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Corradini, Enrico 

www.treccani.it

Scrittore e politico nazionalista (Samminiatello, Montelupo Fiorentino, 1865-Roma 1931). Dannunzianeggiante come letterato, il suo nazionalismo si venne sempre più politicizzando, e nel 1903, fondata la rivista Il Regno, vi espose le tesi che poi svilupperà in tutta una serie di scritti (La vita nazionale, 1907; L’ombra della vita, 1908): ci sono «nazioni plutocratiche» e ci sono «nazioni proletarie» (come l’Italia); le seconde hanno il diritto di espandersi, di conquistare nuovi territori, e di procurarsi tutti quei vantaggi che sono necessari alla loro rinascita e al loro sviluppo. Di qui la violenta opposizione di C. al socialismo (sostenitore della fratellanza fra le nazioni), al parlamentarismo, al giolittismo. Nel 1910 fondò l’Associazione nazionalista italiana, alla quale l’anno dopo affiancò il giornale L’idea nazionale. Allo scoppio della Prima guerra mondiale fu un acceso interventista e condusse violente campagne di stampa contro i neutralisti. Nel 1922 fu tra i fautori di una convergenza fra i nazionalisti e i fascisti, convergenza che fu realizzata nel 1923. Fu senatore dal 1923 e ministro di Stato dal 1928.

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DBI

di Franco Gaeta

CORRADINI, Enrico.

Nato il 20 luglio 1865 a Samminiatello di Montelupo (Firenze) da Narciso e da Anna Setti in seno a una famiglia di piccoli proprietari terrieri si laureò nel 1888 in lettere all'università fiorentina e seguì poi, tra il 1889 e il 1891, i corsi dell'Istituto di studi superiori della stessa città e, per alcuni anni, fu professore presso il locale liceo "Galileo".

La sua iniziazione culturale - destinata a rimanergli sempre presente nella vita - fu d'impronta positivistica, ricevuta attraverso l'insegnamento di G. Trezza, e le sue prime prove letterarie ebbero manifestazione sulle pagine della rivista Germinal, che egli stesso fondò, assieme a un gruppo di altri giovani condiscepoli quali C. Cordara, G. Gargano, D. Garoglio e A. Orvieto, e si pubblicò tra il dicembre 1891 e il gennaio 1893, intendendo proporsi come un periodico di letteratura militante con una funzione apertamente "civile".
Le formulazioni che il gruppo di Germinal fu capace di avanzare erano soprattutto negative, insistendo sul rifiuto di forme e contenuti lontani dalla realtà, senza per altro specificare la natura dei rapporti tra la realtà stessa e l'arte: la più precisa caratteristica era data dalla critica e dal rifiuto della civiltà urbana e dalla rivendicazione della bontà della "campagna" e della campagna toscana in particolare, nonché dalla convinzione di poter trovare nell'attività artistica impegnata una via d'uscita alla crisi spirituale di cui i giovani autori erano partecipi.

Il C., tra il 1892 e il 1895, si dedicò soprattutto alla stesura di lavori teatrali che rimasero per lo più inediti (In riva all'Arno, Firenze 1892; Gli ultimi Elisei, Le selve, e il Compleanno del 1893; Dopo la morte, Firenze 1895) e vanno ricordati unicamente per completezza bibliografica. Nel febbraio, per iniziativa del C., di Adolfo e Angelo Orvieto, D. Garoglio, G. Gargano, M. Morasso, iniziò le pubblicazioni il Marzocco, la cui direzione, affidata in un primo tempo ad Adolfo Orvieto, venne assunta nel febbraio 1897 dal C. che impresse alla rivista - già attestata a difesa delle "più elevate attività dello spirito" secondo il vitalismo dannunziano - un tono di contestazione estremizzante, antimaterialistica e venata di cospicue movenze irrazionalistiche. Le nebulose proposte di rinnovamento, la sensazione di trovarsi a vivere in un momento in cui stava per verificarsi una svolta storica, comprovano che il C. e i suoi amici non avevano idee chiare proprio sulla qualità dell'impegno politico che i letterati avrebbero dovuto assumere, e la posteriore ricostruzione che il C. diede di questi anni, nel 1923, collegando la sua "conversione" dalla letteratura (in cui egli errava "disperato e cieco") alla politica allo choc per la sconfitta di Adua, pare smentita dalla sua pertinace operosità come drammaturgo e romanziere che restò per lui decisamente prevalente fino alla fondazione del Regno.

La "cecità" e la "dissolutezza" corradiniane continuarono infatti ben oltre il 1896 in una serie di tentativi narrativi e teatrali nei quali egli affrontò una tematica esistenziale più che politico-sociale che lo mostrò interessato a inserirsi nelle più attuali correnti che stavano realizzando il passaggio dal romanzo e dal teatro di azione a quelli di analisi e di idee, ed ancora sostanzialmente lontano dal conferire al discorso politico un valore autonomo e tanto meno preponderante e a subordinare alle ragioni di costruzione ideologica le limitate capacità di narratore. Un minimo di problematica politico-sociale è certamente presente nei romanzi scritti in questo periodo (Santamaura, Firenze 1896; La gioia, ibid. 1897; La verginità, ibid. 1898) e nei due drammi La leonessa, in Flegrea, III (1899), 3-6, e Giacomo Vettori, in Nuova Antologia, 15 genn. 1901: ma tale problematica costituisce, in verità, soltanto l'inevitabile sfondo e ambientamento di vicende che sono tuttavia in linea con la tematica personalistico-esistenziale dei primi lavori e che si rifanno a precise suggestioni del teatro di Ibsen e di Hauptmann e (in un rapporto di recezione e di suggestione) all'opera di D'Annunzio, per lo meno nelle accezioni in cui essa si era concretata nel Giovanni Episcopo e nella Gloria, con la palese intenzione di rispecchiarla e di riviverla a un livello borghese-popolare.

L'elemento politico, in questo gruppo di opere corradiniane, si presenta come un dato "negativo", strettamente connesso all'asserita decadenza morale della civiltà e della cultura urbana, corrotta o mistificante, che non trova come proprio contrapposto un incisivo atteggiamento superomistico, ma un semplice ribellismo individualistico il quale precipita i protagonisti in situazioni patologiche di degrado, che, per la loro stessa eccezionalità, vanificano, con un'esacerbazione realistico-naturalistica, ogni critica seria ed efficiente alla società italiana del tempo. Il dramma dei personaggi di questi romanzi e lavori teatrali resta un problema affatto personale e sostanzialmente intimo: le soluzioni o gli epiloghi non hanno alcun valore propositivo, ma consistono in una retrogressione all'ambito prepolitico e istintuale e mettono quindi capo ad un esaltato rigetto di ogni norma e misura, che non sono solo la norma e la misura della società contemporanea né possono venire sostituite da una norma e da una misura alternative come pure avrebbero potuto essere quelle del superuomo nietzchiano-dannunziano o dell'"egoarca" di Mario Morasso.

Nel 1901, tuttavia, con Giacomo Vettori, si nota nel C. un'impostazione potenzialmente diversa da quella sin allora osservata che si traduceva in un pessimismo distruttivo e torbido. Il protagonista del dramma si configura infatti come un eroe positivo che lascia in retaggio al figlio un esempio concreto di operosità e di energia ed una ricchezza vittoriosamente difesa contro un "ingiusto" assalto proletario respinto e represso senza tentennamenti. È evidente nel Giacomo Vettori la presenza di un messaggio politico che prese più concretamente corpo nel dramma Giulio Cesare, pubblicato a Roma nel 1902 contemporaneamente al secondo volume di Grandezza e decadenza di Roma di G. Ferrero del quale parve un contraltare.
Il nuovo dramma corradiniano, nell'esaltazione di Cesare contro Bruto e Cassio impersonanti i germi di distruzione e il dottrinarismo astratto, fu una chiara presa di posizione per il superamento dei partiti-fazioni in nome della grandezza nazionale, ostacolata e negata -secondo l'autore - dalle correnti democratiche e socialiste e dalla pavida oligarchia liberale.

Si era all'inizio del nuovo corso politico giolittiano, e alla deprecazione dei tempi dispiegata negli anni precedenti stava subentrando la formulazione, sia pur vaga, d'una proposta antidemocratica e antisocialista, che nasceva come reazione alla politica di apertura verso il movimento operaio. Il C., che già dal 1901 aveva polemizzato contro il pacifismo tolstoiano d'impronta cristiano-socialista, in nome di un'arte "libera da qualunque missione" e sgorgante dal bisogno di vivere "tutta la vita in un modo forte e violento", nel 1902 aveva cominciato ad agitare una critica "antimaterialistica" contro la lotta di classe, massima espressione dell'egoismo e massimo pericolo per la coesione nazionale, ed aveva compreso l'importanza e la necessità di un'azione di propaganda di massa la quale comportava una conversione dall'arte alla politica e la costruzione d'una retorica adeguata, in grado di selezionare pochi semplici temi capaci di generare consenso ad un'alternativa politica e - al limite - istituzionale.

Proprio in connessione con il dispiegarsi dell'iniziativa socialista e del rivendicazionismo sindacale, il C. diede vita nel 1903 al Regno di cui furono attivissimi collaboratori G. Prezzolini e G. Papini (che il C. aveva conosciuto nel 1902) ed un gruppo di letterati, molti dei quali avevano in precedenza collaborato al Marzocco. Si trattava d'un vivace nucleo di scrittori, toscani di nascita o di formazione, che nella nuova rivista trovarono soprattutto una palestra per esprimere gli aspetti politici delle loro convinzioni, le quali, per quanto concerneva la problematica estetica e letteraria, trovavano contemporaneamente più appropriata sede di espressione in altri fogli. In seno al gruppo, che portò rumorosamente alla ribalta della vita politica e intellettuale italiana la tematica nazionalista, il C. si distinse per il carattere lucido e conseguente dei suoi interventi, che ne fecero il più accreditato e consapevole ispiratore del movimento e il più convinto assertore di una linea espansionistico-imperialista alla quale avrebbe dovuto raccordarsi non solo la borghesia, ma lo stesso proletariato operaio una volta che fosse stato sottratto all'egemonia socialista.

Il nucleo della proposta politica corradiniana stava nel porre la "nazione" come valore fondamentale e supremo, oltre che come organismo protagonista della vita di relazioni internazionali. Gli ingredienti che egli adoperava per definire la nazione erano in parte mutuati dal nazionalismo francese di Barrès e di Maurras e in parte derivati da una tradizione che era stata ben presente nella storia del Risorgimento e del postrisorgimento italiano, da Gioberti a Mazzini, fino a Carducci, Oriani e D'Annunzio: l'intonazione "idealistica" del C. celava malamente la vena positivistica alla quale egli si era originariamente nutrito e che era spesso denunciata dal lessico e dalle immagini non di rado mutuati dalla versione vulgata della scienza positiva; e l'antipositivismo del C. aveva un'origine politica poiché la filosofia "positiva" era in larga parte lo strumento di discussione corrente e di propaganda dell'odiato riformismo socialista.

Nel primo numero del Regno, il C. espresse con estrema chiarezza il senso della rivolta che dalla sfera intellettuale doveva ormai calarsi sul terreno politico, nel momento in cui i ritmi dello sviluppo industriale si acceleravano e i nuovi gruppi imprenditoriali pretendevano un peso politico adeguato alla loro forza e funzione economica. Ciò che il C. rifiutava - e invitava a rifiutare - era la viltà della borghesia di governo e l'invilimento dell'"ignobile socialismo" che nasceva sul terreno della democrazia e dell'umanitarismo: la classe politica borghese e la dirigenza socialriformista erano contestate contemporaneamente. Bisognava bandire "il sentimentalismo, il dottrinarismo, il rispetto smodato della vita caduca, la smodata pietà dell'umile e del debole, l'utile e il mediocre posti come canoni di saggezza ... il dileggio dell'eroico" e levarsi contro le "orde" e le "furie" del numero.

La riscossa borghese non doveva essere "una delle tante variazioni del liberalismo italiano" e non doveva fondarsi sul "vecchio dogma della libertà": essa doveva propugnare una politica estera imperialistica, non fondata sull'espansionismo industriale e commerciale, per il quale non esistevano le forze, ma sulla conquista di colonie. Tutte le forme d'espansionismo dovevano essere praticate, ma, secondo il C., la forma più naturale di espansione restava, per l'Italia, quella "territoriale per conquista", che doveva precedere quella industriale e commerciale. Per realizzare una tale politica, era necessaria la più profonda compattezza della nazione, che il C. definiva con formule nelle quali erano presenti venature positivistiche, mistiche e perfino metafisiche; formule che egli ripeté sempre con variazioni di poco conto e che, in sostanza, indicavano la nazione come "la maggiore unità di vita collettiva" protagonista della storia del mondo la quale consisteva nel conflitto degli antagonismi di cui le nazioni erano appunto gli organi maggiori, sorti "per una forza di sviluppo dall'interno all'esterno". La conseguenza pratica di questa nebulosa visione teorica era che occorreva realizzare "una pace interna per una guerra esterna": una pace che doveva scaturire dalla vittoria dell'"imperialismo di classe", premessa del "vero e proprio imperialismo esterno".

L'attività di pubblicista politico, cui affiancò un'intensa attività di conferenziere, non impedì al C. di continuare la sua operosa di autore teatrale (L'apologo delle due sorelle, Firenze 1903; Gli Atti degli apostoli, ined., 1904; Maria Salvestri, Milano 1907; Carlotta Corday, Napoli 1906)e di narratore (Le sette lampade d'oro, Torino 1904); e la direzione del Regno non sospese la sua collaborazione ad altre riviste (Nuova Antologia, La Settimana, L'Illustrazione italiana, La Lettura, Regina), al Giornale d'Italia e al Nuovo Corriere di Firenze.

Nel 1905 il C. abbandonò la direzione del Regno, pur continuando a collaborarvi sino al dicembre 1906 quando la rivista cessò le sue pubblicazioni: il mutamento della situazione politica in seguito alle elezioni del novembre 1904, in occasione delle quali era stato parzialmente abolito il "non expedit" e i cattolici erano intervenuti a sostegno dello schieramento conservatore, aveva avviato un processo di chiarificazione che accentuava le divergenze presenti in seno al gruppo protonazionalista. Mentre A. Campodonico, che sostituì il C. nella direzione della rivista, insisteva in una linea liberalconservatrice, ma respingeva l'accordo clerico-moderato e propugnava una politica laica e liberista, il C. si diede a teorizzare la necessità e opportunità d'un blocco borghese del quale dovevano far parte anche i cattolici, e a distinguere cristianesimo (religione "democratica") da cattolicesimo (ideologia dell'"ordine" e conservatrice) aggiungendo questa tematica a quella "romana" ed accentuando i toni antiliberali e antiparlamentari. A questa varia azione intellettuale il C. collegò un'opera di proselitismo politico e cercò d'intessere rapporti e stabilire collegamenti con tutta una serie di gruppi d'intellettuali che si esprimevano politicamente attraverso periodici d'orientamento nazionalista (anche se spesso, in più o meno larga misura, discordanti dalle impostazioni del Regno), moltiplicatisi soprattutto a partire dal 1908. In questo quadro, il più interessante approccio fu quello verso i sindacalisti, che ebbe luogo mediante la collaborazione del C. al Tricolore, diretto da M. Viana e Riego Girola. Secondo il C., l'antagonismo di classe poteva essere superato in nome della solidarietà nazionale, che ne doveva segnare il limite: per ottenere questo risultato bisognava spezzare il legame che esisteva tra le organizzazioni operaie e il partito socialista e mirare alla formazione di un blocco sindacal-nazionalista che avrebbe avuto (pur nella diversità dei programmi) per comuni nemici "la borghesia liberale di governo e il socialismo riformista". Al mito dello sciopero generale si opponeva il mito della guerra vittoriosa: entrambi questi impulsi comportavano però un'azione antidemocratica e antiparlamentare, e il nazionalismo doveva porsi come movimento di massa agitando il proprio mito guerresco ed espansionista.

I due romanzi La patria lontana (Milano 1910) e La guerra lontana (ibid. 1911) rispondevano ormai in pieno a un'esigenza scopertamente propagandistica e furono opere tutte politiche nelle quali i meccanismi narrativi si rivelarono estrinseci e pretestuosi, costituendosi come comici di parti essenzialmente suasorie: le uniche ad avere una qualche validità e vitalità, per altro avulsa dal contesto dell'esile trama del racconto.
Si trattò di due prodotti che segnarono l'ultimo exploit del C. letterato. La pedagogia volontaristica e guerresca risultava, invero, più efficace nelle forme del discorso e della saggistica politica che non nella delineazione di vicende il cui sviluppo aveva parecchio di estrinseco e si concretavano in esempi edificanti quanto privi di una logica che non fosse quella della tesi che l'autore si proponeva di dimostrare.

La stessa attività d'inviato speciale di giornali come Il Corriere della sera e L'Illustrazione italiana, cui si dedicò tra il 1908 e il 1912, mostrò come il C. si rendesse conto di quali fossero le sue più cospicue capacità, e nello stesso tempo indicò una scelta precisa per un'azione politica di raggio più vasto e d'incidenza più immediata di quella che si poteva svolgere collaborando a fogli di limitata diffusione e d'intonazione elitaria. La fondazione de L'Idea nazionale, un settimanale cui il C. diede vita insieme ai più giovani F. Coppola, M. Maraviglia, L. Federzoni e R. Forges Davanzati, nel 1911, fu un'operazione sintomatica che rispose ad una precisa finalità politica imprimendo al movimento nazionalista una direzione conforme in grandissima parte alle convinzioni corradiniane. Nel 1910, al primo convegno dell'Associazione nazionalista italiana di cui era stato uno dei promotori, tenutosi a Firenze, il C. svolse un'importante relazione destinata ad essere una delle pièces fondamentali del nazionalismo.

Parlando su Classi proletarie: socialismo, nazioni proletarie: nazionalismo, egli teorizzò l'esistenza di uno "sfruttamento di classe semplice", operato dalla borghesia ai danni del proletariato in ciascun paese, e di uno "sfruttamento di classe composto", che si verificava sul piano internazionale e si concretava nell'opposizione tra nazioni ricche e nazioni povere: "ci sono nazioni proletarie come ci sono classi proletarie; nazioni, cioè, le cui condizioni di vita sono con svantaggio sottoposte a quelle di altre nazioni, tali quali le classi ... L'Italia è una nazione materialmente e moralmente proletaria". Come il socialismo aveva dato coscienza, forza e volontà di vittoria al proletariato, così il nazionalismo doveva fare nei confronti della nazione italiana e doveva essere il socialismo nazionale", cioè "insegnare all'Italia il valore della lotta internazionale" e suscitare "la volontà della guerra vittoriosa", che era un "ordine morale", un "metodo per creare la ragione formidabile e ineluttabile della necessità della disciplina nazionale". Soppressa all'interno la lotta di classe, bisognava affrontare la lotta tra nazioni proletarie e nazioni capitalistico-plutocratiche, conferendo alla nazione la stessa aggressività che il proletariato aveva mostrato di potere e di sapere dispiegare nella lotta contro il suo avversario all'interno della nazione, e perseguire una politica di rafforzamento militare e di espansionismo.

Un'impostazione di questo tipo era destinata ad avere un buon successo nella congiuntura che portò all'intrapresa della guerra di Libia, di cui il C., dalle colonne dell'Idea nazionale, fu uno dei più accesi e attivi propugnatori, quantunque il ruolo suo e del suo giornale debba essere obbiettivamente ridimensionato, rispetto al vanto che i nazionalisti ne menarono, perché la reale funzione di orientamento dell'opinione pubblica fu svolta in questa circostanza da fogli ben più autorevoli e diffusi del settimanale nazionalista, che tirava poche centinaia di copie e aveva iniziato le pubblicazioni nel marzo 1911, quando la campagna di stampa sollecitante l'impresa coloniale era già in atto da parte della Tribuna, della Stampa e del Giornale d'Italia. Il C., nel 1911, si era recato, prima della guerra libica, nell'Africa settentrionale, per conto dell'Idea nazionale; seguì poi le operazioni militari per conto dell'Illustrazione italiana: le corrispondenze furono raccolte ne L'ora di Tripoli, Milano 1911, La conquista di Tripoli e Sopra le vie del nuovo impero, ibid. 1912, che naturalmente rinnovarono la tematica espansionistica, elemento costitutivo dell'imperialismo corradiniano.

Tra il 1912 e il 1914 il C. (assieme agli altri redattori dell'Idea nazionale) portò avanti in seno al movimento nazionalista un processo di chiarificazione reso necessario sia dal successo colto da Giolitti in politica estera, sia dal pronunciamento nazionale dei cattolici, sia dall'approvazione della riforma elettorale che aveva istituito il suffragio universale maschile.

Egli fu uno dei maggiori e certo il più ascoltato fautore di una linea apertamente antidemocratica, militarista ed espansionista che segnava lo spartiacque tra il nazionalismo e il liberalismo non solo giolittiano, ma anche conservatore e, facendo saltare l'equidistanza tra socialisti e cattolici, predisponeva ad un'alleanza con i secondi. Nel secondo congresso dell'Associazione nazionalista italiana, tenuto a Roma nel dicembre 1912, il C. criticò la condotta della guerra libica e sostenne che la forza militare dovesse trasformarsi in forza guerresca, che cioè l'Italia dovesse dotarsi di "uno spirito militare aggressivo, di natura rivoluzionaria" e che il nazionalismo dovesse opporsi alle forze disgregatrici, rappresentate, secondo lui dai partiti democratici e sociali, ma, in qualche misura, presenti in tutti i gruppi politici italiani nonché nella massoneria essenzialmente internazionalista e cementatrice dei blocchi radicalsocialisti. Questa impostazione provocò la scissione dell'A.N.I., chiarendo una serie di equivoci che erano sempre stati presenti nel movimento nazionalista fin dai tempi del Regno, e ne segnò l'individuazione nei confronti delle correnti liberal-patriottiche, consumandone contemporaneamente il distacco dalle concezioni classistico-borghesi che allora erano state sostenute soprattutto da Prezzolini. Per il C., l'antidemocrazia nazionalista nasceva dal fatto che la democrazia era ormai contaminata dal "riformismo parassitario" del socialismo che essa favoriva nell'intento di distogliere il proletariato dall'espropriazione della borghesia, aggiungendo così al parassitismo proletario un parassitismo plutocratico.

Il C. distingueva in seno alla borghesia una borghesia intellettuale, una borghesia politica e una borghesia dei produttori: quest'ultima soltanto era una forza sana, e si trovava in opposizione alla vecchia borghesia politica pacifista e materialista: l'unica democrazia accettabile era una democrazia dei produttori nella quale capitalisti e proletari avrebbero potuto trovare una composizione dei loro interessi. Si trattava di un parziale approfondimento di temi già da tempo accennati, che però trovavano maggior mordente nella congiuntura politico-economica postlibica, la quale sollecitava una serie di riflessioni sui fenomeni della distribuzione e della produzione e conduceva ad insistere con maggior forza sulla visione (priva di fondamento teorico, ma efficace sul piano emotivo-propagandistico) del nazionalismo come "socialismo della nazione italiana nel mondo" che comportava un progetto di ristrutturazione internazionale e una revisione dell'organizzazione interna.

Nel quadro dell'iniziativa e dell'azione antibloccarda, il C. si presentò, nelle elezioni del 1913, candidato alla Camera nel collegio di Marostica, ma non venne eletto, nonostante l'appoggio dei cattolici. Continuò naturalmente la sua attività di propagandista e di conferenziere e, nel corso del 1913-14, insistette con rinnovato vigore sulla necessità della "revisione dei valori politici contemporanei in Italia" prendendo sempre più nettamente le distanze nei confronti dei liberali ed affermando con sempre maggior lucidità che i nazionalisti dovevano essere "i dissolventi sempre più addentro e sempre più corrosivi delle vecchie formazioni politiche" ed aprire la via a una nuova formazione. La debolezza dell'Italia aveva la propria radice nel fatto che alla base dello Stato unitario c'era stato il liberalismo individualista: esisteva una chiara linea evolutiva da questo liberalismo alla democrazia e da questa al socialismo, linea che metteva in atto un processo di dissolvimento dello Stato. Il nazionalismo doveva avere invece un'"anima statale" e "sviluppare il pensiero statale, che cioè lo Stato è vivente per lo Stato, che la nazione è vivente per la nazione e che l'Italia è vivente per l'Italia, e che lo Stato è la forma visibile della sua vita". Il logico sviluppo di queste idee conduceva, dunque, ad adottare una visuale organicistica dello Stato che aveva bisogno di una proposta costruttiva e operativa: il C. non aveva intrinsecamente la capacità di offrirla, e ciò spiega come, a partire dal terzo congresso nazionalista del 1914, la sua leadership cominciò a incrinarsi. Il vago progetto di ristrutturazione dello Stato e dell'economia trovò più incisivi teorizzatori in "tecnici" come Alfredo Rocco e Filippo Carli e la conduzione politica del movimento nazionalista passò nelle mani di più abili e spregiudicati condottieri, pur restando ancora il C. il nume tutelare e il più brillante propagandista a livello del grande pubblico. Sotto un certo aspetto, la tematica totalitario-corporativo-protezionistica che venne allora alla ribalta fu una esplicitazione tecnico-giuridica di quelle tesi che il C. era andato sviluppando sul terreno politico-oratorio.

Lo scoppio della prima guerra mondiale vide il C. in prima linea nella campagna per l'intervento cui egli impresse ovviamente una direzione nettamente imperialistica. I contatti del C. con il mondo imprenditoriale erano già molto stretti fin dal 1913 e fu soprattutto per merito suo che l'Idea nazionale, attraverso la costituzione della Società anonima, "L'Italiana" (nel cui consiglio di amministrazione, assieme al C. e a P. L. Occhini, sedevano gli industriali D. Ferraris, A. M. Bombrini e G. Rattazzi) riuscì a trovare finanziamenti che le consentirono di trasformarsi da settimanale in quotidiano mediante gli aiuti forniti da un gruppo d'imprenditori tra cui spiccavano personaggi noti dell'industria siderurgica, meccanica e zuccheriera. L'intensa attività propagandistica del C. durante il conflitto non si limitò a svolgere una tematica patriottica, ma, in una serie di scritti raccolti poi ne La marcia dei produttori, Roma 1916 e Il regime della borghesia produttiva, ibid. 1918, sostenne che per l'Italia la guerra antigermanica e l'espansione nel Mediterraneo dovevano costituire "un tutto organico, come premessa e conseguenza" e che i produttori e i costruttori (cioè gli appartenenti alla borghesia di produzione) rappresentavano una nuova aristocrazia, la quale doveva organicamente permeare lo Stato dei valori di cui era portatrice.

La nazione si identificava ormai chiaramente con la borghesia produttiva, e la guerra, oltre al raggiungimento dei confini nazionali sulle Alpi e nell'Adriatico e l'acquisizione di una "parte dell'eredità orientale", avrebbe dovuto comportare la liquidazione del sistema politico del passato e la liberazione del paese dall'asservimento al capitale tedesco. La guerra, che l'Italia aveva affrontato "di libero animo", si chiariva così come il primo atto di un processo rivoluzionario che doveva imporre al proletariato il riconoscimento della funzione dei produttori cui doveva essere consegnata la direzione dello Stato per attuare quell'imperialismo che il C. aveva sempre auspicato ed ora identificava con la legge naturale della storia umana in quanto era "dinamica produttiva in marcia", ovvero "marcia dei produttori attraverso la terra", "trasporto di dinamica produttiva" da un territorio ad un altro, e trasmissione di vita e di civiltà, "spazio convertito in ricchezza attraverso il lavoro". La dinamica esterna dello Stato aveva come complemento, all'interno, una dinamica di ricambio di classe dirigente alla quale era interessato il proletariato, perché "il passaggio dalla classe dei lavoratori alla classe capitalista ... si compie e in ragione dell'allargamento del territorio d'impero e di produzione e in ragione dell'acceleramento del processo di ricambio della dinamica produttiva".

Lo Stato organico e imperialista instaurava "il regime della ricchezza che si muove" e avviava ad una tendenziale eguaglianza delle classi: da qui, la teorizzazione, nel 1919, di uno Stato corporativo in cui si sarebbe realizzata "una stabilizzazione di parti equilibrantisi con parità di forze mercé una organizzazione... dei rappresentanti diretti dei sindacati tutti, industriali ed operai". Il C. (insieme ad A. Rocco) aveva ormai elaborato una dottrina precisa che illustrò al congresso dell'A.N.I. tenuto a Bologna nell'aprile 1922 ed espose organicamente ne L'unità e la potenza delle nazioni, Firenze 1922, pubblicato nello stesso anno e da lui stesso definito libro del "novus ordo".

A partire dal 1921 il C. aveva rivolto lo sguardo al partito fascista ed aveva intuito che esso - al di là delle divergenze tattiche che si sarebbero potute appianare - avrebbe potuto essere il movimento di massa capace di realizzare le principali proposte politiche, economiche e sociali dei nazionalismo. La vena populistico-sovversiva che era presente nella sua concezione rendeva il C. più disponibile di ogni altro leader nazionalista a un accordo con i fascisti. Nell'ottobre 1919 egli aveva cercato di spingere D'Annunzio ad intraprendere da Fiume una marcia che si sarebbe dovuta concludere a Roma, ma aveva rapidamente desistito dall'insistere su questo progetto tenendo conto delle obiezioni di carattere tecnico che altri avevano avanzate e soprattutto valutando il pericolo di una conclusione repubblicana dell'iniziativa; tre anni dopo, nel giugno 1922, quando Mussolini aveva mostrato la disponibilità a rinunciare alla tendenzialità repubblicana, il C. fece da tramite tra lui ed il duca d'Aosta per informare di ciò il sovrano e discusse col duca stesso l'eventualità di un'abdicazione del re e di una sua reggenza: un'ipotesi che ebbe il suo peso nello sviluppo della crisi dell'ottobre successivo. Poco dopo la marcia su Roma, nel dicembre 1922, il C. fu il solo tra i componenti del gruppo dirigente nazionalista a dichiararsi favorevole apertamente a una fusione tra l'A.N.I. e il P.N.F.: egli (assieme a R. Forges Davanzati ed a M. Maraviglia) fece parte della delegazione nazionalista incaricata di condurre le trattative che si conclusero con il pratico assorbimento organizzativo dell'A.N.I. nel P.N.F. e con una presa di posizione ufficiale lealista-monarchica e antimassonica da parte dei fascisti (febbraio-marzo 1923).

Nominato senatore del Regno nel marzo 1923 il C. fu chiamato a far parte del "gruppo di competenza" per la riforma costituzionale (maggio 1923), della Commissione dei quindici per l'armonizzazione dell'ordinamento giuridico con i "nuovi postulati della coscienza nazionale" (settembre 1924) e fu vicepresidente della Commissione dei diciotto (gennaio 1925) incaricata di studiare i "problemi presenti alla coscienza nazionale" e concernenti i rapporti tra lo Stato e tutte le forze che esso doveva "contenere e garantire", in seno alla quale egli sostenne l'opportunità dell'istituzione del voto plurimo.

Nel processo di smantellamento dello Stato liberale e di edificazione dello Stato autoritario, il C. svolse un'attività di rilievo; tuttavia, man mano che si andarono precisando le caratteristiche di dittatura personale permanente del regime fascista, che andavano ben oltre il "ritorno allo Statuto" di sonniniana ascendenza, egli dovette constatare di non poter consentire con lo spirito di adulazione verso il capo che prendeva sempre più piede e di non poter giudicare positivamente né lo spegnersi di ogni vero dibattito politico, né la generale depoliticizzazione della vita pubblica causata dalla dittatura che era incapace di creare quella nuova classe dirigente che era sempre stata in cima ai suoi pensieri.

Non rese pubblica la sua disillusione, che lasciò consegnata a una serie di appunti privati resi noti da L. Federzoni nel 1967: nel 1928, con la nomina a ministro di Stato, venne politicamente giubilato e l'emarginazione durò sino alla morte avvenuta in Roma il 10 dic. 1931, cui seguì la tumulazione in S. Croce a Firenze: un onore che, collocandone le spoglie assieme a quelle di Machiavelli, Alfieri e Foscolo, appare, onestamente, esagerato.