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Il Patto di Londra (o Trattato di Londra) del 26 aprile 1915 fu un
trattato segreto stipulato dal governo italiano con i rappresentanti
della Triplice Intesa in cui l'Italia si impegnò a scendere
in guerra contro gli Imperi Centrali nella prima guerra mondiale in
cambio di cospicui compensi territoriali.
Il Trattato segreto
Il patto restò segreto sino alla sua inattesa pubblicazione,
alla fine del 1917, da parte dei bolscevichi, appena giunti al
potere in seguito alla Rivoluzione russa. Il governo rivoluzionario,
infatti, diede immediata e massima pubblicità ai patti
diplomatici segreti rinvenuti negli archivi zaristi, e tra essi il
"Patto di Londra". La pubblicazione ebbe vasta risonanza
internazionale e causò grave imbarazzo alle potenze
firmatarie, suscitando inquietudine presso l'opinione pubblica
mondiale e ponendo in scacco il metodo della "diplomazia segreta",
seguito da decenni dalle potenze europee. L'emergere del Patto di
Londra diede il via ad una modifica degli orientamenti politici
internazionali che influì notevolmente sulla sua non completa
implementazione a guerra finita. La risoluta opposizione alla
diplomazia segreta, e la sua denuncia quale metodo inaccettabile
nelle relazioni internazionali, fu uno dei principali motivi
ispiratori della stesura, da parte del presidente degli Stati Uniti,
Woodrow Wilson, dei suoi celebri Quattordici punti e, non a caso, il
presidente statunitense si oppose risolutamente alla completa
realizzazione delle rivendicazioni territoriali italiane basate sul
Patto di Londra - per altro mai firmato dagli Stati Uniti - non
riconoscendo ad esso, come ad accordi similari con altri paesi,
alcuna validità.
La non completa realizzazione del Patto causò grave
malcontento ed agitazione in Italia, facendo sorgere il mito della
"Vittoria mutilata", strumento politico che contribuì in modo
decisivo alla crisi del governo liberale e alla nascita ed avvento
del fascismo.
Essendo il Patto segreto un atto deciso da governo, re e gerarchie
militari all'insaputa del parlamento, alcuni storici hanno ritenuto
questo evento come l´atto finale del periodo di governo
liberale e l´inizio di fatto di un´epoca di governi
autoritari illiberali culminata con l'ascesa al potere di Benito
Mussolini. Questa tesi non è tuttavia condivisa dalla
maggioranza degli storici italiani e, in particolare, dai più
autorevoli fra loro.
Premesse
Allo scoppio del primo conflitto mondiale l'Italia era legata alla
Germania e all'Austria-Ungheria dalla Triplice Alleanza: un patto
militare difensivo stretto nel 1882 e via via rinnovato, che si
contrapponeva al sistema di alleanze anglo-franco-russo della
Triplice Intesa.
Nonostante i legami diplomatici, molte rimanevano le differenze tra
l'Italia e gli imperi centrali: mentre questi ultimi erano nazioni
militarmente e politicamente influenti, avanzate dal punto di vista
economico, l'Italia era uno stato sostanzialmente non ancora
unificato, in gran parte povero e arretrato, che faticava a trovare
l'anelato riconoscimento tra le principali potenze europee.
Nei confronti dell'Austria-Ungheria vi era poi un contenzioso
latente, relativo all'irredentismo di molti settori dell'opinione
pubblica e anche di parte del Parlamento: espressioni che, spinte da
un numero sempre maggiore di patrioti e interventisti, il governo
faticava a controllare.
Fu così che, quando l'Austria e la Germania dichiararono
guerra alla Serbia innescando la prima guerra mondiale, l'Italia
rimase al di fuori del conflitto basandosi sulla natura difensiva
della Triplice Alleanza che non impegnava gli stati membri nel caso
di una iniziativa aggressiva. Nei successivi mesi della
neutralità italiana, stante il sostanziale equilibrio delle
forze schierate in campo, divenne chiaro che l'Italia poteva giocare
un ruolo importante se non decisivo sull'esito del conflitto e
perciò il governo intavolò una serie di trattative con
i partner della Triplice Alleanza, nonché segretamente con i
membri dell'Intesa, per stabilire le compensazioni per l'intervento
italiano nella guerra o per il mantenimento del suo stato di non
belligeranza.
Fu subito chiaro che l'Intesa poteva promettere all'Italia ben
più di quello che volevano offrire gli Imperi Centrali, dato
che gli incrementi territoriali ai quali l'Italia era interessata
riguardavano soprattutto l'Austria-Ungheria, e che questo impero era
restio a fare concessioni a proprie spese.
La firma del trattato
Il trattato di Londra fu stipulato nella capitale britannica il 26
aprile 1915 e firmato dal marchese Guglielmo Imperiali, ambasciatore
a Londra in rappresentanza del governo italiano, Sir Edward Grey per
il Regno Unito, Jules Cambon per la Francia e dal conte Alexander
Benckendorff per l'Impero russo.
Il trattato fu firmato in tutta segretezza per incarico del governo
Salandra senza che il Parlamento, in maggioranza neutralista, ne
fosse informato, e tale rimase finché i bolscevichi, giunti
al potere in Russia dopo la Rivoluzione d'Ottobre, lo pubblicarono
sul quotidiano Izvestija insieme ad altri documenti diplomatici
segreti allo scopo di denunciare le trame della politica estera
zarista.
Le condizioni
Il patto prevedeva che l'Italia entrasse in guerra al fianco
dell'Intesa entro un mese, ed in cambio avrebbe ottenuto, in caso di
vittoria, il Trentino, il Tirolo meridionale, la Venezia Giulia,
l'intera penisola istriana con l'esclusione di Fiume, una parte
della Dalmazia, numerose isole dell'Adriatico, Valona e Saseno in
Albania e il bacino carbonifero di Adalia in Turchia, oltre alla
conferma della sovranità su Libia e Dodecaneso.
Gli artt. 1-3: le clausole militari
I primi tre articoli del Patto di Londra ne evidenziano la natura di
patto militare. Venne infatti stabilito che gli Stati Maggiori
Generali di Francia, Regno Unito, Italia e Russia avrebbero concluso
"immediatamente" una convenzione militare per fissare da un lato il
minimo delle forze armate che la Russia avrebbe dovuto impiegare sul
fronte austriaco (per alleggerire il fronte italiano) e regolare in
futuro la questione degli armistizi.
Dal canto suo l'Italia si obbligava, all'art. 2, "ad impiegare la
totalità delle sue risorse a condurre la guerra in comune con
la Francia, la Gran Bretagna e la Russia contro tutti i loro nemici"
- ossia a dichiarare guerra all'Austria-Ungheria. L'articolo
successivo garantiva il "concorso attivo e permanente" all'Italia da
parte delle marine militari francese e inglese fino alla fine della
guerra o alla distruzione totale della marina austro-ungarica,
rimandando l'ulteriore definizione ad una convenzione navale a tre
che le potenze avrebbero dovuto siglare in seguito.
Nelle disposizioni finali del trattato (art. 16), con specifico
riferimento ai primi tre articoli, l'Italia si impegnava infine ad
entrare in guerra al più tardi entro un mese dalla firma
dello stesso.
L'articolo 4: il confine in Trentino e Venezia Giulia
Il Trattato di Londra, all'art. 4, affrontando il tema dei compensi
territoriali italiani, stabiliva che l'Italia avrebbe ottenuto nel
trattato di pace "il Trentino, il Tirolo cisalpino con la sua
frontiera geografica e naturale, il Brennero,[2] la città di
Trieste e i suoi dintorni, la contea di Gorizia e Gradisca, l'intera
Istria fino al Quarnero, compresa Volosca, e le isole istriane di
Cherso e Lussin, nonché le piccole isole di Plauno, Unie,
Canidole, Palazzuoli, San Pietro dei Nembi, Asinello e Gruica coi
loro vicini isolotti."
La frontiera (precisata peraltro in modo poco chiaro) avrebbe
seguito la linea di displuvio alpina dal passo dello Stelvio fino
alle Alpi Giulie. Qui in particolare avrebbe seguito lo spartiacque
per il passo del Predil, il Monte Mangart, il Tricorno e i colli
Podberdò, Podlansco e Idria. Da qui la linea di confine
sarebbe stata tracciata verso sudest verso il Monte Nevoso fino ad
includere Castua, Mattuglie e Volosca nel territorio italiano.
In questo modo l'Italia si sarebbe assicurata, entro un confine
naturale facilmente difendibile, tutto l'attuale Trentino-Alto Adige
(inclusi gli attuali comuni di Cortina d'Ampezzo, Colle Santa Lucia
e Livinallongo), la Venezia Giulia (ossia l'intero Litorale
Austriaco con parti della Carniola) e l'Istria; per quanto riguarda
le città si trattava di Trento, Bolzano, Gorizia, Trieste e
Pola. Salvo lievissime deroghe al principio del confine lungo lo
spartiacque alpino (a favore dell'Italia nella conca di Dobbiaco e
nella Val Canale, a suo sfavore per il paese di Castua in Istria e
presso il lago di Circonio) l'art. 4 del Trattato di Londra fu
rispettato integralmente al momento della firma dei trattati di
pace.
Non era invece inclusa la città di Fiume, "corpus separatum"
della Corona Ungherese, e tale esclusione fu fonte di aspre critiche
nell'immediato dopoguerra. La rinuncia a questa città - che
pure era per maggioranza italiana - si basava sull'assunzione che,
in seguito al conflitto, l'Austria-Ungheria avrebbe continuato la
propria esistenza e che pertanto era necessario lasciarle uno sbocco
sul mare per evitare che tentasse di riprendersi Trieste.
L'articolo 5: il confine in Dalmazia
L’art. 5 del Patto di Londra stabiliva che l’Italia avrebbe ricevuto
la Dalmazia nei confini amministrativi austro-ungarici, a partire
dal confine settentrionale presso Lissarizza e Tribagno (non
includendo quindi Carlopago) fino ad un limite meridionale
costituito da una linea che, partendo da Capo San Niccolò (o
Punta Planca, poco a sud di Rogosnizza) e seguendo lo spartiacque
verso est, avrebbe lasciato in territorio italiano "tutte le valli e
i corsi d’acqua discendenti verso Sebenico, come la Cicola, la
Cherca, la Butisnica e i loro affluenti". Si trattava in sostanza
della Dalmazia settentrionale con le città di Zara, Sebenico
e Tenin.
L’Italia avrebbe anche ricevuto "tutte le isole situate al nord e
all’ovest della Dalmazia da Premuda, Selve, Ulbo, Scherda, Maon,
Pago e Puntadura al nord fino a Meleda al sud, comprendendovi le
isole di Sant'Andrea, Busi, Lissa, Lesina, Torcola, Curzola, Cazza e
Lagosta, così come gli scogli ed isolotti circostanti e
Pelagosa, ad eccezione solamente delle isole di Zirona Grande e
Piccola, Bua, Solta e Brazza". Si trattava in buona sostanza delle
isole dalmate settentrionali (escluse Veglia e Arbe) e delle isole
curzolane; queste ultime in particolare si trovavano di fronte alla
costa della Dalmazia non destinata all'Italia.
Lo stesso articolo aggiungeva anche delle disposizioni riguardo alla
neutralizzazione della costa: in primo luogo la striscia
immediatamente a sud del nuovo confine italiano in Dalmazia, da Capo
San Niccolò fino alla parte meridionale della penisola (a
metà strada verso Traù); in secondo luogo, tutte le
isole non attribuite all’Italia; e infine tutto il tratto costiero
meridionale della Dalmazia da Ragusavecchia esclusa fino al fiume
Voiussa in Albania. Quest’ultima disposizione faceva salvi i diritti
del Montenegro lungo le proprie coste attuali, ma allo stesso tempo
ribadiva le restrizioni concernenti il porto di Antivari, che lo
stesso regno balcanico aveva accettato nel 1909. Rimaneva quindi
fortificabile la costa croata settentrionale, con la base navale di
Buccari e la città di Fiume.
Il Patto di Londra osservato dal punto di vista delle rivendicazioni
serbe
Nell’alto Adriatico il tratto di costa dalla baia di Volosca fino
alla frontiera settentrionale della Dalmazia (quindi incluse le
città di Fiume, Novi e Carlopago con le prospicienti isole di
Veglia, Pervicchio, Gregorio, Goli ed Arbe) avrebbe costituito il
residuo sbocco a mare dello stato austroungarico, dati a una Croazia
semindipendente ancora soggetta all'Ungheria oppure direttamente
soggetta all'Impero. Mentre nel basso Adriatico tutta la costa da
Punta Planca fino al fiume Drin (comprendente le città di
Spalato, Ragusa ele isole non appartenenti all’Italia sarebbe stata
assegnata alla Serbia. In ogni caso il porto di Durazzo sarebbe
stato assegnato ad uno stato albanese indipendente (ma, come si
vedrà, sotto protettorato italiano).
Gli artt. 6-7: il riassetto dell'Albania
A seguire, negli artt. 6 e 7, veniva stabilito il destino dei
territori albanesi, nonostante si trattasse formalmente di uno stato
sovrano nato l'anno prima su parte dei territori persi dall'Impero
ottomano a seguito delle guerre balcaniche.
L'Italia avrebbe ricevuto la piena sovranità su Valona,
sull'isola di Saseno e su "un territorio sufficientemente esteso per
assicurare la difesa di questi punti" (dalla Voiussa a nord e
all'est, approssimativamente, fino alla frontiera settentrionale del
distretto di Chimara al sud). La parte centrale dell'Albania sarebbe
invece stata riservata per la costituzione di un piccolo Stato
autonomo neutralizzato e sotto protettorato italiano.
Per il resto l'Italia si impegnò ad accettare una futura
spartizione dell'Albania settentrionale e meridionale fra il
Montenegro, la Serbia e la Grecia secondo il disegno delle altre
potenze (Francia, Gran Bretagna e Russia), così come una
frontiera comune greco-serba nella porzione orientale dell'Albania,
ad ovest del lago di Ocrida. La costa a sud del territorio italiano
di Valona fino a capo Stilos sarebbe stata infine neutralizzata.
Gli artt. 8-10 e 12: la spartizione dell'Impero Ottomano
Se le disposizioni sull'Albania già presupponevano un
drastico ridimensionamento dei territori ottomani in Europa, le
clausole successive davano quasi per scontato uno smembramento
dell'impero turco alla fine del conflitto: negli artt. 8 e 10,
rispettivamente, veniva innanzitutto stabilita la sovranità
italiana sulle isole del Dodecaneso e sulla Libia, occupate dal
1913, mentre per quanto riguardava i paesi arabi l'Italia aderiva
alla dichiarazione delle Potenze volta a stabilire un "potere
musulmano indipendente" per l'Arabia e i luoghi santi dell'Islam
(art. 12).
Per il resto, le clausole erano estremamente vaghe e sostanzialmente
non vincolanti: all'Italia veniva riconosciuto "in via generale"
l'interesse al mantenimento dell'equilibrio nel Mediterraneo e
promessa, in caso di divisione totale o parziale della Turchia
asiatica, una "equa parte nella regione mediterranea vicina alla
provincia di Adalia", in cui l'Italia aveva già acquisito
diritti ed interessi tramite una convenzione italo-britannica. Per
la zona che "eventualmente" sarebbe stata attribuita all'Italia, il
Patto di Londra specificava che sarebbe stata "delimitata, al
momento opportuno, tenendo conto degli interessi esistenti della
Francia e della Gran Bretagna".
Anche nel caso in cui l'integrità territoriale dell'Impero
Ottomano fosse mantenuta, il patto faceva comunque salvi i diritti
di occupazione dell'Italia nella regione mediterranea vicina alla
provincia di Adalia qualora le rimanenti Potenze avessero occupato
il resto della Turchia asiatica durante la guerra.
L'articolo 13: le ricompense coloniali
A chiudere le concessioni a favore dell'Italia del Patto di Londra,
l'art. 13 proclamava che per il caso in cui la Francia e la Gran
Bretagna avessero aumentato i loro domini coloniali d'Africa a spese
della Germania, le stesse riconoscevano "in linea di principio" che
l'Italia avrebbe potuto reclamare "alcune eque compensazioni, in
particolare nella sistemazione a suo favore delle questioni
concernenti le frontiere delle colonie italiane dell'Eritrea, della
Somalia e della Libia e delle colonie vicine della Francia e della
Gran Bretagna".
Si trattava in ultima analisi di una norma che lasciava subito poco
spazio alle ambizioni coloniali italiane: i cospicui possedimenti
tedeschi in Africa sarebbero stati spartiti esclusivamente tra
francesi e inglesi, mentre l'Italia si sarebbe dovuta accontentare
di lievi correzioni di confine o di graziose concessioni di parti di
colonie vicine, il tutto a discrezionalità delle Potenze. Ai
trattati di pace la norma fu applicata nella maniera più
restrittiva e difatti l'Italia non ottenne nessuna ricompensa
coloniale sino al compromesso dell'Oltregiuba nel 1924 e del
Triangolo settentrionale del Sudan Britannico a sud della Libia
Italiana ceduto nel 1926 oltre ad alcune piccole correzioni di
confine tra l'Egitto britannico e la Libia italiana.
Conseguenze istituzionali
L'azione del governo all'insaputa del Parlamento andava contro la
consolidata prassi parlamentare che si era affermata fin dai tempi
di Cavour.
Per evitare la crisi istituzionale, considerando anche la posizione
favorevole alla guerra del Re Vittorio Emanuele III, la Camera
approvò, col voto contrario dei soli socialisti, la
concessione dei pieni poteri al governo, che la sera del 23 maggio
dichiarava guerra all'Impero Austro-Ungarico. Tuttavia, l'esistenza
stessa del trattato non fu comunicata, e questo rimase segreto fino
alla sua pubblicazione da parte del governo bolscevico.
Il giorno seguente alla concessione dei pieni poteri al governo da
parte del Parlamento italiano, ebbero inizio le operazioni militari.
L'epilogo
Con la fine della I guerra mondiale ed essendo l'Italia risultata
vittoriosa nel conflitto, alla conferenza di pace di Parigi richiese
che venisse applicato alla lettera il patto (memorandum) di Londra,
aumentando le richieste con la concessione anche della città
di Fiume a motivo della prevalenza numerica dell'etnia italiana nel
capoluogo quarnerino. Così non fu a causa del parere
contrario del presidente Wilson, che non avendo sottoscritto il
patto non si considerava ad esso obbligato. La Francia inoltre non
vedeva di buon occhio una Dalmazia italiana poiché avrebbe
consentito all'Italia di controllare i traffici provenienti dal
Danubio. Il risultato fu che le potenze dell'Intesa alleate
dell'Italia opposero un rifiuto e ritrattarono parte di quanto
promesso nel 1915. L'Italia dal canto suo fu divisa sul da farsi, e
Vittorio Emanuele Orlando abbandonò per protesta la
conferenza di pace di Parigi. Le potenze vincitrici furono
così libere di proseguire la conferenza di pace senza la
presenza italiana. Il nuovo presidente del consiglio italiano
Francesco Saverio Nitti ribadì nuovamente le richieste
italiane, ma nel contempo iniziò delle trattative dirette col
nuovo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, che sfociarono nel Trattato
di Rapallo del 12 novembre 1920]: della parte della Dalmazia
promessa col patto di Londra, all'Italia andarono la città di
Zara, l'isola di Làgosta e l'arcipelago di Pelagosa
(più vicino alla penisola italiana che alla costa dalmata).
Il resto della regione fu assegnata al Regno dei Serbi, Croati e
Sloveni.