Giovanni Giolitti

 

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Giovanni Giolitti (Mondovì, 27 ottobre 1842 – Cavour, 17 luglio 1928) è stato un politico italiano, più volte presidente del Consiglio dei ministri. Nella storia politica dell'Italia unita, la sua permanenza a capo del governo fu una delle più lunghe. Il periodo storico durante il quale esercitò la sua guida politica sull'Italia è oggi definito età giolittiana. Sebbene la sua azione di governo sia stata oggetto di critica da parte di alcuni suoi contemporanei, come per esempio Gaetano Salvemini, Giolitti fu uno dei politici liberali più efficacemente impegnati nell'estensione della base democratica del giovane Stato unitario, e nella modernizzazione economica, industriale e politico-culturale della società italiana a cavallo fra Ottocento e Novecento. Dopo un iniziale voto di fiducia, nel 1922, al nuovo governo fascista, dal 1924 si tenne all'opposizione di Benito Mussolini.

Figlio di Giovenale, cancelliere del tribunale di Mondovì, e di Enrichetta Plochiù, appartenente a una famiglia benestante di origine francese, il piccolo "Gioanìn", com'era chiamato in famiglia, rimase orfano del padre ancora in culla (il padre morì quando lui aveva un anno a causa di una polmonite contratta dopo una gita in montagna). La madre tornò allora in seno alla famiglia d'origine e si trasferì da Mondovì in via Angennes (ora via Principe Amedeo) a Torino, nella casa dei suoi quattro fratelli che, essendo tutti celibi, circondarono il bimbo di particolari cure e affetto. In seguito a qualche giovanile problema di salute, su consiglio dello zio medico, la madre lo portò per alcuni periodi tra le montagne della Valle Maira, nella casa del nonno materno. Studiò al ginnasio San Francesco da Paola di Torino (che avrebbe poi mutato il nome in liceo Gioberti). Frequentò la facoltà di Giurisprudenza all'Università di Torino e si laureò a soli 19 anni, grazie a una speciale deroga del rettore che gli consentì di compiere gli ultimi tre anni in uno solo. Alla politica fu iniziato da uno degli zii ch'era stato deputato nel 1848 e manteneva stretti rapporti d'amicizia e politici con Michelangelo Castelli, segretario di Cavour. Il giovane Giolitti accompagnava sempre lo zio e il Castelli nella consueta passeggiata serale sotto i portici di piazza Castello, alla quale partecipava spesso anche Cavour. Tuttavia non appariva particolarmente interessato alle vicende risorgimentali e politiche trattate dai tre, così come non prestò orecchio al "grido di dolore", lanciato da Vittorio Emanuele II nel 1859, che aveva spinto molti suoi compagni di studi ad arruolarsi per combattere nella seconda guerra d'indipendenza.

Privo di un passato impegnato nel Risorgimento, portatore di idee liberali moderate, nel 1862 iniziò a lavorare al Ministero di Grazia, giustizia e culti. Nel 1869 passò al Ministero delle Finanze, con la qualifica di caposezione, collaborando con diversi ministri della Destra storica, tra cui Quintino Sella e Marco Minghetti, contribuendo tra l'altro a quell'opera tributaria volta tutta al pareggio del bilancio. La sua carriera di alto funzionario continuò nel 1877 con la nomina alla Corte dei conti e poi nel 1882 al Consiglio di Stato. Sempre nel 1882 si candidò a deputato, venendo eletto. Nel 1886 si oppose agli eccessi di spesa del governo Depretis. Nel 1889 fu nominato Ministro del Tesoro nel secondo governo Crispi, assumendo in seguito anche l'interim delle Finanze. Nel 1890 tuttavia si dimise, per una questione legata al bilancio ma anche a causa di un generale disaccordo sulla politica coloniale intrapresa da Crispi. Nel 1891 si pronunciò per una riforma delle imposte per portarle da proporzionali a progressive. Nel 1892, caduto il primo governo di Rudinì, che pure appoggiava, ricevette dal re Umberto I l'incarico di formare il nuovo governo.

L'inizio dell'avventura giolittiana come primo ministro coincise sostanzialmente con la prima vera disfatta del governo di Crispi, messo in minoranza nel febbraio del 1891 su una proposta di legge di inasprimento fiscale. Dopo Crispi, e dopo una breve parentesi (6 febbraio 1891 - 15 maggio 1892) durante la quale il paese fu affidato al governo liberal-conservatore del marchese Di Rudinì, il 15 maggio 1892 fu nominato Primo Ministro Giovanni Giolitti, allora ancora facente parte del gruppo crispino. Fu costretto alle dimissioni dopo poco più di un anno, il 15 dicembre 1893, messo in difficoltà dallo scandalo della Banca Romana e inviso ai grandi industriali e proprietari terrieri per il suo rifiuto di reprimere con la forza le proteste che attraversavano estesamente il paese e per voci su una possibile introduzione di una imposta progressiva sul reddito.

Giolitti non ebbe incarichi di governo per i successivi sette anni, durante i quali la figura principale della politica italiana continuò ad essere Francesco Crispi, che condusse una politica estera aggressiva e colonialista. A Crispi succedettero alcuni governi caratterizzati da una notevole rudezza nel reprimere le proteste popolari e gli scioperi; Giolitti divenne sempre più l'incarnazione di una politica opposta e il 4 febbraio 1901 un suo discorso alla Camera contribuì alla caduta del governo allora in carica, il Governo Saracco, responsabile di aver ordinato lo scioglimento della Camera del Lavoro di Genova. Già a partire dal governo Zanardelli (15 febbraio 1901 - 3 novembre 1903), Giolitti ebbe una notevole influenza che andava oltre quella propria della sua carica di Ministro degli Interni, anche a causa dell'avanzata età del presidente del consiglio.

Il 3 novembre 1903 Giolitti ritornò al governo, ma questa volta si risolse per una svolta radicale: si oppose, come prima, alla ventata reazionaria di fine secolo, ma lo fece dalle file della Sinistra e non più del gruppo crispino come fino ad allora aveva fatto; intraprese un'azione di convincimento nei confronti del Partito Socialista per coinvolgerlo nel governo, rivolgendosi direttamente ad un "consigliere" socialista, Filippo Turati, che avrebbe voluto persino come suo ministro (Turati però rifiutò anche in seguito alle pressioni della corrente massimalista del PSI). Nei confronti delle agitazioni sociali il presidente del Consiglio mutò radicalmente tattica rispetto alle tragiche repressioni dei governi precedenti e mise in pratica i concetti che da anni andava spiegando e in Aula e durante le manifestazioni elettorali: i sindacati erano i benvenuti in quanto un'organizzazione garantisce sempre e comunque maggior ordine rispetto ad un movimento spontaneo e senza guida; inoltre, e le informative prefettizie lo dimostravano, gli scioperi avevano alla base motivazioni economiche e non politiche e pertanto la dialettica tra le parti sociali, non coartata dall'intervento della pubblica sicurezza, avrebbe risolto le cose da sè. I precedenti governi, quindi, ravvisando nelle agitazioni operaie un intento sovversivo, avevano commesso un tragico errore: la repressione degli scioperi era espressione di una politica folle, che davvero avrebbe potuto scatenare una rivoluzione. Lo Stato non doveva spalleggiare l'una o l'altra parte in conflitto; doveva semplicemente svolgere una funzione arbitrale e mediatrice, limitandosi alla tutela dell'ordine pubblico. Questi concetti, che oggi possono sembrare scontati, erano all'epoca considerati "rivoluzionari".

I conservatori criticarono duramente quello che per loro era un cedimento al sovversivismo e gli industriali rimasero costernati quando si sentirono dire a chiare lettere che il governo non sarebbe assolutamente intervenuto nei confronti degli scioperi e che, piuttosto, gli imprenditori si sarebbero dovuti rassegnare a concedere adeguati aumenti salariali ai lavoratori. In questo contesto furono varate norme a tutela del lavoro (in particolare infantile e femminile), sulla vecchiaia, sull'invalidità e sugli infortuni; i prefetti furono invitati ad usare maggiore tolleranza nei confronti degli scioperi apolitici; nelle gare d'appalto furono ammesse le cooperative cattoliche e socialiste. Le elezioni politiche del 1904 videro l'avanzata delle tendenze nazionaliste e cattoliche, cioè sfavorevoli a Giolitti. Si era intanto formata una consistente parte di opinione pubblica a favore della nazionalizzazione delle ferrovie, soluzione che Giolitti stesso sosteneva. Nei primi mesi del 1905 ci furono numerose agitazioni sindacali tra i ferrovieri; nel marzo 1905 Giolitti, anche in seguito a una malattia, si dimise da presidente del Consiglio.

Dopo le dimissioni, Giolitti invitò l'amico Alessandro Fortis a creare un governo che avrebbe avuto il suo appoggio. Con la legge 137 del 22 aprile 1905 fu sancita la nazionalizzazione delle ferrovie tramite l'assunzione dell'esercizio pubblico soggette al controllo della Corte dei conti e alla vigilanza dei Lavori pubblici e del Tesoro per le linee precedentemente previste in concessione dalle Convenzioni del 1885, escluse le linee di cui era proprietaria la Bastogi, che saranno tuttavia riscattate l'anno successivo; si promosse lo sviluppo economico attraverso la stabilità monetaria ed i lavori pubblici (ad esempio il traforo del Sempione). Il governo Fortis rimase in carica fino a inizio 1906. A Fortis succedette, per soli tre mesi, un governo guidato da Sidney Sonnino e di grande eterogeneità; Giolitti si tenne fuori dal governo e anzi operò per farlo cadere, nell'intento di succedergli, come effettivamente avvenne.

Nel maggio 1906 Giolitti insediò il suo terzo governo, durante il quale continuò, essenzialmente, la politica economica già avviata nel suo secondo governo. Il terzo ministero Giolitti passò alla storia come "lungo e fattivo" ed è anche indicato come il "lungo ministero". In campo finanziario l'operazione principale fu la conversione della rendita, cioè la sostituzione dei titoli di stato a tassi fissi in scadenza (con cedola al 5%) con altri a tassi inferiori (prima il 3,75% e poi il 3,5%). La conversione della rendita venne condotta con notevole cautela e competenza tecnica: il governo, infatti, prima di intraprenderla, chiese ed ottenne la garanzia di numerosi istituti bancari. Le critiche che il progetto aveva ricevuto soprattutto dai conservatori si rivelarono infondate: l'opinione pubblica seguì quasi con commozione le vicende relative, in quanto la conversione assunse immediatamente il valore simbolico di un risanamento effettivo e duraturo del bilancio e di una stabile unificazione nazionale. Il bilancio dello stato si arricchì, così, di un gettito annuo che si aggirava sui 50 milioni di lire dell'epoca. Le risorse risparmiate sugli interessi dei titoli di stato furono usate per completare la nazionalizzazione delle Ferrovie; si iniziò a parlare anche di nazionalizzazione delle assicurazioni (portata a compimento nel quarto mandato). Degne di nota, inoltre, le operazioni di soccorso e ricostruzione che il governo nel 1908 organizzò in occasione del terremoto di Messina e Reggio seguito da un disastroso maremoto. Dopo alcune, inevitabili, carenze, tutto il Paese si prodigò per aiutare la popolazione siciliana. Da molti storici questo episodio è stato definito come il primo evento durante il quale l'Italia diede la dimostrazione di un vero spirito nazionale. Furono inoltre introdotte alcune leggi volte a tutelare il lavoro femminile e infantile con nuovi limiti di orario (12 ore) e di età (12 anni). In questa occasione i deputati socialisti votarono a favore del governo: fu una delle poche volte nelle quali parlamentari di ispirazione marxista appoggiarono apertamente un "governo borghese". La maggioranza, poi, approvò leggi speciali per le regioni svantaggiate del Mezzogiorno. Tali provvedimenti, seppure non riuscirono neppure lontanamente a colmare il divario nord-sud, diedero buoni risultati. I proprietari di immobili situati in aree agricole vennero esonerate dall'imposta relativa: anche questa fu una misura finalizzata al miglioramento delle condizioni economiche dei contadini del meridione.

Il buon andamento economico e l'oculata gestione del bilancio portarono ad un'importante stabilità monetaria, agevolata anche dal fenomeno dell'emigrazione e soprattutto dalle rimesse che i migranti italiani inviavano ai propri parenti rimasti in patria. Non a caso il triennio 1906-1909, e più in generale l'arco di tempo che arriva fino alla vigilia del primo conflitto mondiale, è ricordato come il periodo nel quale "la lira faceva aggio sull'oro".

Nel 1909 si tennero le elezioni, da cui uscì una maggioranza giolittiana. Nonostante ciò, con una manovra tipica, Giolitti lasciò che fosse nominato presidente del consiglio Sidney Sonnino, di tendenze conservatrici; in questo modo Giolitti voleva proporsi come alternativa per un governo progressista; Sonnino si appoggiava su una maggioranza estremamente eterogenea e instabile e dopo soli tre mesi dovette dimettersi e gli successe Luigi Luzzatti, di fede giolittiana. Nel frattempo il dibattito politico italiano aveva preso a concentrarsi sull'allargamento del diritto di voto. I socialisti, infatti, ma anche radicali e repubblicani, da tempo chiedevano l'introduzione, in Italia, del suffragio universale: cardine di una moderna liberaldemocrazia. Il ministero Luzzatti elaborò una proposta moderata la cui finalità, attraverso un allargamento dei requisiti in base ai quali si aveva il diritto di voto (età, alfabetizzazione ed imposte annue pagate), era quella di un progressivo ampliamento del corpo elettorale, senza però arrivare al suffragio universale. Colto il vento, Giolitti, intervenendo in Aula, si dichiarò a favore del suffragio universale, superando di slancio le posizioni del governo, che da molti erano ritenute troppo a sinistra. L'intento, pienamente raggiunto, era quello di provocare la caduta del ministero, realizzare una nuova svolta politica e conquistare, definitivamente, la collaborazione dei socialisti al sistema parlamentare italiano. Molti storici, in realtà, ravvisano in questa mossa di Giovanni Giolitti un gravissimo errore. Il suffragio universale, infatti, venne concesso prima e senza alcuna gradualità rispetto a tutte le altre liberaldemocrazie europee. Le condizioni sociali, inoltre, erano tali da far sì che gran parte dei nuovi votanti avesse più interesse a rovesciare l'ordine costituito piuttosto che conservarlo. Quando nell'autunno del 1911 alcune zone d'Italia vennero colpite da lievi epidemie di colera, ci furono manifestazioni nelle quali si gridava contro "gli spargitori del colera": qualche acuto intellettuale rimase sbalordito nel constatare l'ignoranza delle masse alle quali ci si apprestava a concedere il voto. Il suffragio universale, contrariamente alle opinioni di Giolitti, avrebbe destabilizzato l'intero quadro politico: se ne sarebbero avvantaggiati, infatti, i partiti di massa che erano o stavano per sorgere (partito socialista, partito popolare e, in seguito, partito fascista). Ben presto il carrozzone politico dell'illuminata borghesia liberale italiana sarebbe stato rovesciato e distrutto.

Il quarto governo Giolitti durò dal 30 marzo 1911 al 21 marzo 1914. Nacque come il tentativo probabilmente più vicino al successo di coinvolgere al governo il Partito Socialista, che infatti votò a favore. Il programma prevedeva la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita e l'introduzione del suffragio universale, progetti di considerevole valenza "sociale" e entrambi immediatamente realizzati (dal suffragio erano comunque ancora escluse le donne). L'approvazione del provvedimento relativo alle assicurazioni sulla vita fu, secondo molti studiosi, uno degli ultimi eventi che segnarono la vittoria dello stato nel confronto con i privati (vedi ad esempio l'opinione dello storico Carocci). L'intervento pubblico nel settore assicurativo portò durante il primo anno di governo, su proposta del Ministro dell'Agricoltura, Industria e Commercio Francesco Saverio Nitti, alla nascita dell'Istituto Nazionale delle Assicurazioni. A capo di questo ente fu posto il giovane socialista Alberto Beneduce, futuro padre dell'IRI. Il presidente del Consiglio spinse, inoltre, la maggioranza ad approvare il provvedimento che prevedeva la corresponsione di un'indennità mensile ai deputati. Bisogna ricordare, infatti, che all'epoca i parlamentari non avevano alcun tipo di stipendio e/o indennità: ricevere denaro come retribuzione per l'attività politica svolta era considerato degradante in quanto irrispettoso nei confronti dei cittadini e della cosa pubblica. L'unico "privilegio" concesso ai deputati era la tessera gratuita per le ferrovie. In questa situazione era evidente la difficoltà degli elettori di scegliere i propri rappresentanti fra le classi meno abbienti. Giolitti stesso amava ricordare che, se non fosse stato nominato dal re membro del Consiglio di Stato (con relativo stipendio), ben difficilmente avrebbe potuto permettersi di intraprendere la carriera politica con le spese che questa comportava. Tale problema divenne più acuto sul finire dell'Ottocento in seguito alla comparsa del partito socialista sulla scena politica italiana: era arduo per alcuni esponenti di tale partito, specie i sindacalisti e coloro che non svolgevano una libera professione, accettare una candidatura. Spinto dall'ondata di sciovinismo che aveva preso a soffiare anche in Italia, Giolitti, nel settembre 1911, diede inizio alla conquista della Libia. Alcuni pensano che tale scelta dello statista piemontese tendesse a riequilibrare la concessione del suffragio universale. La guerra, però, si prolungò oltre le aspettative: per costringere l'Impero Ottomano alla resa fu necessario richiamare alle armi quasi mezzo milione di uomini ed occupare militarmente, con una serie di sbarchi, le isole del Dodecaneso. Questa nuova guerra coloniale creò nel Paese un clima di mobilitazione militante che, lungi dall'appagarsi della conquista della Libia, come Giolitti aveva sperato, continuò a surriscaldare gli animi e a fomentare le correnti nazionaliste. Il conflitto, inoltre, destabilizzò il già fragile equilibrio politico: nel partito socialista prevalse la fazione massimalista e qualunquista capitanata da Benito Mussolini. Ogni possibilità di collaborazione tra riformisti e Giolitti era ormai definitivamente tramontata. Secondo molti storici un accordo tra liberali di Giolitti e socialisti moderati avrebbe potuto risparmiare il fascismo all'Italia nel 1922. Le elezioni vennero indette per il 26 ottobre 1913 (ballottaggi il 2 novembre). Contrariamente alle aspettative dello statista piemontese, la maggioranza governativa subì una drastica riduzione: da 370 a 307 seggi (secondo altri computi la maggioranza contava appena 291 deputati su 508 seggi in palio). I socialisti raddoppiarono, arrivando a 52 seggi. Anche i radicali ottennero un ottimo risultato: passarono, infatti, da 51 a 73 seggi e, sia pure gradualmente, cominciarono a maturare una posizione più critica nei confronti del presidente del Consiglio, facendogli rilevare, già in sede di voto di fiducia (362 voti favorevoli, 90 contrari e 13 astensioni), di essere determinanti, quanto ad apporto numerico, per le sorti dell'esecutivo. Alla riapertura della Camera Giolitti dovette difendere l'operato del governo relativamente alla guerra in Libia. Chiese, inoltre, (4 marzo 1913), lo stanziamento di cospicui fondi per promuovere lo sviluppo della colonia. Il governo ottenne ancora una volta un trionfo (363 voti favorevoli, 83 contrari), ma i radicali annunciarono la loro uscita dalla maggioranza: il 7 marzo, di conseguenza, Giolitti si dimise.

Dietro raccomandazione dello stesso Giolitti, il sovrano incaricò l'onorevole Antonio Salandra di formare il nuovo ministero e presentarlo alle Camere. Ben presto Salandra, pur provenendo dalla maggioranza giolittiana, avrebbe saputo dimostrarsi un giocatore molto ambizioso: pur di rendersi autonomo dal Giolitti egli non avrebbe esitato, pochi mesi dopo, a impegnare il Paese nella prima guerra mondiale senza informare non solo il Parlamento, ma nemmeno la maggioranza ed i membri del governo (nel gabinetto, infatti, erano a conoscenza del Patto di Londra solo Salandra ed il suo ministro degli Esteri, Sonnino).

L'assassinio dell'arciduca d'Austria, Francesco Ferdinando, fu la miccia che innescò la prima guerra mondiale. La Germania dichiarò la guerra a Russia e Francia; la notizia colse Giolitti in visita privata a Londra: questi si precipitò all'ambasciata per inviare un telegramma all'inesperto Salandra. Il vecchio statista piemontese scrisse al governo italiano che non c'era obbligo alcuno ad intervenire a fianco degli Imperi Centrali. Nel 1913, infatti, egli era venuto a conoscenza delle intenzioni aggressive dell'Austria nei confronti della Serbia: egli aveva ammonito severamente il governo austriaco, l'Italia non avrebbe seguito gli altri membri della Triplice Alleanza in guerre d'aggressione. Inoltre il trattato prevedeva che, nel caso in cui uno degli alleati avesse dovuto scendere in guerra contro un altro stato, gli alleati avrebbero dovuto esserne informati preventivamente e ricevere adeguati compensi territoriali: l'Austria non aveva adempiuto a questi due obblighi e pertanto per l'Italia non c'era obbligo alcuno di intervenire nella conflagrazione europea. Il governo italiano dichiarò la sua neutralità. In Italia si scatenò subito un forte dibattito fra interventisti e neutralisti. I primi, sostenitori di un rovesciamento delle alleanze e di un'entrata in guerra a fianco di Francia e Gran Bretagna, erano presenti in tutto lo schieramento politico. Essi erano però un'esigua minoranza (il radicale Giuseppe Marcora, deciso interventista, aveva calcolato che i deputati a favore della guerra non superavano la sessantina su un totale di oltre cinquecento componenti della Camera). Godevano però dell'appoggio dei più importanti giornali e dei politici in quel momento al timone: Salandra ed il suo ministro degli esteri, Sonnino. A favore dell'intervento era anche il sovrano, sia pure con una posizione più sfumata. Questa situazione paradossale, nella quale gli interventisti, pur essendo netta minoranza, davano, per gli appoggi di cui godevano, un'apparenza di forza e risolutezza, spinse Salandra ed il suo ministro degli esteri ad una scelta di grande doppiezza politica. Mentre il governo chiedeva all'Austria, che aveva annesso la Serbia, di discutere i compensi territoriali ai quali l'Italia aveva diritto in base al trattato d'alleanza, venne inviato in segretezza un corriere a Londra con il quale si faceva sapere alla Triplice Intesa che l'Italia era interessata a conoscere eventuali proposte degli Alleati, in cambio di un intervento italiano contro gli imperi centrali. Senza che il Parlamento ed il resto del governo fossero informati, complice il sovrano, Salandra firmò il Patto di Londra il 26 aprile. Con esso, impegnava l'Italia a scendere in guerra contro gli imperi centrali nell'arco di un mese.

Poiché in aprile c'erano state alcune vittorie russe sugli austriaci, e temendo che la guerra finisse a breve, Salandra e Sonnino trascurarono di disciplinare nel trattato una serie di aspetti che si sarebbero rivelati decisivi: venne chiesto agli Alleati solo un minimo contributo finanziario in quanto era opinione comunque che la guerra sarebbe finita entro l'inverno, la questione dei compensi coloniali era trattata genericamente: veniva detto che l'Italia avrebbe ricevuto "adeguati compensi coloniali", ma nel trattato non si precisava quali e in quanta estensione. Inoltre l'assetto della frontiera orientale non contemplava Fiume italiana, e soprattutto non teneva in debito conto un dato esiziale: era evidente che, a guerra finita, gli iugoslavi avrebbero voluto formare uno stato indipendente. Fu così che l'Italia si ritrovò, per una settimana, alleata di entrambi gli schieramenti. Se il Patto di Londra venne firmato il 26 aprile, fu solo il 4 maggio che il governo della penisola denunciò la Triplice Alleanza (1882). E non pubblicamente, ma con semplice comunicazione scritta ai firmatari. In seguito Salandra avrebbe arrogantemente definito questo gesto come il primo atto compiuto dal Paese in piena libertà. Salandra che, per sua stessa ammissione, si rendeva conto che i neutralisti erano in netta maggioranza e divenivano sempre più forti, prorogò l'apertura della Camera dal 12 al 20 maggio. Messi a conoscenza dell'impegno assunto anche i comandi militari si allarmarono: l'improvviso rovesciamento di alleanze richiedeva i necessari preparativi. Mentre le manifestazioni interventiste, fomentate ad arte dal governo, si intensificavano, Salandra rassegnò le dimissioni nelle mani del re.

La posizione neutralista di Giolitti era nota e questi, una volta giunto a Roma, ricevette in segno di solidarietà quasi quattrocento biglietti da visita dei deputati che da soli costituivano la maggioranza assoluta della Camera e che sarebbero senza dubbio aumentati il giorno della convocazione dell'Aula, convergendo tutti i parlamentari nella Capitale. Dimettendosi, Salandra volle lasciare al sovrano il compito di conciliarsi Giolitti. Contro lo statista venne montata una violenta campagna di stampa, a Roma vennero affissi sui muri manifesti che lo ritraevano di spalle al momento della fucilazione: come i disertori. In un comizio delirante D'Annunzio incitò la folla ad invadere l'abitazione privata dello statista e ad uccidere quel "boia labbrone le cui calcagna di fuggiasco sanno le vie di Berlino". La folla invase con violenza lo stesso edificio della Camera: chiara intimidazione nei confronti della maggioranza neutralista. Il questore di Roma avvertì Giolitti che non era in grado di garantire la sua incolumità: un'offesa senza precedenti alla libertà e al diritto, lo stato abdicava al suo ruolo. Francesco Saverio Nitti, ricordando molti anni dopo quei giorni, disse che quello fu il momento nel quale la Costituzione venne calpestata e la libertà conculcata. Durante le consultazioni Giolitti ammonì il sovrano che la maggioranza era contraria all'intervento, che l'esercito non era pronto (lui stesso se ne era reso conto durante l'impresa di Libia) e che la guerra avrebbe potuto portare un'invasione e persino una rivoluzione. Ma quando il sovrano illustrò allo statista piemontese la novità ed il contenuto del Patto di Londra, Giolitti comprese che ormai il danno era fatto: non adempiere all'impegno preso con tanto di firme equivaleva a compromettere il buon nome del Paese e avrebbe implicato, tra l'altro, l'abdicazione del re. Giolitti non ebbe la forza di portare a fondo la sua sfida, anzi raccomandò come presidenti del Consiglio Marcora e Carcano, peraltro interventisti convinti. Resosi ormai conto della gravità degli impegni assunti, bersaglio di manifestazioni ostili scatenate dal governo nei suoi confronti, Giolitti decise di ripartire per il Piemonte senza attendere la riapertura della Camera.

In questa situazione fu facile per il re respingere le dimissioni di Salandra e confermarlo nell'incarico: veniva così alla luce una grave lacuna dello Statuto Albertino che conferiva al sovrano, e non al Parlamento, il potere di dichiarare la guerra. Alla riapertura della Camera fu subito evidente che la maggioranza aveva modificato in maniera sorprendente il suo atteggiamento: abbandonata dal suo capo, pressata da minacce ed intimidazioni, messa finalmente al corrente del Patto di Londra, trasse le sue conclusioni. I pieni poteri al governo "in caso di guerra" furono approvati con 407 voti favorevoli contro 74 contrari (i socialisti e qualche isolato). Il 24 maggio entrò in vigore lo stato di guerra con l'Austria. Va riconosciuto che Giolitti subì la sua prima, grande sconfitta politica mentre conduceva una nobile battaglia in difesa del Parlamento e della libertà: quasi unanimemente la storiografia riconosce allo statista piemontese il merito di aver difeso, alla vigilia del primo conflitto mondiale, le prerogative dello Stato di diritto e quindi, in ultima analisi, di aver combattuto per una vera democrazia moderna. Democrazia nella quale un monarca non può che avere funzioni puramente simboliche ed onorifiche: solo il Parlamento, organo che rappresenta la volontà popolare, può prendere decisioni gravi e dense di implicazioni come una dichiarazione di guerra.

L'ultima permanenza al governo di Giolitti iniziò nel giugno del 1920, durante il cosiddetto biennio rosso (1919-1920). Nei confronti delle agitazioni sociali, Giolitti, ancora una volta, attuò la tattica da lui sperimentata con successo quando era alla guida dei precedenti ministeri: non accettò le richieste di agrari e imprenditori che chiedevano al governo di intervenire con la forza. Alle lamentele di Giovanni Agnelli, che descriveva, con toni volutamente drammatici ed esagerati, la situazione della Fiat occupata dagli operai, Giolitti rispose: "Benissimo, darò ordine all'artiglieria di bombardarla". Udita la risposta ironica e beffarda del primo ministro, Agnelli decise che era meglio lasciar fare alla politica e partì per le vacanze. Dopo pochi giorni gli operai cessarono spontaneamente l'occupazione. Il presidente del Consiglio era consapevole che un atto di forza avrebbe soltanto aggravato la situazione ed inoltre, sospettava che in molti casi gli imprenditori non fossero del tutto estranei all'occupazione delle fabbriche da parte dei lavoratori. Del resto la situazione socio-politica era comunque più complessa rispetto agli scioperi che avevano interessato il Paese ai primi del novecento. Ora, infatti, complice il dissesto economico e sociale seguito al primo conflitto mondiale, non tutti i disordini avevano alla base pure motivazioni economiche. Durante questa grave crisi economica post-bellica si acuivano infatti i contrasti politici, radicalizzando le diverse posizioni. Da una parte le istanze socialiste e dall'altra quella della borghesia imprenditoriale. Alcune delle proteste sviluppatesi durante il cosiddetto biennio rosso, e, successivamente, i torbidi crescenti a partire dalla seconda metà del 1920, ad opera di agrari e fascisti, avevano esplicitamente di mira la sovversione delle istituzioni statali. Giolitti si concentrò poi sulla questione di Fiume; prese contatti con la Jugoslavia e fu firmato il trattato di Rapallo nel novembre 1920, dove fu deciso che Fiume sarebbe diventata città libera; l'Italia inoltre oltre a rinunciare alle dirette pretese su Fiume, avrebbe rinunciato ad ogni rivendicazione sulla Dalmazia, ad eccezione della città di Zara, che sarebbe passata all'Italia. Fu uno smacco grave per il governo illegale che nel frattempo si era instaurato per opera di Gabriele D'Annunzio e del movimento irredentista nella città in nome dell'Italia; qui ci fu il rifiuto di riconoscere il trattato di Rapallo. Giolitti allora mandò contro la città ribelle il regio esercito, guidato da Enrico Caviglia; dopo una simbolica resistenza Gabriele D'Annunzio firmò la resa il 31 dicembre 1920, nacque lo stato libero di Fiume e la questione di Fiume si avviò al suo definitivo epilogo. Già dal discorso di insediamento alla Camera, Giolitti annunciò l'intenzione di voler modificare l'articolo 5 dello Statuto, la norma che aveva consentito al sovrano di dichiarare la guerra all'Austria senza il preventivo consenso del Parlamento. Dai banchi della destra, in particolare dalle file dei nazionalisti, alcuni gridarono ironicamente al presidente del Consiglio: "Come per l'impresa di Libia!". E Giolitti, senza scomporsi, rispose: "Appunto, correggiamo!". Ed effettivamente la Camera approvò la modifica della Carta fondamentale proposta dal Presidente del Consiglio; si narra che in seguito a tale scelta, non gradita dalla Corona, si guastarono irrimediabilmente i rapporti fra Giolitti e Vittorio Emanuele III.

Giolitti era preoccupato soprattutto per le disastrose condizioni in cui versavano le finanze dello stato. Rispetto all'anteguerra il potere d'acquisto di una lira si era ridotto a 23 centesimi, il prezzo politico del pane, che i governi precedenti non avevano voluto abolire temendo proteste ed impopolarità, comportava un onere che avrebbe portato il Paese al fallimento economico. Lo statista piemontese propose una manovra finanziaria, rimasta in larga parte inattuata per la breve durata del suo governo, di portata innovativa. Fu immediatamente abolito il prezzo politico del pane. Giolitti, inoltre, presentò una riforma del prelievo fiscale che avrebbe introdotto la progressività delle imposte, si pronunciò a favore di un inasprimento della tassa di successione e della nominatività dei titoli. Era, insomma, un risanamento che premeva sulle classi più agiate del paese. La presentazione di tali provvedimenti stupì inizialmente tutti: la borsa iniziò a recuperare e la lira a rivalutarsi nelle quotazioni giornaliere. L'entusiasmo però finì quando fu ben chiaro che il governo non avrebbe avuto vita lunga e pertanto non avrebbe potuto dare seguito a gran parte di queste misure. Per porre freno alle sempre più frequenti agitazioni socialiste, Giolitti tollerò o, secondo altri, appoggiò le azioni delle squadre fasciste, credendo che la loro violenza potesse essere in seguito riassorbita all'interno del sistema democratico. Pensando che la popolazione fosse tornata a dare l'appoggio ai liberali, sciolse il parlamento e indisse nuove elezioni per maggio 1921. Il panorama politico che ne uscì non era cambiato di molto, i liberali avevano ancora il governo, mentre i socialisti e i cattolici rimanevano forti; l'unica novità rilevante fu l'entrata alla camera di 35 deputati fascisti. Giolitti aveva pensato di poter "costituzionalizzare", come aveva fatto con Turati, i fascisti che si sarebbero lasciati assimilare dal sistema liberale. Scrisse lo storico Angelo Tasca che questo fu il primo «gesto di suicidio» dello Stato liberale

Dopo la caduta del suo quinto governo, mentre acquisivano sempre più importanza partiti non integrabili nel sistema liberale, come i partiti di massa (il PSI e il PPI) da un lato e il fascismo dall'altro, il "partito liberale" era sempre più diviso; Giolitti appoggiò il governo Bonomi, che includeva anche un ministro popolare, oltre a diversi giolittiani. Alla caduta di Bonomi, mentre la situazione nel paese era sempre più grave a causa del clima da guerra civile e dell'ascesa del fascismo, il nome di Giolitti fu nuovamente quello più speso per indicare il nuovo capo di governo. Su di esso però arrivò il veto del Partito Popolare (anche a causa del provvedimento sulla nominatività dei titoli azionari del precedente governo Giolitti, fortemente avversato dal Vaticano); la crisi di governo si trascinò a lungo e infine il giolittiano Luigi Facta formò il suo dicastero, che comprendeva giolittiani, popolari e esponenti della destra costituzionale. Nelle ore cruciali della marcia su Roma, Giolitti, che era pronto ad assumere un nuovo governo con una rappresentanza del partito fascista, si trovava nella sua casa di Cavour dove arrivavano trasmesse da Facta e dal re, che si trovava a San Rossore, poche e contraddittorie informazioni sugli avvenimenti in corso. Le notizie arrivavano tramite telegrammi cifrati e Giolitti aveva dovuto chiedere alla Prefettura di utilizzare un cifrario dei Carabinieri per tradurle in chiaro. Avendo l'anziano statista dichiarato la propria disponibilità a raggiungere Roma con qualsiasi mezzo, si trovò di fronte a un nuovo veto del Partito Popolare (guidato da don Sturzo, ostile ai liberali a causa dell'irrisolta "questione romana") e alle resistenze di Facta che probabilmente pensava di poter succedere a se stesso con un governo allargato. L'esercito era pronto, allertato e in consistenza tale da impedire l'arrivo del grosso delle colonne fasciste, male armate e ancor meno addestrate, ma dopo la diffusione del decreto sullo stato d'assedio ancora prima della firma del sovrano, che lo costrinse a ritirarlo, Facta si dimise seppellendo ogni speranza di un governo in grado di contenere il fascismo in un alveo costituzionale.

Giolitti votò a favore del primo governo Mussolini, nel 1922. Questo governo era ancora formalmente nella legalità dello Statuto albertino e ottenne un ampio voto di fiducia da parte della Camera eletta nel 1921, dove siedevano solo 40 deputati fascisti su 535. Durante il dibattito parlamentare i socialisti esortarono Giolitti alla "coerenza con i principi democratici". La replica dello statista piemontese non si fece attendere: "Il Parlamento ha il governo che si merita... ah, voi socialisti! Proprio voi oggi non potete parlare di coerenza. Ve l'ho detto, ve l'ho scritto e oggi ve lo ripeto: non avete avuto coraggio e per questo non siete andati al governo". Il ragionamento di Giolitti era chiaro: rifiutando pregiudizialmente di appoggiare apertamente qualsiasi governo, i socialisti erano responsabili quanto gli altri della situazione che si era creata e della quale, ora, tutti si apprestavano a pagare le conseguenze. Votò inoltre a favore della legge Acerbo. Tuttavia, alle successive elezioni del 1924, mentre molti dei politici liberali si facevano inserire nel "listone" del governo fascista, Giolitti presentò una propria lista, detta Democrazia, in Piemonte; altre liste con lo stesso nome furono presentate in Liguria e Lazio-Umbria. Giolitti risultò eletto insieme a due suoi seguaci, Marcello Soleri e Egidio Fazio. Dopo la scomparsa di Matteotti, Giolitti criticò fortemente la "secessione dell'Aventino", sostenendo che la Camera era il luogo dove occorreva fare opposizione. Nel 1924 votò per la prima volta contro il governo Mussolini in seguito alla legge sulla limitazione della libertà di stampa. «Per amore di patria, non trattate il popolo italiano come se non meritasse la libertà che egli ebbe sempre in passato!» (discorso di Giolitti alla Camera) Nel dicembre 1925 il consiglio provinciale di Cuneo, che ad agosto aveva rieletto come di consueto Giolitti alla presidenza, votò una mozione che gli chiedeva l'adesione al fascismo. Giolitti rassegnò quindi le dimissioni sia da presidente che da consigliere. Nel 1926 e 1927 si appartò sempre più dalla vita politica, anche a causa delle sempre più rade convocazioni della Camera; compì diversi viaggi in Europa. Nel 1928 tornò alla Camera per prendere parola contro la legge che di fatto aboliva le elezioni, sostituendole con la ratifica delle nomine governative, contestando che con questo provvedimento il governo si poneva al di fuori dello Statuto. Morì dopo una settimana di agonia il 17 luglio 1928 all'1,35 del mattino nella sua villa a Cavour e venne sepolto nel cimitero comunale.

L'ideologia politica

Come neo-presidente del Consiglio si trovò a dover affrontare, prima di tutto, l'ondata di diffuso malcontento che la politica crispina aveva provocato con l'aumento dei prezzi. Ed è questo primo confronto con le parti sociali che evidenzia la ventata di novità che Giolitti porta nel panorama politico dei cosiddetti "anni roventi": non più repressione autoritaria, bensì accettazione delle proteste e, quindi, degli scioperi purché non violenti né politici (possibilità, fra l'altro, secondo lui ancora piuttosto remota in quanto le agitazioni nascevano tutte da disagi di tipo economico). Come da lui stesso sottolineato in un discorso in Parlamento in merito allo scioglimento, in seguito ad uno sciopero, della Camera del lavoro di Genova, sono da temere massimamente le proteste violente e disorganiche, effetto di naturale degenerazione di pacifiche manifestazioni represse con la forza: «Io poi non temo mai le forze organizzate, temo assai più le forze disorganiche perché se su di quelle l'azione del governo si può esercitare legittimamente e utilmente, contro i moti inorganici non vi può essere che l'uso della forza». Contro questa sua apparente coerenza si scagliarono critici come Gaetano Salvemini che sottolinearono come invece nel Mezzogiorno d'Italia gli scioperi venissero sistematicamente repressi. L'intellettuale meridionale definì Giolitti un "ministro della malavita"[9] proprio per questa sua disattenzione riguardo ai problemi sociali del Sud, che avrebbe provocato un'estensione del fenomeno del clientelismo di tipo mafioso e camorristico. Inoltre Giolitti fu accusato di essere un "dittatore liberale". Celebri sono le parole dell'accanito interventista Gabriele D'Annunzio secondo il quale per il neutralista «mestatore di Dronero [...] la lapidazione e l'arsione, subito deliberate e attuate, sarebbero assai lieve castigo». Giolitti quindi venne apostrofato come il "teorico del parecchio" dalla propaganda interventista (in riferimento a una sua presunta affermazione che dalla neutralità si sarebbe potuto ottenere, appunto, "parecchio"). Giolitti si può definire un liberale progressista o un conservatore illuminato, sapeva adattarsi, cercando di padroneggiarla, alla variegata realtà politica italiana. Egli disse che il suo era come il mestiere di un sarto che dovendo confezionare un vestito per un gobbo deve fare la gobba anche al vestito. Egli dunque era convinto di dover governare un paese "gobbo" che non aveva intenzione di "raddrizzare" ma realisticamente governare per quello che era. La sua attenzione si rivolse al partito socialista, per trasformarlo da avversario a sostegno delle istituzioni ed allargare nello stesso tempo le basi dello stato, e ai cattolici, che volle fare rientrare nel sistema politico. Dopo i disgraziati avvenimenti che avevano caratterizzato l'ultimo governo Crispi e quello di Pelloux, Giolitti era convinto che, se lo stato liberale avesse voluto sopravvivere, doveva tener conto delle nuove classi emergenti.

Nelle "Memorie della mia vita" egli si pone sulla stessa via del suo grande predecessore Cavour e quasi ne ripete le espressioni. Come Cavour sosteneva, seguendo il modello liberale inglese, che bisognasse realizzare tempestive riforme per prevenire le agitazioni socialiste («L'umanità è diretta verso due scopi, l'uno politico, l'altro economico. Nell'ordine politico essa tende a modificare le proprie istituzioni in modo da chiamare un sempre maggior numero di cittadini alla partecipazione al potere politico. Nell'ordine economico essa mira evidentemente al miglioramento delle classi inferiori, ed a un miglior riparto dei prodotti della terra e dei capitali») allo stesso modo sembrava dire Giolitti: «Io consideravo che, dopo il fallimento della politica reazionaria, noi ci trovavamo all'inizio di un nuovo periodo storico [...] Il moto ascendente delle classi operaie si accelerava sempre più ed era moto invincibile perché comune a tutti i paesi civili e perché poggiava sui principi dell'eguaglianza tra gli uomini [...]. Solo con una [diversa] condotta da parte dei partiti costituzionali verso le classi popolari si sarebbe ottenuto che l'avvento di queste classi, invece di essere come un turbine distruttore, riuscisse ad introdurre nelle istituzioni una nuova forza conservatrice e ad aumentare grandezza e prosperità alla nazione.» (dalle Memorie della mia vita di G. Giolitti). È innegabile la tendenza, sfondo di tutta la sua attività politica, di spingere il parlamento ad occuparsi dei conflitti sociali al fine di comporli tramite opportune leggi. Per Giolitti, infatti, le classi lavoratrici non vanno considerate alla stregua di una pura opposizione allo Stato - come fino ad allora era avvenuto - ma occorre riconoscere loro la legittimazione giuridica ed economica. Compito dello stato quindi è quello di porsi come mediatore neutrale tra le parti, poiché esso rappresenta le minoranze ma soprattutto la moltitudine di quei lavoratori vessati fino alla miseria dalla legislazione fiscale e dello strapotere degli imprenditori nell'industria. Un aspetto della sua attenzione alle classi popolari può essere considerata anche la innovazione della corresponsione di una indennità ai parlamentari che sino ad allora avevano svolto la loro funzione a titolo gratuito. Questo avrebbe consentito, almeno in linea teorica, una maggiore partecipazione dei meno abbienti alla carica di rappresentante del popolo.

Txt.: Memorie (volume primo)

Txt.: Memorie (volume secondo)