il motivo contemporaneo si affaccia solo alla fine, dopo la preponderante evocazione di personaggi e vicende del mondo classico: la battaglia egalitaria e la tragica fine di Tiberio e Gaio Gracco.

Giunto a Venezia verso il 20 maggio, il F. scrisse immediatamente alla Giunta di difesa, chiedendo di essere di nuovo arruolato come ufficiale; la richiesta venne accolta e gli fu conferito il grado di tenente onorario. Fino a metà giugno una seria malattia lo tenne lontano da ogni impegno pubblico ma il 18 di quel mese fece istanza di ammissione alla Società di istruzione pubblica di Venezia dove, il giorno successivo, fu accolto socio per acclamazione. Dal 12 luglio fu anche uno dei quattro segretari della Municipalità: il suo compito si riduceva alla redazione e alla lettura dei verbali.

In seno alla Società d'istruzione pubblica, il cui compito era solo di formulare proposte, i suoi interventi rivelano una concretezza di senso politico. Risalta da essi il richiamo brusco alla realtà come scontro di forze, la coscienza che l'ordine democratico non possa stabilirsi con le armi pacifiche della ragione, l'invito a costituire una milizia cittadina. Contro l'arbitrio e gli eccessi rivoluzionari, contro il culto dell'autorità personale egli invoca il freno delle leggi che, con le armi, sono il fondamento dello Stato democratico.

Alla stipula del trattato di Campoformido (17 ott. 1797), che segnava la caduta del governo democratico e la fine dell'indipendenza di Venezia, il F., secondo il Carrer, si sarebbe schierato con quegli estremisti che avrebbero voluto dare a fuoco la città e perire sotto le sue rovine piuttosto che cedere. Egli aveva sentito le clausole del trattato come un tradimento di Napoleone: pure decise di passare nella Cisalpina e, verso la metà di novembre, abbandonò Venezia e prese la via di Milano. Giuntovi fece istanza perché gli fosse dato un posto o fra gli scrittori nazionali o fra i conservatori della pubblica biblioteca: ma la richiesta restò senza esito. Fu invece accolto fra i redattori del Monitore italiano, giornale politico che iniziò a pubblicarsi il 20 genn. 1798 e dall'11 marzo fu compilato esclusivamente da lui, M. Gioia e P. Custodi. A Milano frequentò gli incontri promossi dal Circolo costituzionale, ove si declamava e discuteva su temi politici, e vi prese varie volte la parola.

Del '98 sono anche l'articolo Difesa del "Quadro politico" di Melchiorre Gioia, apparso sul modenese Giornale repubblicano del 25 luglio, che rintuzzava a stretto giro le pesanti accuse rivolte a quel libro e al suo autore, e l'opuscolo Esame delle accuse contro Vincenzo Monti, in cui sosteneva non potersi attaccare la Basvilliana per il solo fatto di avervi il poeta dipinto a fosche tinte il Terrore.

Le sue prese di posizione nei confronti degli abusi e delle deficienze da cui non gli apparivano immuni i nuovi uomini di governo gli resero difficile l'ottenimento di un impiego; per dar corso a tale ricerca, nella seconda metà di giugno partì alla volta di Bologna. Il motivo del viaggio era anche un altro: il desiderio di allontanarsi da Teresa Pikler, la moglie del Monti, per la quale aveva concepito una passione non corrisposta. Ma nella prima decade di luglio era di nuovo, per breve tempo, a Milano. Tra la fine di agosto e i primi di settembre 1798 tornò a Bologna ove, con il libraio e stampatore F. Canetoli, dette vita al trisettimanale Il Genio democratico, di cui redigeva le rubriche Notizie bibliografiche e Istruzioni popolari politico-morali, ma l'impresa ebbe vita assai breve, dal 23 settembre al 13 ottobre. Il Canetoli aveva intanto rilevato un altro giornale, Il Monitore bolognese, nel quale fece confluire Il Genio democratico: il F. vi collaborò per cinque numeri.

All'inizio di novembre era stato assunto presso la sezione criminale del Dipartimento del Reno come aiutante del cancelliere e segretario per le lettere del tribunale, ufficio che abbandonò quando, il 21 apr. 1799, alla notizia che gli Austro-Russi avanzavano verso il Ferrarese e il Bolognese, rientrò volontario nel ranghi dell'esercito come luogotenente nella guardia nazionale di Bologna. Intanto, tra il settembre e il dicembre del '98 era stata avviata e nei primi mesi dell'anno nuovo proseguita la stampa delle Ultime lettere di Jacopo Ortis.

Il 24 aprile partecipò alla riconquista di Cento, occupata dagli Austriaci e dagli insorti, rimanendo ferito nell'assalto. Per curarsi e per evitare di cadere in mano austriaca, riparò prima a Calcara e poi nel monastero di Monteveglio, ove rimase fin verso la fine di maggio, allorché fu arrestato dalla guardia nazionale perché sospettato di essere un agente austriaco. Trasferito a Vignola e poi a Modena, all'arrivo del generale francese J.-É. Macdonald fu rimesso in libertà (12 giugno). Aggregato al reggimento degli ussari cisalpini, partecipò alla battaglia della Trebbia; ritornò a Bologna il 19 di quel mese e denunziò alla cancelleria della Commissione criminale quelli che lo avevano fatto arrestare a Monteveglio; poi partì con i resti della divisione del Macdonald alla volta di Genova.

Durante la sua assenza da Bologna l'editore Marsigli, trovandosi con la stampa avviata delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, pensò di ricorrere per il loro compimento ad A. Sassoli, un dottore in legge che si dilettava di filosofia e di poesia. Questi si mosse ponendo attenzione ai procedimenti stilistici e strutturali del F., che, del resto, nella redazione del 1802, ne accolse alcune soluzioni e moduli espressivi. L'editio princeps dell'Ortis reca sul frontespizio la data 1798, ma in effetti questa doveva riferirsi all'inizio della stampa. L'anno successivo l'opera vide luce sotto il titolo di Vera storia di due amanti infelici ossia Ultime lettere di Jacopo Ortis, sempre per i tipi del Marsigli.

Il F. solo molto più tardi venne a sapere di questa edizione abusiva e il 3 genn. 1800 pubblicò una nota di sconfessione. Rimessa mano all'opera, la ripubblicò nel 1802 e, ulteriormente rimaneggiatola, nel 1817. Le tre diverse redazioni non solo rivelano una mai intermessa ricerca di stile, ma anche il significato autobiografico di questo vario ritorno sulle pagine di un tempo. Jacopo e la sua vicenda, infatti, hanno sì una propria configurazione che li colloca nell'alveo della narrativa sentimentale - fortunato genere settecentesco cui sono da ascriversi celebri modelli quali la Nouvelle Heloïse di J.-J. Rousseau e il Werther di W. Goethe - ma sono anche la proiezione romanzata della vita dell'autore.

Se l'accento predominante del romanzo è quello di un dolore senza speranza, non mancano nella sua compagine toni lievi e sorridenti, come fra i suoi quadri a tinte forti non mancano incisioni di una grazia lieve e sorridente: presenze non certo centrali nell'economia dell'opera, che tuttavia mostrano come il F. già allora venisse delineando un'altra immagine di sé, quella che avrebbe trovato forma in Didimo Chierico. Questa si affaccia qui negli interstizi, ma già campeggia nei coevi frammenti del Sesto tomo dell'io, che ci conducono appunto all'altro registro di sensibilità e di stile.

Nella seconda decade di luglio del 1799 il F. era a Genova con le truppe del Macdonald. Nella città assediata dall'esercito austro-russo pubblicò il Discorso su la Italia, la sesta edizione dell'ode a Bonaparte, cui premise una celebre dedica (pagina nobile ed alta con cui richiama Napoleone al dovere di soccorrere l'Italia, onde sgombrare da sé l'onta del trattato di Campoformido), e l'ode A Luigia Pallavicini caduta dacavallo, stampata dal Frugoni di Genova - in un opuscolo, insieme con i componimenti poetici di tre suoi amici e commilitoni - come offerta augurale alla nobildonna ligure che, nel luglio 1799, disarcionata, si era ferita gravemente, tanto da correre pericolo di vita.

Il carattere innovativo dell'ode si venne configurando attraverso un progressivo lavorio di affinamento, il cui risultato definitivo è costituito dalla edizione 1803 delle Poesie. Archetipi di qualche immagine o di qualche particolare di lingua o stile sono in precedenti versi dello stesso F., da quelli più lontani della Raccolta Naranzi ad altri più vicini, quali gli sciolti Alsole. Fitto l'indice delle derivazioni dalla poesia settecentesca e dalle fonti classiche direttamente o indirettamente attinte. Pure l'esito non è un gioco galante articolato in preziosità classicistiche, anche se ne ha l'apparenza.

Nel dicembre del '99 il F., con parte delle truppe stanziate a Genova, si trasferì a Nizza. Tra il 10 e il 15 marzo 1800 era di nuovo a Genova, ove prestò servizio come ufficiale di corrispondenza. Il 2 maggio, con le truppe del generale A. Masséna, partecipò all'assalto del forte dei Due Fratelli, segnalandosi per un'azione di coraggio: nella giornata, in cui morì l'amico G. Fantuzzi, egli fu ferito ma in maniera non grave. Il 4 giugno la città di Genova si arrese e le truppe del presidio franco-cisalpino, imbarcate su navi inglesi, furono trasferite ad Antibes. Ma la vittoria napoleonica di Marengo (14 giugno) capovolse la situazione e il F. poté rientrare in Italia, ottenendo il permesso di andare a Milano, ove fu aggregato, come capitano aggiunto, allo stato maggiore del generale F. Pino.

Nel Monitore bolognese del 7 ott. 1800 appariva la sua Difesa del generale Pino, accusato di avere imposto arbitrari gravami alle popolazioni di Romagna. Probabilmente in questo torno di tempo pose mano ai Commentarii alla storia di Napoli, di cui resta una parte relativa al libro secondo, e avviò, o più probabilmente solo progettò, i Commentarii cisalpini.

In uno degli spostamenti di quell'anno conobbe Isabella Roncioni, una diciottenne di nobile famiglia pisana, e se ne innamorò. Questa vicenda non dovette essere estranea al rifacimento dell'Ortis del 1802: sembra mostrarlo la diversa configurazione del personaggio di Teresa (da vedova innamorata di Odoardo, nella stesura del '98, a fanciulla che accetta un matrimonio senza amore). Nella situazione di Jacopo pare ora riflettersi quella del suo autore: nell'agosto del 1801, infatti, la Roncioni, ottemperando alla volontà paterna, avrebbe sposato il marchese Bartolommei.

Verso la metà del marzo 1801 il F. lasciò Firenze; il 16 era a Bologna, e di lì, ottenuta una licenza, partì alla volta di Milano: il 25 luglio ottenne la nomina a capo della seconda sezione dell'ufficio di compilazione del codice militare cisalpino; il 3 agosto, con l'incarico di attendere alla redazione delle norme disciplinari e penali, passò alla quarta sezione per cui redasse l'Idea generale del lavoro della quarta sezione dell'Ufficio di compilazione (Ed. naz. delle opere, VI, pp. 199-205). Purtroppo G. Murat, cui dal 19 agosto era stato affidato il comando delle forze armate, soppresse nell'autunno la commissione che attendeva al codice. Forse da questa decisione trasse origine l'antipatia, del resto ricambiata, del F. per lui.

L'ambiente elegante milanese che prese a frequentare stimolava certa sua tendenza al grandioso e al raffinato; di qui la necessità di denaro, che, unita al gusto del rischio, lo portarono a tentare la fortuna al gioco d'azzardo. Nell'estate del 1801 una nuova passione d'amore accende il F.; ad ispirarla è la sua quasi coetanea Antonietta Fagnani, moglie del conte M. Arese Lucini. Il rapporto durerà circa due anni, fino al marzo 1803, ora esaltante ora esasperato dalla gelosia.

Un grave lutto intanto lo aveva colpito: a Venezia, l'8 dic. 1801, in circostanze non del tutto chiare - si parlò di suicidio per debiti di gioco e un ammanco alla cassa militare -, era morto il fratello Giovanni ventenne, che militava nell'esercito cisalpino.

Dalla primavera del 1801 alla fine del 1803 circa la sua attività di scrittore raggiunse i primi risultati originali. Appartengono a questo periodo: il rifacimento dell'Ortis, le Poesie, l'Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione e La chioma di Berenice. A questi lavori, dati alle stampe, sono da aggiungere quelli per allora inediti: i frammenti Della poesia, dei tempi e della religione di Lucrezio, le annotazioni in margine al poemetto Haiti di V. Lancetti, lo scritto Sul "Saggio di novelle" di L. Sanvitale.

Le Poesie apparvero dapprima nel fascicolo dell'ottobre 1802 del Nuovo Giornale dei letterati di Pisa e, invariate, in un opuscolo stampato dalla stessa tipografia del Giornale: erano allora costituite da otto sonetti e dall'ode alla Pallavicini (i sonetti erano: Perché taccia il rumor di mia catena; Così gl'interigiorni in lungo incerto; E tu ne' carmi avrai perenne vita; Meritamente, però ch'io potei; Non son chi fui, perì di noi gran parte; Che stai? già il secol l'orma ultima lascia; Te nudrice alle Muse, ospite e dea; Solcata ho fronte, occhi incavati, intenti). Nell'aprile 1803 un volume stampato a Milano dal tipografo Destefanis ripresentò la raccolta pisana, ma arricchita dell'ode All'amica risanata e di tre nuovi sonetti (Forse perché della fatal quiete; Né più mai toccherò le sacre sponde; Pur tu copia versavi alma di canto). Nell'estate dello stesso anno le Poesie uscivano dalla tipografia milanese di Agnello Nobile in una edizione dichiarata nel frontespizio "seconda", nella quale alle due odi seguivano, in un ordine variato rispetto alle stampe precedenti, i sonetti, qui in numero di dodici per l'aggiunta di quello dedicato al fratello Giovanni (Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo). Ma non solo gli spostamenti nell'ordine seriale dei sonetti, ottemperanti a un calcolato disegno d'insieme, differenziano l'edizione Nobile dalle precedenti: nella sua compagine, infatti, viene a fissarsi il risultato di un vigile lavorio di affinamento stilistico, di cui, in mancanza di autografi, solo le precedenti edizioni a stampa offrono il termine di paragone.

La composizione dell'ode All'amica risanata si colloca in un periodo, di cui i termini estremi sono l'aprile del 1802, quando la Fagnani si ristabilì dalla malattia che l'aveva afflitta durante l'inverno e l'aprile del 1803, quando l'ode fu pubblicata. Con quest'ode costituiscono il risultato più alto delle Poesie del 1803 i quattro sonetti che, anepigrafi come i dodici tutti della raccolta, vanno sotto il titolo vulgato di Alla sera, A Zacinto, In morte del fratello Giovanni, Alla Musa. Nella loro tessitura, di cui sempre più si è venuta scoprendo la maestria stilistica e strutturale anche in relazione all'uso sapiente e personale delle fonti, trovano espressione i motivi fondamentali della lirica foscoliana: il fluire del tempo in una indeterminata eternità cosmica, la malinconia di una perduta identità etnica, la morte che, troncando gli affetti, insieme ne rivela a pieno il significato, il valore catartico della bellezza e della poesia. Che questo mondo di pensieri e di sentimenti si componesse in una forma metrica di antica e larga tradizione non significa che la sua originalità poetica vada considerata indipendentemente da quella forma. La stessa esiguità dell'uso fattone dal F. non è senza significato a riscontro dell'inflazione di tal genere metrico. Ma questo dato acquista rilievo alla luce della originale struttura musicale e sintattica, ora dalle simmetriche corrispondenze, ora franta nel contrappunto delle inarcature, ora slargantesi in mobili volute che aprono spazi concatenati (si pensi, ad esempio, alla serie ipotattica del sonetto A Zacinto).

Nel novembre 1803 vedeva luce a Milano La chioma di Berenice poema di Callimaco tradotto da Valerio Catullo volgarizzato e illustrato da Ugo Foscolo. Con l'incompiuto saggio su Lucrezio costituiva il risultato del lavoro critico-erudito coevo a quello artistico.

L'edizione si apriva con quattro discorsi (Editori, interpreti e traduttori; Di Berenice; Di Conone e della costellazione berenicea; Della ragion poetica di Callimaco). Seguivano l'originale latino dell'Epistola ad Ortalo; il testo della Chioma, annotato con molta dottrina pur se non sempre di prima mano; il volgarizzamento in endecasillabi sciolti dell'epistola e del poemetto; tredici Considerazioni volte a illustrare riferimenti storico-culturali presenti nei versi o da essi presupposti, e una quattordicesima dedicata ai codici Ambrosiani utilizzati per l'apparato. Chiudeva il tutto un Commiato.

Giudicare quest'opera sotto l'esclusivo profilo della filologia significherebbe non coglierne l'autentico significato. Il valore che il F. vi annetteva era nella urgenza morale e politica, che ispirava il nuovo colloquio con i classici. Così il discorso sull'elegante consacrazione poetica della regalità divina di Tolomeo poteva farsi condanna del dispotismo e della cortigianeria letteraria recenti. Ma, oltre questo impegno, la stessa ragione della scelta ci conduce ad una costante della sensibilità estetica del poeta, cui il Catullo-Callimaco si presentava come simbolo di un'arte raffinata, cui contrapponeva l'immagine-mito del poeta primitivo, identificato in Omero e nei profeti d'Israele. Dalle note e dai discorsi può trarsi una summa della poetica foscoliana: dalle considerazioni sulla natura della lirica, a quelle sul mirabile e passionato, il valore delle favole e delle fantasie soprannaturali di contro alla poesia ragionatrice, i rapporti tra religione e poesia, il carattere della religione greca, i poeti primitivi "teologi e storici delle proprie nazioni" vissuti "in età ferocemente magnanime".

Non pochi o marginali tratti di queste riflessioni rivelano una chiara impronta vichiana: il pensiero del filosofo meridionale veniva diffondendosi in Lombardia in quei primi anni del secolo, tramite gli esuli della Repubblica napoletana. Con uno di essi, F. Lomonaco, il F. fu legato da amicizia e consuetudine di vita (ne adombrò la figura e il carattere nel personaggio di Diogene del Sesto tomo dell'io).

Frattanto la sua carriera militare incontrava difficoltà e i suoi rapporti con i pubblici poteri restavano non facili. Non vantaggi ma avversioni e sospetto gli procurò l'Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione, di cui fu ufficialmente incaricato a metà dicembre 1801. Il F. avrebbe, infatti, trasformato l'elogio di Napoleone in un fiero atto di accusa contro gli uomini del governo provvisorio, i proconsoli ladri, da cui era stato tradito l'atteso rinnovamento politico e civile.

Fallito il proposito di intraprendere la carriera diplomatica, nemmeno gli riuscì di rientrare in servizio attivo nell'esercito; solo quando il comando supremo dell'esercito in Milano passò dal Murat al generale J.-B. Jourdan, egli fu reintegrato nei ranghi operativi. Il 26 maggio 1804 gli fu comunicata la nomina a capitano di fanteria, con l'ordine di presentarsi a Valenciennes al comando della divisione italiana in Francia.

Mortificante dovette riuscirgli l'essere destinato ai magazzini della sussistenza; le condizioni di vita migliorarono con il passaggio, nel marzo 1805, a Calais, ove gli fu assegnata "l'ispezione superiore dei soldati imbarcati", e poi, nel settembre di quello stesso anno, a Boulogne-sur-Mer.

Forse nel novembre 1804, a Valenciennes, entrò in rapporto con una delle famiglie inglesi che vi erano trattenute in stato di prigionia: ne faceva parte una giovane con cui strinse una relazione dalla quale sarebbe nata una bambina. Di questa vicenda non si trova parola nel suo epistolario prima del 1826 e il silenzio degli anni precedenti suscita perplessità. Stando alle notizie che finora abbiamo, solo dal 1821 una fanciulla viveva presso di lui a Londra: la "little Mary", nominata in alcune lettere di quell'anno con espressioni che fanno pensare a un rapporto di paternità. Questa fanciulla dovrebbe essere la stessa che successivi documenti indicheranno con il nome di Floriana; la madre fu probabilmente Sophia Saint John Hamilton, che ai tempi della fugace relazione con il F. contava tra i diciannove e i venti anni.

Nei pochi mesi trascorsi a Valenciennes tra il 1804 e il 1805 il F. fu in rapporti con altre donne: tra queste Amélie Bagien, colta e spregiudicata, conosciuta nell'autunno del 1804 a Calais La corrispondenza con lei testimonia anche la ripresa del suo impegno letterario: più volte, infatti, vi si accenna alla traduzione dello Sterne, cui egli venne dedicandosi appena avvertì di avere una qualche padronanza dell'inglese. Ancora al periodo della permanenza in Francia appartiene la breve epistola in sciolti al Monti, che ci è pervenuta in una stesura irta di correzioni e rifacimenti, non approdata a un esito ne varietur. Dell'inizio del 1805 è la Difesa del sergente Armani, un'arringa pronunciata a Valenciennes dinanzi al Consiglio di guerra: all'ufficio di difensore dei soldati dinanzi alle corti marziali egli era e sarebbe stato chiamato più volte.

Trascorse l'ultimo semestre francese, dal settembre 1805 al febbraio successivo, a Boulogne. Ottenuto dal 1° marzo un congedo di quattro mesi, onde sistemare faccende familiari in Italia, il 4 era già a Parigi: dovette verosimilmente incontrarvi la Bagien; chiese udienza all'ambasciatore del Regno d'Italia A. Aldini, cui si raccomandò per ottenere due decorazioni (richiesta trasmessa al viceré, ma senza risultato); fece visita al giovane A. Manzoni, che lo trattò con freddo distacco (e ne fu ferito profondamente). In questo soggiorno, se non nel precedente della fine di giugno 1804, ebbe modo di rivedere la statua della Venere dei Medici, sottratta nel 1799 alla Galleria degli Uffizi e collocata al Louvre.

Tra il 18 e il 19 marzo 1806 era a Milano, donde, a metà aprile, raggiunse Venezia e poté riabbracciare la madre, quasi sessantenne, e la sorella Rubina. Tornò anche a frequentare Isabella Teotochi Albrizzi e si riaccese dell'antica passione. Isabella ne accettò la corte, ma ne frenò gli slanci in modo che l'amore restasse, insieme con le comuni radici etniche, il sotteso filo di una confidenza profonda.

Il 21 giugno da Milano fece istanza onde ottenere la proroga del soggiorno in Italia per altri due mesi: il che gli venne concesso. Ricevette l'incarico di tradurre in italiano l'opuscolo Relation de la bataille de Marengo…rédigée par le général A. Berthier ministre de la Guerre; la traduzione, approntata fin dal 1806, fu messa in circolazione solo nel 1811. Di ulteriori incarichi si sa poco: il 22 luglio era a Mantova per una non precisata commissione, ad agosto in Valtellina e nel Bergamasco, onde visitare, a scopo militare, le miniere di ferro; nel novembre difese dinanzi alla Corte militare un capitano imputato di omicidio.

Ma, nonostante l'incombenza di scritture del genere e quella dei viaggi d'ufficio, l'estate e l'autunno del 1806 furono per il F. un periodo di creatività intensa, i cui risultati più alti - I sepolcri e l'Esperimento di traduzione dell'Iliade - videro la luce delle stampe, per opera dell'editore bresciano N. Bettoni, nell'aprile 1807; rimasero invece fra le sue carte, destinati a pubblicazione postuma, il sermone "Pur minacciavi all'imminente danno", la cui divulgazione sconsigliavano ragioni politiche, e l'Inno alla nave delle Muse, unico episodio realizzato del carme Alceo. Forse a questo stesso arco cronologico va assegnata la composizione di alcuni frammenti di poesia lirica e satirica, la cui datazione resta incerta. Nulla, se pure qualcosa prese forma, ci è pervenuto di un poemetto sui cavalli, di cui c'è traccia in lettere dell'estate 1806 e del dicembre 1808.

La prima notizia concernente la composizione dei Sepolcri è in una breve lettera che il F. indirizzava da Milano alla Teotochi Albrizzi il 6 sett. 1806, accennando a un suo dissenso con lei e con il Pindemonte sul tema della nuova opera poetica. Del carme tornava a parlare ancora ad Isabella il 24 novembre.

È opinione vulgata, o quanto meno prevalente, che alla genesi del carme offrisse impulso l'editto Della polizia medica, promulgato da Napoleone a Saint-Cloud il 5 sett. 1806, cui si è obiettato che i Sepolcri fossero stati composti prima della pubblicazione dell'editto, che apparve a puntate, fra il 23 settembre e il 3 ottobre, sul Giornale italiano. Ma, compiuta una prima stesura, il poeta continuò a lavorarvi intorno durante l'autunno 1806 e oltre: il che ben permetteva di inserirvi il riferimento all'editto napoleonico, tuttavia non da considerarsi come la causa occasionale della loro genesi.

Certo il riferimento al Pindemonte non è marginale: la discussione sul problema delle tombe dovette insorgere proprio traendo spunto dal suo avviato poemetto I cimiteri. Tale discussione avrebbe condotto il F. non ad abbandonare la tesi già da lui sostenuta per quella dei suoi interlocutori, ma a dialettizzarla, accogliendo e superando del pari i due diversi punti di vista.

I termini di tale dialettica sono non la concezione materialistica del reale e lo spiritualismo trascendente, bensì la inutilità e il valore della tomba, il cui contrasto si media nel riconoscimento della sua inutilità per i morti e del suo valore per i vivi. Si trattava di affermare il significato positivo del culto dei morti - sia sul piano individuale sia su quello sociale, nell'ambito delle famiglie come delle nazioni - alla luce di una consapevolezza razionale che, a rigore, dovrebbe negarlo come fondato su una illusione, riducendo la sepoltura esclusivamente a un problema di igiene collettiva. Da questa consapevolezza il carme approda a riconoscere le illusioni come valori: valori il cui fondamento non è più ontologico e metafisico ma psicologico e storico. L'idea della sopravvivenza alla morte è il fondamento delle sepoltura. Negata come vita della sostanza spirituale separata dal corpo, questa idea viene accolta su un piano affettivo come sentimento che spoglia la morte della sua disperazione. La tomba è, dunque, la condizione e, nello stesso tempo, la conseguenza dello scambio d'amore tra i vivi e i morti.

La struttura concettuale potrà dar conto della complessità di questo carme: ma il suo fascino è nell'incalzare delle immagini sotto l'onda di una dominata commozione, nell'alternarsi sapiente dei toni, nella felice varietà del ritmo. L'endecasillabo sciolto ora si snoda in un isodinamismo incalzante, ora si inarca in giochi di echi e di contrappunti, ora si allarga in una durata musicale che sembra travalicare il suo limite, ora si snoda nella pacatezza dell'andamento colloquiale.

L'opera, sin dall'apparire, suscitò diverse e vivaci reazioni. A due mesi dalla pubblicazione apparve l'attacco dell'abate Aimé Guillon, memorabile per l'immediata replica del F. (Lettera a monsieur Guill… su la sua incompetenza a giudicare i poeti italiani, Brescia 1807). Se alcune delle accuse caddero, altre furono variamente riprese e articolate: in primo luogo quella di una certa oscurità nella struttura concettuale e nei trapassi; poi quella dell'insistenza in alcuni momenti su scene cupe e orrorose; infine quella di una certa magniloquenza oratoria e gnomica. Alla prima accusa il poeta oppose che la sua poesia intendeva parlare alla fantasia ed al cuore e non all'intelletto, secondo la lezione dei Greci, e che una certa oscurità non è separabile dal sublime, secondo quanto avevano già visto gli antichi. Ma giustamente la critica avrebbe poi ricondotto questa oscurità non tanto al carattere alogico e fantastico dei trapassi, quanto al coesistere, nella tessitura dei Sepolcri, di un doppio linguaggio - l'uno della fantasia l'altro della ragione - e quasi di un doppio genere, l'epistola didascalica di tipo settecentesco e il carme lirico d'ascendenza pindarica. La suggestione dell'onda emotiva e del rapido trascorrere di immagini, nitide e potenti, cela o attenua il rilievo di certe movenze e di certi nessi conformi più a un procedimento dimostrativo che lirico.

Quasi contemporanea a quella dei Sepolcri la stampa dell'Esperimento di traduzione della Iliade di Omero. L'editio princeps (Brescia 1807) offriva il primo libro del poema nella versione foscoliana in sciolti con a fronte quella del Cesarotti in prosa; seguiva quella del Monti anch'essa in sciolti. Il volume si apriva con un indirizzo al Monti, in cui il F. indicava la ragione affettiva onde aveva pubblicato, con la sua, la traduzione dell'amico; all'indirizzo seguiva una premessa, Intendimento del traduttore, in cui era tracciata una essenziale poetica del tradurre; ai testi poi seguivano tre considerazioni, di cui la terza del F., Su la traduzione del cenno di Giove.

Un puntiglioso lavoro di revisione e di affinamento accompagnò la pubblicazione e proseguì dopo di essa, stimolato anche dalle censure e dai suggerimenti sollecitati, onde il risultato del 1807 venne liberandosi da certo affettato grecismo lessicale e sintattico, da certi modi che, per sfuggire "il pedestre e monotono" delle traduzioni ritenute fedeli, riuscivano "avventati e cantanti", cioè i più alieni dallo stile omerico. Le edizioni postume, quella di F. Caleffi (1835) e quella di M. Carrer (1842), riprodotta questa nel 1856 da F.S. Orlandini, contaminarono variamente il testo, procedendo per scelte e montaggi, sicché il processo elaborativo restò sconosciuto, nella sua compiutezza e nella sua scansione, fino all'edizione critica del Barbarisi, che ricostruiva l'itinerario di questo strenuo impegno artistico del F. dai primi agli ultimi esiti, riprodotti nelle varie fasi e nei vari momenti della loro inquieta e complessa vicenda.

A metà gennaio 1807, durante un breve soggiorno a Brescia, il F. ebbe occasione di conoscere una giovane gentildonna e di innamorarsene. Era Marzia Maria Cipriana Provaglia, di nobile casato, moglie del conte L. Martinengo Cesaresco. Di questo rapporto, che ebbe la sua stagione felice nell'estate del 1807, restano un centinaio di lettere del Foscolo.

All'inizio del 1808, nel Giornale della Società d'incoraggiamento delle scienze delle lettere e delle arti, apparvero due articoli del F.: il primo relativo all'orazione pronunciata da G. Marocco ai funerali del generale P. Teulié, il secondo dedicato alla traduzione fatta da G. Berchet in versi italiani dell'ode Il bardo di Th. Gray. Nel maggio di quello stesso anno vedeva luce, in un elegante in folio, il primo tomo delle Opere di Raimondo Montecuccoli illustrate da Ugo Foscolo; il secondo, alla cui preparazione il F. fu coadiuvato da altri (fra cui P. Borsieri e U. Brunetti), avrebbe visto la luce nel luglio dell'anno successivo.

Filologicamente il lavoro è quanto meno discutibile: ma esso va valutato per il corredo erudito e per la rivendicazione del valore etico-politico delle opere italiane di cose militari.

Non gli mancarono frattanto pubblici riconoscimenti, il più importante dei quali fu la nomina a professore di eloquenza presso l'università di Pavia (decreto vicereale 24 marzo 1808) che gli fece sperare in un cambiamento radicale di vita.

A creargli nuove inquietudini e preoccupazioni venne il successivo decreto del 15 novembre, che comportava la soppressione di "tutte le Cattedre… esistenti nelle Università per l'insegnamento de' corsi del primo anno". Fu per solito ritenuto che la soppressione della cattedra pavese di eloquenza avesse in mira di colpire ad personam il F., il cui non piegarsi all'adulazione avrebbe irritato Napoleone; in realtà la soppressione non concerneva una sola disciplina o una sola università. Per l'anno accademico 1808-1809 si lasciava la facoltà di fare o non fare lezioni: il F. optò per la prima scelta.

Pronunciò la prolusione, ove non erano tributati gli omaggi d'uso all'imperatore, il 22 genn. 1809: numeroso il pubblico e grande il successo (l'Orazioneinaugurale fu pubblicata a Milano nel marzo 1809). L'articolato sviluppo assomma i principî letterari ed etico-politici maturati dal F. nella riflessione che aveva accompagnato la genesi dei Sepolcri. Tenne altre cinque lezioni tra il 2 febbraio e il 6 giugno. Poco dopo pronunciò il discorso Sull'origine e i limiti della giustizia, che svolgeva una tesi già propugnata nell'Orazione: fondamento dei diritto non sono norme universali e naturali, ma rapporti di forza che trovano espressione nelle leggi positive.

Il soggiorno pavese non riuscì piacevole al F.: centro della sua vita continuò ad essere Milano.

Sul finire del luglio 1808 fu a Como ospite del conte G. Giovio, e Como e il suo lago furono, tra l'estate del 1808 e quella del 1809, lo sfondo dell'amore infelice per la diciannovenne figlia del conte, Francesca.

Più vivo nelle immagini delle Grazie che nelle testimonianze epistolari - in questo caso lacunose e oscure - l'altro amore di questo periodo, quello per la milanese Maddalena Marliani, moglie di P. Bignami. Nel giugno 1809 il F. passò lunghe ore ogni mattina accanto a una donna - senza dubbio la Bignami - gravemente malata e di cui disperava la guarigione.

A partire dal 1810 fu oggetto di un sistematico attacco alla sua persona e alla sua opera. In questo clima si colloca la rottura dell'amicizia con il Monti. Nello scontro fu coinvolto il tipografo Bettoni, che, risentito, rispose con l'opuscolo Alcune verità ad U. F., in cui rinfacciava al poeta la ripetuta inadempienza degli impegni economici. Gli si schierarono contro G. Lattanzi, L. Lamberti, U. Lampredi. Intorno gli si stringevano vecchi e nuovi amici, dei quali spesso ispirava il lavoro: Borsieri, S. e L. Pellico, M. Leoni.

Dal febbraio agli inizi di ottobre 1812 attese alla composizione dell'Ajace; un paio di settimane del marzo dedicò alla preparazione della Difesa del comandante dei dragoni reali dinanzi al consiglio generale d'amministrazione della guardia reale, in cui confutava l'accusa di malversazione mossa al vecchio generale P. Viani; il 7 aprile pubblicò sul Giornale italiano l'articolo Per la nascita del re di Roma e, tra il maggio e il luglio, sugli Annali di scienze, lettere ed arti, gli articoli Della poesia lirica, Memoria intorno ai druidi ed ai bardi britanni, Degli effetti della fame e della disperazione sull'uomo, Dello scopo di Gregorio VII. Intanto ai primi di settembre del 1811 era stato nominato revisore sotto il profilo stilistico delle opere teatrali proposte, per la messa in scena, alla Compagnia reale. Ma di lì a poco la rappresentazione dell'Ajace lo avrebbe messo in difficoltà con le autorità governative, essendo stata questa sua tragedia generalmente intesa come un più o meno velato attacco al regime napoleonico.

L'Ajace, pur se ne traeva spunto, non era un calco della omonima tragedia di Sofocle. La diversità nell'intreccio e nella connotazione dei personaggi non nasceva da una semplice ricerca di autonomia creativa, ma era il riflesso di un nuovo motivo di fondo: lo scontro fra uno spirito libero e un signore assoluto, che riproponeva ancora l'antinomia eroe-tiranno del teatro alfieriano. Certamente la vicenda e i personaggi riflettono la reazione del poeta alle vicende storiche a lui contemporanee, anche se solo la malevolenza dei suoi avversari poteva giungere a vedervi un gioco criptico, spinto fino a celare nelle antiche dramatis personae i viventi protagonisti della politica europea. In realtà egli non aveva rivestito di forme antiche uno squarcio di storia in fieri, ma aveva evocato un'antica storia di ingiustizia e di morte con l'animo turbato dai suoi tempi - erano avviati i grandi preparativi per la campagna di Russia - e, naturalmente, nella prospettiva di quelle convinzioni cui già la sua poesia aveva dato voce.

L'Ajace fu messo in scena al teatro alla Scala il 9 dic. 1811; nella replica della sera successiva vennero apportate alcune modifiche e alcuni tagli, ma ciò non valse a far cadere le riserve: il copione fu sequestrato e furono proibite ulteriori rappresentazioni. Pochi giorni dopo il F. scrisse al viceré, dichiarando di non avere avuto "la stolta intenzione di turbare un popolo che venera il fondatore del regno d'Italia"; si addossava, comunque, ogni responsabilità e ne scagionava i censori. Nella Lettera apologetica si sarebbe soffermato sulle conseguenze derivategli dalla recita dell'Ajace: per non esporre a pericoli il ministro Vaccari e altri amici, raggiunse l'accomodamento di starsi "fuori dal regno, ma non fuori d'Italia".

Dal Natale 1811 al 19 marzo 1812 fu a Venezia, quindi rientrò a Milano, ove si ammalò; tra giugno e luglio trascorse un periodo di vacanza a Belgioioso, ospite del vecchio principe Alberico di Barbiano, e vi tornò nell'agosto successivo, ma per pochi giorni.

"La salute e più il desiderio di quiete" lo spinsero a lasciare la Lombardia: partì da Milano l'11 o il 12 ag. 1812, diretto a Firenze, dove giunse il 17. Qui non gli mancarono amicizie vecchie e nuove: i coniugi Orozco e i Cicognara, G.B. Niccolini, l'avvocato L. Collini, Luisa Stolberg contessa d'Albany, che, dopo una iniziale perplessità, lo ammise tra i frequentatori abituali del suo salotto. Se il piglio autoritario di lei colpì negativamente il F. sin dai primi incontri, pure ella lo attraeva per la forte personalità, la cultura, il brio della conversazione; e non gli era discaro l'amante di lei, il pittore F.X. Fabre, né certo dispregiava la cerchia femminile che allietava quel salotto: Isabella Roncioni, Eleonora Nencini, Massimina Fantastici Rosellini, Quirina Mocenni Magiotti.

Senese, Quirina contava trentuno anni quando incontrò il F.: se non bella, possedeva molta femminilità e delicatezza d'animo; "donna gentile", così il F. usava rivolgersi a lei o parlare di lei, e divenne antonomasia nella cerchia dei suoi amici e presso i posteri. Ma di là dal rapporto che si circoscriveva nell'intimità personale, va ricordata l'autentica stima ch'ella nutrì per l'uomo e il poeta, da lei aiutato nei momenti di difficoltà. E non fu solo attenta conservatrice delle sue carte - quelle che egli le aveva affidato e quelle che aveva recuperato -, ma anche procurò che venissero conosciute e studiate: le mise, infatti, a disposizione di quanti si proposero di scrivere la biografia del poeta o di curare la pubblicazione dei suoi scritti - G. Mazzini, L. Carrer, E. De Tipaldo, E. Mayer, F.S. Orlandini -, ella stessa poi si impegnò a ordinare e trascrivere i frammenti delle Grazie, nel tentativo di predisporne l'edizione.

Nella seconda metà di ottobre il F. si trasferì in una casa presso al parco delle Cascine e all'Arno. Le sue condizioni di salute non erano buone: nondimeno attendeva tutti i giorni al lavoro letterario almeno per qualche ora. Aveva revisionato la traduzione del Viaggiosentimentale dello Sterne ed era pronto a stamparla: ma poi tornò a sottoporla ancora per tutto l'inverno a correzioni e rifacimenti; accantonate le Grazie, cui aveva cominciato ad attendere appena giunto a Firenze, era tutto preso dalla tragedia Ricciarda, di cui al trasferirsi nel nuovo alloggio aveva già steso il primo atto.

Con la primavera 1813 si trasferì a Bellosguardo. Seguirono mesi di serenità spirituale e di felice attività poetica. Pure le vicende politiche e militari di quello che sarebbe stato il tramonto dell'età napoleonica non gli restavano indifferenti ed estranee. Riferimenti continui alla campagna di Russia si incontrano sin dai primi frammenti delle Grazie. Le notizie dal fronte giungevano con ritardo, ma infine si vennero precisando le dimensioni del disastro. Degli amici del F. perirono durante la ritirata il colonnello G. Battaglia (per la sua vedova, Lucietta Frapolli, il poeta sarebbe stato preso da una forte passione), C.D. Del Fante, B. Giovio.

Da aprile a luglio il F. continuò ad attendere alle Grazie, mentre in contemporanea lavorava alla Ricciarda, gettava giù l'abbozzo di un nuovo Edipo, meditava un'altra tragedia, Bibli e Cauno - ispirata a un episodio delle Metamorfosi ovidiane -, componeva i capitoli A Pietro Rottigni, A Leopoldo Cicognara, Al signor Zanetti. A giugno per i tipi dello stampatore Didot di Pisa vide luce la traduzione del Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l'Italia. Alla traduzione seguiva la Notizia intorno a Didimo Chierico, personaggio immaginario sotto cui il F. nascondeva la propria identità, come lo Sterne aveva fatto con il personaggio shakespeariano. Il nome Didimo era probabilmente quello del grammatico alessandrino del primo secolo.

Il ricordo del disappunto del viceré per l'Ajace e della promessa fattagli di sottoporgli una nuova tragedia lo incalzava a concludere la Ricciarda, che terminò il 5 giugno; il 29 luglio era a Milano. Da Firenze aveva inviato al ministro degli Interni, L. Vaccari, onde ottenerne il beneplacito per la stampa, un frammento di 115 versi intitolato Il rito delle Grazie, che avrebbe dovuto figurare, secondo il progetto ancor fluido, nell'inno terzo del carme. Si trattava di un collage di passi diversi, volto ad elogiare la coppia vicereale. Con rescritto del giorno 27, il principe Eugenio autorizzò il F. a comprenderli nel suo poema; il 19 agosto ottenne il permesso per la rappresentazione della Ricciarda.

Solo nell'ultima decade di agosto gli fu possibile lasciare Milano. Fece un giro per rivedere luoghi e amici in terra lariana e, a Milano, fece visita a Lucietta Frapolli (e fu per i due un incontro fatale); poi, tornato a Firenze, scrisse alla madre rammaricandosi per la promessa non mantenuta di riabbracciarla, che giustificava con la mancanza del denaro per il viaggio.

Il 12 settembre era a Bologna per seguire l'allestimento della Ricciarda, che andò in scena la sera del 17 al teatro del Corso, con lui stesso costretto a improvvisarsi capocomico.

Rientrato nella villa di Bellosguardo, riprese il lavoro delle Grazie: probabilmente già nell'ultima decade di settembre cominciò a redigerne la bella copia in un fascicolo che per l'ampio formato sarà denominato "Quadernone". In questa fase, il F. si concentrò fondamentalmente nell'impegno della revisione e nei tentativi di colmare le lacune che interrompevano la continuità poematica. Intanto, nei meno di due mesi in cui restò ancora a Firenze, nuovi episodi prendevano forma e altri nel successivo soggiorno a Milano.

Scandita nei vari suoi momenti, la genesi delle Grazie viene a restringersi ad un ambito cronologico, i cui termini estremi vanno dall'ultima decade di agosto del 1812 all'incipiente primavera del 1815, con una serie di intervalli che in realtà riducono l'effettivo lavoro ad alcuni mesi, ai quali poco aggiunge il periodo in cui, nel 1822, furono ritoccati alcuni frammenti per complessivi 184 versi e fu stesa, anche utilizzando e fondendo sparsi appunti di circa un decennio prima, quella ragion poetica che, nella traduzione inglese di Ph. Hunt e sotto il titolo di Dissertation on an ancient hymn to the Graces, fu inclusa, insieme con i versi, nell'in folio destinato ad illustrare la raccolta di sculture di John Russell sesto duca di Bedford (Outline engravings and descriptions of the Woburn Abbey Marbles, [London] 1822).

Schematicamente può così epitomarsi la più ampia redazione continua del carme, quella del "Quadernone": sul colle di Bellosguardo il poeta elegge il luogo del suo culto domestico, consacrando un'ara alle tre dee; al rito in loro onore è invitato A. Canova, che attende a raffigurarle in un gruppo marmoreo.

Alle Grazie preesisteva, col Fato, l'imperioso dominio di Giove, Nettuno, Amore; Venere, inizialmente identificata con la Natura, semplice forza fecondatrice del mondo, fu poi, sotto vari nomi e con riti diversi, celebrata dagli uomini, che ella, pietosa per il loro infelice destino, affidò alla tutela delle Grazie. Si apre quindi lo scenario dello Ionio, ove Venere appare con le Grazie: è lo spunto per il saluto a Zacinto.

Segue la scena delle Oceanine emergenti dalle profondità marine a far festa alle Grazie. Sul lido di Citera alcuni prodigi simbolici, da cui trarranno origine certi riti, accompagnano il passaggio di Venere e delle sue figlie. L'apparizione delle Grazie segna l'abbandono dei costumi selvaggi nell'isola dei feroci cacciatori, cui erano ignoti il culto degli dei, i matrimoni, l'agricoltura.

A questo punto lo svolgimento continuo, che avrebbe dovuto rappresentare il viaggio delle Grazie attraverso la Grecia, si frattura di interruzioni; l'esigenza narrativa dovette scontrarsi con quella lirica, evocatrice di suggestioni fantastico-emotive esaurite in un loro concluso giro. Ai versi evocanti, sulla scia omerica, località e paesaggi greci, avrebbero dovuto seguirne altri, concernenti il primo altare consacrato alle Grazie ad Orcomeno, l'inno che vi cantò un coro di fanciulle e di giovinetti (inno che mai prese forma), la loro metamorfosi in divinità agresti. La stesura riprende con l'episodio del Silvano che si apre con una scena mitico-pastorale in una campagna meridiana sullo sfondo di Firenze e prosegue con una serie di disegni evocanti il mondo boccaccesco: Fiammetta al bagno, l'impudico Dioneo, la genesi del Decameron, dettato da divinità antagoniste delle Grazie, da cui la condanna del poeta. Ma l'insorgere di un nuovo disegno strutturale destinava l'episodio a un tratto del secondo inno, ove l'arte del Boccaccio sarebbe stata celebrata con quella di Dante e Petrarca. Del viaggio in Grecia segue il tratto conclusivo dedicato al congedo di Venere dalle Grazie.

Con l'inno secondo ha inizio il rito di Bellosguardo: nell'invito ai giovani si insinua l'ombra della guerra presente e della tristizia dei tempi che inaridiscono le scienze separandole dalle lettere. Segue l'evocazione di Galilei. All'ara di Bellosguardo verranno ministre tre sacerdotesse, simboleggianti la musica, la poesia, la danza. A dare inizio al rito è la suonatrice d'arpa: dal seducente disegno della donna i versi trascorrono al senso espresso dall'armonia, che esalta gli affetti temperati - gioia e pietà, diletto e affanno - fra cui si muove il mondo umano improntato dalle Grazie. Il suono dell'arpa che va smorzandosi in lontananza suscita per analogia l'evocazione dell'alba sul Lario.

L'offerta rituale sposta l'inquadratura sui giardini di Pitti e dai giardini di Pitti ai teatri fiorentini e poi ad un fuggente profilo femminile, la ninfa di Pratolino. Lo svolgimento procede con l'elogio dei fiori, nella cui tessitura sono stati individuati spunti del Poliziano. Tormentato il trapasso che collega questo episodio a quello della seconda sacerdotessa, recante all'ara di Bellosguardo un favo, a ricordo del miele di cui le api di Vesta fanno tesoro alle Grazie. Inutilmente l'Imetto le richiama da quando esse seguirono le Muse che abbandonarono la Grecia caduta sotto il dominio turco. Qui è collocato un frammento sull'origine della rima, ricondotta alla lacrimevole storia di Eco consunta dall'amore per Narciso. Chiude l'inno l'episodio dedicato alla danzatrice, terza sacerdotessa, che si interrompe nella parte finale, intesa a delinearne l'immagine nel moto del ballo (parte che si trova compiuta fra le stesure non accolte nel "Quadernone"): fra l'apertura e l'interrotta chiusa si articola un ampio svolgimento dedicato all'offerta votiva del cigno e alla preghiera della viceregina Amalia per il marito in guerra.

Del terzo inno, nel "Quadernone" figurano solo 24 versi: siano tre gli inni, quale il numero delle Grazie, ed armonizzino le favelle greca, latina, italiana. Dopo un cenno ad Anfione, segue la raffigurazione della poesia pindarica e di quella catulliana.

La bella copia autografa del "Quadernone" fu preceduta da stesure i cui esiti confluirono, variamente elaborati e strutturati, nella sua compagine e da stesure i cui esiti ne restarono, o tutti o in parte, fuori; ed è seguita da stesure concepite per integrare e condurre a compimento il testo in essa accolto. Alcuni dei frammenti restati fuori dal concatenato sviluppo non solo raggiungono un'autenticità poetica in sé compiuta, ma anche della poesia delle Grazie, nel suo particolare afflato, costituiscono autentica espressione: tali il breve squarcio evocante Saffo; la Fiamma di Vesta; la Vergine romita; i Versi di saluto alla Bignami, che il poeta pensò, forse con una scelta momentanea poi abbandonata, di collocare a chiusura di tutto il carme; l'Erinne, quadro a tinte fosche dell'aurora boreale.

Due ampi episodi, non solo precedono e seguono, ma anche attraversano il "Quadernone", nel senso che, parzialmente accoltivi da preesistenti stesure, furono in seguito rielaborati ed ampliati: il Viaggio in Ellade e i Silvani. Presero invece forma prima e dopo, ma non vi figurano, i Versi del velo, destinati a costituire la parte più ampia e centrale dell'inno terzo. Questi versi ricevettero l'ultima finissima revisione nel 1822, quando furono destinati a figurare, nel già ricordato in folio del duca di Bedford, a fronte delle due incisioni del gruppo canoviano delle Grazie eseguite da H. Corbould. Li precedeva, nel disegno complessivo dell'inno, l'evocazione dell'Atlantide, terra felice da cui gli uomini furono scacciati perché divenuti oziosi e lascivi e ingrati agli dei. L'estenuarsi della ricerca poetica in tentativi inquieti di rifacimento predomina nel Viaggio delle api, che vuol rappresentare, riprendendo il disegno dell'Alceo, il passaggio della civiltà letteraria e artistica dalla Grecia in Italia.

Con l'avanzare dell'ottobre 1813, per l'invasione del Trentino da parte dell'esercito austriaco, il F. temette di rimanere diviso dalla famiglia: questo rischio e il suo senso dell'onore lo spinsero, il 15 novembre, a partire per Milano. Destinato a riprendere le funzioni di capitano aggiunto presso lo stato maggiore, rimase a Milano per una infermità. Corsero voci maligne sulla sua condotta: si insinuò che egli fosse a parte dei segreti del re di Napoli, e che addirittura lo avesse incontrato a Firenze. Verso la metà di aprile era a Mantova, ove partecipò a una riunione di ufficiali che si proponevano di salvare il Regno italico dal crollo napoleonico. Nei tumulti scoppiati a Milano il 20 di quel mese, e culminati nell'eccidio del ministro L. Prina, si trovò in mezzo ai rivoltosi, che cercò di ricondurre alla ragione correndo pericolo di vita: per questo atto di coraggio il 26 ricevette la nomina a capobattaglione. Il 22 stese un Ordine del giorno alla guardia civica, in cui esortava i soldati del Regno Italico a porsi agli ordini del generale D. Pino; il 27 partì per Genova onde avere un colloquio con il tenente generale R. Mac Farlane, cui intendeva chiedere l'appoggio inglese alla causa dell'indipendenza del Regno Italico. Nell'incontro, che poté aver luogo solo pochi giorni dopo a Milano, venne sconsigliato dall'intraprendere qualsiasi azione.

Inviato come portaordini presso le truppe di stanza a Cremona, Bozzolo e Bergamo, poi a Bologna, da dove avrebbe voluto proseguire per Firenze fu, invece, costretto a rientrare a Milano, ove avvertì di correre reali pericoli, avendo contro non i nuovi dominatori, gli Austriaci, ma i suoi stessi concittadini (gli uomini che avevano ordito il tumulto del 20 aprile). Per difendersi dalle insinuazioni e dalle accuse, scrisse, il 20 maggio, al presidente della Reggenza, C. Verri, e al direttore generale di polizia. Lo stesso giorno ebbe un colloquio con il comandante delle truppe austriache H. de Bellegarde, che gli assicurò la sua protezione. Con un dispaccio del 25 il generale G.B. Bianchi d'Adda lo destinò a Montichiari agli ordini del colonnello F. Bonfante, ma il giorno successivo un contrordine lo assegnava allo stato maggiore generale.

I mesi seguenti gli concessero qualche possibilità di raccoglimento e di studio, anche se lo tormentava l'incertezza del futuro. Dall'ultima decade di luglio a tutto agosto attese di nuovo al lavoro delle Grazie, continuato, fra intervalli e disagi che gli inaridivano la vena creativa, fino all'autunno.

Intanto cominciava a circolare per la città, nonostante il sequestro, un libello anonimo, datato Parigi 1814, che affrontava un tema di immediato interesse: Sulla rivoluzione di Milano seguita nel giorno 20 aprile 1814. L'anonimo autore (il senatore L. Armaroli) tracciava la storia della fine del Regno Italico, non senza acume ma anche non senza acrimonia, spinta sino a giudizi oltraggiosi verso i generali L. Mazzucchelli, G. Dembowski, D. Pino, F. Confalonieri e lo stesso Foscolo. Il quale, non diversamente dagli altri, decise di rispondere e pose mano ai Discorsi della servitù dell'Italia, che né allora né nell'esilio svizzero sarebbe riuscito a completare.

Non opportunismo ma incertezza sul ruolo da giocare nelle mutate condizioni politiche lo indusse ad avvicinarsi agli Austriaci e ad accogliere la proposta di redigere un progetto di giornale letterario, di cui egli avrebbe avuto la direzione. All'inizio di aprile 1815 il progetto ricevette il placet viennese: ma non se ne fece nulla, perché già nella notte fra il 30 e il 31 marzo il F. aveva lasciato Milano, dirigendosi verso la Svizzera. Sul punto di partire aveva comunicato alla famiglia la propria decisione - su cui ebbe comunque peso la coscienza dell'errore di venirsi legando agli Austriaci - e il motivo che ve lo aveva spinto: il non volere prestare il giuramento di obbedienza all'Austria al quale era tenuto come ufficiale.

La sera del 1° aprile giunse a Lugano, il 4 passò a Roveredo nei Grigioni. Tra l'inizio di maggio e la fine di agosto si spostò continuamente (ma talora le località che figurano nelle intestazioni delle lettere sono fittizie); verso la metà di ottobre era a Hottingen.

Tra l'agosto e la fine dell'inverno si colloca il rapporto che lo legò a Veronica Römer Pestalozza. La vicenda di questo amore è burrascosa: il musicista G. Sorelli accese la gelosia del F. e, prima fu da lui diffidato, con minacce, di non mettere piede in casa della donna, poi denunziato al marito di esserne l'amante.

I primi tempi del soggiorno svizzero furono duri e drammatici per il F.: gli amici d'Italia, tranne pochissimi, diradarono la corrispondenza o tacquero del tutto; scrivendo era costretto a servirsi di date false, di pseudonimi, di una specie di oscuro gergo mercantile; dovette spostarsi continuamente per sfuggire agli agenti messi sulle sue tracce dagli Austriaci. Poi intervennero a suo favore il governatore C.A. Marca e il conte G.A. Capodistria, al servizio dello zar di Russia, che aveva molto credito nella Confederazione Elvetica.

In questo clima più disteso riprese, non senza le dovute cautele, a stampare qualche suo lavoro. Nel novembre attese a raccogliere e postillare una serie di sonetti italiani: risulteranno alla fine ventisei di altrettanti autori, da Guittone a se stesso (In morte del fratello Giovanni), che pubblicò a Zurigo, con il titolo di Vestigi della storia del sonetto italianodall'anno MCCC all'anno MDCCC, in tre soli esemplari destinati a Quirina Magiotti, Susetta Füssli e Matilde Viscontini Dembowski. Tra aprile e giugno del 1816 stampò, sempre a Zurigo (ma Pisis, in Aedibus Sapientiae, 1815), una satira, l'Hypercalypseos liber singularis, in 104 esemplari, dei quali dodici hanno il titolo preceduto da Didymi Clerici, e solo questi hanno la Clavis Hypercapseos che rivela l'identità dei personaggi satireggiati (i letterati-cortigiani del Regno Italico).

Il terzo libro pubblicato in Svizzera è l'Ortis (Zurigo 1816, ma Londra 1814): non si tratta di una semplice ristampa, qua e là riveduta, del testo 1802, bensì il processo elaborativo viene a riflettere l'esperienza degli anni trascorsi. In questa edizione il romanzo è corredato da una Notizia bibliografica che si estende per oltre un centinaio di pagine: per la stesura di questa e per la messa a punto della stampa poté avvalersi della cooperazione di A. Calbo, il giovane poeta greco già suo collaboratore a Firenze, che, sollecitato da Quirina Magiotti, lo aveva raggiunto a Hottingen il 9 giugno. Una decina di giorni dopo l'arrivo del Calbo si trasferì con lui a Zurigo.

Il 17 agosto 1816 era a Basilea; alla fine del mese a Francoforte sul Meno e il 7 settembre si fermò a Ostenda, in attesa dell'imbarco per l'Inghilterra.

Giunse a Londra il 12 sett. 1816 e prese alloggio al Sablonière Hotel a Leicester e poi, per un intero anno, in un appartamento a Soho. Le prime sensazioni del nuovo paese furono piacevoli: gli accresceva la tensione vitale la consapevolezza di essere a un bivio ("io in questa terra troverò presto o il cataletto, o il carro trionfale": Ed. naz.…, Epistolario, VII, p. 48) e lo scoprire di non esservi sconosciuto.

Tra i primi ad aiutarlo nell'impatto con il nuovo paese fu W.S. Rose, conosciuto a Milano due anni prima, il quale, nelle sue Letters from the North of Italy, presenterà il F. come il più grande degli Italiani viventi.

Il 22 settembre era stato introdotto dal lucchese G. Binda, che vi svolgeva mansioni di segretario, a Holland House, presso lord H.R. Fox, terzo barone Holland. Holland House era uno dei più famosi cenacoli politico-culturali londinesi; nel F. i padroni di casa e i loro amici, la élite del partito whig, ammiravano la celebrità letteraria ma onoravano anzitutto il patriota e l'uomo libero, che non si era piegato né agli Austriaci né, prima, a Napoleone.

Qui il F. ebbe modo di stringere rapporti con uomini di primo piano nella vita culturale e politica inglese, fra gli altri vi conobbe anche lo storico e letterato H. Hallam, la cui opera, A view of the state of Europe during the Middle Ages (1818), non restò estranea ai suoi studi danteschi; J. Mackintosh, poligrafo dai prevalenti interessi storici e filosofici, che si sobbarcò alla traduzione del primo articolo del F. su Dante; il poeta S. Rogers. A lui il F. si rivolse, pregandolo di intervenire presso l'editore J. Murray, per accertare se fosse disponibile a stampare, e a quali patti economici, un'opera cui stava attendendo, le Lettere scritte d'Inghilterra, destinata a restare incompiuta e frammentaria. Ancora attraverso la mediazione dei coniugi Holland, entrò in rapporto di amicizia con un innamorato del mondo classico, R. Payne Knight, che il F. ricorderà con commosse parole, dopo la sua scomparsa, nel Discorso sul testo della Commedia di Dante.

Tra il 1817 e il '21 il F. cambiò varie volte dimora, alloggiando per lo più in case confortevoli. Si infittivano i suoi rapporti con personaggi ragguardevoli della vita politica e culturale inglese, con uomini e donne del bel mondo, con famiglie ospitali: se in alcuni momenti progettava di lasciare l'Inghilterra, o per un ritorno a Firenze o per una sistemazione nelle isole Jonie, poi sentiva il rammarico di dover abbandonare un ambiente che sotto vari profili lo coinvolgeva. Tra il maggio e il giugno 1817 il proposito di trasferirsi nelle Isole sembrò farsi più concreto, anzitutto come una via di uscita dalle necessità economiche. Ad accrescere la tristezza di questi mesi incerti fu la morte della madre, avvenuta a Venezia il 28 aprile: ma la notizia gli pervenne un mese più tardi. Il fratello Giulio gli comunicò di essere in procinto di partire per l'Ungheria (ma la partenza avverrà solo nel 1822) e la sorella gli chiese aiuto finanziario.

Ma ben presto l'idea di lasciare l'Inghilterra venne abbandonata, ufficialmente per un'infermità causatagli da una caduta da cavallo. Di fatto ragioni più profonde lo trattenevano: gli amici, nobili e colti, dai quali era apprezzato e aiutato; lo spirito indipendente e liberale - tanto a lui congeniale - che improntava il loro impegno politico; la speranza di trarre profitti economici scrivendo per le riviste, anche se un lavoro del genere di carattere continuativo gli creava due fondamentali disagi: il dovere fornire testi in francese, in quel suo francese irregolare e barocco, ai traduttori inglesi che per lo più non intendevano l'italiano; e il dovere ricorrere a copisti, il più delle volte poco puntuali e inaffidabili.

Tra le persone cui più si legò fu il vecchio R. Wilbraham, un raffinato epicureo e bibliofilo di molta erudizione, le cui tre nipoti - Anna, Eliza, Emma - e la loro cognata Julia Montolieu non disdegnavano far compagnia al poeta famoso e accettarne la corte. Dal Wilbraham venne presentato, il 23 marzo 1818, a J.C. Hobhouse, intimo amico di Byron, di cui veniva annotando il quarto canto del ChildeHarold. Per una nota di tale lavoro, ormai prossimo alla pubblicazione, questi chiese la collaborazione del F.: si trattava di dare notizia dello stato presente della letteratura italiana, compito che gli appariva, come allo stesso Byron, insidioso per uno straniero.

Ne venne fuori sotto il nome dello Hobhouse il foscoliano Essay onthe present literature of Italy, che dovette essere originariamente steso in italiano. Per l'ampiezza andava ben oltre la richiesta e si presentava così suddiviso: a una premessa si accompagnavano i profili di sei scrittori (Cesarotti, Parini, Alfieri, Pindemonte, Monti e il F.) seguiva poi una breve conclusione, in cui la polemica classico-romantica veniva definita "idle enquiry". Tale giudizio, di cui lo Hobhouse si addossò la paternità, spiacque in Italia, specie a L. di Breme, che fiutò il vero autore del saggio. Al certo la divulgazione del falso avrebbe nociuto allo Hobhouse ma più al F., sia perché in alcune biografíe (quelle del Pindemonte e del Monti) vi erano apprezzamenti che sarebbero potuti apparire rancorosi, sia perché - ed era il peggio - egli gabbava per biografia scritta da altri una sua autobiografia in terza persona. Tra i due insorsero reciproci sospetti, che contribuirono a far naufragare un altro progetto di lavoro comune concernente la storia degli avvenimenti d'Italia a partire dal 1795.

Anche negli anni inglesi la vita del F. fu accompagnata da molte presenze femminili che intrecciarono con lui rapporti di amicizia e di galanteria mondana; fra le tante, la moglie del futuro lord Melbourne e amante del Byron, lady Caroline Lamb, con cui ebbe un intrigo passionale e burrascoso, documentato dai biglietti indirizzatigli fino al 1823. Un affetto protettivo nei confronti del F. ebbero due donne di non comune ingegno: lady Maria Graham, nota per i suoi libri di viaggio - che avrebbe dovuto tradurre i saggi foscoliani sul Petrarca, ma la sua partenza per il Sudamerica fece cadere il progetto -, e lady Barbarina Oyle Wilmot che in seconde nozze sposò Th. Brand Dacre, fra le donne più colte del suo tempo, la quale accoppiava alle doti della mente una rara finezza di sentimenti, come può vedersi dalle lettere scritte al F., di cui avvertì la grandezza ma insieme quei difetti del carattere che ne dissipavano spesso la vita.

Intanto, a parte la ristampa dell'Ortis (1817) e della Ricciarda (1820), videro la luce i suoi articoli storico-critici, che gli fruttarono buoni compensi (sui quali fece calcoli avventati, fidando in una continuità che né lui né gli editori potevano assicurare): sulla Edinburgh Review nel 1818 apparvero i due articoli su Dante; nel 1819 quelli su Pio VI e sulla cessione di Parga al pascià di Giannina (quest'ultimo ebbe particolare eco); nello stesso anno la Quarterly Review pubblicò il saggio Narrative, and romantic poems of the Italians.

All'inizio del 1821 vide la luce, nella stessa rivista, l'articolo Petrarch and Laura, cui seguì nell'incipiente primavera l'elegante edizione non venale degli Essays on Petrarch, la cui composizione s'intrecciò con la passione amorosa, non corrisposta, per Caroline Russell, figlia di sir Henry. L'esemplare donato a Caroline recava stampati in apertura i versi To Callirhoe, sotto il cui nome era celata l'identità di lei (sono i soli versi inglesi che si hanno del F. e alla loro elaborazione offrì alcuni suggerimenti il poeta J.H. Meriuvale). Gli Essays on Petrarch videro poi luce in edizione venale nel 1823 (nel '24 sarebbero apparsi a Lugano nella traduzione italiana di C. Ugoni).

Nel corso del 1821 apparvero nel New Monthly Magazine tre articoli (Learned ladies; Hamlet; An account of the Revolution of Naples during the years 1798, 1799); nell'ottobre sulla Antologia di Firenze apparve, per interessamento e cura di Gino Capponi, la traduzione del terzo libro dell'Iliade.

Frattanto la morte di lady Mary Hamilton, presso cui viveva la bambina nata dalla relazione della di lei figlia Sophia con il F., offrì al poeta la possibilità di liberarsi dalle preoccupazioni economiche. Ora egli accettava di prendere con sé la ragazza (la "little Mary", da lui ribattezzata Floriana), che gli recava un legato di 3.000 sterline. Questa improvvisa ricchezza, male amministrata, gli sarebbe stata causa di rovina. Infatti egli investì il denaro in un contratto che lo faceva temporaneo proprietario di tre villini, il Green, il Kappa e il Digamma cottage: avrebbe subaffittato i primi due a scopo di lucro, tenuto il terzo per sé come confortevole dimora di vita e di studio. Vi si trasferì nell'ottobre 1822.

Intanto il fallimento dei moti del '21 aveva portato a Londra molti esuli italiani: il F. ebbe così modo di rivedere e frequentare antichi conoscenti (L. Porro Lambertenghi, G. Berchet, S. De Rossi conte di Santarosa, G. Scalvini, C. e F. Ugoni, G. Pecchio, F. Dal Pozzo: alcuni saranno subaffittuari delle sue villette).

Se con alcuni di loro i rapporti restarono improntati a una confidente amicizia, con altri non furono sempre idilliaci e non solo per la sua nota impulsività di carattere: diverso era, da parte del F., il modo di giudicare, in un'ottica di disincantato realismo politico, le cospirazioni e i tentativi rivoluzionari nel Lombardo-Veneto. Del resto la conoscenza ravvicinata del sistema parlamentare inglese, l'attenzione alle lotte politico-sociali di quel popolo, la consapevolezza che moti senza possibilità di successo solo inasprissero il governo dei dominatori, lo rendevano ora critico verso le cospirazioni: di qui il giudizio risentito del Confalonieri sul ruolo che egli svolgeva a Londra, dannoso per la causa italiana.

Fecondo di operosità fu il periodo che trascorse tra il 1822 e il '23 nella bella casa nel pressi del Regent's Park, cui aveva dato il nome di Digamma - la lettera sparita dall'alfabeto greco alla quale aveva dedicato una defatigante ricerca apparsa nella Quarterly Review (aprile '22) - : pubblicò sul New Monthly Magazine gli articoli su Michelangelo, Federico II e Pier delle Vigne, Guido Cavalcanti, la poesia lirica del Tasso; collaborò al già ricordato volume che illustrava la raccolta di marmi del duca di Bedford. Purtroppo il lavoro per gli editori si rivelava più difficoltoso e meno remunerativo del previsto e il suo spirito indipendente vi si adattava a fatica; d'altro canto il farsi insegnante di lingua italiana gli sembrava, per un suo strano pregiudizio, servitù che lo avrebbe escluso dalla cerchia aristocratica da cui si sentiva accolto in quanto ritenuto gentiluomo.

Tra il 6 maggio e il 24 giugno 1823 tenne pubbliche letture, il cui ricavato economico gli offrì un qualche respiro: quattro di esse - dedicate rispettivamente alla critica della poesia, allo sviluppo della lingua italiana, alla prima (1180-1230) e alla seconda epoca (1230-1280) della letteratura italiana -, rielaborate, apparvero dal luglio all'ottobre dell'anno successivo nella European Review; restarono fra i suoi manoscritti la stesura concernente altre tre epoche, fino alla quinta dedicata al Cinquecento, e schemi ed appunti che portavano il discorso fino alla letteratura settecentesca.

Ma all'ostinato impegno di lavoro si accompagnavano vicissitudini che rendevano triste il suo declino: i debiti contratti per l'arredamento della casa non erano certo arginati da un misurato tenore di vita. Incalzato dai creditori, fu costretto, all'inizio del 1824, a lasciare il Digamma cottage; l'anticipo ricevuto dall'editore W. Pickering per una collana di classici italiani, di cui si era impegnato a fornire dai quattro ai sei volumi l'anno, gli permise una transazione, onde in agosto poté uscire dalla clandestinità (aveva cambiato dimora, nascondendosi sotto falsi nomi) e ritornare nella sua villetta, che lasciò definitivamente nel novembre di quell'anno.

Riprese la peregrinazione e l'anonimato, che non gli impedirono di attendere all'edizione del Decamerone (apparve nel 1825 in tre volumi e vi era premesso il Discorso storico sul testo del Decamerone) e a quella del poema dantesco (sempre nel '25 uscì il primo volume, che comprendeva il Discorso sul testo della Commedia di Dante): nel marzo del 1827 consegnò all'editore il testo dell'Inferno con le sue chiose di carattere filologico (sarebbe stato pubblicato solo nel 1842 dal Rolandi, per interessamento di G. Mazzini, che ne aveva riscattato il manoscritto e si era sobbarcato al commento delle altre due cantiche, attribuendo il suo lavoro al Foscolo).

Nel Discorso non solo si assommano e approfondiscono le precedenti intuizioni critiche foscoliane su Dante (dagli articoli del 1818, al quarto degli Essays on Petrarch, alle Epoche della lingua italiana), ma anche compare un pensiero nuovo e originale: che la Commedia sia il bando di un rinnovamento religioso, di una rinascita cristiana del mondo. Profeta e apostolo di questa reviviscenza evangelica è il poeta stesso, che vi si consacra "con rito sacerdotale nell'altissimo de' Cieli". Del cattolicesimo egli accetta i dogmi, i riti e anche la gerarchia, purché ristretta nei confini dello spirituale. Il viaggio nell'oltremondo non è una finzione poetica, ma una visione vera, come quelle di s. Paolo e dell'Apocalisse. Nella predominante passione religiosa il F. vede la forza che unifica tutte le altre passioni di una personalità straordinaria e dei tempi che la esprimono. E siccome egli, vichianamente, pensa che l'originalità di un ingegno poetico risulti in gran parte dalla originalità dei suoi tempi, illustrare i tempi di Dante significava in definitiva illustrarne la poesia. Di qui il disegno - lucidamente concepito, ma cui si opposero le sventure e la morte - di far precedere a ciascuna cantica del poema un saggio dedicato, rispettivamente, alla vita politica, alle condizioni artistiche, allo stato della Chiesa tra la fine del XIII e l'inizio del XIV secolo.

Agli inizi del 1825 pose mano a quella appassionata autodifesa della sua condotta politica e morale, che è la Lettera apologetica; nel corso del 1826 e nella prima metà del 1827 intensificò il suo lavoro per i periodici culturali (London Magazine, Retrospective, Westminster, Edinburgh Review); vi videro luce gli articoli sull'encausto, sulle donne italiane, su Michelangelo, su antiquari e critici, sul poema del Tasso, sul Casanova, sulla costituzione di Venezia. Intanto mutava frequentemente alloggio tra la città e i sobborghi, accettava di insegnare l'italiano in una scuola quacchera a Stoke Newington e di dare lezioni private. Il successo nei circoli aristocratici e colti di Londra, la vita agiata e il lavoro redditizio, i piacevoli incontri con uomini e donne variamente interessanti, erano ormai solo un ricordo. Egli sperimentò anche il disonore del carcere per debiti, sia pure per qualche giorno soltanto. Non gli mancavano la solidarietà e l'aiuto di alcuni amici: era partecipe dei suoi studi A. Panizzi; lo aiutava economicamente il banchiere H. Gurney, gli erano vicini F. Mami e G. Bossi, gli diventò familiare il canonico M. Riego, cui lascerà le sue carte.

Con l'estate del 1827 si aggravò l'idropisia che lo aveva colpito. Operato inutilmente due volte, si spense la sera del 10 settembre. La salma fu tumulata nel cimitero di Chiswick, il sobborgo londinese, ove da ultimo aveva preso dimora. Nel 1871 i suoi resti vennero portati in Italia e sepolti nella chiesa fiorentina di S. Croce.