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Enciclopedia di Scienze umane e sociali
di Luciano Cafagna
Sommario: 1. Introduzione. 2. La città e la nascita del
borghese. 3. La borghesia di ancien régime. 4. La
rivoluzione borghese. 5. Il secolo borghese. 6. La borghesia oggi.
7. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Introduzione
'Borghesia' e 'borghese' sono termini che mirano a denominare,
nell'uso oggi corrente, un gruppo sociale storico proprio della
civiltà europea e occidentale, germinato in età
basso-medievale, e tuttavia tipico soprattutto dell'età
moderna e contemporanea. Nell'età contemporanea la
borghesia sarebbe divenuta addirittura gruppo sociale dominante,
tale da caratterizzare l'insieme della società e persino i
prodotti culturali di questa. Ma le parole 'borghesia' e
'borghese' tendono a denominare anche un mondo di valori, di
mentalità, di stili, di abitudini sociali, di maniere. E
questo viene assunto come punto di gravitazione culturale e morale
di comportamenti e di atteggiamenti adottati anche da soggetti di
altri gruppi (per cui si parla di atteggiamento, mentalità,
stile, ecc. 'borghese', da chiunque adottato, o, più in
generale, di 'imborghesimento', poniamo, della nobiltà o,
su versante opposto, della classe operaia o di parti di tali
gruppi sociali).Nell'un caso - riferimento a un gruppo sociale
staticamente inteso - diremo qui, convenzionalmente, che si tratta
di una nozione 'realistica' di borghesia (come è proprio
della nozione di classe borghese nel senso di Marx, che la
incardina al principio della proprietà - libera e
negoziabile - dei mezzi di produzione e a un livello tecnico
evoluto e industriale di questi). Nell'altro caso - riferimento a
spirito, mentalità, stile, ecc. - ne parleremo, sempre
convenzionalmente, come nozione 'simbolica' di borghesia.
Nell'uso storiografico è infatti frequente l'espressione
'spirito borghese', specie sulla scia dell'opera di Max Weber che
associò l'etica protestante alla formazione del Geist des
Kapitalismus, o l'altra espressione 'mentalità borghese',
che ha però, nel suo uso più comune, un senso
piuttosto diverso. L'espressione, nel suo uso simbolico,
può essere infatti caricata di significati che hanno
oscillazioni di grande ampiezza: da un sottinteso quasi eroico,
come nel Marx del Manifesto del partito comunista, o nella citata
opera weberiana, alla marcata volontà di evocazione,
frequentissima, specie in letteratura - saggistica, narrativa e
teatro -, di una angustia di orizzonti (l'esempio d'obbligo
è Flaubert: "J'appelle bourgeois quiconque pense
bassement"). È singolare come possa anche associarsi, in
uno stesso autore, una visione eroica del ruolo della
borghesia-classe a una visione sprezzante della
borghesia-mentalità: tipico un Guizot, di cui faremo cenno
più avanti come apologeta fra i massimi, nelle sue opere
storiche, del ruolo della borghesia, il quale però
definisce, in altra sede, il mondo spirituale di quest'ultima
"quella regione media delle esistenze dove spesso tutto è
volgare senza che niente sia semplice" (v. Pozzi, 1974).
È bene sottolineare, in ogni caso, come né
nell'ambito della nozione realistica, né in quello della
nozione simbolica, ci si trovi di fronte a determinazioni
univoche, nonostante la singolare sicurezza con la quale il
termine, nella forma sostantivale come in quella aggettivale,
viene per lo più usato. Si è parlato e si parla
spessissimo di 'società borghese', 'civiltà
borghese', 'età della borghesia', 'rivoluzione borghese',
'dominio della borghesia', 'Stato borghese', oppure di 'spirito
borghese', 'ideologia borghese', 'arte borghese', 'romanzo
borghese', ecc., e, persino, di "comportamenti indiscutibilmente
borghesi" (v. Gay, 1984), evocando impressionisticamente un mondo
di connotazioni che spesso, a una ispezione fattuale e/o
analitica, non trovano poi soddisfacenti riscontri.Ciò ha
dato e dà luogo, assai spesso, a confusioni ed errori di
valutazione e di giudizio nelle scienze sociali e storiche. Ne
sono derivate anche critiche all'uso del termine, di varia
autorità e impostazione. Fra le prime e più note
è da registrare quella di Benedetto Croce (v., 1931), il
quale appare propenso, tuttavia, ad ammettere l'impiego della
parola 'borghese' come "concetto economico", per designare "il
possessore degli strumenti di produzione"; o, anche, l'uso di essa
"in senso sociale" per definire, "quel che non è né
troppo alto né troppo basso, il 'mediocre' nel sentire, nel
costume, nel pensare" (quindi, sia in un uso realistico che
simbolico - per rifarsi alle formule qui adottate - purché
circoscritto). Croce condannava, invece, la propensione a usare il
termine per "intendere una personalità spirituale intera e,
correlativamente, un'epoca storica, in cui tale formazione
spirituale domini o predomini" (l'occasione era data al filosofo
napoletano dall'uscita di un'opera di Bernard Groethuysen - v.,
1927 - sulle origini dello "spirito borghese" in Francia). Croce
fa risalire l'impiego allargato del termine al mondo delle
polemiche post-rivoluzionarie del primo Ottocento e ne menziona
come capostipite Saint-Simon, attraverso il quale lo vede
introdotto nella storiografia (Croce pensava probabilmente al
sansimoniano Thierry, storico del Terzo Stato; è vero,
comunque, che Saint-Simon era approdato all'uso di questo termine:
v. Gruner, 1986. Non si tratta quindi di una svista crociana, come
taluno ha ritenuto: v. Garosci, 1966).
In ogni caso le ambiguità nell'uso del concetto di
'borghesia' andavano e vanno ben oltre quelle rilevate dal Croce,
invadendo lo stesso spazio che a questi pareva legittimo
consentire. Le testimonianze ulteriori di un'aggravata crisi
semantica al riguardo non mancano. Qualche decennio dopo lo
scritto crociano, un altro storico, grande ricercatore e
organizzatore di ricerca, quale Ernest Labrousse, inquadrando un
programma di lavoro su questo gruppo sociale in età
contemporanea, si rifiutava di darne una previa definizione
considerandola impresa ardua e dispersiva ("Definir le bourgeois?
Nous ne serions pas d'accord [...]. D'abord l'enquete. D'abord
l'observation. Nous verrons plus tard pour la definition": v.
Labrousse, 1955). Si può continuare a lungo con
testimonianze autorevoli di analogo tenore, via via più
recenti: ricorderemo quella di un importante storico del pensiero
politico ("Il termine 'borghese' [...] è diventato uno dei
termini meno determinati negli scritti storici e politici": v.
Macpherson, 1962) o quella di uno storico del Rinascimento ("Non
ci sono due storici che ormai siano d'accordo sul significato da
dare ai termini 'nobile' e 'borghese"': v. Huppert, 1977). Uno
storico sociale dell'età contemporanea: "The concept
'middle class' is one of the most enigmatic yet frequent in the
social sciences" (v. Stearns, 1979). La parola "non ha mai avuto
la buona ventura di essere definita in senso stretto" (v. Gruner,
1986). Storici italiani dell'ultima generazione fortemente
impegnati in questo campo di ricerche: "terreno incerto (e, in
sé, astratto) di una definizione della categoria di middle
class o 'borghesia"' (v. Macry, 1986). "Ogni volta che si prende a
parlare di 'borghesia' - o di classi medie, di ceti dirigenti, di
élites - si pone preliminarmente un problema di definizione
così intricato da esaurire qualsiasi discorso che si possa
fare sull'argomento. Il caleidoscopio si infittisce ancora se poi
giochiamo agli incroci linguistici: cosa significa middle class in
un testo italiano, bourgeoisie in un testo inglese, o espressioni
in più lingue in uno stesso testo, come Bürgertum e
bourgeoisie che convivono in un testo tedesco, ad esempio nel
Manifesto di Marx ed Engels?" (v. Romanelli, 1988).
Sempre in ambiti storiograficamente autorevoli, qualcuno arriva
addirittura a sostenere che l'ambiguità del concetto
corrisponde a un'ambiguità della cosa: l'identità
stessa della borghesia sarebbe incerta, mimetica e traditrice,
senza fermezza di mete e di valori. La borghesia eroe di un'epoca
e portatrice di valori dovrebbe considerarsi null'altro che un
mito, costruito attraverso "la reificazione di un attore
esistenziale, il borghese (burgher) urbano del tardo Medioevo in
una essenza impalpabile, il borghese che conquista il mondo
moderno, che passa da una mano all'altra con una mistificazione
relativa alla sua psicologia e alla sua ideologia". Conservatori,
liberali e marxisti si sarebbero dati la mano nella costruzione di
questo mito dell'individualista e del benthamista. Ma nel mondo
moderno l'individualismo sarebbe, sì, una importante
realtà sociale, non però la (fondamentale, unica)
importante realtà sociale: il capitalismo non sarebbe
completamente liberista, individualista, proprietarista, ma solo
parzialmente, e questa sola constatazione basterebbe a
demistificare quel mito (v. Wallerstein, 1988). E nell'area di un
marxismo oltranzisticamente eterodosso: "La mia convinzione
[è...] che la categoria della 'borghesia come classe' sia
estremamente ambigua [...]. La borghesia ha una sola
continuità: quella della funzione del denaro. Del denaro
come moneta, non come capitale [...]. Il concetto 'classe
borghese' è un concetto apologetico, tutto legato a una
particolare fase dello sviluppo capitalistico, quella in cui
società civile e Stato hanno trovato un'alleanza specifica"
(v. Negri, 1978).
Molte delle difficoltà in questione possono probabilmente
ricondursi alla confusione spesso generata dalla sovrapposizione
dei due approcci - quello economico-sociale, o realistico, e
quello psicologico-sociale, o simbolico - sopra ricordati; molte,
invece, a un altro tipo di confusione, il quale ha origine nella
sovrapposizione di definizioni forgiate sull'osservazione - magari
essa stessa semplificata - delle realtà dell'età
contemporanea a contesti storici diversi. Va notato, però,
che queste sovrapposizioni non sono sempre evitabili,
perché la nozione di borghesia si porta addosso, quasi in
ogni distinto momento, tutto il peso della sua storia e par
proprio che non possa fare a meno delle evocazioni semantiche di
nessuna parte di questa storia.Nella nozione di borghesia, sotto
qualsiasi angolo visuale la si consideri, vi è infatti un
elemento di storicità particolarmente accentuato. Questa
affermazione vale in due sensi. In primo luogo perché,
nella plurisecolare e quasi millenaria storia del termine, il
referente oggettivo di questo ha mutato volto e il suo uso
culturale si è molto diversificato ("Forse non era proprio
la stessa borghesia" osservava acutamente Marc Bloch - v., 1949 -
di fronte alla corrente imputazione di più atti di nascita,
distanziati di secoli, a uno stesso soggetto storico). In secondo
luogo perché le determinazioni del concetto si presentano
per lo più, nei più diversi contesti, entro una
coppia di opposti ("Quasi sempre il concetto di borghese ci si
presenta come termine di una dicotomia": v. Romanelli, 1988),
quando non, addirittura, entro una doppia coppia simultanea di
opposti. Come un opposto, cioè, sia a situazioni e valori
radicati nel passato, sia a situazioni e valori radicati nel
presente-futuro, nel senso che questi si presumono (o si
auspicano) come tendenti a sostituirsi a quelli borghesi, o come
un opposto agli uni e agli altri insieme, con una valenza
bifronte. La vicenda storica della borghesia, a partire dalla
metà del XIX secolo - diciamo dal 1848 - è pertanto
concepita per lo più, esplicitamente o implicitamente, come
una vicenda di ascesa, egemonia e declino. Nell'ultima parte
vedremo però come a questa visione se ne sia potuta, alla
fine, contrapporre un'altra, in chiave, viceversa, di mediazione e
d'integrazione, non priva, peraltro, di suoi
precedenti.Storicità, nel senso anzidetto, vuol dire che la
borghesia, il mondo della borghesia, l'età della borghesia
sono generalmente considerati latori di una rottura delle pretese
di universalità e di stabilità nei ruoli sociali e
nel mondo dei valori e quindi come soggetti, essi stessi, a un
destino di transitorietà. In questo senso la
storicità della condizione borghese è vissuta entro
una visione nemetica (una visione nemetica non è solo
quella celebre di Marx, ma si trova anche in un Kierkegaard: v.
Löwith, 1941), che vendica, cioè, la distruzione di un
mondo di sicurezze tradizionali; un tale mondo era però,
anche, si potrebbe dire, un mondo tradizionale di sicurezze,
cioè un mondo che oggi definiamo tradizionale proprio
perché governato dal principio psicologico della sicurezza
spirituale. La polemica antiborghese fa registrare pertanto
convergenze (fra correnti culturali che si dichiarano eredi del
passato e correnti culturali proiettate nel futuro) che si
può ipotizzare abbiano origine in questo coinvolgente
trauma storico proprio della modernità.
Borghesia è, dunque, come si è detto, nozione
fortemente antitetica, che si determina pienamente, cioè,
ed essenzialmente, attraverso le negazioni storiche che esprime o
che le vengono contrapposte. Tali coppie di opposizioni sono
però molteplici e di diversa natura; ed è da notare
che non sempre, nel loro porsi come coppie, si presentano come
alternative fra loro: possono anche sovrapporsi con intersezioni.
Alcune di esse sono strettamente pertinenti a contesti storici del
passato, altre appartengono all'uso del presente: l'insieme di
esse, tuttavia, sta in un continuo culturale, talché anche
significati e contrapposizioni di epoche remote permettono di
gettare luce sui significati presenti e, a volte, viceversa.
Talune opposizioni sono relative alla posizione
economico-giuridica, altre sono, invece, di mentalità e
assunzione di valori. Accenniamo le principali fra le prime:
inurbato/rurale; condizione personale libera/condizione personale
assoggettata; titolarità/non titolarità del diritto
di cittadinanza; presenza civile, partecipativa e sociale/presenza
meramente privatistica e anagrafica (come nella contrapposizione
bourgeois/citoyen da Rousseau a Hegel); status di privilegio
nobiliare/status di distinzione per merito-successo (nell'ancien
régime); titolarità libera e mercantile di
proprietà/titolarità di possesso derivante, o
vincolata, da prerogative feudali; condizione civile/condizione
militare; proprietà/non proprietà dei mezzi di
produzione e di scambio (in quest'ultimo caso la nozione di
borghese viene a coincidere tout court con quella di 'capitalista'
quando, però, si associ all'ingaggio di mano d'opera
salariata).
Altre opposizioni sono, invece, di mentalità e assunzione
di valori, e sono spesso opposizioni non sempre coerenti fra loro:
individualismo/solidarismo; razionalità strumentale e
utilitaristica/valori non utilitaristici; spirito
innovativo/spirito tradizionalistico (ma anche, per contro,
quietismo, propensione al pregiudizio, grettezza
abitudinaria/spirito d'avventura, disordine creativo e apertura
mentale); mentalità acquisitiva/mentalità
dissipativa (ma oggi, invece, in diversa contrapposizione,
propensione al consumismo/propensione ai valori immateriali).
Tenuto conto della continuità storica che lega i mutamenti
nell'uso del termine e che si riflette, tra l'altro, nel
riconoscimento retroattivo che la cultura compie dei referenti di
nozioni messe a punto successivamente, appare possibile e
opportuno tentare un confronto sommario per epoche storiche a tre
livelli: di ciò che si è inteso, in ciascuna epoca,
per borghesia; dello stato reale delle articolazioni sociali in
ogni periodo in base alle conoscenze presenti, ma, per quanto
possibile, prescindendo dai nominalismi storiografici; di
ciò che la storiografia, invece, esplicitamente denominando
e interpretando ha inteso e intende per borghesia relativamente
alle singole epoche. Seguendo questa pista si vorrebbe qui
pervenire alla conclusione che non sia impossibile, con adeguate
chiavi di lettura, decifrare pazientemente le molteplici valenze
della usatissima categoria e individuarne usi propri e impropri,
significativi e insignificanti, isolando le prevaricazioni
concettuali e le mitologie costruite sulla confusione, e
restituendo queste ultime, in ogni caso, al loro senso soggettivo,
che appartiene esso stesso, ormai, alla storia delle idee. E che
sia possibile, con più parsimonia ed entro ambiti forse
meno caratterizzanti e comunque meno epocalmente polemici,
continuare a servirsene.
2. La città e la nascita del borghese
Per la prima volta il termine burgensis sarebbe testimoniato nel
1007 in latino e nel 1100 in francese come burgeis (v.
Matoré, 1985). Anche se "il senso etimologico non dice
più nulla del contenuto moderno, attuale, della parola" (v.
Chabod, 1930), esso resta essenziale per la storia. L'etimologia
del termine, infatti, non dà luogo a dubbi: essa induce
chiaramente ad associare le prime origini della borghesia alla
rinascita cittadina verificatasi in Europa sul finire del
Medioevo. Dirà, a processo ormai maturato, Salimbene da
Parma (XIII secolo) che "i nobili vivono in campagna e nei loro
possedimenti, invece i borghesi abitano in città".
Sembrerebbe chiarissimo, ma le cose sono un po' più
complicate di come appaiono a prima vista.
Il termine burgus appartiene al tardo latino del IV secolo.
È termine usato nei secoli con oscillazioni semantiche, nel
tempo e nello spazio geografico e linguistico, che
includono/escludono volta a volta le idee di fortificazione e
intramuralità e che forse riflettono la complessa e non
uniforme vicenda di una nuova realtà urbanistico-sociale
non militare che si afferma di contro a quella militare-feudale
del castello-fortificazione. Da burgus deriva il termine
burgensis; questo appare dall'XI secolo, sempre nell'area del
Rodano, della Saona e della Loira, per designare l'abitante di un
burgus e, in seguito, nei luoghi dove tali burgi vengono
privilegiati, per l'abitante di un insediamento privilegiato e
reso libero.Con questo punto di partenza si spiega come nell'area
di lingua tedesca burgensis divenga la designazione mediolatina
dell'uomo di condizione giuridica borghese, che in tedesco si
chiama burgaere (poi burger), nonostante che, in quella lingua, si
verifichi uno sviluppo contraddittorio: il termine burg è,
infatti, sostituito da stadt se ci si riferisce a una
città, e alla fine torna in uso solo per designare una
fortificazione; burgaere, invece, sopravvive sempre più
raramente come designazione dell'abitante del castello, e - in
evidente parallelo col mediolatino burgensis e con l'uso dell'area
di lingua latina - alla fine indica ormai solo l'abitante della
città con la relativa posizione giuridica (burger; v.
Ennen, 1972). Anche in Inghilterra, dove assai più tardi si
sarebbe sviluppata tutt'altra linea lessicale (con i termini
middle-man e middle-class) - ma che non è, poi, fatto
meramente lessicale e lo vedremo più avanti - è
presente la forma mediolatina: i capifamiglia delle città
medievali sono burgesses; e burgage tenure è il titolo di
possesso libero e pieno, privo di vincoli (v. Postan, 1972).
È indubbia, quindi, una relazione fra la rinascita
bassomedievale del fenomeno cittadino e la comparsa di una figura
giuridico-sociale nuova, cui va l'appellativo, ancora marginale,
di 'borghese'. Ma la storiografia ha da tempo rettificato
l'equivoco di quegli studiosi dell'Ottocento (persistito anche in
questo secolo) che, nel desiderio di dare - come disse Gino
Luzzatto - una spiegazione economica dell'origine dei comuni
cittadini, tesero a presentare questi ultimi come una vittoria del
capitale mobile sulla ricchezza immobiliare, della borghesia
mercantile sulla nobiltà terriera (v. Luzzatto, 1966) e a
fare di un borghese mercantile l'eroe fondatore di quella
città raffigurata come luogo e struttura portante della
civiltà moderna. Viene invece sempre più
sottolineata, nelle origini cittadine e comunali, specie italiane,
"la potenza della proprietà terriera, elemento nobiliare
nel comune dei primi tempi", e si tende "a sfatare un concetto nel
quale gli storici del XIX secolo volevano identificare la natura
stessa delle repubbliche cittadine. A loro parere - questa idea
estremamente caratteristica è eternata nel Manifesto dei
comunisti - il tipico cittadino medievale andrebbe riconosciuto
nel burger ('borghese'?), che coltiva i suoi traffici e non la
proprietà terriera, e che pensa non già alla sua
spada (se non in casi estremi, quando è provocato dalle
forze del feudalesimo) bensì al suo guadagno; è il
cittadino che come ambiente naturale ha il magazzino e la bottega
artigiana, non il castello o la campagna, e i cui cavalli servono
a trasportare merci, non a cacciare o a combattere. Ma l'esemplare
autentico di questo burger si potrebbe forse rintracciare a Gand,
a Lubecca, a Londra (o magari neanche qui?); non si riesce invece
a individuarlo nelle città italiane, dove, in larga misura,
il fondamento delle libertà politiche e il tono della
politica stessa venivano dai proprietari terrieri. Questi nobili,
inoltre, erano spesso dediti anch'essi alle industrie e ai
commerci; e i cittadini eminenti, anche se personalmente non erano
di discendenza 'feudale', derivavano in gran parte la loro
mentalità da quelli che lo erano. L'etica del cavaliere
permeava la popolazione di città" (v. Waley, 1978²;
per un'aggiornata messa a punto v. Rossetti, 1977). "È
tempo di ridare alla nobiltà il suo posto" conclude un
recente storico del Medioevo italiano che intitola la sua
ricostruzione economico-sociale alla "leggenda della borghesia"
(v. Jones, 1978).
Oggi, la storiografia rifiuta comunque di considerare il problema
delle origini cittadine, come aveva tentato Pirenne (v., 1927),
secondo moduli di omogeneità (v. Capitani, 1971). E, in
ogni caso, si tende a distinguere fra città dell'Europa
settentrionale e città dell'Europa meridionale: "Anche
all'interno dei centri urbani dell'Europa meridionale il ruolo
trainante fu svolto dal commercio e dalle attività
produttive, ma queste città furono caratterizzate dal fatto
che la nobiltà rimase prevalentemente al loro interno,
oppure venne costretta a trasferirvisi, allorché queste
avevano esteso la propria autorità alle campagne
circostanti. Mentre la città nell'Europa meridionale aveva
un carattere nobiliare-borghese, nel Nord invece essa si
distingueva nettamente dalla campagna, in cui vigeva il rapporto
nobili-contadini. In altre parole, nel Sud la nobiltà
mantenne il proprio carattere anche quando risiedeva in
città; nel Nord, invece, in questo caso essa perdette il
proprio status nobiliare, imborghesendosi. Al contrario, i ricchi
patrizi che avevano acquisito delle signorie terriere entrarono a
far parte della nobiltà rurale" (v. Brunner, 1978). Due
forme tendenzialmente diverse di intreccio, dunque, ma pur sempre
intreccio, fra figure sociali antiche, che si reimpongono con la
forza di un super-ego storico, e figure nuove che non riescono a
liberarsi del fascino degli antichi modelli di superiorità
sociale e quindi dell'aspirazione a trasformare ricchezza fresca
(distogliendola dal suo circuito di formazione, caratterizzato da
fertile riproduttività) in forme tradizionali di
distinzione sociale e di sicurezza, a scarso dinamismo economico.
Il crescere di attività economiche che si fanno tipicamente
urbane, con dimensioni cospicue e specializzazione, quale il
commercio a grande distanza, la banca e le prime manifatture, non
dà veramente luogo, in sostanza, al predominio sociale di
una figura radicalmente opposta a quella nobiliare: la condizione
creata dal guadagno mercantile è piuttosto vissuta come
momento transitorio di un itinerario sociale orientato su mete
tradizionali; l'emergere stesso di tale condizione è
parimenti vissuto come fenomeno che si integra in un assetto
sociale tradizionale e non si oppone a esso se non per penetrarvi
(con ciò, inevitabilmente, mutandolo, e tuttavia non
sopprimendolo). Nel comune di Firenze, già verso la
metà del Duecento, comincia a 'democratizzarsi', divenendo
oggetto di mercato, la dignità cavalleresca (v. Salvemini,
1899). (Scriverà il Boccaccio che a taluni, però, la
cavalleria sta "come la sella al porco").
È stato osservato (v. Wallerstein, 1988) che questa nuova
figura sociale, proprio mentre faceva la sua comparsa, era
completamente ignorata nella dottrina medievale dei tre ordines
della società: i bellatores, cioè gli atti alla
milizia, in cui convergono anche funzioni politiche di dirigenza;
gli oratores, coloro che pregano, vale a dire il clero; i
laboratores, gli addetti, cioè, al lavoro manuale e
principalmente alle fatiche campestri (v. Duby, 1978). Le
strutture e i valori di questa società tendono a
riassorbire socialmente i potenziali embrioni di un nuovo gruppo
sociale, pur nel permanere e consolidarsi delle novità
economiche. La vera novità sociale è piuttosto la
stessa pressione verso l'alto, che dà luogo a un crescente
senso di mobilità sociale verticale (naturalmente ancora
assai selettiva), una prospettiva di diffusione del privilegio
(non della sua soppressione), correlata alle congiunture
economiche. I conflitti, collettivamente affrontati quando e dove
ci sono, paiono piuttosto conflitti difensivi, per l'autonomia e
lo spazio di movimento o, se offensivi, per l'omologazione verso
l'alto. Questo resterà un tratto caratteristico e
ricorrente delle varie e susseguentisi incarnazioni o mutazioni
storiche di ciò che si è successivamente inteso per
'borghesia'.
Ma non è tutto. Se nelle attività mercantili si
può riscontrare l'elemento più significativo della
nuova realtà cittadina e borghese, non si deve in ogni caso
perdere di vista che 'borghese', in quel contesto storico,
è sostanzialmente una condizione giuridica, non economica.
Chi esercita attività mercantili con successo economico
condivide tale condizione sia con operatori economici di
più basse fasce di reddito, e anche dediti ad
attività manuali, sia con altre figure sociali o
professionali: giudici, notai, medici, farmacisti, professori. (E
non si dimentichi che il 'giuridico' di un mondo in cui non vige
il principio dell'eguaglianza giuridica è sociologicamente
cosa diversa dal 'giuridico' in cui quel principio vige). Questa
caratteristica composita dell'aggregato 'borghesia' non è
solo un fenomeno delle origini: è un altro tratto che
ricorre in tempi storici diversi, anche se in modi che variamente
riflettono, nell'uso semantico, conflitti e tensioni sociali
interne. L'averlo perso talvolta di vista, come si vedrà,
è stato fonte di molti equivoci.
È sostanzialmente postuma, quindi, l'attribuzione della
qualifica di 'borghese' al personaggio culturalmente innovativo -
e addirittura rivoluzionario - che, in questo clima di
ambiguità sociale, si affermerebbe nel mondo urbano europeo
fra i secoli XV e XVI. In questo mondo, 'borghese' è
termine che, dove attecchisce, si riferisce, come si è
visto, dapprima a una condizione giuridica, legata a diritti
derivanti dalla cittadinanza nei rapporti dell'abitante di
città con l'autorità monarchica o signorile, e
slitta poi semanticamente verso la parte superiore del coacervo
sociale che compone la comunità cittadina: si ha, in
pratica, come una espulsione semantica degli strati inferiori,
ancorché accomunabili a quelli superiori sotto il profilo
giuridico; la qualifica, da giuridica, diviene così, in
sostanza, sociale. Tuttavia, nel momento in cui si viene formando
una nuova tensione fra alto e basso nella società, si
manifesta, altresì, l'aspirazione all'abbandono del rango
intermedio da parte delle creste sociali cittadine. È
questa, probabilmente, la fase storica relativamente alla quale
esiste maggiore non-convergenza tra l'ottica delle
auto-rappresentazioni coeve, le funzioni economiche reali e
contingenti e le ricostruzioni estrapolative della storiografia.
Considerando questo periodo - ancora la fase iniziale,
cioè, dell'età moderna - dobbiamo quindi fare i
conti con la sovrapposizione di un uso corrente - che va prendendo
forma e facendosi strada lentamente fra i contemporanei (in certe
aree europee, dalle quali poi si ramificherà
generalizzandosi) e che si polarizza su una connotazione incerta,
e anche stagnante, di 'medietà' - e di un uso 'idealistico'
suggerito da certa storiografia otto-novecentesca, posteriore a un
'trionfo' (vedremo poi di quali effettivi connotati, esso stesso,
dotato) di valori borghesi, e orientata su requisiti di
innovatività, avanguardia, creazione di civiltà
razionalistico-tecnica.L'eroe di questa storiografia è il
titolare dello spirito capitalistico. La teoria dello spirito
capitalistico si deve a Max Weber, autore di un'opera fra le
più discusse di questo secolo e tuttora, comunque, assai
apprezzata, nonostante le riserve della successiva storiografia,
per la ricchezza e complessità delle sue implicazioni
sociologiche (v. Poggi, 1988). Per Weber, il dato essenziale dello
spirito capitalistico si colloca nella nobilitazione etica,
cioè meta-utilitaristica, del 'far danaro': "Il guadagno
è considerato come scopo della vita dell'uomo e non
più come mezzo per soddisfare i suoi bisogni materiali" (v.
Weber, 19041905). Questa nobilitazione etica altro non è
che l'assunzione del profitto, e dei modi per perseguirlo, a
valore professionale-vocazionale-missionario (Beruf), quindi non
piratesco e occasionale, ma soggetto invece a regole severe e tale
da venire riconosciuto dotato di dignità. "Il summum bonum
di quest'etica, il guadagno di denaro e di sempre più
denaro, è così spoglio di ogni fine eudemonistico o
semplicemente edonistico, è pensato in tanta purezza come
scopo a se stesso, che di fronte alla felicità e
all'utilità del singolo individuo appare come qualche cosa
di interamente trascendente e perfino di irrazionale'. Weber
ritiene che una concezione siffatta - che egli trova nitidamente
espressa in un autore settecentesco come Benjamin Franklin -
avesse bisogno, per affermarsi e aver ragione di opposti o diversi
modi di vedere tradizionali 'non in alcuni individui isolati' ma
in 'interi gruppi di uomini', di potersi fondare su convinzioni
religiose: poi, ma solo poi, avrebbe potuto imporsi con la forza
della selezione che esclude gli inadatti e i meno dotati.Quelle
convinzioni religiose si sarebbero formate, nell'Europa del
Cinquecento e del Seicento, con il calvinismo e la sua etica della
predestinazione divina, riconoscibile, questa, dall'uomo
nell'esistenza terrena attraverso il successo, considerato come
manifestazione e prova della grazia concessa in cielo.
Molte e argomentate, come si è detto, le critiche a questa
visione weberiana (v. Lüthy, 1965; v. Trevor-Roper, 1967):
esse appaiono, però, quando le si legga con attenzione,
rivolte ai particolari, poco interessate ai nessi effettivamente
sottolineati da Weber, e non tali da poter negare, in ogni caso,
l'evidenza storica di macro-correlazioni, che resterebbero
comunque da spiegare, fra aree etniche calviniste e aree di
iniziativa e di successo capitalistico. Qualcuno (Lüthy, per
esempio) inclina a sottolineare, nella ricerca di una spiegazione
alternativa, la coincidenza fra religiosità riformata e
situazioni o aspirazioni di libertà, che sarebbero il vero
ambito propizio all'intraprendenza economica; altri sottolineano
l'inclinazione verso attività non tradizionali, effetto,
come per gli ebrei, della propensione 'deviante' (come gruppo) nei
comportamenti sociali, cui induceva la posizione di minoranze
discriminate. Tutto ciò può anche avere un suo
fondamento, ma non sta qui il senso profondo della tesi weberiana.
Ancorché fosse da assumere solo come mera metafora dei
requisiti idealtipici di un capitalismo vincente, essa
conserverebbe grande suggestione esplicativa (quanto meno come
matrice di più appropriati modelli) per la comprensione di
certi fattori selettivi che operano, a livello per l'appunto
sociologico, nella storia, tuttora in svolgimento, del confronto e
della competizione di economie capitalistiche di aree di
differente tradizione religiosa: forte etica del lavoro,
legittimazioni retrostanti di spessore religioso, scelte
più rigorosamente ispirate a razionalismo strumentale.
Questa analisi weberiana è stata considerata parte di una
visione d'assieme della 'storia sociale della borghesia
occidentale' (v. Poggi, 1988) che si troverebbe principalmente nel
saggio La città (v. Weber, 1922) di cui L'etica protestante
costituirebbe idealmente un capitolo. La visione weberiana
è tuttora da considerarsi del più grande interesse
(le obsolescenze indicate da Pietro Rossi - v., 1987 - riguardano
gli orizzonti della modellistica comparata delle città in
un'ottica mondiale, non la storia della Bürgertum)
perché evidenzia, con la peculiare intelligenza sociologica
propria di questo autore, giuridicamente disciplinata e dotata di
forte senso storico, gli elementi che permettono di orientarsi in
un mondo che non conosce le nostre distinzioni concettuali (per
esempio, e principalmente, quelle fra politico ed economico o fra
pubblico e privato o fra sociale e religioso). Senza tali
distinzioni però, noi rischiamo sempre di ricostruire il
passato in un linguaggio non tradotto, cioè di non
ricostruirlo affatto (pericolo inverso, ma non minore, rispetto a
quello di appiattirlo intrinsecamente su moduli del presente:
spesso, poi, le due cose si sommano).
Weber individua, in sostanza, tre fasi nella storia (originaria e
cittadina) della borghesia. In una prima fase costitutiva (X-XI
secolo) l'elemento significativo sarebbe una sorta di conjuratio
(affratellamento giurato) fra cittadini, che usurpano (per lo
più gradualmente, attraverso compromessi successivi) la
facoltà di rottura del diritto signorile, quella che
è la "grande innovazione sostanzialmente rivoluzionaria
della città occidentale del Medioevo rispetto a tutte le
altre". È un tratto distintivo di questa usurpazione il suo
fondarsi su un rituale cristiano che, come tale, fa capo a
individui (donde una conferma dell'importanza epocale
dell'individualismo cristiano) e non a gruppi (etnici, tribali,
castali) secondo un "vincolo magico animistico" (tutt'altra cosa
da un totem essendo, poniamo, il 'santo patrono cittadino' delle
città italiane, il quale svolgeva, purtuttavia, il ruolo di
referente dell'identificazione collettiva). Tratti distintivi di
questa usurpazione sono anche il suo avere un risvolto interno
solidaristico e uno esterno di sfida difensiva (verso signori e
sovrano) e il suo essere una importante scoperta di
possibilità di acquisire potere per il mezzo della
formazione di solidarietà attiva fra chi di potere è
privo.
Di tale rappresentazione interessano gli elementi analitici che,
come si vede, si proiettano significativamente sull'intero
processo successivo. Non vi troviamo, si badi, un tentativo di
descrizione generalizzata di origini, cui Weber, assai consapevole
delle differenze, specie fra Europa settentrionale e mediterranea,
non poteva pensare e che la storiografia, oggi, non ammetterebbe
(per un quadro aggiornato v. Bordone, 1987). È un fatto,
comunque, che generalmente una cerchia di notabili teneva le
redini di questo processo: un notabilato delle origini,
magnatizio, cavalleresco, per lo più diverso da quello che
si selezionerà successivamente sulla base della crescita di
un 'popolo' borghese (prendendo forma di "un processo di
imitazione e riproduzione dello status sociale dei prestigiosi
magnati aristocratici": v. Bordone, 1987). Siamo ancora entro lo
schema - per usare il linguaggio weberiano - di una
Geschlechtsstadt, una città di parentele magnatizie o di
'schiatte' (secondo la traduzione di Pietro Rossi).In una seconda
fase (XII-XV secolo) - sviluppandosi economicamente - la borghesia
si configura come 'ceto' o 'ordine' (Stand) e si costruisce una
struttura economico-istituzionale ad articolazione corporativa
più o meno ricca e complessa: è - nella tipologia
weberiana - la città plebea. Soprattutto nelle sue versioni
non italiane, questa struttura è politicamente presente
entro uno Ständestaat. Lo Ständestaat è una
costruzione concettuale weberiana, parte della sua tipologia delle
forme di potere, che si presenta come una sorta di costellazione:
titolari come 'corpi' di prerogative di dominio - quali ceti
feudali, città - collaborano ufficialmente con un principe
e il suo apparato patrimoniale nel governo di territori, in una
dislocazione a duplice livello: insieme territoriale,
contraddistinto da un intreccio di partecipazione, consultazione,
aiuto, e insieme locale, contraddistinto da autonomie (signorile,
cittadina). Lo Stand è appunto, entro tale costellazione,
l'istituto di raccordo di quello che potremmo chiamare un
particolarismo-che-si-coordina (nel quale si dovrebbe considerare
anche il clero), dove, in corpo consultivo o deliberativo, le
parti (feudale o cittadina) difendono privilegi e autonomie,
esprimono le condizioni di appoggio alle iniziative del principe.
Stand è termine che esprime, in questo caso, una forma di
legame fra una molteplicità di soggetti senza potere, i
quali si dotano di potere mediante un accomunarsi - con valenza
regolativa interna, e difensiva, e negoziale esterna - a diversi
livelli: corporazione, arte, gilda e invece, più in
generale, città. Si incrociano così due livelli di
legame, un livello puramente settoriale, di attività
economica o professionale, e un livello sociale, di ambito
insediativo, che interseca gli interessi stessi in ciò che
hanno di comune (cittadino): una 'corporazione territoriale' di
contro alle corporazioni di mestiere.La formazione della
Bürgertum, in senso sociale, secondo Weber, avverrebbe come
selezione trasversale in alto, rispetto a quelle formazioni
settoriali minori di Stand, dei mercanti e maestri artigiani
più facoltosi, con "coscienza cetuale": la prima
identità collettiva di una 'borghesia'. Si avvia la cattura
in città dei centri di religione. Si formano uffici. L'idea
che Weber sembra esprimere è quella di una coscienza
cittadina capace di perseguire delle finalità (di ordine e
di sviluppo?) collettive. In sostanza, il burgher di strato
superiore finisce con l'essere più burgher degli altri,
perché lavora per il 'generale' e non solo per il
'particolare' e quindi solidifica l'autonomia e le libertà
burgher 'da' altri poteri (signori, monarchi), laddove un
cetualismo frammentato e anarchico non avrebbe saputo farlo.
Questa visione sembra coincidere con quella che la storiografia
più aggiornata continua a inquadrare come formazione e come
funzione di un 'patriziato' cittadino (v. Berengo, 1974).
In una terza fase alcuni gruppi urbani medi e medio-alti
abbandonano la propria identità sociale di ceto (o gruppo
di ceti) per assumere quella di una classe, nel quadro di un
processo di individualizzazione e razionalizzazione (v. Poggi,
1988). Questo processo coincide con l'estendersi della forza e
influenza dello Stato. In un certo senso, quindi, la classe (di
contro al ceto-Stand) nascerebbe da una sorta di progressiva
de-politicizzazione, da un concentrarsi individualisticamente nel
'privato' (economico, professionale, intellettuale), che
lascerebbe lo spazio politico all'avanzata dello Stato, e si
avvarrebbe di questa dissociazione per sviluppare il privato
stesso. In questo processo la razionalizzazione sta sia nei modi
della concentrazione e intensificazione nel privato (l'impresa ne
è un esempio), sia nei modi in cui si sviluppa la sfera
politica attraverso strutture statuali amministrative. Ci sarebbe
come un'alienazione di autonomia (o di possibilità di
sviluppo di questa), ma, in tale ottica, come scambio contro
maggiori prospettive di sviluppo del privato nel senso
anzidetto.Il fenomeno dell''etica protestante", come esaltatrice
di uno "spirito capitalistico" nella borghesia, si inscriverebbe
dunque in questo contesto di individualizzazione, come esaltazione
di una personalità responsabile e fonte di tensione
creativa: l'imprenditore singolo si muove, infatti, su una strada
di violazione economica delle norme cetuali (corporative e
simili). Operando su territori diversi, deve abituarsi a norme non
più comunitarie, ma astratte, generali, giuridiche. Anche
lo stile di vita si 'deparrocchializza'.Il quadro weberiano,
proteso a individuare il decollo di una figura moderna ed
estremamente specifica - l'imprenditore capitalistico - aiuta a
cogliere alcune condizioni, spirituali e istituzionali,
dell'emergere di questa nella sua novità. Ma non ignora
alcuni aspetti essenziali, inerenti alla logica stessa evidenziata
in quella brillante ricostruzione della vicenda d'insieme del
gruppo sociale entro il quale quella figura si staglia, senza
peraltro esaurirla o incarnarla tutta. (Per una lettura che
preferisce dissociare l'intreccio in due distinti "modelli" v.
invece Banti, 1989). Parte integrante di quella vicenda è,
infatti, almeno per allora, come si è già
sottolineato, un sostanziale rientro dei gruppi che si selezionano
nel contesto degli sviluppi mercantili e cittadini nei quadri di
un modello di aspirazioni nobiliari e di strategie sociali di
integrazione: "la tendenza, che è esistita in tutti i
tempi, e che agisce ancora oggi da noi, a 'nobilitare' i patrimoni
borghesi", "nobilitarsi con investimenti terrieri, e - ciò
che è più importante, poiché non si tratta
soltanto di acquisti di terre - col passaggio ad abitudini di vita
feudale" (v. Weber, 1904-1905). (Gli scrittori mercantilisti
inglesi del XVI secolo attribuivano la superiorità
capitalistica olandese al fatto che non vi era questo
atteggiamento).
Da quei mercanti, da quei banchieri, da quegli imprenditori, in
sostanza, non viene fuori, per allora, una 'borghesia' intesa come
classe dirigente, ma una nuova nobiltà. Come è stato
osservato (v. Brunner, 1978), la nozione moderna di borghesia
nasce sulla base della distinzione dell'economico e del sociale
dal politico (prodotto della società industriale), e quindi
come nozione di classe economico-sociale, nozione che viene poi
trasposta all'indietro impropriamente. Quel che si traspone
all'indietro è sia, in modo abbastanza esplicito, il
significato moderno più netto del termine, sia, in modo
meno esplicito, alcune connotazioni derivate della nozione
moderna, che conferiscono all'economico-distinto-dal-politico un
ruolo determinante.
È questa una vicenda, nel suo insieme, dalla quale - par
di poter concludere - nasce forse lo Stato moderno, nelle sue
versioni più o meno stagliate, più o meno grandi o
più o meno dinamiche, e si prepara il capitalismo
industriale in talune sue forme, ma non fiorisce esplosivamente e
irreversibilmente la 'borghesia' della leggenda ottocentesca. La
nozione di borghesia, per allora, tende, al contrario, dopo aver
espulso da sé gli strati minori cittadini, a declassarsi a
sua volta, svuotandosi con l'irresistibile ascensione nell'empireo
nobiliare degli strati via via più 'riusciti'.
3. La borghesia di ancien régime
Nei secoli XVI e XVII, durante i quali si accentua e si complica
il processo di 'nobilitazione' di quegli strati sociali che si
selezionano verso l'alto, troviamo infatti declassata la nozione
di borghesia. La configurazione sociale del mondo europeo di
ancien régime è uno dei maggiori rovelli della
storiografia modernistica dell'ultimo mezzo secolo. Mentre
è indubbio che, nell'età che corre fra Rinascimento
e Illuminismo, l'economia europea abbia notevolmente progredito
(anche se con movimenti non lineari) sviluppando i settori
extragricoli del commercio a grande distanza, della navigazione,
della banca e delle manifatture, appare anche evidente come la
novità della comparsa di una figura sociale quale l'uomo
d'affari capitalistico nelle economie cittadine dei secoli
immediatamente precedenti non abbia dato però luogo a un
sovvertimento negli equilibri e nei valori sociali. Nonostante la
formazione di nuove grandi fortune capitalistiche, in sostanza, il
punto di gravitazione dell'assetto sociale della parte elevata
della società e il riferimento fondamentale dei processi di
ascesa sociale rimase, come si è detto, la condizione
nobiliare. A essa, a sue versioni supplementari, alle sue
apparenze, punta chi ha mezzi per farlo, se e dove il gioco delle
istituzioni lo consente. Le monarchie strumentalizzano queste
aspirazioni (v. Goubert, 1969; v. Donati, 1988).
Per contro, proprio fra la metà del XVI secolo e la
metà del XVIII, si viene di fatto formando nelle
società europee, con significativo spessore, una nuova
condizione sociale intermedia, dai contorni incerti e dagli
ingredienti compositi (in parte economico-reddituali, in parte
giuridico-insediativi, in parte professionali e intellettuali), la
quale viene via via calamitando, soprattutto in Francia, ma con
forza diffusiva, la denominazione di 'borghesia' (raccogliendo
connotazioni che tendono presto a presentarsi sia come materiali
che come psicologiche).
La comprensione parallela di questi due fenomeni - da un lato la
straordinaria forza attrattiva della condizione nobiliare sugli
strati superiori che emergono dalla roture (cioè dalla
condizione plebea) e, dall'altro, l'ispessimento di un coacervo
sociale intermedio che resta inesorabilmente escluso dalla
prospettiva stessa di accesso a quella condizione - pare
essenziale perché si possa vedere più chiaramente (o
meno oscuramente) l'intrico di equivoci che l'uso inflazionato del
termine 'borghesia' - di cui si è detto in principio - ha
generato nella storiografia dell'età moderna e si possano
cogliere le tensioni reali che vanno formandosi nella
società di ancien régime, i modi e le prassi che in
talune situazioni raffrenano e in altre esasperano quelle
tensioni. Tensioni che non sembrano tuttavia avere, in alto, la
forma della 'lotta di classe' - il cui senso, come forma, sta in
una specificità contenziosa su soluzioni di interesse
alternative - ma quella dell'avversione-attrazione che aspira a
uno sbocco in termini di mobilità verticale. Taluni storici
(v. Villari, 1971; v. Maravall, 1979) ritengono, però, che
"l'aspirazione della borghesia a entrare nei quadri della
nobiltà, e quella dell'aristocrazia che si sforza di
chiudere questi quadri, non sono le due sole linee che marcano i
rapporti tra questi gruppi sociali nel XVII secolo": esisterebbe
"una terza posizione, quella di certi elementi dello strato
intermedio orientati ad affermare la propria autonomia, tendenza
che spesso si manifestò sotto la forma tradizionale della
difesa corporativa e del consolidamento di posizioni locali,
privilegi, conquiste che si erano raggiunte all'interno della
struttura feudale stessa, ma che si uniscono anche a una
più generale rielaborazione dei valori di carattere
antinobiliare e ai tentativi di critica istituzionale orientati a
un antiassolutismo oppure a un costituzionalismo ispirati a
modelli repubblicani (Paesi Bassi, Venezia) o a una più
moderata concezione riformista della monarchia" (v. Maravall,
1979).
Le realtà nazionali sono ovviamente caratterizzate da
diversità, anche marcate, che il progredire degli studi
evidenzia naturalmente sempre meglio. La storiografia sembra
tuttavia oggi abbastanza propensa a considerare meno atipica di
quanto non la reputasse un tempo l'evoluzione che è dato
riscontrare nelle fasce superiori della società inglese di
questi secoli. Tale evoluzione può essere riassunta nella
formazione, verificatasi in Inghilterra fra il secolo XV e il
XVII, di uno strato sociale superiore particolare, la gentry, che
venne largamente sostituendosi all'antica nobiltà nel
possesso della terra, a partire dall'alienazione dei beni
ecclesiastici disposta da Enrico VIII, e che anche osservatori
coevi autorevoli classificavano ambiguamente, a volte come
nobiltà e a volte come popolo.
Questa enigmatica ambiguità, di cui appaiono intrise le
cose stesse, ha dato luogo a importanti controversie
storiografiche ed è probabilmente la chiave per intendere
la peculiarità sociale dei tempi: il fenomeno secolare di
una ascesa sociale di gruppo, che ha origini economiche nuove ma
esiti economici antichi, quale l'ingresso nei ranghi del possesso
terriero (una sintesi in Stone, 1965). La titolarità di
questo possesso di nuova acquisizione non è però
automaticamente la stessa - nelle sue conseguenze politiche e in
quelle di status, cioè di onore e prestigio - rispetto a
quella nobiliare tradizionale. Il gruppo sociale che si forma da
questo nuovo accesso alla terra resta dunque distinto, ma aspira
con tutte le sue forze a non esserlo più, da nessun punto
di vista. Attraverso una complessa vicenda storica tale gruppo
riesce a conseguire, per lo meno in parte, un risultato che, a ben
guardare, è duplice: realizzare un accesso pieno alla
condizione sociale di vertice e conservare a questa, tuttavia, la
sua peculiarità distintiva tradizionale, non facendola
travolgere dal mutamento di forma della parte alta della piramide
sociale (v. Stone, 1958 e 1965), nel tentativo di evitare ai
parvenus quello che oggi potrebbe chiamarsi la svalutazione di un
'bene posizionale': un tipo di bene, cioè, il cui valore
è inversamente correlato alla quantità dei fruitori.
(L'osservazione di questa vicenda ha dato luogo alla formulazione
di quella che è stata chiamata la 'legge di Tawney': quanto
più si diffonde la ricchezza in una società, tanto
meno importanti diventano i titoli di distinzione, ma tanto
più questi sono ricercati e crescono di numero; v. Tawney,
1954; v. Stone, 1958). In pratica l'aristocrazia finisce col
rafforzarsi attraverso l'apertura delle sue file, modificando il
sistema di valori che la rappresenta con identificazioni che sono
maggiormente funzionali a un mondo socialmente mutato, meno
svalutabili da un'inflazione numerica dei riconoscimenti, e
rinnovate, al tempo stesso, nella fermezza delle clausole
escludenti: si accentua il senso della povertà e
dell'insuccesso intesi non come sfortuna ma come 'disonore'.
Un'operazione, insomma, che consegue miracolosamente un risultato
in sé contraddittorio: rivalorizzare la distinzione di
rango allargando i ranghi della distinzione. Si affermerà e
si stabilirà così una sorta di coesistenza tra forma
tradizionale della differenza sociale e forma mobile dell'accesso:
l'Inghilterra resterà una società fondata sul
principio aristocratico - come dirà, ancora nell'Ottocento,
Tocqueville, il quale vedrà invece questo principio ormai
sovvertito nella Francia post-rivoluzionaria - ma con
modalità 'aperte'. E resterà tale, in virtù,
in un certo senso, proprio di questa apertura e delle sue forme,
che mantengono la società in tensione positiva, e non
disgregativa, su valori aristocratici.
La vicenda della storia alto-sociale inglese, nonostante la sua
forte specificità (basti pensare alla pratica assenza del
privilegio legale nella condizione nobiliare britannica), appare
oggi più esemplare e istruttiva per la comprensione
dell'evoluzione di altri paesi di quanto non si ritenesse in
passato. Essa sembra evidenziare, infatti, i termini generali nei
quali, con decorsi assai diversi, si pongono i problemi di
mobilità e di ascesa sociale, di rapporto fra l'economico,
il politico, il sociale-di-status nell'intero mondo europeo di
quei secoli. In quel mondo il mutamento economico porta, in varia
misura, alla formazione di fortune che possono essere plebee
quanto all'origine, ma non lo sono quanto all'esito, dominato,
questo, in forma che potrebbe dirsi socialmente imperiosa, da
aspirazioni sociali all'inclusione in un orto al tempo stesso
concluso e non concluso. Il termine gentry (specificamente
relativo al caso inglese) si è pertanto significativamente
esteso, in senso categoriale, per qualificare il fenomeno che si
compie, in termini al tempo stesso analoghi e diversi, in vari
paesi europei (v. Borkenau, 1934) e particolarmente in Francia:
un'élite cittadina che si forma nel Cinquecento, "composta
di possidenti detentori di uffici con istruzione universitaria, le
cui ricchezze e il cui status sociale li distinguono sia dalla
borghesia mercantile, che si sono lasciati alle spalle, sia dai
gentilshommes, il cui mondo per l'immediato futuro resta loro
precluso" (v. Huppert, 1977).
Anche in Francia si avrebbe, cioè, nel corso del XVI
secolo, un accentuato processo di distinzione selettiva
nell'ambito della borghesia che si arricchiva, con relativa
tendenza al possesso terriero. Resta forse ancora insuperato il
quadro della mobilità sociale nei secoli dell'ancien
régime che ci ha fornito Tocqueville: il roturier ricco (in
pratica il contadino arricchito) tende a lasciare la campagna sia
perché lo status differenziale, la distinzione imposta dal
nobile è insopportabile, sia, soprattutto, per sfuggire al
duplice effetto della 'taglia' (la più terribile imposta
dell'ancien régime in Francia): non solo l'imposizione
gravosa, ma altresì la sgradevole funzione di riscossione
che cadeva su ciascuno dei membri di un villaggio o di una
parrocchia a turno o a sorte. I documenti - osserva Tocqueville -
dicono che "non si vede quasi mai nelle campagne [...] che una
sola generazione di contadini ricchi. Non appena un coltivatore
arriva col suo lavoro a mettere insieme un po' di patrimonio,
subito fa lasciare al figlio l'aratro, lo manda in città e
gli compra un piccolo impiego". Inurbato, il neo-borghese si
disamora ai problemi produttivi della terra, ma non ai redditi e
al prestigio che vengono dalla proprietà di questa e si
proietta verso attività tipicamente urbane, e al tempo
stesso non manuali, quali gli impieghi: è su queste
attività, che in Occidente sono tipiche dell'età
moderna, che si determina il clivage storico fra borghesia e
popolo, in forme che sopravviveranno in epoca contemporanea.
Questo tipo di borghesia partecipa del processo di espropriazione
dei diritti politici locali, perché si inserisce
acquisitivamente nella rete dell'accentramento, formando un
notabilato da 'venalità' (le cariche si compravano) che si
pone in luogo delle possibili cariche elettive (v. Tocqueville,
1856).
L'anoblissement formale tenderebbe, a un certo punto, a farsi
più difficile, creando per l'appunto una duplicità
di status giuridico entro una più vasta e pressoché
omogenea situazione di status sociale, a sua volta, però (e
questo pare particolarmente interessante), differenziata quanto a
dignità culturale e quindi a modi di reazione: nascerebbe,
in questo contesto, una prima forma di risentimento dei non
gratificati portatori di valori intellettuali. In Inghilterra
questa duplicità tende a risolversi con una sorta di
trionfo del principio di opinione per ciò che concerne
l'assunzione entro i ranghi aristocratici: il che, come si
è visto, finisce col determinare una sorta di accettata
assimilazione cooptativa; restano gerarchie, esse stesse non
rigidissime, ma, in ogni caso, non fratture. Si forma un campo
significativo di effettiva costruzione sociale per quella che,
attraverso una suggestiva lettura di Locke, è stata
definita una "terza legalità", distinta da quella divina e
da quella statale: la "legge della reputazione" (v. Koselleck,
1959). Comincia a circolare la sentenza, che avrà poi
grande fortuna nel Settecento, secondo la quale "l'opinione
è la regina del mondo". (Pascal dice, nei suoi Pensieri, di
averla trovata nel titolo di un'opera, da lui non vista, di un
autore italiano: ma questo autore non pare sia stato
identificato).
Già nel XVI secolo in Francia comincia a manifestarsi una
cultura tendenzialmente avviata in una direzione analoga; ma tale
cultura resta al momento frustrata da un'evoluzione, insieme
politica, religiosa e sociale, che va in un altro senso (v.
Huppert, 1977). "La legislazione [francese] dell'ancien
régime intese opporsi strenuamente all'usurpazione della
condizione nobiliare da parte di famiglie che avevano preso
l'abitudine di 'vivere nobilmente' e che avrebbero voluto
avvantaggiarsi della longanimità tollerante del potere. Lo
Stato [che vendeva o concedeva politicamente i titoli] aveva
allora tutto l'interesse a stroncare un simile modo di procedere
e, d'altronde, la nobiltà autentica, sollecita nel
preservare la propria caratteristica, non poteva che appoggiare
una tale politica" (v. Labatut, 1978). Ma bastava che il monarca
eccedesse nell'avvalersi del suo monopolio nel sistema di
concessione dei titoli ("La monarchia si valse delle lettere di
nobiltà con un certo senso della misura. Dove la misura
mancò fu nella creazione di nobili mediante 'cariche"': v.
Goubert, 1969) per determinare una svalutazione sociale delle
nomine inflazionate: indizio tipico è l'espressione
'saponetta per i villani', con cui venne definito l'anoblissement
facilmente concesso. Era la situazione contraria a quella, di tipo
inglese, di una accettata cooptazione, anche entro gerarchie, ma
regolata da valori generalmente condivisi. Per contro, in basso e,
se è consentito dir così, di lato, finiva con il
crearsi la situazione descritta da Tocqueville: "Il sistema delle
concessioni di nobiltà, invece di attenuare l'odio del non
nobile contro il gentiluomo, lo accresceva smisuratamente, e
quest'odio si inaspriva di tutta l'invidia che il nuovo nobile
ispirava ai suoi antichi eguali" (v. Tocqueville, 1856). L'area
'borghese' gravitava chiaramente in modo subalterno intorno a
quella nobiliare, attratta dal desiderio di cooptazione o respinta
dal risentimento. "La nobiltà fu l'ideale ostinatamente
perseguito e lo stadio supremo della borghesia" (v. Goubert,
1969).
La ricerca di qualcosa che sta mutando non va orientata
probabilmente né direttamente verso le strutture
economiche, né verso la formazione di nuove fortune, ma
verso l'affermarsi di uno spirito individualistico di
indipendenza, che è forse una vera rivoluzione culturale.
C'è un passo illuminante di Voltaire a questo proposito:
"Una volta non c'era altra risorsa per i piccoli che mettersi al
servizio dei grandi; oggi l'industria [=industriosità] ha
aperto mille vie, ignote cent'anni fa" (v. Voltaire, 1751).
È il gioco della rete invisibile di dipendenze (ora
però sempre meglio studiato dagli storici) cui comincia a
contrapporsi una cultura dell'indipendenza la quale mira a
riscattare la frustrazione storica di cui si è accennato
più sopra? (L'autobiografia di Rousseau ne è
certamente una testimonianza straordinaria). La visione della
settecentesca cultura dei lumi come 'borghese' - giustamente
avversata (v. Venturi, 1970) nelle sue numerose rozze
manifestazioni ispirate da un determinismo del tipo
'struttura-sovrastruttura' - può forse prendere un senso
non banale in termini del tutto diversi: nell'ottica della
valorizzazione sociologica dei talenti intellettuali, che
certamente l'illuminismo promosse e caldeggiò, e di cui in
parte consiste. Si profila così l'idea interpretativa di un
autonomo modo di essere culturale di una grande e composita
élite, del suo costituirsi in 'sfera dell'opinione' con
espansiva pretesa d'influenza, idea che sembra contrapporsi
storiograficamente alla visione che aggrega gli attori collettivi
sulla base di una visione strettamente economico-sociale (v.
Koselleck, 1959).
In un'ottica siffatta è possibile ravvisare, come
specifica novità, un nuovo genere di collante sociale - per
così dire - nella formazione di una 'sfera pubblica'
(Öffentlichkeit) come luogo-modalità di
comunicazione-aggregazione sociale, di scambio-formazione di idee,
distinto dalla corte, esterno a questa, che le si oppone, in
qualche modo, come fonte di pressione. Tutto ciò non mette
storiograficamente l'accento sugli 'interessi' in senso
economico-sociale come fattore aggregativo e propulsivo, ma
piuttosto sulle modalità di comunicazione e di formazione
degli orientamenti e delle decisioni.
Prendono rilievo, in tale prospettiva, i luoghi della
sociabilità (caffè, salotti, ecc.) e la formazione
graduale di una "parità di persone colte" fra aristocratici
e intellettuali borghesi (v. Habermas, 1962). La massoneria fu
probabilmente un luogo classico di parificazione in tal senso (v.
Koselleck, 1959). Quest'ottica - cultura dell'indipendenza, ruolo
dell'opinione, istituzioni della 'sociabilità' - sembra
offrire prospettive d'indagine assai più ricche, per
l'interpretazione dei grandi eventi della fine del XVIII secolo,
che non lo statico e anagrafico coacervo sommatorio che si
è cercato di aggregare in modo appiccicaticcio, sulla base
della doppia esclusione 'né/né' (v. Darnton, 1984),
come 'borghesia di ancien régime', nell'affannosa ricerca
di una sostituzione concettuale avente almeno i requisiti
'materiali' di una marxiana borghesia capitalistica che
nell'ancien régime c'era assai poco, come gli storici
francesi hanno dovuto poi farsi spiegare da quelli anglosassoni.
Prima di esaminare la questione dei connotati sociali della
Rivoluzione francese, poniamoci per un istante il problema del
grande evento rivoluzionario che precede quelli di Francia. Si
può parlare di 'borghesia' come soggetto sociale
protagonista agli inizi della storia statunitense? Un osservatore
come Tocqueville, sbarcandovi nel 1831, non vi vede che "classes
moyennes" e ve le vede talmente protagoniste da considerare quel
paese come l'unico che sia da esse governato (v. Tocqueville,
1957). Ma abbiamo visto che la nozione ha generalmente, in quei
tempi, un forte connotato antagonistico o, quanto meno,
determinativo (contrappone una aggregazione sociale senza
privilegi a una aristocrazia privilegiata, e/o distingue - per lo
più marcandone peculiari tendenze a improntare una nuova
società - uno strato intermedio fra aristocrazia e popolo).
Questi elementi non si manifestano all'interno della vicenda
originaria del nuovo continente, dove la colonizzazione decisiva -
quella inglese - riflesse i mutamenti in corso nella madrepatria
(in campo religioso come in campo economico), ma non ne riprodusse
il sistema di relazioni sociali, configurando piuttosto, rispetto
a quello di origine, un "mondo alla rovescia" (v. Bonazzi, 1977),
nel quale la "battaglia borghese" combattuta in Inghilterra era
stata "vinta in partenza": pratica assenza di rapporti e
tradizioni feudali e irrilevanza della nobiltà di nascita,
morale del lavoro antiaristocratica, diffusione di nuovi diritti e
di democrazia locale. Esiste, e prospera, la 'cosa', la figura
sociale del borghese, trasferita e potenziata; non ha diffusione,
nelle sue valenze distintive e polemiche europee, il 'nome'. Il
cittadino della nuova America può forse, con sommaria
analogia, essere paragonato al 'servo fuggiasco' nella
città basso-medievale: la sua borghese diversità si
contrappone non a un passato o a un presente interno, ma alla
società aristocratica o di vecchio regime lasciata nella
madrepatria d'origine. Relazioni sociali disegualitarie di tipo
arcaico ebbero spazio nella nuova società, anche su
larghissima scala, ma si trattò di un ritorno della
schiavitù, e di discriminazioni razziali-sociali, o di
gerarchie etniche, non di forme feudali di privilegio. La
società americana diverrà via via luogo classico di
un protagonismo di 'capitalisti', intesi come businessmen
(imprenditori o finanzieri, che qualcuno considererà anche
idealmente contrapposti: v. Veblen, 1899), ma non del complesso, e
contraddittorio, coacervo di figure sociali e di valori che
è, al di qua dell'Atlantico, la 'borghesia': Tocqueville
(v., 1957) osserva che la sola distinzione reale, di contro alle
distinzioni immaginarie, è il merito, ma questo è
inteso in Francia in più modi, e intelligenza e spirito vi
hanno gran posto, mentre in America, la misura del merito è
essenzialmente la ricchezza. La nozione di middle class
prenderà, come vedremo, rilevanza, negli Stati Uniti,
più tardi, entro un'ottica che avrebbe rispecchiato, in una
fase più avanzata, proprio le potenzialità
baricentriche che si vorranno vedere in questa originaria assenza
di steccati sociali, quando il nuovo paese sarà investito
da un grande dinamismo economico e sociale; si prenderà a
dire, e si ripeterà innumeri volte, che l'America è
una middle class country (v. Mead, 1942): anche qui ripetendo
sostanzialmente Tocqueville, al quale già pareva nel 1831
che in quel paese "la società tutta intera fosse fusa in
classe media" (v. Tocqueville, 1957).
4. La rivoluzione borghese
La Rivoluzione francese, attraverso l'intero arco della sua
vicenda, fondò certamente un nuovo sistema di valori e
diede basi e riferimenti nuovi ai conflitti materiali e ideali
dell'età successiva. Attraverso le sue solenni e
drammatiche rotture con il passato e i suoi sviluppi,
particolarmente quelli napoleonici, contribuì in modo
decisivo a creare sul continente europeo le condizioni di un
sistema di stratificazione sociale nel quale la meta sociale di
riferimento in alto non ha più carattere di privilegio
esclusivo e si presenta esplicitamente come aperta a una
mobilità verticale, la quale ha le forme legittimate (sotto
il profilo dei valori sociali) del successo per merito e della
carriera.Una lunga tradizione di scuola conferisce a quella
rivoluzione, in relazione a tale suo ruolo storico, la qualifica
di 'rivoluzione borghese'. Come è stato osservato (v.
Anderson, 1984) l'uso insistente dell'espressione risale piuttosto
ai marxisti russi della fine del XIX secolo che a Marx stesso. In
questa formula si sono però condensate tutte le
ambiguità accumulatesi in età contemporanea intorno
alla nozione di borghesia. Gli equivoci derivano dal fatto che -
per le circostanze e il modo in cui è stata proposta - la
formula riverbera, in sostanza, sulla vicenda rivoluzionaria
francese il senso del grande mutamento di lungo periodo che si va
compiendo (peraltro in tempi non simultanei e nell'arco di quasi
un secolo) nelle economie e nelle società che sono via via
investite dalla 'rivoluzione industriale'. Nel contesto in cui la
formula si afferma, infatti - caratterizzato dall'ascesa del
movimento socialista -, 'borghesia' è divenuto, nel
linguaggio corrente, sinonimo di borghesia capitalistica, nel
senso di un capitalismo industriale a largo impiego di lavoro
salariato, che ha praticamente subordinato a sé le forme
finanziarie, commerciali, agrarie; e si presenta, o viene
percepito, come gruppo dominante nella struttura sociale, che esso
organizza, regola, disciplina e indirizza, influenzando,
altresì, in modo determinante lo Stato e la politica.
Queste posizioni vengono vissute come 'conquistate' (anche se non
consolidate) attraverso la Rivoluzione del 1789. Nel radicamento
di questa idea come luogo comune ebbero certamente gran parte, da
un lato una componente ideologica di sinistra, dall'altro una
componente nazionalistica, in una simbiosi tipicamente francese.
La prima è costituita dall'aspirazione del marxismo
militante a fondare una teoria della rivoluzione proletaria,
legittimata sul precedente storico, sia per la dignità che
una scansione della storia per 'rivoluzioni di classe' poteva
conferire a una nuova pretesa rivoluzionaria dello stesso genere,
sia perché l'identità 'classista' del grande
precedente poteva aiutare a togliere di dosso agli attori del
presente il sospetto di elitismo soggettivistico, e sia, infine,
perché talune modalità della Rivoluzione francese,
come il Terrore, potevano essere così considerate normali,
esemplari e reiterabili. La componente nazionalistica è
data, invece, dalla propensione a trasferire sulla vicenda
politica francese l'intera sostanza della grande trasformazione
dei tempi, il cui epicentro economico-sociale è
incontestabilmente britannico.Nel contesto culturale nel quale si
afferma la visione della Rivoluzione francese come 'rivoluzione
borghese', diviene implicita una continuità-identificazione
fra il gruppo sociale dominante dell'oggi e il gruppo sociale che
ha diretto e operato quella 'conquista' di posizioni. La formula
'alta borghesia' - spesso usata, specie in Francia, per indicare,
con un tentativo di maggiore individuazione, il gruppo sociale
dominante del presente - non elimina l'equivoco, non essendo
pensabile la 'direzione di classe' di un processo-matrice di
ribaltamento storico senza che si identifichi quella 'direzione'
con gli strati decisivi della classe stessa. Questo è,
probabilmente, il nesso logico essenziale dell'equivoco.
La grande storiografia che è stata definita 'giacobina' -
quella che parte da Jean Jaurès e, passando per Albert
Mathiez, arriva a George Lefebvre - ha, nell'alimentazione
dell'equivoco sulla nozione di borghesia, più passive
complicità che non responsabilità aperte e dirette.
La sua operazione value-loading non aveva tanto natura
dottrinaria, quanto piuttosto politico-passionale, e mirava
soprattutto a salvaguardare, secondo una tradizione che risale a
Thiers e arriva a Clemenceau, la difesa compatta del processo
rivoluzionario; e, quindi, come suo vertice, il momento giacobino
nonché l'ampio coinvolgimento di gruppi sociali che in quel
momento si manifesta (e la cui ricostruzione è, poi, il
più peculiare apporto delle ricerche di questa scuola).
È ancora l'ottica tipicamente francese del trionfo della
'nazione' (in una versione di sinistra che si sposa o flirta col
socialismo o con il comunismo) a manifestarsi nella cultura di
quegli insigni studiosi. Nella loro rappresentazione delle forze
sociali che agiscono sulla scena pre-rivoluzionaria e
rivoluzionaria non si può non riconoscere un sostanziale
(benché, sul tema 'borghesia', piuttosto pigro) realismo,
mentre l'interesse dell'osservazione e della ricerca appare
più attratto dalle classi inferiori (urbane e rurali) e
dagli atti di presenza e d'intervento di queste nella grande
vicenda, nonché dal loro partecipare, influire,
distinguersi e preludere - per il momento senza successo - a
movimenti futuri. La Rivoluzione, per questi storici, è
'borghese' implicitamente, come valenza simbolica complessiva.
"Un'attenta lettura del primo capitolo 'Le cause della Rivoluzione
francese', che nella Histoire socialiste [di Jean Jaurès]
dà lo sfondo economico-sociale [...], è sufficiente
per cogliere il punto debole di una costruzione che non tiene. Non
tiene, perché la 'borghesia commerciale e industriale', che
nel 'sistema' di Jaurès va intesa come la 'classe' dei
capitalisti, cioè di coloro che detengono i mezzi di
produzione, e che dovrebbe essere la protagonista della
'rivoluzione borghese', questa borghesia non emerge dai documenti
storici forniti dalla Histoire socialiste e sussiste solo come
astratta categoria sociologica non verificata dalla storia. Viene
quindi meno il supporto principale di questa presunta rivoluzione
del capitalismo che prende il posto del feudalesimo, cioè
l'esistenza di una borghesia capitalista [...]. Lo stesso
Lefebvre, che più di ogni altro ha contribuito a disgregare
il blocco della 'rivoluzione borghese' nelle sue componenti
eterogenee e indipendenti, non ha però voluto rinunciare
alla terminologia ereditata da Jaurès e alla parvenza del
suo 'sistema', sia pure ridotto a un involucro morto non
più corrispondente ai contenuti reali" (v. Terni, 1981). La
critica di questa nozione, quale verrà condotta
successivamente, è, infatti, compatibile con l'analisi di
fatto della situazione e degli interessi sociali, per quel che
effettivamente se ne trova in un Lefebvre (v. Furet, 1978). I
peccati sono, al riguardo, per lo più, di omissione.
È con Albert Soboul (v., 1962) - uno studioso comunista
del secondo dopoguerra, autore di importanti ricerche sui
sanculotti e di un'altra grande sintesi d'assieme della vicenda
rivoluzionaria - che la nozione di 'rivoluzione borghese' si
impone esplicitamente e 'a nome', si può dire, di un'intera
e autorevole corrente culturale. Soboul si trovò a tentare
di assumere una sorta di eredità egemonica nel campo della
storiografia della Rivoluzione, in una condizione nuova di quasi
ufficialità ideologica (del tutto estranea ai grandi
predecessori), ma - e questo va sottolineato - in presenza di una
notevole e significativa crescita, che potremmo anche definire
'tecnica', del marxismo storiografico.
Infatti, quando Soboul tenta di succedere nella leadership della
storiografia sulla Rivoluzione nel mondo accademico francese si
trova di fronte alla contraddittoria esigenza di formalizzare la
tesi della 'rivoluzione borghese' in senso marxiano e di dover
guidare, però, un marxismo che è (in campo
storiografico) tecnicamente cambiato: meno interessato alle
relazioni deterministiche fra (generiche) posizioni di classe ed
espressioni ideali e culturali (il rapporto
'struttura-sovrastruttura'), e molto più curioso e attento,
invece, alla complessità delle articolazioni della
struttura economico-sociale. Nel frattempo c'è stata
infatti la fioritura della notevole scuola marxista inglese e
molti storici marxisti francesi degli anni cinquanta si sono
misurati con grandi ricerche regionali negli archivi dell'ancien
régime, arricchendo e articolando le proprie strumentazioni
categoriali.
La crisi della nozione marxista di 'rivoluzione borghese' nasce,
per gran parte, all'interno del marxismo stesso, rendendo i suoi
esponenti immediatamente sensibili alle critiche 'revisionistiche'
che partono da alcuni storici anglosassoni, come Eisenstein,
Cobban, Taylor, Lucas (v. Terni, 1981). L'equivoco aveva avuto
sostanzialmente origine nella celebre 'botta e risposta' con cui
si apriva il pamphlet del 1789 dell'abate Sieyès: "Che cosa
è il Terzo Stato? Tutto. Che cosa è stato finora?
Nulla". Una dichiarazione rinverdita, qualche decennio dopo, nei
suoi corsi sulla storia di Francia, da François Guizot (v.,
1830): "Il Terzo Stato è, nella nostra storia, un fatto
immenso. È la più possente delle forze che hanno
presieduto alla nostra storia". Guizot userà
intercambiabilmente le espressioni 'Terzo Stato' e 'borghesia'.
Marx - sicuramente buon lettore di Guizot (v. Furet, 1986) e
certamente di Saint-Simon - inviterà a leggere 'borghesia'
come sinonimo di classe capitalistica. Così si compie il
gioco. Ma, come osserva Alfred Cobban, "coloro che effettivamente
facevano parte del Tiers État nell'assemblea [eletta nel
1789], sia in qualità di deputati che di suppléants,
furono 648. Di questi, soltanto 8 vengono descritti come
fabbricanti o maîtres de forges [...]. Circa 76 membri del
Tiers vengono descritti come marchands o négociants [...].
Il mondo della finanza è presente con un solitario
banchiere, e abbiamo un mercante che si definisce anche banchiere.
Tutti insieme, i mercanti, i fabbricanti e i finanzieri sono 85,
vale a dire il 13% del numero globale dei deputati del Terzo
Stato" (v. Cobban, 1954). Cosa erano allora socialmente i
rappresentanti del Terzo Stato? Erano in prevalenza officiers,
detentori di cariche amministrative. Analogamente appare composta
la successiva Convenzione, con un accresciuto peso di
professionisti. "Come la Costituente, la Convenzione è
quasi esclusivamente un'assemblea borghese, e nel 1792, come nel
1789, borghese va inteso nel senso di una classe di fonctionnaires
e di uomini provenienti dalle professioni" (ibid.). Il problema,
infatti, non è la parola, ma il suo significato (questo
sfugge a taluni: per esempio a Roger Magraw: v., 1983).
Già Tocqueville (v., 1856) aveva chiaramente definito la
borghesia dell'ancien régime come borghesia di places, di
impieghi (aveva esemplificativamente calcolato, per il periodo
1693-1709, una creazione di impieghi dell'ordine di 2.500 in media
l'anno). La revisione dell'idea di 'rivoluzione borghese', avviata
da Cobban, indusse nuove ricognizioni sulla struttura sociale e
sulle forme della ricchezza nella Francia prerivoluzionaria. Il
quadro che ne è emerso appare quello di "una preponderanza
sostanziale del settore proprietario" (terre, edifici, cariche
venali, rentes) rispetto a quello mobiliare (in ogni caso, questo,
prevalentemente commerciale): un rapporto, si è valutato,
di 4 a 1 (v. Taylor, 1967). La storiografia marxista ha preso atto
di queste evidenze (si è alla fine concluso che è
stato positivo l'aver portato a riconsiderare "il concetto di
borghesia che, da Guizot a Lefebvre, non era stato mai definito
con precisione, venendo impiegato in accezioni troppo vaste o
troppo ristrette, a volte tra loro contraddittorie": v. Vovelle,
1988), ma con reazioni di tipo diverso: una più
arcaicamente 'dialettica', che ha tentato di recuperare l'idea di
un rapporto di 'influenza' dei gruppi più capitalistici,
anche se minoritari, sugli altri, nel quadro di una visione un po'
metafisica di quell'uno-e-plurimo (o meglio: plurimoma-uno) che
sarebbe, in ogni caso, la borghesia (v. Soboul, 1962); una seconda
che, verificata l'inconsistenza di una borghesia economica
'marxiana', nega senso e legittimità alla formula stessa di
'rivoluzione borghese' e persino all'uso, in questo caso, di un
concetto di 'classe', invitando a un più rigoroso impiego
del marxismo (v. Zapperi, 1974); una terza che tende a trasferire
il senso della formula stessa entro il processo
economico-strutturale di lungo periodo della 'transizione' al
capitalismo, abbandonando, però, per strada il problema
degli attori della vicenda rivoluzionaria in quanto tale (v.
Robin, 1970); e una quarta, di gran lunga più articolata e
realistica, che, dissociando una nozione di 'società
borghese' da quella di 'società capitalistica', recupera
una borghesia reale, composita e poco o nulla capitalistica,
attore sociale nella vicenda rivoluzionaria con motivazioni
più patrimoniali e notabilari che
capitalisticoi-mprenditoriali ("l'elemento catalizzatore
dell'amalgama venne naturalmente trovato nella proprietà
terriera, nuovo blasone sostituito alla nascita come segno di
distinzione sociale": v. Capra, 1978), entro un quadro
evolutivo-istituzionale che si presenta, tuttavia, come
coerentemente inscrivibile in una trasformazione di senso
capitalistico, ma di lungo periodo.
Se si ristabilisce nei suoi tratti reali la borghesia come attore
sociale e, con essa, la storia effettiva delle attività che
la compongono e delle sue aspirazioni sociali, nulla forse
simbolizza lo sbocco sociale della vicenda rivoluzionaria meglio
della vendita dei beni nazionali (un patrimonio sostanzialmente
terriero) prevalentemente a 'borghesi', coronata, poi, dalla
'nobilitazione' napoleonica, una massiccia promozione sociale
aperta ai talenti, indicizzata - potrebbe dirsi - unicamente a
dimensioni di proprietà e reddito terrieri, concessa e
regolata dallo Stato. In seguito a tale mutamento, il possesso
terriero è ormai sostanzialmente liberato da vincoli
feudali, cioè da obblighi verso terzi, grandi e piccoli,
pienamente acquisibile e vendibile. "Un principe che voglia
regnare sopra l'affezione dei suoi sudditi, deve attribuire alla
proprietà tutti quei diritti dei quali godeva in altri
tempi la nobiltà [...]. La classe dei proprietari è
la vera potenza intermedia fra il sovrano e il popolo; classe che
comprende un gran numero di famiglie; che non si usurpa alcuna
distinzione; che accoglie nel proprio seno qualunque voglia essere
acquirente; e che mostra in se stessa il premio accordato ai
talenti e alla industria, quando siano accompagnati da una saggia
economia" - si legge nella memoria di un possidente veronese del
1805 (v. Capra, 1978; v. Donati, 1988). ('Industria', si noti,
allora significava ancora soltanto industriosità).
È questa la vera filosofia 'borghese' che trionfa con la
Rivoluzione, nel suo intero ciclo che va dal 1789 al 1815: il
binomio talento-proprietà che si 'nobilita' e si fidanza
seriamente con lo Stato. Un'ampia e teatrale nobilitazione sul
campo ne è il simbolo, una legislazione proprietaria
individualistica e liberatoria ne è la sostanza. (Il
fenomeno è stato osservato anche per l'Italia: v. Capra,
1978; v. Meriggi, 1983 e 1987).In questo quadro la rivoluzione
borghese sembra configurarsi come una rivoluzione
dell'anoblissement, il quale, trasferendosi di fatto dal titolo
onorifico alla sostanza proprietaria, da selettivo e ottriativo
diviene liberamente acquisibile per volontà soggettiva
individuale di chi riesca a procurarsene i mezzi. È come la
fase conclusiva di un processo secolare, che sblocca i ceppi che
ostacolavano una mobilità sociale verso l'alto orientata su
valori di gratificazione tradizionali, privi di valenze economiche
peculiarmente dinamiche. Compare, è vero, come valore di
ascesa, il 'talento'. E compare in duplice forma: come valore
cooptativo, soggetto a un riconoscimento dall'alto, in quanto
'carriera', un talento, dunque, di 'servizio'; e come valore di
mercato, in quanto abilità all'accumulazione individuale di
ricchezza, non importa in quali forme, e, per lo più, senza
nessun premio di valore per l'accumulazione riproduttiva, foriera
di progresso: nell'area in cui si definiscono i 'talenti' non vi
è alcuna prelazione a favore di chi opera nell'industria
manifatturiera e negli affari. La filosofia industrialista di
Saint-Simon e dei suoi seguaci, che privilegia i produttori,
darà luogo a un gruppo importante e, in definitiva,
incisivo, ma per lungo tempo circoscritto. (Non a caso tanti
equivoci deriveranno proprio dall'identificazione che, alla fine,
Saint-Simon farà dei suoi idealizzati 'industriali' con la
borghesia, identificazione che, come si è visto,
sarà raccolta da Marx).
Un 'talento' - vero o presunto - fuori dei ranghi e fuori del
mercato, disgiunto da ricchezze o carriera, resterà
emarginato: e comincerà in gran parte di qui la
disaffezione intellettuale ottocentesca - ideale continuazione per
molti versi di quella di certe correnti dell'illuminismo - verso
la rivoluzione borghese.
5. Il secolo borghese
Il 'secolo borghese' è un secolo lungo e intenso, che solo
con molto sforzo può essere considerato in modo unitario.
È il secolo della grande espansione del capitalismo
industriale. La rivoluzione industriale, avviatasi in Inghilterra
negli ultimi decenni del XVIII secolo, accelera il suo corso nel
XIX secolo e si diffonde, a cadenze successive di qualche
decennio, nei paesi del continente europeo, negli Stati Uniti
d'America e poi in Giappone. La rivoluzione industriale significa,
sotto il profilo sociale, la formazione di una borghesia
imprenditoriale, non solo nell'industria manifatturiera, ma anche
nei settori, a quella funzionali e strettamente integrati, della
finanza, della banca, del commercio, dei trasporti. Questa
è, di certo, la forza più dinamica e foriera di
mutamenti, nell'immediato e nella prospettiva; non è,
però, e per parecchio tempo, la realtà economica e
sociale maggioritaria. Ancora nel XIX secolo, la 'borghesia' non
coincide con il gruppo sociale degli imprenditori capitalistici.
La ricchezza resta a lungo, nella sua parte sostanziale,
prevalentemente terriera. Così nella Francia degli anni
quaranta per i quali si parla in modo insistente di 'borghesia al
potere', il 74% dei notables più ricchi erano proprietari
terrieri (v. Magraw, 1983). Di più: nonostante la
primogenitura nella rivoluzione industriale, l'Inghilterra, ancora
nel 1880, faceva registrare come proprietari terrieri un buon 50%
dei più ricchi (v. Rubinstein, 1981). Ma questa ricchezza
può ormai definirsi borghese, essa stessa, per i suoi
caratteri giuridici, di cui si è detto, e quindi per le sue
modalità di acquisizione e detenzione: il simbolismo stesso
del vecchio mondo nobiliare è un distintivo che non vale
ormai a costituire un separato e soprastante rango, ma solo un di
più del quale una parte dei ricchi può
drappeggiarsi, mentre un'altra parte può collegarvisi con
relativa facilità: gli incroci matrimoniali fra ricchezza
fresca, o posizioni di successo, e dissanguati blasoni sono
all'ordine del giorno.
Borghese è, poi, senza dubbio, l'articolarsi delle forme
della proprietà, pur nella persistente predominanza
terriera: quella immobiliare vede svilupparsi notevolmente, con
l'urbanizzazione, il valore della proprietà di suoli ed
edifici urbani; quella mobiliare conosce sofisticate variegazioni,
rispetto alle rozze 'carature' e ai vecchi 'luoghi di monte', nel
mercato del debito pubblico, dei titoli azionari e obbligazionari
relativi al grande diversificarsi delle attività
economiche. Si tratta di forme di proprietà che possono
associarsi, ma non necessariamente, con attività
imprenditoriali: possono anche restare, però, come in
larghissima misura restano, per dir così, assenteiste, di
stile assai analogo, cioè, alla vecchia proprietà
terriera. E come la forma di proprietà, si moltiplicano
pure, e assai di più, le forme di reddito suscettibili di
dare accesso alla proprietà stessa: assistiamo alla
crescita delle strutture amministrative pubbliche; dei servizi
connessi all'urbanizzazione; delle strutture organizzative
terziarie, che si affiancano, dentro e fuori, allo sviluppo
industriale; delle attività professionali vecchie e nuove.
Tutto ciò crea un ampio campo di formazione di redditi a
dimensione-risparmio, eccedenti, cioè, in piccola o media
misura la necessità di consumo, e che si riversano sulla
proprietà nelle vecchie e nelle nuove forme. Questi
fenomeni vanno di pari passo con la crisi finale, nelle abitudini
e nella legislazione, del maggiorascato come specifica filosofia
dell'ereditarietà patrimoniale. Si ingrossa, insomma, e
cospicuamente, il bacino di una ricchezza diffusa, che si prepara
alla successione di quella prevalentemente terriera di un tempo, e
non sempre è dissimile, per stile economico e funzione di
distinzione, da quella, mentre si moltiplicano i canali che la
formano. Si aggiunga a tutto questo il rilievo nuovo che la
politica, l'amministrazione, la gestione anche non proprietaria di
imprese conferiscono come posizione di prestigio non servile
(anche quando 'di servizio') a chi assolve funzioni di dirigenza o
rappresentanza: e ciò indipendentemente dagli eventuali
risvolti economici.Si ha, in altre parole, un'espansione di campo
per una borghesia del tipo che abbiamo visto prevalente
nell'ancien régime e specialmente verso la fine di questo.
Nonostante l''ispessimento' della borghesia imprenditoriale
propriamente detta, la parte delle altre attività definite
'borghesi' tende a rimanere rilevante e addirittura preponderante.
L'osservatore della società ottocentesca, oggi, è
indotto a porsi il problema dell'esistenza e persistenza di una
'pluralità' di borghesie nel tessuto sociale (v. Macry,
1980). E certamente la stratificazione sociale, nel corso del XIX
secolo, tende a semplificarsi in basso (la cosiddetta
'proletarizzazione'), ma a complicarsi nel mezzo. Nasce
l'espressione 'piccola borghesia' e con essa un tipo sociale che
avrà fortune letterarie, di prevalente tipo satirico. La
differenziazione identificativa del borghese non avviene
più nel confronto di un rango più altolocato, ma
piuttosto verso il basso: verso il proletariato e il popolo, o
popolino, e verso, appunto, la 'piccola borghesia'.
Di una differenziazione verso l'alto, di tipo tradizionale, come
fatto di apprezzamento sociale, restano tracce connesse alla
persistenza del mito nobiliare, il quale è ormai solo un
mito: ma a esso si associa la discriminazione reputativa,
pertinente a stile e maniere, che colpisce ancora la fortuna
più recente rispetto a quella più stagionata.
È il mito nobiliare che viene evocato, in sostanza, quando
si discrimina il 'nuovo ricco', il parvenu, come 'borghese'
rispetto a chi, nella sostanza, non lo è meno dell'altro. A
evocarlo, spesso, sono addirittura esponenti di strati dal punto
di vista economico-sociale inferiori, 'piccolo-borghesi', ma che
si autocollocano, per cultura e maniere, su un piedistallo
critico: questa possibilità, che mimetizza un'ottica
aristocratica ma rifiuta il riconoscimento automatico al nuovo
titolo sociale sovraordinante - la ricchezza - è,
però, a ben vedere, una conquista di natura prettamente
borghese in quanto negazione di valori sociali diversi dal merito.
Come è borghese, del resto, sotto il profilo della
tradizione storica (lo si è visto), la propensione a
recintare gli spazi acquisiti come nuove aree di distinzione:
quella negazione può, ahimè, negarsi attraverso
l'inesorabile ripetersi di cristallizzazioni. È solo il
dinamismo della società che fa e disfa.
La borghesia ottocentesca non è, dunque, salvo queste
sopravvivenze simboliche, differenziata rispetto a un
'più-in-alto' (è peculiare eccezione il modello
tedesco, di cui stiamo per dire e che, non a caso, sarà
imputato di drammatica anomalia). E, salvo le stesse sopravvivenze
simboliche, che si manifestano nella recinzione da stagionatura
(ma sono prive di cogenza legale), nulla oppone ai nuovi ingressi:
la sua filosofia è, anzi, come si è detto, quella
del merito e del successo. Ciò dovrebbe indurre una
labilità dello spirito di gruppo, privilegiare il livello
individuale dell'azione sociale, e vanificare, in sostanza, ogni
problema d'identificazione aggregativa unitaria.Se questo non
avviene, ciò è dovuto a due ordini di fattori che
erano praticamente assenti nel mondo nobiliare: li chiameremo
fattori costruttivi interni e fattori difensivi esterni. I primi -
fattori costruttivi interni - si costituiscono in relazione al
legame che unisce la formazione della borghesia (o delle
borghesie, o comunque si voglia chiamare il coacervo coinvolto in
questo processo) a un nuovo tipo di Stato, che è
rappresentativo sia nella struttura delle proprie istituzioni che
nel suo presentarsi nel mondo, rispetto agli altri Stati. La
borghesia - potrebbe dirsi - trova qui le forme del suo 'apparire'
che le erano negate da Goethe, rispetto alla nobiltà, nelle
riflessioni di Wilhelm Meister (v. Habermas, 1962). In quella
doppia rappresentatività, nelle forme e funzioni cui
dà luogo, nei fili che essa tesse per connettere in modo
nuovo la struttura sociale (attraverso compromessi con l'antico o
aperture al futuro), nella cultura e nelle immagini che esprime,
nel confronto conflittuale, emulativo, imitativo con altre
nazioni, si crea l'identificazione, che qui diciamo 'interna',
delle borghesie, appunto, 'nazionali', in quanto legate ai loro
propri modi di costruzione come élite (v. Salvati, 1988).
Diremo oltre dell'Inghilterra di questo secolo, la cui
peculiarità, come abbiamo visto, risale assai addietro nel
tempo. Per l'Europa continentale il modello più tipico
d'identificazione 'interna' della borghesia ottocentesca è,
ovviamente, quello francese. Anche un'infaticabile studiosa della
borghesia ottocentesca francese, Adéline Daumard, continua
a registrare, alla fine della monarchia di luglio, l'atavica
propensione dei vertici borghesi ad aristocratizzarsi. Ma questa
'aristocrazia borghese', ora, non si annulla verso l'alto, dove
può trovare 'maniere', ma non più valori: questi
deve cercarli nella creazione di un sistema di norme che rendano
compatibili l'individualismo competitivo e il mantenimento
dell'ordine sociale (v. Daumard, 1963), nei confronti del quale
scricchiolano i legami della stabilità, della religione e
della deferenza. Fu Guizot a lanciare la parola d'ordine che
sarebbe risultata alla fine vincente, evocando un avvenire non
definito nel quale la maggior parte dei cittadini potranno
fondersi nei ranghi della classe media, trovando la propria
gratificazione in quell'individualismo che non pareva fatto per
loro. Ma finché - come comincia ad accadere solo oltre la
metà del XX secolo - non si saranno create le condizioni
che possano rendere credibile quella prospettiva (e tutte le
volte, in ogni caso, che essa venga messa in forse), la borghesia
dovrà cercare d'identificarsi con l'amalgama di ciò
che resta o si riproduce di quegli antichi connettivi dell'ordine
sociale.
È stato però messo in evidenza che felice
caratteristica dell'immagine proiettata dal mondo della borghesia
francese sarebbe una sostanziosa continuità (non tanto
quindi un continuum da mobilità quanto da comune
appartenenza simbolica) fra 'grande' e 'piccolo' (ravvisandola
anche nell'amalgama sansimoniano dei "produttori") che
l'eredità rivoluzionaria avrebbe consentito di stabilire
entro l'identità borghese, cioè, in altre parole, la
capacità di autorappresentazione democratica della
borghesia francese, in un senso che è insieme politico,
sociale ed economico (v. Demier, 1983; v. Salvati 1988).
In quest'ottica può essere inquadrato, in realtà,
anche l'apprezzamento sostanzialmente paritario assegnato, nel
sistema di valori francese, al rango amministrativo, al servizio
della 'nazione', rispetto al rango conseguito o convalidato sul
mercato. Una particolare importanza ha però, nel caso
francese, la straordinaria forza diffusiva della immagine
stilistica, egemone del mondo internazionale dell'Ottocento, che
fa, significativamente, della Parigi borghese l'erede della Parigi
della corte: è questa gratificante egemonia - assai
più costante di quella politico-militare - l'immagine sulla
quale si compatta nazionalisticamente, e con larghe
capacità aggregative, la borghesia francese.
C'è, però, nel continente europeo, un importante
caso diverso, quello della Germania - nuova e grande protagonista
dell'Ottocento, specie dopo il 1848 - in cui la nozione di
borghesia, solidamente presente nella tradizione, acquista
originali valenze. Il vento dei mutamenti investe sensibilmente,
come si sa, la Germania nell'età della Rivoluzione francese
e dell'egemonia napoleonica, ma questo avviene nel quadro e sotto
la spinta di una forte struttura statale, quella della monarchia
prussiana, che tende a pervadere la stessa società in
mutamento, sia con una solida presenza organizzativa (militare,
amministrativa, educativa) di stampo rigidamente gerarchizzato (in
una gerarchizzazione che intreccia i privilegi nobiliari degli
Junker con le funzioni esercitate), sia, in parallelo con quella,
attraverso un sistema di valori orientato allo statalismo (nel
quale è come rinverdito il motivo luterano del Beruf:
vocazione, missione).
Si afferma, in questo contesto, un particolare tipo di
distinzione sociale, il quale porta dentro la società
civile (bürgerliche Gesellschaft) questo sistema di valori
che premia il merito inteso come 'servizio': si tratta di valori
che hanno analogia con quelli emersi in Francia in età
napoleonica, ma con grandi differenze. Lo Stato napoleonico era
come una metafora del trionfo dell'individualismo (simboleggiato
nel culto stesso dell'imperatore) e il merito si configurava come
merito-successo anche nel servizio. Lo Stato prussiano chiede
invece immedesimazione nell'istituzione (il re stesso ne è
in fondo come il più alto funzionario) e
nell'impersonalità delle sue regole: questa immedesimazione
produce un merito che somiglia a un valore più
tradizionale, l'onore. Ma non si tratta di onore aristocratico,
bensì di onore borghese: fedeltà, servizio,
qualità non sono dovuti al sovrano in quanto investito da
Dio oppure primo degli aristocratici, ma all'universalità
statuale che egli rappresenta (anche se, in quello Stato, gli
Junker sono più universali degli altri).
Nella Costituzione tedesca, è stato osservato, la
separazione fra Stato e società civile è enfatizzata
(v. Schiera, 1987) in termini che risentono con sofferenza la
rottura del vecchio equilibrio della società di ceti che
omeostatizzava gli attriti sociali entro una struttura di politico
e sociale in continuum: ora la società civile, con
l'industrializzazione che avanza, è campo aperto della
conflittualità: lo Stato è allora vissuto
imperiosamente come luogo rafforzato del controllo della distinta
area delle tensioni e dei conflitti. Nella società, si
può aggiungere, coloro che assolvono ufficialmente queste
funzioni costituiscono socialmente qualcosa di più:
è la Staatsbürgertum.
Ma vi è dell'altro: la nuova realtà della divisione
del lavoro viene concepita come un unisono. Dà luogo a
Berufsklassen con specifiche e differenziate, ma convergenti,
missioni "davanti agli immensi compiti della intera società
e singoli gruppi secondo le premesse storiche, e le differenze di
cultura" (v. Riehl, 1851; v. Cervelli, 1988). In questo contesto i
ruoli stessi della società civile, quali che siano,
prendono maggiore o minore dignità in relazione a un
elemento universalistico e non individualistico: la cultura,
l'educazione, che sono concepite e immaginate come modi di
assunzione nell'area delle responsabilità in cui il
governare universalistico associa a sé il conoscere: si
parla di Bildungsbürgertum. (La distinzione conferita dai
modi e dai luoghi della formazione culturale ha dunque un senso
diverso da quella vigente, poniamo, in Inghilterra, dove è
fatto interno, per così dire, all'aristocrazia).
Si è detto dei fattori d'identificazione 'interni'.
L'altro ordine di fattori d'identificazione unitaria - quello che
abbiamo definito 'esterno' - deriva da intenti difensivi. A
differenza della nobiltà, che non si era mai accorta di
essere minacciata, e si difendeva, quando lo faceva, solo
dall'inflazione di se stessa, la borghesia avverte di vivere in
pericolo: sente l'ordine sociale come precario. L'identificazione
di sé come unità avviene in presenza del nemico. E,
del resto, è il nemico stesso a identificarla: il Manifesto
dei comunisti è una lettera minatoria. Ma Parigi stessa,
capitale della borghesia, è già da tempo una vivente
minaccia. Questo spiega il successo che incontra, con lo sviluppo
del movimento socialista, l'accezione marxista del termine: si fa
strada un impiego della parola che assume specularmente
l'accezione marxista, ma in senso difensivo. Così la
borghesia, lungo il secolo XIX e il XX, esiste più o meno
intensamente in termini unitari se e in quanto si sente in
pericolo.Momento tipico, e particolarmente drammatico, di questa
natura è quello dell'Europa del primo dopoguerra. La
minaccia politico-sociale identifica l'avversario come borghesia e
costringe quindi ciò che è minacciato ad
auto-identificarsi nello stesso modo e a 'rifondarsi'. "Nell'uso
che del termine si faceva durante gli anni venti, 'borghese'
richiamava questioni fondamentali di gerarchia sociale e di
potere. Era il vocabolo cifrato che indicava l'origine di rapporti
caratterizzati come l'opposto di ciò che i socialisti
proponevano come alternativa" (v. Maier, 1975). In chi si
autoriconosce come minacciato troviamo però, in effetti,
interessi, 'marxiani' e non; troviamo anche un coacervo di cultura
e valori, cioè, che gli interessi, o comunque, chi si
assume l'onere politico di gestire la complessiva difesa, cercano
di amalgamare.
Probabilmente devono ricondursi all'ampiezza e alla
gravità con cui la minaccia era vissuta nei singoli paesi
le differenti sfumature su cui il termine 'borghese' venne
attestandosi nei diversi paesi (ibid.): quella di 'civico' in
Germania, dove si avvertiva evidentemente una minaccia al tessuto
sociale venerato come tale; di 'élite dirigente' in Italia,
dove più semplicemente valeva l'idea che qualcuno dovesse
comandare; di eleganza e prestigio in Francia, dove il vertice
sociale raccoglieva ancora i frammenti di un fascino antico.La
divaricazione intervenuta con l'avvento dei regimi fascisti nella
vicenda storica dei paesi europei ha poi sollecitato, nella
successiva fase di riavvio di una evoluzione convergente sul
modello democratico, una riflessione comparatista - a maglia larga
- nella storiografia dell'età contemporanea. La categoria
'borghesia' ha svolto finora un ruolo importante in questo tipo di
discussione, nelle cui origini talvolta appaiono sfumati i
contorni fra colta pubblicistica militante e indagine storica vera
e propria. La nozione di borghesia diviene quasi un simbolo che
riassume in sé - come un attore sociale
individualisticamente dotato di responsabilità - problemi
di sviluppo economico, evoluzione delle istituzioni,
regolabilità delle tensioni sociali, posizione relativa di
un paese nel sistema internazionale.
La storiografia tedesca delle generazioni postbelliche, in primo
luogo, ha ripreso con forte impegno di ricerca il tema, da tempo
posto dai marxisti, di un Irrweg (via sbagliata) della storia
tedesca (v. Abusch, 1946): la discussione, in termini più
problematici e controversi, si è intitolata al Sonderweg
(via peculiare) e si è per gran parte risolta in una
controversia sul peso e sulla posizione della borghesia tedesca
nel XIX e nel XX secolo. "Gli storici della 'via particolare'
ritengono che la responsabilità dei drammatici errori
nell'evoluzione della storia tedesca, culminati nel 1933 nella
presa di potere nazionalsocialista, vada attribuita in primo luogo
alla borghesia. Essa non avrebbe conquistato, né
socialmente né politicamente, quella egemonia che sarebbe
spettata al suo potere economico. Si sarebbe invece adeguata nei
propri comportamenti sociali alle vecchie élites di potere,
facendosi integrare politicamente tramite l'ideologia
social-imperialista e lo sciovinismo nazionalista. Sia nella
società che nella cultura politica dell'impero si
osserverebbe pertanto una carenza di spirito borghese, che avrebbe
contribuito in modo determinante all'ascesa e alla vittoria del
nazismo" (v. Frevert e Kocka, 1984). In tale impostazione si trova
adombrata una tesi che era stata enunciata da Max Weber nel 1895
("Lo Stato tedesco non è stato fondato dalla forza autonoma
della borghesia [...]. Non motivi economici ma un passato privo di
esperienza politica ha provocato immaturità [...]. Il
dominio di un grande uomo [Bismarck] non è sempre il mezzo
più idoneo all'educazione politica [...]. Il problema
più serio per l'avvenire politico della borghesia tedesca
è se non sia ormai troppo tardi per recuperare tale
educazione": v. Weber, 1895). La stessa tesi è praticamente
alla base del noto saggio di Schumpeter (v., 1919) sulla
Sociologia dell'imperialismo.
Anche in Italia la 'debolezza' storica della borghesia è
un motivo antico. "Esiste una radicata, tenace opinione che vuole
la borghesia italiana gracile, arretrata, sorda ai propri compiti
storici, inadeguata ai modelli europei" (v. Romanelli, 1988).
Presente nel filosofo marxista di fine secolo Antonio Labriola,
questa idea divenne un cardine dell'interpretazione della cultura
comunista, nei suoi maggiori esponenti, Antonio Gramsci e Palmiro
Togliatti, che la elaborarono in documenti politici - le Tesi di
Lione del 1925, il rapporto di Togliatti al Congresso del
1945-1946 - come pure in saggi e note storiche. Nel caso italiano,
come in quello tedesco, vengono stabilite connessioni fra quella
'debolezza' e il sorgere del fascismo (v. Togliatti, 1945). A
differenza di quella tedesca, però, la borghesia italiana
sarebbe stata anche economicamente immatura. Timorosa, negli anni
dell'unificazione politica, di una rivoluzione contadina, e
pertanto propensa a un compromesso economicamente debilitante con
forze moderate, ritrovatasi successivamente troppo debole per
reggere il confronto sindacale democratico con il movimento
operaio, si sarebbe volta all'autoritarismo fascista.
L'aver subito una drammatica vicenda di 'crisi della democrazia'
è dunque, per un paese, un titolo privilegiato
perché la storiografia intenti un processo alla relativa
borghesia. Ma possono esistere altre responsabilità
storiche, sebbene minori. Per esempio quelle relative a turbe,
vizi, lentezze nello sviluppo dell'economia (nel caso dell'Italia
abbiamo visto presente anche questo motivo, oltre a quello della
debolezza civile e politica). Il rallentamento della crescita
economica inglese, con il declino dell'Impero, può pertanto
essere ricondotto alle latenti propensioni sedentarie e da rentier
di una borghesia mai sottrattasi alla fascinosa
subalternità rispetto al modello aristocratico. Non
è mancata, anche nel caso della Francia (v. Salvati, 1988),
una tendenza a indagare in termini di attitudini generali e
responsabilità 'di classe' il problema di una presunta
debolezza competitiva dell'imprenditorialità francese nel
confronto europeo (problema che è però venuto poi
perdendo attualità con l'emergere di visioni pluralistiche
dello sviluppo economico e di una rivalutazione delle
peculiarità francesi al riguardo).
6. La borghesia oggi
Il mondo anglosassone, come si sa, manca sostanzialmente del
termine: l'uso del termine bourgeoisie, di sottolineata
derivazione francese, è sporadico e caratterizzato. Vige,
per indicare il referente del francese bourgeoisie, per lo
più, il termine middle class, che fa la sua comparsa fra la
fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento. Le connotazioni di
questo termine sono geometrico-quantitative (coloro che stanno nel
mezzo della scala sociale) e si prestano particolarmente, quindi,
a un uso slittante e storicamente cangiante: riferito in origine a
una collocazione intermedia fra nobiltà e popolo, e quindi
decisamente comprensiva del gruppo sociale degli imprenditori
della rivoluzione industriale (in questo senso ancora in Engels -
v., 1844 -, è poi frequentemente scivolato a significare
l'analoga collocazione, in tempi più recenti, dei gruppi
situati fra gli have e gli have not: nelle lingue continentali il
'ceto medio', classe moyenne, Mittelklasse o Mittelstand).
Nel nuovo contesto, ormai, i primi non sono più, o non
sono più soltanto, nobili, ma anche, e comunque
soprattutto, 'borghesi', nel senso dell'imprenditorialità
capitalistica e, in generale, dell''alta borghesia'.
Il termine middle class finisce così con l'essere un
favorevole presupposto semantico per una teoria gradualistica
della stratificazione sociale, ma è anche - non lo si
può disconoscere - appropriato riflesso di un tipo di
evoluzione sociale caratterizzato, dapprima nella versione
britannica e poi, più accentuatamente, in quella americana,
da modalità peculiari di stratificazione. In queste
coesistono tratti apparentemente contraddittori e, comunque,
piuttosto estranei alla tradizione eurocontinentale della
civiltà occidentale: a) continuum sociale e, al tempo
stesso, grandi disparità; b) spiccato distinzionismo che
coesiste con un'alta legittimazione della mobilità sociale
(negli Stati Uniti ciò è espresso talora nella
paradossale formula del 'diritto al successo' che, naturalmente,
non reca di per sé il successo stesso).In tale contesto, il
termine posizionale di middle class finisce con l'essere slittante
e con il perdere lo stesso parallelismo con la nozione
continentale di borghesia: questa si sposta, per così dire,
verso l'alto, con la scomparsa di una dimensione sociale specifica
della nobiltà, laddove l'espressione middle class - in un
contesto in cui la nobiltà è storicamente mancata,
come gli Stati Uniti, ma si è formata, al vertice sociale,
quella che nel continente europeo si sarebbe chiamata 'borghesia'
(eventualmente 'alta borghesia') - tende a conservare una
connotazione di medietà e finisce sovente con l'indicare,
appunto, i ceti medi (l'europea 'piccola borghesia'). C. Wright
Mills (v., 1956), in una delle poche opere americane che
tematizzino il problema con approccio globalistico, preferisce
parlare di "élite del potere", assumendo, per la
caratterizzazione di questa, una visione tridimensionale: potere,
ricchezza, celebrità.
Nel linguaggio relativo alla stratificazione sociale tendono
pertanto a prevalere formulazioni esplicitamente posizionali come,
a fianco di middle class, upper class o lower class, che finiscono
con il sostituire gli ultimi residui di incrostazione storica
rimasti sulla parola middle class nelle espressioni upper middle
class e lower middle class. Il continuum sociale si esprime
compiutamente, poi, in una graduazione, che potrebbe proseguire
infinitesimalmente, delle indicazioni posizionali (upper-upper,
lower-upper, upper-middle, lowe-rmiddle, lower-lower; v. Warner,
1941). Il modo in cui le scatole posizionali vengono riempite
può essere quello della distribuzione statistica del
reddito o della ricchezza, ovvero, secondo il metodo detto
'soggettivo', quello dell'opinione espressa dai soggetti, rilevata
con metodo campionario.
Quest'ultimo metodo ha la sua base teorica nella convinzione
crescente che la nozione simbolica sia sostanzialmente più
rispondente di quella realistica (ridottasi entro termini
quantitativi) all'identificazione del soggetto sociale. "Per
essere borghese si deve essere riconosciuti come tali da altri
sulla base del godimento di una certa sicurezza materiale e di
un'appropriata attenzione al proprio stile di vita. È uno
status che dipende da un giudizio soggettivo che deve essere
affermato in presenza di altri aventi status equivalente o
superiore" (v. Holt, 1985).
La conoscenza ottenuta mediante ricognizioni statistiche su
redditi, patrimoni e altri indicatori oggettivi, utile in
sé (e per finalità di politica economica e sociale),
non pare offrirsi come base deterministica (più o meno
elasticizzata) per l'intelligenza e la prevedibilità di
comportamenti aggregati, come poteva pretendersi per il concetto
qualitativo di 'classe'. E non sembra esaurire, in questo tipo di
società, il quadro delle differenziazioni e delle
ascrizioni sociali. Le curiosità conoscitive maggiori, al
riguardo, tendono a spostarsi, quindi, sui valori condivisi, sulle
motivazioni dell'azione sociale e sui fattori di mobilità
sociale. O, per altro verso, sulle funzioni: definite, queste,
entro una visione dell'insieme sociale come insieme complesso.
Le società europee, con l'aumento del reddito medio pro
capite, la diffusione dei consumi di massa, la standardizzazione
degli stili di vita indotti dai mass media, sembrano tendere, di
fatto, a un crescente avvicinamento al modello americano. In esse
permane ancora largamente, tuttavia, a differenza che in quella
americana, la tradizione antagonistica del movimento operaio
socialista che ha continuato a designare talvolta la controparte
sociale della propria azione politica come 'borghesia', secondo la
tradizione marxista (preferendo, però, nella polemica
più strettamente sindacale l'espressione 'padronato'). Ove
si eccettui questo uso prettamente antagonistico, la categoria di
'borghesia', in relazione alla società odierna, appare di
scarsissimo o nullo valore euristico e si tende sempre più
a preferire determinazioni e modi di classificazione sociale
più specifici e disaggregati, più empirici e
più operazionali, ovvero, in caso di costruzioni teoriche
aggregative, si ricorre ad altre categorie, che, come nel caso
citato di Mills, tendono a sintetizzare un coacervo. In Italia
è stato tentato un recupero con valenza operazionale (ma in
realtà solo convenzionale) del termine 'borghesia' a fini
di classificazione statistica per indicare lo strato superiore
della società per funzione e per reddito, quantificato, per
il 1971, in 500.000 unità circa (v.Sylos Labini, 1974).
Anche in relazione all'analisi di società ancora arcaiche
aggredite da dinamiche modernizzatrici, sembra ormai preferibile
l'adozione di apparati concettuali di classificazione sociale che
vadano oltre formule come quelle di 'borghesia nazionale' o
'borghesia compradora' e simili che furono adoperate con qualche
utilità nelle prime analisi dei movimenti di
modernizzazione del Terzo Mondo. Il termine resta ormai confinato,
quindi, per ciò che concerne la società dei nostri
giorni, alla polemica ideologico-politica - di qui trasferito non
di rado entro l'ambito della polemica culturale e artistica con
significati diversi ma analoghe valenze - e indica sommariamente,
nell'atto stesso del suo uso, una intenzione di rifiuto
ideologico, assai meno saldamente ancorato, però, che in
passato a un'alternativa conosciuta di società o per lo
meno a varianti di questa.
7. Conclusione
Diverso è il problema per quel che concerne l'uso
storiografico, sul quale ricade l'onere di rappresentare e
spiegare un grande mutamento strutturale effettivamente
intervenuto nella realtà storica nel corso dei secoli
dell'età moderna e contemporanea. Da questo punto di vista
si può affermare, a conclusione di quanto abbiamo detto,
che la caratterizzazione più generale della borghesia in
quanto gruppo sociale, nell'età contemporanea, sia la
detenzione, come bene mercantile, della proprietà (piena,
quindi, nel senso del diritto romano), in un contesto sociale che
vede crescere la quota propriamente acquisitiva di quella
detenzione: la proprietà, dunque, e non l'impiego diretto
di forza-lavoro. S'impone, pertanto, una definizione distinta di
'borghesia' e 'società borghese'. Può valere, per
quest'ultima, la definizione di Macpherson: "Per società
borghese intendo [...] una società in cui le relazioni fra
gli individui sono regolate dal mercato; vale a dire, in cui terra
e lavoro, come pure ricchezza mobiliare e beni di consumo, sono
trattati come merci da acquistare e da vendere e su cui
contrattare in vista di profitto e accumulazione, e in cui i
rapporti reciproci degli uomini sono per larga parte strutturati
dal possesso di queste merci e dal successo con cui essi
utilizzano a proprio vantaggio queste disponibilità".
Questo 'modello' Macpherson lo chiama, per dargli una connotazione
analitica più precisa, "società mercantile
possessiva" e lo distingue da un modello di "società
tradizionale o di status" e da un modello di "società
mercantile semplice" (v. Macpherson, 1962).
La caratterizzazione mercantile della proprietà borghese
è simbolicamente determinante: significa, da un lato, che
essa è formalmente accessibile a chiunque non sia privo di
diritti comuni, e, dall'altro, che il bene oggetto di
proprietà è del tutto suscettibile di scambio,
è detenuto entro ordinamenti che lo rendono sempre
più libero da vincoli e sempre più tecnicamente
frazionabile, e quindi massimamente intercambiabile e teoricamente
generalizzabile. La proprietà che è fondamento della
condizione borghese si presenta, dunque, da un lato, come
potenzialmente acquisibile da qualunque membro della
società e, dall'altro, come agevolmente convertibile, e,
quindi, con sempre maggiore equivalenza fra tutte le sue forme:
ciò che non è proprio dei titoli di possesso o di
disponibilità dei beni, nonché della loro valenza di
status o di prestigio, in ogni e qualsiasi ordinamento storico.
Solo entro queste coordinate si può intendere, tra l'altro
(ma perdendone la referenza diretta a un preciso attore sociale
collettivo e l'immediatezza antagonistica), una definizione come
quella marxiana che tende a qualificare la proprietà
caratterizzante la borghesia come la proprietà dei mezzi di
produzione e di scambio: in un'economia fortemente e
crescentemente mercantilizzata, infatti, ogni titolo di
proprietà, e persino ogni titolo reale o potenziale alla
percezione di reddito, equivale, in effetti, sotto il profilo
patrimoniale, a una quota dei mezzi di produzione e di scambio
dell'insieme sociale (sempre che, concettualmente, si attribuisca
a questi mezzi di produzione e di scambio carattere di base
patrimoniale primaria della creazione lavorativa del reddito
stesso). Se si tiene presente questo, però, la nozione
perde, come si è detto, in possibilità operazionale
di riferimento specifico, entro un ordinamento largamente
mercantilizzato, a distinzioni sociali qualitative di derivazione
economico-funzionale - la proprietà e la gestione
dell'impresa economica - e, entro un ordinamento siffatto, tende
invece a confondersi sul piano economico (come si è visto)
con distinzioni solo quantitative relative alle dimensioni del
patrimonio e del reddito.
La condizione borghese è stata ed è inquadrata,
volta a volta, come formalmente aperta ma sostanzialmente chiusa -
una forma nuova, in pratica, di condizione privilegiata (visione
adombrata, ad esempio, nella contrapposizione della 'borghese'
eguaglianza 'formale' all'eguaglianza definita, per lo più
genericamente, come 'sostanziale') - ovvero come la negazione
stessa del privilegio, e quindi come illimitatamente estensibile
ed espansiva. Nel primo caso la borghesia è stata
considerata creatrice di una radicale (e alla lunga insostenibile,
catastrofica e autodistruttiva) polarizzazione della
stratificazione sociale (Marx); nel secondo è stata vista
come battistrada e mediatrice di una lenta, ma inesorabile,
omologazione sociale egualitaria (Tocqueville).
Si tratta di una contrapposizione di ottiche che induce a
valutazioni opposte dei processi di macrodinamica sociale che si
considerano promossi dalla borghesia stessa: nel primo caso questi
processi sarebbero sostanzialmente e implacabilmente riconducibili
a un fenomeno solo, quello della proletarizzazione, anche se in
varianti che possono non comportare forme d'immiserimento e
d'identificazione esclusiva del lavoratore non proprietario dei
mezzi di produzione nel tradizionale blue collar. Nel secondo caso
il fenomeno dominante della società borghese sarebbe,
invece, la progressiva diffusione e generalizzazione di standard
di vita e sistemi di credenze e valori uniformi, tendenti a
dominare le stesse polarità sociali, le quali si
configurerebbero, quindi, come estremi di un continuo: vertici di
successo, da un lato, e frange di emarginazione, dall'altro, ma in
un ampio campo di possibilità aperte.
Questa duplicità di visuale non fa che riproporre, in
forma aggiornata e in termini di chiara contrapposizione, la
duplicità di connotazione presente nella nozione
ottocentesca di 'piccola borghesia': che, sotto il profilo di
classe, indicava i residui, in corso di proletarizzazione, di una
condizione lavorativa autonoma e, sotto il profilo di status,
indicava la propensione, questa, invece, non declinante, ad
assumere come quadro di riferimento normativo, gradualmente
inverato a ogni incremento nella curva del reddito, il modo di
vita e il sistema di valori della borghesia. In generale si
può affermare che l'espressione anglosassone middle class
contenga alla radice, in forma ambigua e tuttavia carica di
significato, tale duplicità. "Il borghese - diceva
Groethuysen (v., 1927) - non è nulla di definitivo".