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Napoleóne I Bonaparte (fino al 1796 Buonaparte)
imperatore dei Francesi.
Nacque ad Ajaccio il 15 ag. 1769, morì a Longwood, nell'isola
di S. Elena, il 5 maggio 1821; figlio di Carlo e Letizia Ramolino.
Collegiale ad Autun, Brienne, Parigi, fu poi luogotenente
d'artiglieria (1785) e tentò in seguito la fortuna politica e
militare in Corsica (nel 1791 era capo-battaglione della guardia
nazionale ad Ajaccio, nel febbr. 1793 condusse il suo battaglione di
guardie nazionali nella spedizione della Maddalena, miseramente
fallita, nell'apr.-maggio 1793 prese posizione, con il fratello
Luciano, contro P. Paoli, per cui dovette fuggire in Francia).
Comandante subalterno nel blocco di Tolone (ott. 1793), si
acquistò il grado di generale e quindi il comando
dell'artiglieria dell'esercito d'Italia. Sospettato di giacobinismo
per l'amicizia con A. Robespierre, subì un breve arresto;
destinato a un comando in Vandea, rifiutò e fu radiato dai
quadri (apr. 1795). Divenuto amico di P. Barras conobbe presso di
lui Giuseppina de Beauharnais (che sposò il 9 marzo 1796); e
per incarico di Barras difese energicamente la Convenzione contro i
realisti (13 vendemmiale). Ottenne così il comando
dell'esercito dell'interno, poi di quello d'Italia.
Presa l'offensiva (9 apr. 1796), batté separatamente
(Montenotte, Millesimo e Dego) gli Austro-Sardi, costringendo questi
ultimi all'armistizio di Cherasco (28 apr. 1796), quelli, dopo le
vittorie di Lonato, Arcole, Rivoli, e la resa di Mantova, ai
preliminari di pace di Leoben (18 apr. 1797). Occupata la Lombardia,
ricostituisce sul modello francese le repubbliche di Genova e di
Venezia e toglie al papa la Romagna (armistizio di Bologna, 23
giugno 1796; trattato di Tolentino, 18 febbr. 1797). Poi, col
trattato di Campoformio (17 ott. 1797), conferma alla Francia il
Belgio e le annette le Isole Ionie, ponendo fine all'indipendenza di
Venezia, il cui territorio passava all'Austria (ad eccezione di
Bergamo e Brescia incorporate nella nuova Repubblica Cisalpina).
Preposto, a Parigi, a una spedizione contro le isole britanniche, la
devia verso l'Egitto, ove sbarca il 2 luglio 1798 e vince alle
Piramidi, in Siria (ma è fermato a S. Giovanni d'Acri), ad
Abukir (dove la sua flotta era stata, il 1° ag., distrutta da
Nelson).
Tornato in Francia con pochi seguaci (9 ott. 1799), vi compie, un
mese dopo (18 brumaio), un colpo di stato, con la dispersione del
Consiglio dei Cinquecento e la sostituzione del Direttorio con un
collegio di tre consoli, assumendo egli stesso il titolo di primo
console.
Ripresa la guerra contro i coalizzati, valica le Alpi (primavera
1800), vince a Marengo (14 giugno 1800) gli Austriaci costringendoli
alla pace di Lunéville (9 febbr. 1801), cui seguono profonde
modificazioni territoriali in Italia (annessione alla Francia di
Piemonte, Elba, Piombino, Parma e Piacenza; costituzione del regno
di Etruria); conclude con l'Inghilterra la pace di Amiens (25 marzo
1802).
Console a vita (maggio 1802), sfuggito alla congiura di G. Cadoudal
(1803), assume su proposta del senato la corona d'imperatore dei
Francesi (Notre-Dame, 2 dic. 1804) e poi quella di re d'Italia
(duomo di Milano, 26 maggio 1805). Nei tre anni di pace (rotta,
però, con l'Inghilterra già nel maggio 1803), spiega
una grande attività ricostruttiva: strade, industrie, banche;
ordinamento amministrativo, giudiziario, finanziario accentrato;
pubblicazione del codice civile (21 marzo 1804; seguirono poi gli
altri); creazione di una nuova nobiltà di spada e di toga;
concordato con la S. Sede (16 luglio 1801).
Formatasi, per ispirazione britannica, la 3ª coalizione
(Inghilterra, Austria, Russia, Svezia, Napoli), la flotta
franco-spagnola è battuta a Trafalgar (21 ott. 1805) da
quella inglese comandata da Nelson, ma N. assedia e batte gli
Austriaci a Ulma (15-20 ott.), gli Austro-Russi ad Austerlitz (2
dic.) e impone la pace di Presburgo (26 dic. 1805: cessione di
Venezia e altre terre austriache alla Francia e ai suoi alleati
tedeschi). Assegna il Regno di Napoli (senza la Sicilia) al fratello
Giuseppe, quello di Olanda al fratello Luigi, e forma la
Confederazione del Reno (luglio 1806).
Alla 4ª coalizione (Russia, Prussia, Inghilterra, Svezia)
oppone le vittorie di Jena e Auerstedt (14 ott. 1806) sui Prussiani,
l'occupazione di Berlino e Varsavia, le vittorie sui Russi a Eylau
(od. Bagrationovsk, 8 febbr. 1807) e Friedland (14 giugno) cui segue
la pace di Tilsit (8 luglio 1807), vera divisione dell'Europa in
sfere d'influenza tra Francia e Russia con l'adesione della Russia
al blocco continentale contro l'Inghilterra (bandito il 21 nov.
1806), e con la formazione del granducato di Varsavia (al re di
Sassonia) e del regno di Vestfalia (al fratello Girolamo).
Messo in sospetto dall'atteggiamento della Spagna, la occupa (dal
maggio 1808) e ne nomina re il fratello Giuseppe (sostituendolo a
Napoli col cognato Gioacchino Murat); ma la guerriglia degli
Spagnoli, indomabile, logora lentamente le sue forze militari,
mentre la lotta contro la Chiesa (occupazione di Roma, febbr. 1808;
imprigionamento del papa Pio VII, 5 luglio 1809) gli sottrae
popolarità presso ampî settori sociali.
Debella quindi, non senza fatica, in Baviera (19-23 apr. 1809) e a
Wagram (6 luglio) la 5ª coalizione, capeggiata dall'Austria, e
impone la pace di Schönbrunn (14 ott. 1809), che segna l'apogeo
della potenza napoleonica, per gli ampliamenti territoriali che il
trattato e i successivi provvedimenti portano all'Impero francese e
ai suoi satelliti.
Coronamento della pace, dopo il ripudio della prima moglie, sono le
nozze (1° apr. 1810) con Maria Luisa d'Austria e la nascita (20
marzo 1811) del "re di Roma".
La Russia, allarmata per le mire napoleoniche, aderisce alla 6ª
coalizione: N. la invade (24 giugno 1812), vince a Borodino (7
sett.), occupa Mosca (14 sett.); ma la città è in
preda alle fiamme e N. è costretto a iniziare verso la
Beresina una ritirata disastrosa, poi vera fuga, mentre governi e
popoli di Russia, Prussia e infine d'Austria (10 ag. 1813) si
sollevano contro di lui.
Né l'offensiva ripresa nella Sassonia (maggio 1813),
né le trattative con i coalizzati gli giovano; la sconfitta
di Lipsia (16-19 ott. 1813) lo costringe a sgombrare la Germania e a
difendersi sul suolo francese (inverno 1813-14). Il 31 marzo 1814
gli Alleati occupano Parigi e il 6 aprile N. abdica senza condizioni
accettando il minuscolo dominio dell'isola d'Elba, ove giunge il 4
maggio 1814. Ma, sospettando che lo si voglia relegare più
lontano dall'Italia e dall'Europa, sbarca con poco seguito presso
Cannes (1° marzo 1815) e senza colpo ferire riconquista il
potere a Parigi (20 marzo). Il tentativo dura solo cento giorni e
crolla a Waterloo (18 giugno 1815).
Dopo l'abdicazione (22 giugno), N. si rifugia su una nave inglese:
considerato prigioniero, è confinato, con pochi seguaci
volontarî, nell'isola di S. Elena, dove a Longwood, sotto la
dura sorveglianza di Hudson Lowe, trascorre gli ultimi anni, minato
dal cancro, dettando le sue memorie.
Le sue ceneri furono riportate nel 1840 a Parigi, sotto la cupola
degli Invalidi.
La sconfitta definitiva di N. ebbe per la Francia gravi conseguenze:
occupata per tre anni dalle potenze nemiche, fu obbligata a pagare
esose indennità di guerra; dopo un periodo di relativa pace
sociale visse lo scoppio del malumore e della vendetta del mondo
cattolico.
L'arte militare
Nelle campagne militari N., per l'attuazione dei suoi piani, si
ispirava a quello che fu detto il senso dello spazio geografico
"concreto", cioè vagliato secondo le effettive mutevoli
esigenze del momento (anziché allo "spazio astratto", secondo
la tradizione della strategia del sec. 18°, che tendeva a
uniformarsi a principî teorici fissi). Connesse a questa
intuizione fondamentale le altre caratteristiche delle campagne di
N.: segretezza, rapidità di manovra, pronto e preciso calcolo
della velocità di marcia e dello spiegamento delle colonne
proprie e altrui, allo scopo ultimo di riunire grandi forze sopra un
punto, e qui agire risolutamente. Da queste premesse si
configurò la nuova tattica di N., definita appunto da H.
Delbrück "la tattica senza schemi". "On s'engage partout
(diceva N. stesso) et après on voit". N. faceva, cioè,
precedere un "tasteggiamento" su tutta la linea del fronte, cui
seguiva l'azione decisiva, condotta con mezzi e con uomini raccolti
nel punto prescelto per la fase risolutiva della battaglia. L'azione
di sfruttamento veniva spesso impegnata dalla cavalleria e condotta
fino alla distruzione del nemico.
La figura storica
N. stesso cercò nel suo Mémorial de
Sainte-Hélène (pubblicato nel 1823 a cura del conte di
Las Cases) di collocare la sua azione in una prospettiva storica:
ormai escluso da ogni possibilità di agire, nella riflessione
degli ultimi anni volle presentare la sua opera come intesa alla
liberazione delle forze nazionali oppresse. Ma una certa
storiografia ha respinto questa interpretazione, scorgendo nella
figura di N. i caratteri del dispotismo illuminato settecentesco
(cfr. soprattutto G. Lefebvre). Anche per quanto riguarda la
funzione di N. quale diffusore in Europa dei principî
rivoluzionarî, è stato rilevato il suo duplice
atteggiamento di fronte alla rivoluzione dell'89; da una parte egli
ne realizzò alcune istanze (si pensi all'opera legislativa),
dall'altra ne contraddisse alcuni postulati fondamentali:
restaurò infatti le forme della monarchia e avviò la
costituzione di un nuovo ceto privilegiato, innalzando alla
nobiltà gli elementi, soprattutto militari, a lui fedeli.
La funzione storica di N. va individuata, pertanto, nella rottura
del vecchio equilibrio europeo, cioè di quell'assetto
internazionale che il sistema della Santa Alleanza non riuscì
a preservare dall'urto rivoluzionario del sec. 19°; e,
altrettanto, nella rottura dell'antico equilibrio sociale, avviata
in Francia già nel decennio rivoluzionario, che si
approfondì in seguito all'espansionismo napoleonico,
anch'esso suscitatore di nuove energie e forze sociali.
*
Enciclopedia italiana (1934)
NAPOLEONE I
di F. Le., A. B.
NAPOLEONE I imperatore. - Nacque ad Aiaccio il 15 agosto 1769, da
Carlo Buonaparte e da Letizia Ramolino, secondo di otto fratelli
(senza contare i morti in tenera età), cinque maschi
(Giuseppe, Napoleone stesso, Luciano, Luigi, Girolamo) e tre femmine
(Elisa, Paolina, Carolina).
Avvocati e magistrati, i Bonaparte (così si dissero alla
francese dal 1796) traevano origine dalla Toscana, donde un ramo
s'era trapiantato prima a Sarzana, poi nella Corsica (sec. XVI). I
loro titoli di nobiltà erano stati riconosciuti dal granduca
nel 1757. Carlo Bonaparte, dopo la battaglia di Pontenuovo (9 maggio
1769), alla quale aveva assistito come aiutante di Pasquale Paoli,
provvide subito ai suoi interessi accettando la signoria francese e
facendosi amico dei governatori dell'isola. Così dal conte
L.-Ch.-R. di Marbeuf ottenne che Giuseppe e N. (più tardi
anche altri suoi figli e congiunti) compissero in Francia i loro
studî a spese dello stato. I due fanciulli lasciarono la
Corsica il 15 dicembre 1778 ed entrarono insieme nel collegio di
Autun per apprendervi alla meglio la lingua francese; poi, il 23
marzo 1779, N. passò alla scuola militare di Brienne. Quivi
egli rimase oltre cinque anni, solitario e taciturno, chiuso nel
pensiero della sua casa e della sua isola, in preda ora a crisi di
nostalgia ora a scoppî di esasperazione, tra gente estranea
che si prendeva volentieri giuoco del suo aspetto bizzarro e della
sua nazionalità còrsa. In tale modo si abituò
per tempo a osservare il mondo dal di fuori e affinò
l'istinto di conquista e di dominio. "Caractère dominant,
impérieux, entêté": così l'ispettore
Reynaud de Monts. E un suo insegnante: "Corse de nation et de
caractère, il ira loin si les circonstances le favorisent".
Assegnato all'artiglieria (prima era parso idoneo alla marina),
entrò, il 30 ottobre 1784, come "cadet gentilhomme", nella
scuola militare di Parigi, e ivi meglio conobbe, senz'ammirarla,
l'aristocrazia francese. Ne uscì, il 28 ottobre 1785,
luogotenente in seconda (42° su 58 classificati) e fu mandato a
Valenza nella compagnia dei bombardieri del reggimento di La
Fère. Nel febbraio di quell'anno era morto, non ancora
quarantenne, suo padre.
Le scuole di Brienne e di Parigi avevano di militare poco più
che il nome. A Valenza il Bonaparte fu soldato e s'iniziò
alla balistica, alla tattica e alla strategia, semplice cannoniere
dapprima, com'era l'uso, poi caporale, poi sergente, infine vero
ufficiale. Ma nel medesimo tempo, avido di tutto sapere,
approfondiva la matematica e la geografia, s'occupava di diritto e
di politica, leggeva i capolavori latini e francesi e, naturalmente,
non trascurava Plutarco e Rousseau. "Reservé et studieux
(così le sue note caratteristiche), il prefère
l'étude à toute espèce d'amusement; se plait
à la lecture de tous auteurs;... capricieux, hautain,
extrèmement porté à l'égoïsme,
parlant peu, énergique dans ses reparties, ayant beaucoup
d'amour-propre, ambitieux et aspirant à tout".
Ogni suo pensiero era allora rivolto alla Corsica. Nel settembre
1786, ottenuta una licenza, rivide Aiaccio e con varî pretesti
di salute o di famiglia vi rimase, salvo una breve visita a Parigi
(ottobre-dicembre 1787), per ben venti mesi. Quando tornò
(giugno 1788), il suo reggimento era ad Auxonne. Ebbe una nuova
licenza nel settembre 1789. La grande rivoluzione, allora
incominciata, pareva aprirgli la via alla fortuna nella sua isola,
di cui appunto allora esaltava gli eroi nelle Lettres sur la Corse.
Il 30 novembre l'Assemblea nazionale estese alla Corsica tutte le
libertà del popolo francese, il che equivaleva a consacrare
il principio della sovranità della Francia, ma offriva
all'isola, divenuta anch'essa un dipartimento, la possibilità
di amministrarsi quasi esclusivamente da sé. P. Paoli
accettò il nuovo ordine di cose e da Londra venne, per
Parigi, ad Aiaccio (maggio 1790), accolto dappertutto come campione
ed eroe purissimo della libertà. Egli trattò con molta
benevolenza il giovine figlio del suo antico aiutante, ma,
scopertone subito il carattere ambizioso, privo di scrupoli, pronto
a tutto - intrighi e violenze - pur di farsi innanzi, accolse
freddamente, nel gennaio 1791, la difesa che volle pubblicare di lui
contro Matteo Buttafuoco, deputato della nobiltà còrsa
all'Assemblea di Parigi (Lettre à Buttafuoco). Nel febbraio
N. tornò al suo reggimento a Auxonne e nei mesi seguenti
scrisse, in stile declamatorio e in un francese pieno d'italianismi,
il Dialogue sur l'amour e le Réflexions sur l'état de
nature. Partecipò inoltre a un concorso aperto dall'accademia
di Lione sul tema: Quelles verités et quels sentiments il
importe le plus d'inculquer aux hommes pour leur bonheur; ma,
sebbene indulgesse a tutti i sofismi allora di moda, non ebbe il
premio e fu classificato ultimo. Il 2 giugno era stato promosso
luogotenente in prima al 4° reggimento artiglieria, ed era
tornato a Valenza. Nel settembre, procuratasi un'altra licenza,
ricomparve ad Aiaccio. Si facevano allora le elezioni per la
Legislativa. Egli si gettò furiosamente nella lotta politica,
che in ogni terra era fatta feroce dalle consorterie locali e
familiari, e riuscì inoltre egli stesso, intimidendo
audacemente i suoi avversarî, a farsi eleggere capobattaglione
della guardia nazionale di Aiaccio. Nell'aprile 1792 fece fuoco,
nella sua città, sulla folla avversa alla costituzione civile
del clero e rispose al pubblico sdegno occupando militarmente i
dintorni della cittadella, anzi cercando persino di subornare le
truppe francesi, che avevano assistito inetti alla scena. Accusato
di aver voluto proclamare l'indipendenza dell'isola, si munì
di certificati di civismo e accorse a Parigi, dove vide le tragiche
giornate del 20 giugno e del 10 agosto che segnarono la fine della
monarchia. Con l'appoggio dei deputati còrsi riuscì a
far dimenticare il suo caso, e nel luglio fu promosso capitano. Ma
si procurò ancora una licenza. La guerra, ch'era incominciata
il 20 aprile, non lo interessava se non in quanto poteva favorire le
sue ambizioni sulla Corsica. Nell'ottobre 1792 era di nuovo ad
Aiaccio. Nel febbraio 1793, avvenne la spedizione contro l'isola
della Maddalena, che avrebbe dovuto servire di base alla conquista
della Sardegna, ma il tentativo, disapprovato da Pasquale Paoli,
fallì miseramente. Il Bonaparte, che vi aveva condotto il suo
battaglione di guardie nazionali, vide fuggire i proprî
militi, perdette tutte le artiglierie e corse poi il rischio
d'essere ucciso. Così incominciavano le sue imprese belliche.
Tornò ad Aiaccio con la rabbia nel cuore.
Dopo l'uccisione di Luigi XVI, il Paoli andava visibilmente
allontanandosi dalla Franeia o, meglio, dai giacobini che la
tiranneggiavano. Il 2 aprile 1793 Luciano Bonaparte lo accusò
presso il Comitato di salute pubblica, il quale ne dispose quindi
l'arresto. Ma tutta l'isola insorse a difesa del suo eroe. I
Bonaparte, schieratisi con la Convenzione, furono banditi dalla
Consulta di Corte, onde dovettero darsi alla fuga e poterono a
stento salvarsi a Tolone e poi a Marsiglia (maggio 1793)
L'anno seguente la Corsica si costituiva in regno sottoponendosi
alla sovranità del re Giorgio d'Inghilterra.
Staccatosi così dalla sua patria, il Bonaparte si trovava
ora, solo, nel turbine della rivoluzione. Di questa egli disprezzava
gli autori e i capi, ma più lo sfacelo si approfondiva nella
Francia e l'orizzonte guerresco si allargava da tutte le parti,
più numerose e più vaste sentiva confusamente
aprirglisi le vie dell'avvenire. Da allora la sua personale
grandezza divenne il suo unico scopo, l'unico oggetto dei suoi
pensieri e del suo entusiasmo. Destinato a Nizza e poi ad Avignone e
addetto a umili uffĭci, compose il dialogo intitolato: Souper de
Beaucaire, in cui cercava di dimostrare che l'insurrezione dei
dipartimenti era senza speranza perché non aveva l'intima
forza di quella della Vandea. Era l'apologia del governo dei
giacobini, ma un'apologia ragionata come di chi giudica dall'alto,
fuori della tormenta. È probabile ch'egli mirasse non tanto a
convincere gl'insorti, quanto a farsi merito presso la Convenzione.
In quel tempo era incominciato il blocco di Tolone. Il Bonaparte,
recatosi al quartier generale per far visita al suo compatriotta e
protettore C. Saliceti, ricevette l'incarico di sostituire nel
comando dell'artiglieria il capo-battaglione Donmartin, mortalmente
ferito, e di lì a poco fu nominato capo-battaglione egli
stesso (19 ottobre 1793). Così si trovò per caso ad
avere per la prima volta un importante posto di azione. Suo fu il
consiglio di attaccare l'Aiguillette per prendere la rada e
costringere quindi la piazza alla resa, come avvenne infatti il 18
dicembre; ma, nel tumulto guerresco di quell'anno, il suo merito,
ingrandito molto in seguito, rimase quasi ignorato, e forse gli
stessi commissarî C. Saliceti e A. Robespierre lo fecero
promuovere, subito dopo, generale di brigata più per le sue
manifestazioni giacobine che per la sicurezza del colpo d'occhio e
lo spirito d'iniziativa di cui aveva dato innegabile prova nel
vittorioso attacco. Comunque, fu quello il primo raggio di gloria
sulla sua carriera militare. Nel marzo 1794 assunse il comando
dell'artiglieria dell'esercito d'Italia, ch'era comandato da P.
Jadar Dumerbion, e a Saorgio e sul Roia, contro gli Austro-Sardi,
fece la sua prima comparsa nella guerra europea. Erano con lui A.
Robespierre, il Saliceti e J.-F. Ricord.
Il Dumerbion voleva agire con metodo e con prudenza: i commissari e
il Bonaparte consigliavano l'offensiva pronta ed energica. La caduta
dei giacobini, nelle giornate di termidoro, arrestò le
operazioni belliche su tutte le fronti. Il Bonaparte aveva compiuto,
tra il 15 e il 21 luglio, una missione a Genova, apparentemente per
tenere in rispetto quell'aristocrazia, in realtà per spiare i
luoghi e per fare un'inchiesta sul Tilly, che ivi rappresentava la
repubblica francese. Il 9 agosto, sospettato per la sua amicizia con
A. Robespierre, fu tratto in arresto a Nizza e rinchiuso nel forte
Carré presso Antibo. Riebbe la libertà il 20 e,
restituito al suo comando, contribuì alla vittoria di Dego
(21 settembre); ma la grande offensiva da lui agognata non avvenne e
subito tutto ricadde nell'abituale inerzia. Nel marzo 1795 avrebbe
dovuto partecipare a un colpo di mano sulla Corsica, ma l'impresa
andò in fumo in seguito alla sconfitta dell'ammiraglio P.
Martin al capo di Noli. Nell'aprile, poiché tutti gli
ufficiali dell'esercito d'Italia erano più o meno sospetti di
giacobinismo, fu richiamato a Parigi e destinato alla Vandea.
Rifiutò di andare. Si considerava quasi soldato straniero al
servizio francese, ed era ben risoluto a non compromettere per
l'altrui capriccio la propria fortuna. In Italia egli voleva agire.
Conosceva tutti i sentieri delle Alpi marittime ed era convinto che
un'azione energica avrebbe gettato lo scompiglio negli eserciti
austro-sardi e aperto immediatamente la penisola alla conquista
repubblicana. Egli possedeva quest 'energia.
Radiato dai quadri, frequenta quindi i ritrovi eleganti di
termidoro, si fa amici il Barras e il Carnot, s'insinua nel
Ministero della guerra e nel Comitato di salute pubblica, assale
successivamente tutti i capi della Convenzione e non si stanca di
proporre e riproporre i suoi piani offensivi. Dopo le paci di
Basilea (aprile 1798), non restavano in armi che l'Inghilterra,
l'Austria e i loro piccoli satelliti. Bisognava assalire i Sardi e
gli Austriaci al loro punto di collegamento, allontanare questi
ultimi verso est, battere completamente i primi, invadere la
Lombardia e penetrare poi per il Tirolo nella Germania. Sogni di
giovinezza. Tuttavia istruzioni in questo senso furono mandate al
generale B.-L.-J. Schérer, nuovo comandante dell'esercito
d'Italia, e condussero alla vittoria di Loano (24 novembre 1795). Ma
non fu altro. A un certo momento N. si lascia sedurre dall'idea
dell'Oriente e sembra sul punto di accettare un posto a
Costantinopoli come organizzatore dell'esercito turco. "Il ne se
fait rien de grand que dans l'Orient". Ma il 13 vendemmiaio assume,
per incarico del Barras, la difesa della Convenzione e, con la
stessa risolutezza che aveva dimostrata una volta ad Aiaccio,
disperde i realisti col fuoco delle sue artiglierie. Il 26 ottobre
1795 ha quindi il comando dell'esercito dell'interno, e da allora il
suo nome esotico incomincia a correre sulle bocche dei parigini
meravigliati. È la fortuna che viene, è la creola
Giuseppina Tascher de la Pagerie, giovine vedova del gen. A. de
Beauharnais, amica del Barras, che diventerà sua moglie il 9
marzo 1796 e gli porterà, dono di nozze, il comando
dell'esercito d'Italia.
Giunse al quartier generale di Nizza il 26 marzo. Partendo, aveva
detto al Carnot, il quale al pari dei suoi colleghi del direttorio
considerava l'Italia come una terra da saccheggiare e da
mercanteggiare: "Soyez tranquille: je suis sûr de mon
affaire". Come poi sempre, calcolava, più che sulle sue
proprie forze, sulle debolezze degli avversarî. Non aveva
ancora 27 anni. Magro e piccolo della persona, sebbene largo di
spalle e rotto alla fatica, aveva testa forte e angolosa, colorito
pallido, capelli neri e lisci spioventi sulla fronte, labbra
sottili, occhi grigi vivi e penetranti. Dai lineamenti romani, dai
moti rotti e imperiosi già traluceva il prepotente ingegno e
la sconfinata ambizione. Ricevuto con freddezza, mostrò
subito, dice il Botta, "quanto fosse nato per comandare",
poiché, sbandita la familiarità repubblicana,
introdusse nel suo accampamento più rigide forme gerarchiche,
onde parve "non più il primo fra gli eguali, ma il superiore
fra gl'inferiori". Dopo una settimana, tutto prese un aspetto nuovo.
Strappati gli ufficiali, gl'impiegati e i soldati alla loro noia e
alle loro rapine, fatti venire quanti più uomini poté
dalle vicine guarnigioni e sostituitili con guardie nazionali,
provvide alle sussistenze, al vestiario e alle armi e, rialzato
così lo spirito delle truppe, incitò tutti a
conquistarsi arditamente, nelle ricche provincie e nelle grandi
città dell'Italia, le cose di cui abbisognavano ancora.
Guerra di rapina. Le forze di cui disponeva erano un po' inferiori,
per numero e per artiglierie, a quelle degli Austro-sardi, ma
costituivano una solida unità animata da un volere imperioso.
Gli avversarî invece, guidati da uomini alieni per
temperamento e per età da qualsiasi gesto temerario, erano
inoltre divisi da sospetti e da rancori profondi.
L'offensiva incominciò il 9 aprile. Il 14, dopo le battaglie
di Montenotte (v.), di Millesimo e di Dego, gli Austro-sardi sono
separati. Il 17 i Francesi arrivano sulle alture di Montezemolo,
donde l'occhio si allarga sull'ubertosa pianura piemontese: "Annibal
a passé les Alpes: nous les avons tournées". Mentre
J.-P. Beaulieu si allontana verso il Po, egli si avventa contro M.
Colli e lo costringe a ritirarsi prima a Brichetto presso
Mondovì, poi a Fossano sulla Stura (23 aprile). La strada di
Torino sembra ormai aperta; ma, poiché non è da
escludere un'improvvisa disperata resistenza e possono intanto
ricomparire gli Austriaci, si accorda con pochi patriotti e, per
spaventare Vittorio Amedeo III con la minaccia della rivoluzione,
crea una repubblica in Alba. Allora, la sera del 27, arrivano a
Cherasco due commissarî del re. Egli sa come si parla alle
truppe, ma sa anche come si tratta con gentiluomini che vengono a
segnare una capitolazione. Rude dapprima e imperioso, non
però arrogante o offensivo, diventa a poco a poco bonario e
quasi arrendevole. "La conversation avec lui", dirà
più tardi il Metternich, "a touiours eu pour moi un charme
difficile à définir". In poche ore, la mattina del 28
aprile, l'armistizio è conchiuso, e la Francia acquista,
insieme con Nizza e Savoia, l'uso del Piemonte per le sue operazioni
militari contro gli Austriaci.
Il 7 maggio, ingannato abilmente il Beaulieu, attraversa il Po sopra
Piacenza, e poi respinge il nemico a Fombio (8 maggio), forza -
"petit caporal" - il passo dell'Adda a Lodi (10 maggio), entra
liberatore in Milano (14 maggio). "Je voyais le monde fuir sous moi
comme si j'étais emporté dans les airs". È
l'ebbrezza della gloria finalmente arrivata! Il Beaulieu, battuto di
nuovo a Borghetto (30 maggio), si rinchiude in Mantova, ed egli
allora, per assediare quella fortezza, viola, senz'alcun riguardo,
la neutralità di Venezia e occupa Verona e Peschiera.
Incapace di obbedire e sprezzante inoltre degli uomini da lui
salvati il 13 vendemmiaio, aveva condotto a suo modo la guerra in
Piemonte e arbitrariamente aveva conchiuso l'armistizio di Cherasco.
Alla vigilia del suo ingresso in Milano, invitato a lasciare il
comando a F.-Chr. Kellermann e a recarsi nell'Italia centrale e
meridionale per una grande "razzia", offrì le sue dimissioni
e, non avendole il direttorio accettate, si ritenne da allora
militarmente e politicamente libero da qualsiasi vincolo che potesse
limitare la sua iniziativa, onde da capo di eserciti si
trasformò, come Annibale e Cesare, in dittatore e sovrano. La
natura lo aveva infatti creato per il trono. Mentre teneva d'occhio
l'Austria, trattava, in vario modo, con Venezia, con Genova e con
Napoli, a cui concedeva una tregua (5 giugno); poi, iniziata appena
l'organizzazione democratica della Lombardia, occupava le Legazioni
pontificie e obbligava Pio VI, dopo i duchi di Parma e di Modena
(9-20 maggio), a sottoscrivere in Bologna, a durissimi patti, un
armistizio (23 giugno). Il 30 giugno era a Firenze, ospite del
granduca. E già da ogni parte lunghi convogli trasportavano a
Parigi le opere d'arte e di antichità, le vettovaglie e il
danaro dell'Italia.
Alla fine di luglio questa vertiginosa potenza parve priva di base.
L'Austria mandava un forte esercito sotto il vecchio maresciallo
D.G. von Wurmser, il quale doveva liberare Mantova mentre i suoi
luogotenenti, per la valle del Chiese, sarebbero piombati su Brescia
e avrebbero tagliato la via di Milano. Le non lontane sollevazioni
di Binasco e di Pavia (21-25 maggio) lasciavano intendere che cosa
sarebbe successo alla prima sconfitta. Il Bonaparte ebbe un attimo
d'incertezza e quasi di smarrimento: poi, abbandonato l'assedio di
Mantova, dove entrò quindi senza difficoltà il Wurmser
(30 luglio), passò con tutte le sue forze sulla destra del
Mincio e il 3 agosto a Lonato, il 5 a Castiglione sconfisse l'un
dopo l'altro i due corpi nemici obbligandoli a cercare salvezza
nelle montagne poc'anzi discese con tanta baldanza. Tornarono
all'offensiva in settembre. Dopo la giornata di Rovereto (5
settembre), il Bonaparte penetra allora nel Trentino, passa
audacemente in valle di Brenta, e in una vera caccia all'uomo,
rapida e impetuosa, batte le truppe del Wurmser a Primolano (7
settembre), le disperde a Bassano (8 settembre), le insegue sino a
S. Giorgio (15 settembre) presso Mantova, loro estremo rifugio:
campagna mirabile fra tutte le napoleoniche, in cui le risorse
inesauribili dell'intelligenza, sempre lucida nel continuo mutarsi
delle circostanze, somigliano alle ispirazioni del poeta. Dopo il
Wurmser è la volta di J. von Alvinczy. Le vittorie d'Arcole
(17 settembre) e di Rivoli (14 gennaio 1797), anche per contrasto
con le sconfitte che intanto i Francesi subiscono in Germania,
riempiono di stupore l'Europa. Il 16 gennaio il Wurmser esce da
Mantova ed è battuto, insieme con G. Provera, alla Favorita:
preludio della resa della fortezza, che avverrà infatti il 2
febbraio. Ma il Bonaparte non attende l'evento, e marcia invece
contro il papa, che, fiducioso nella vittoria dell'Austria, non ha
ancora eseguito i patti dell'armistizio, ne disperde le truppe
raccogliticce a Castelbolognese (2 febbraio), e, col trattato di
Tolentino (19 febbraio), lo obbliga, pure protestando il massimo
rispetto alla religione e ai sacerdoti, a rinunziare definitivamente
ad Avignone, al Contado Venassino, alle Legazioni di Bologna, di
Ferrara e di Romagna, a permettere l'occupazione provvisoria di
Ancona a cedere molte opere d'arte e a versare nuove somme, oltre
quelle già pattuite a Bologna. Poi ritorna, instancabile,
nell'Italia settentrionale e, mentre tiene a bada Venezia e si allea
col re di Sardegna, prepara la nuova campagna, questa volta contro
l'arciduca Carlo. Il 12 marzo attraversa il Piave, poi, quasi senza
difficoltà, il Tagliamento e l'Isonzo: il 21 marzo è a
Gorizia, donde, dopo la vittoria di A. Masséna a Tarvisio (24
marzo), avanza sino a Villaco (25 marzo) e a Klagenfurth (30 marzo).
Questa marcia forzata contro un nemico che sempre si ritira non
è senza pericoli: la terraferma veneta è tutta in
fermento, né l'Austria ha esaurito le sue riserve. Allora -
offensiva pacifica - scrive all'arciduca e, con grande sfoggio di
sentimenti umanitarî, lo invita ad accordarsi con lui per
porre fine alla guerra (31 marzo). Il 7 è a Leoben. Il 18,
dopo lunghe e spesso tumultuose trattative, sono firmati i celebri
preliminari che, per articoli segreti, dànno all'Austria, in
cambio del Belgio e della Lombardia, quasi tutte le terre di
Venezia. Le Pasque veronesi offrono poi il pretesto d'intervenire
contro Venezia. Il 12 maggio 1797 il Maggior Consiglio decreta la
fine della vecchia oligarchia: la nuova repubblica democratica,
ridotta di fatto alle sole lagune, occupate anch'esse dai Francesi,
non è che una pietosa baraonda destinata alla delusione di
Campoformio.
Cherasco, Tolentino, Leoben! Il 31 maggio anche Genova è
costretta a democratizzarsi. Nel luglio la Repubblica Cispadana,
costituitasi nell'ottobre 1796, si unisce con la Lombardia e forma
la Cisalpina, a cui, nell'ottobre, saranno aggregate la Valtellina,
Bormio e Chiavenna, già possesso dei Grigioni. Da Mombello
presso Milano, dove lo ha raggiunto Giuseppina, il Bonaparte, tra
splendide feste, circondato da una folla di diplomatici, di
statisti, di generali, di scrittori e di poeti che lo celebrano
salvatore provvidenziale d'Italia, regna e governa. Poiché
Roma, Napoli e Sardegna sono ai suoi piedi, e le repubbliche ch'egli
ha create e che ha organizzate con la costituzione francese
dell'anno III, non sono indipendenti che di nome. E osserva gli
avvenimenti di Parigi. Non ama i repubblicani, ma la repubblica gli
è necessaria per salire; onde appoggia coi suoi proclami e
poi con l'invio di P.-F-Ch. Augereau il colpo di stato del 18
fruttidoro. Né ciò gl'impedisce di ribellarsi al nuovo
governo, come già all'antico, nelle trattative di pace che
intanto continuano con l'Austria a Mombello e a Passeriano. Il 17
ottobre il trattato di Campoformio consacra e perfeziona quello di
Leoben. La repubblica democratica veneta passa anch'essa in potere
dell'Austria, la quale acquista quindi tutti i dominî di S.
Marco, tranne Bergamo, Brescia e Crema che vanno alla Cisalpina e le
Isole Ionie che rimangono alla Francia. Questa conserva il Belgio,
già annesso dalla Convenzione il 1° ottobre 1795, e,
subordinatamente al consenso, che sarà negoziato a Rastadt,
del Corpo germanico, la sinistra del Reno. Era l'agonia del Sacro
romano impero. Il Direttorio non osò negare la sua ratifica a
un atto che portava finalmente la pace, e la pace coi confini
naturali; ma in realtà quella pace era un salto nel buio. Se
l'Inghilterra non poteva permettere ai Francesi di rimanere ad
Anversa, tanto meno poteva consentire loro l'Europa di dominare a
Genova e a Milano, ad Ancona e a Corfù, sulle vie
dell'Oriente. Il Mediterraneo preparava la monarchia universale:
Campoformio, "paix à la Bonaparte", come scrisse allora il
Talleyrand, aveva in sé il germe dell'avventura di Russia.
Lasciò Milano il 16 novembre 1797 e, dopo una breve comparsa
a Rastadt, dove avrebbe dovuto presiedere la delegazione francese,
fece ritorno a Parigi. Nominato comandante dell'esercito
d'Inghilterra, pensa, anziché a rinnovare il tentativo di L.
Hoche (dicembre 1796-gennaio 1797), a recarsi in Egitto, e ne parla
coi suoi dotti colleghi dell'Istituto, quasi d'una spedizione
scientifica. Tra le carte del comitato non manca il piano dello
smembramento della Turchia e della conquista dell'India, ma egli, in
fondo, mira soprattutto a procurarsi, dopo quello d'Italia, un altro
proconsolato in Oriente. Il resto dipenderà dalle
circostanze. "J'ai goûté du commandement et je ne puis
plus y renoncer": cosi aveva detto in Mombello ad A.-F. Miot. Il 19
maggio 1798 "l'aile gauche de l'armée d'Angleterre" fornita
dei tesori di Roma e di Berna democratizzate (febbraio-marzo 1798),
parte avventurosamente da Tolone portando seco tutti i giovani
ufficiali dell'esercito d'Italia e, con loro, un'intera colonia di
scienziati, di finanzieri, di medici e di artisti. Né vi
manca un poeta. Il 10 giugno il Bonaparte occupa Malta; il 2 luglio
sbarca ad Alessandria, annunziando agli Egiziani che ha abbattuto il
papa e i cavalieri perché nemici del Profeta e del Corano. Il
20 vince i Mamelucchi alle Piramidi, ma, il 1° agosto, la sua
flotta è distrutta dal Nelson ad Abukir, e, subito dopo, la
Turchia dichiara la guerra alla Francia. Immenso è il
pericolo: il 21 ottobre bisogna reprimere esemplarmente una rivolta
al Cairo. Ma le imprese che sorpassano l'immaginazione lo stimolano
e lo seducono. Organizza l'Egitto e cerca di risollevarlo aprendo
scuole, ordinando pubblici lavori, risuscitando antiche feste. Poi,
nel gennaio 1799, penetra con poco più di 13 mila uomini
nella Siria. Battuti i Turchi, si getterà sulle vie di
Alessandro Magno verso la Persia e l'India, o farà ritorno a
Parigi per Costantinopoli e Vienna? Più tardì si
attribuì queste intenzioni. Il 16 aprile, vincitore a
el-Arīsh, a Gaza, a Giaffa, a Tiberiade, a Nazareth, trionfa al
Monte Tabor, ma la resistenza di S. Giovanni d'Acri e la peste che
fa strage tra le sue truppe lo costringono a tornare in Egitto (20
maggio). ll 25 luglio distrugge ad Abukir un nuovo esercito turco
venuto da Rodi; poi, avuta notizia delle vittorie della seconda
coalizione in Italia e della condotta più che leggiera di
Giuseppina, affida il comando a J.-B. Kléber e, sfuggendo
miracolosamente alla crociera inglese, approda improvviso, il 9
ottobre 1799, al capo Fréjus.
Tornava dal suo secondo proconsolato d'autorità propria, come
un sovrano. Nessuno osò rimproverarglielo, onde si può
dire che da allora veramente ebbe principio la sua dittatura in
Francia. Durante la sua assenza era stata democratizzata tutta
l'Italia, ma, subito dopo, la seconda coalizione, alla quale diede
colore e calore la diretta partecipazione della Russia, sospettosa
della politica francese in Oriente, era riuscita, con l'opera dei
suoi eserciti e delle popolazioni insorte, a riconquistare da un
capo all'altro la penisola, tranne Genova e la Riviera, e chi sa
dove sarebbe arrivata se non si fosse presto, come succede, divisa.
Mentre questi disastri seguivano al di fuori, continuava all'interno
la decomposizione dei partiti, onde il direttorio viveva a furia di
colpi di stato, e un altro anzi stava preparandone proprio allora,
dopo quello recente del 19 giugno. Il Bonaparte, giunto appena a
Parigi, decise quindi di secondare, nel proprio interesse, i disegni
dei direttori Sieyès, Barras e P.-R. Ducos e di suo fratello
Luciano, presidente del Consiglio dei cinquecento, e, congiurando
con loro quasi all'aperto, si assicurò l'appoggio di molti
capi militari della metropoli. La giovine Francia delle trincee
stava per prendere il posto della già vecchia Francia delle
assemblee rivoluzionarie.
Il 18 brumaio (9 novembre 1799) il Consiglio degli anziani, col
pretesto di una congiura antirepubblicana, affida il comando
dell'esercito di Parigi all'uomo del 13 vendemmiaio e trasferisce i
Consigli a Saint-Cloud. Il dì seguente il Bonaparte si
presenta ai Cinquecento. Accolto al grido di: "abbasso il tiranno",
riesce appena a rifugiarsi, smarrito e pallido, tra i suoi
granatieri; ma Luciano, con la sua presenza di spirito, salva quel
giorno la situazione. Le truppe, da lui invitate a liberare la
maggioranza da un pugno di traditori al servizio dell'Inghilterra,
penetrano nella sala e vi si accampano mentre i deputati si
disperdono in fretta da tutte le parti. I pochi rappresentanti
rimasti votano, verso sera, un decreto, sanzionato poi dagli
Anziani, che abolisce il direttorio e nomina il Bonaparte, E.-J.
Sieyès e P.-R. Ducos consoli provvisorî, rivestiti di
tutta la potestà esecutiva, con l'incarico di redigere una
nuova costituzione.
Questa fu elaborata dal Sieyès sul principio che il "potere
viene dall'alto e la fiducia dal basso": fu promulgata con profonde
modificazioni, imposte dal Bonaparte all'ordinamento del potere
esecutivo, il 13 febbraio e approvata infine dal plebiscito il 7
febbraio 1800. La fiducia del popolo si esplicava, oltre che nel
plebiscito, nella formazione delle liste di notabilità, dalle
quali sole dovevano trarsi tutti i pubblici funzionarî. Per la
prima volta la scelta delle persone fu opera degli uomini che
avevano fatto il 18 brumaio. A primo console fu designato,
naturalmente, il Bonaparte: a consoli aggiunti J.-J. de
Cambacérès e Ch.-Fr. Lebrun. Il Sieyès e il
Ducos, nominati senatori, si scelsero, d'accordo coi consoli
aggiunti, 29 colleghi e tutti insieme ne nominarono altri 29.
Così si ebbe il senato, di cui primo presidente fu il
Sieyès. Questa costituzione, detta dell'anno VIII, delegava
al capo dello stato, sotto forme repubblicane, l'autorità
dittatoriale.
Il Còrso aveva conquistato la rivoluzione. Egli l'avrebbe
codificata ora e disciplinata da soldato. Ma prima bisognava
occuparsi dell'Europa. Il 19 brumaio, tornando da Saint-Cloud, s'era
sentito salutare per le vie di Parigi col grido di: "Viva la pace!".
Il paese attendeva dunque da lui una nuova Campoformio. Le
operazioni militari, precedute, com'è l'uso, da un'offensiva
pacifica, incominciarono, nella primavera del 1800, nella Riviera
Ligure. Nel maggio il Bonaparte stesso, mentre il Masséna
resisteva in Genova, attraversò il Gran S. Bernardo e,
superato l'ostacolo del forte di Bard, si spinse rapidamente, per
Milano, sulle retrovie del nemico, tra Stradella e Alessandria. Il
14 giugno M. von Melas è sconfitto a Marengo (v.) e, il 16,
capitola ad Alessandria abbandonando tutte le conquiste austro-russe
del 1799. Marengo consacrava il 18 brumaio. La campagna non era
stata senza pericolosi "attriti", come dicono i militari, ma il
Bonaparte era riuscito a fare tutto concorrere alla sua vittoria. E
questa volle poi sfruttare sino all'estremo presso i Francesi, onde
alle cose vere molte altre si compiacque aggiungerne, esagerate o
inventate, nelle sue narrazioni, per colpire maggiormente le
fantasie. Più tardi, al Metternich, che si meravigliava
dell'abituale falsità dei suoi bollettini, ebbe a dire: "Ce
n'est pas pour vous que je les écris. Les Parisiens croient
tout...". L'Austria tornò alle offese nell'autunno. Dopo la
battaglia di Hohenlinden (3 dicembre), vinta da J.-V. Moreau, la
pace di Lunéville (9 febbraio 1801), rinnovando e sviluppando
i patti di Campoformio, lasciò la Francia arbitra della
penisola sino alla linea dell'Adige. Il Bonaparte trasformò
quindi la Cisalpina in Repubblica italiana e se ne fece presidente
(Consulta di Lione, gennaio 1802); diede al Borbone di Parma, per
compiacere la Spagna alleata, il granducato di Toscana col titolo di
re di Etruria (Trattato di Aranjuez, 25 marzo 1801); riunì
alla Francia il Piemonte sino alla Sesia (11 settembre 1802), l'Elba
e Piombino (marzo 1801), Parma e Piacenza (formalmente solo nel
1807); lasciò, a duri patti (Pace di Firenze, 28 marzo 1801),
Ferdinando IV a Napoli; non diede molestia a Pio VII.
Intanto si pacificavano la Russia (8 ottobre 1801) e la Turchia (25
gennaio 1802), la quale riebbe l'Egitto; e finalmente, il 25 marzo
1802, firmò la pace ad Amiens anche l'Inghilterra,
obbligandosi a restituire ai Cavalieri l'isola di Malta, da lui
occupata nel settembre 1800. Così, nella primavera del 1802,
poteva sembrare finita, dopo dieci anni, la guerra, ma in
realtà si trattava di una breve tregua, necessaria a tutti
per prendere respiro.
Alla pace esterna si accompagnò, ben altrimenti duratura,
quella interna, a cui il Bonaparte aveva incominciato a lavorare
subito dopo brumaio. Ristabilito l'ordine dappertutto con la
repressione dei moti realisti della Bretagna e della Vandea e con la
liberazione delle campagne dai briganti che avevano preso a
infestarle durante i passati rivolgimenti, soppresse la festa odiosa
del 21 gennaio; riammise in patria parecchi terroristi deportati
dopo il 1794, e inoltre la maggior parte degli emigrati, ai quali
restituì le terre invendute; schiuse a tutti, poiché
"avec ces hochets tant dédaignés on fait des
héros" un nuovo libro d'oro con la fondazione dell'ordine
della Legion d'onore; intraprese grandi lavori pubblici (strade del
Moncenisio, del Monginevro, del Sempione, ecc.); diede potente
impulso alle industrie, pure mettendo al primo posto l'agricoltura;
stabilizzò la moneta; istituì la Banca di Francia (18
gennaio 1800), con cui ebbe in mano tutto il mondo finanziario e
poté meglio vigilare sul credito della nazione. Non possedeva
grande cultura e, in questi tempi, ignorava quasi la storia della
Francia, ma molto aveva osservato e meditato in Corsica, in Italia e
in Egitto. E amava il lavoro come la lotta. La sua parola, senza
cercare mai l'eleganza, era sempre precisa e originale. Dotato
d'incredibile forza d'assimilazione, domandava continuamente,
provocava discussioni e le protraeva finché il suo giudizio
non fosse formato. Allora decideva e comandava. Egli è
diventato legislatore e amministratore, come grande capitano, dice
ancora il Metternich, "par suite de son seul instinct". Tutte le
conquiste essenziali della rivoluzione furono riconosciute e
consolidate. La proprietà, com'esisteva allora, fu garantita,
l'accesso ai più alti uffici aperto a tutti, ogni privilegio
di nascita rimase abolito. L'unità della Francia era compiuta
nell'uguaglianza della rivoluzione. Introdusse nel Consiglio di
stato le maggiori competenze e volle da tutti onestà,
operosità e sottomissione assoluta. A ogni dipartimento
prepose un prefetto incaricato del potere esecutivo, a ogni
circondario un sottoprefetto e a ogni comune un sindaco, tutti
nominati da lui e scelti nelle rispettive liste di notabilità
tra le persone più capaci (febbraio 1800), onde
l'amministrazione napoleonica fu ed è universalmente
ammirata. Modificò inoltre l'ordinamento giudiziario (maggio
1800) istituendo un tribunale di prima istanza in ciascun
circondario, una Corte d'assise in ogni dipartimento, 29 Corti di
appello e una suprema di cassazione, con magistrati tutti di nomina
governativa. Il medesimo sistema accentratore introdusse nelle
finanze abolendo gli appaltatori e fondando esattorie governative.
Nessuna manifestazione della vita nazionale doveva sfuggire al suo
controllo e alla sua guida. Così anche la scuola ebbe le sue
cure, non però quella elementare, ma la media, cioè la
scuola della borghesia, e, affinché sorgesse una generazione
colta e, insieme, educata secondo lo spirito del regime,
sorvegliò i maestri e soppresse la libertà della
stampa.
L'opera sua più imponente è il codice civile 21 marzo
1804), al quale lavorò di persona assistendo alle sedute
della commissione che lo redigeva, protratta non di rado anche la
notte. I materiali erano già stati raccolti dalla
Convenzione, ma il Bonaparte li animò del suo spirito di
soldato appassionato d'ordine, di autorità e di unità,
li ricongiunse cioè alla storia secolare della Francia
monarchica. Il codice civile, e poi quello di procedura civile
(1° gennaio 1807), quello di commercio (10 gennaio 1808) e
quelli penale e di procedura penale (1° gennaio 1811) furono
introdotti anche in Italia e, usciti com'erano dal comune pensiero
del secolo XVIII, vi esercitarono un'azione che sopravvisse
all'impero napoleonico. Naturalmente, non fu trascurato il problema
religioso. Il Bonaparte credeva in Dio e non era insensibile alle
tradizioni di famiglia e alle memorie dell'infanzia, ma non per
questo, bensì per motivì d'ordine politico e sociale,
ristabilì ufficialmente in Francia il cattolicismo come
religione della maggioranza dei cittadini. Il Concordato (16 luglio
1801), che rimase poi in vigore sino al 1905, rispondeva alla
generale rinascita religiosa del paese ed era inoltre molto
favorevole allo stato, ma il Bonaparte, non ancora soddisfatto, vi
aggiunse gli articoli organici, ispirati alle idee gallicane e
giurisdizionaliste, i quali stabilivano che nessun atto della curia
si potesse eseguire in Francia e nessun funzionario pontificio
potesse esercitarvi le sue funzioni senza il permesso del governo;
che i vescovi non si potessero allontanare dalle loro diocesi; che
nei seminarî s'insegnassero le proposizioni gallicane del
1682; che il matrimonio religioso dovesse seguire, non precedere,
quello civile. Gli articoli non furono riconosciuti da Pio VII, ma
il Bonaparte non se ne diede per inteso. Egli favoriva il sentimento
religioso e i ministri del culto, ma voleva che la Chiesa cattolica,
come quella protestante, come la Sinagoga, fosse, in sostanza, al
suo servizio.
Pacificatore all'esterno e all'interno, nessuna dittatura era mai
apparsa così legittima come la sua; ma tuttavia i partiti
estremi lo detestavano. Quello repubblicano fu da lui schiantato
dopo la congiura dei còrsi Giuseppe Arena e Giuseppe
Ceracchi, e lo scoppio della macchina infernale in via Richelieu (24
dicembre 1800). Più indulgente si mostrò coi realisti,
che avrebbe voluto guadagnare tutti al nuovo regime. Nel maggio 1802
si fece conferire il consolato a vita con facoltà di
scegliersi un successore, e allora fu modificata la costituzione in
senso monarchico: alle liste di notabilità si sostituirono
collegi elettorali nominati a vita dai cittadini, si eliminarono dal
corpo legislativo e dal tribunato, ridotto a 50 membri, gli
avversarî e i tiepidi, si accrebbe l'autorità del
senato, si costituì un Consiglio privato simile a un
Consiglio della corona. I realisti, che avevano sperato nella
restaurazione di Luigi XVIII, s'inasprirono ancora più. Dopo
la congiura degli Chouans, che condusse al suicidio di Ch. Pichegru,
all'esilio del Moreau, all'uccisione di G. Cadoudal e all'assassinio
del duca di Enghien (20 marzo 1804), avvenne il nuovo definitivo
mutamento. Il senato, associandosi al voto del tribunato,
deliberò di affidare il governo della repubblica a N.
Bonaparte col titolo d'imperatore dei Francesi (18 maggio 1804), e
il senatoconsulto che modificava la costituzione fu approvato da un
solenne unanime plebiscito. L'imperatore della repubblica, per una
generazione nutrita di storia romana, era tutt'altra cosa che un re
di Francia. La corona fu dichiarata trasmissibile, secondo la legge
salica, nei discendenti di N. e nei suoi figli adottivi o, in
mancanza di questi, negli eredi dei due suoi fratelli Giuseppe e
Luigi, che, al pari degli altri due e delle sorelle, ebbero titolo
principesco e cospicue dotazioni. Per accrescere lustro al novello
trono furono poi istituiti, con nomi tolti ai tempi di Carlomagno e
degl'imperatori medievali tedeschi, sei grandi dignitarî e
varî supremi ufficiali civili e militari, e, più tardi,
non solo fu restaurata l'antica nobiltà, ma se ne
fondò una nuova di cui i titolari, principi e duchi,
portavano il nome di una vittoria o di una conquista napoleonica
(Lodi, Castiglione, Rivoli, Wagram, Benevento, ecc.). Al senato fu
attribuita l'autorità costituente; il tribunato e il corpo
legislativo perdettero ogni importanza e il primo anzi fu soppresso
nel 1807; il Consiglio di stato divenne l'organo diretto
dell'imperatore per la redazione dei disegni di legge da lui voluti.
Ormai non più corpi intermedî tra il popolo e il capo
dello stato, non assemblee sovrane, non antichi parlamenti, ma
un'amministrazione e degli amministrati. Il paese ne fu allora
soddisfatto: il ricordo doloroso della recente tirannide anarchica,
la gioia dell'assicurata uguaglianza e l'orgoglio delle conseguite
vittorie facevano sì che esso, dopo avere tanto legiferato,
fosse riconoscente a chi lo dispensava dall'occuparsi ancora di
pubblici affari.
Il 2 dicembre 1804, alla presenza di Pio VII, in Notre-Dame, N.
assunse da sé la corona: il giorno innanzi aveva acconsentito
che il rito della Chiesa riconoscesse segretamente il suo matrimonio
civile con Giuseppina. Il 26 maggio 1805 fu consacrato, nel duomo di
Milano, re d'Italia; e poi riunì Genova all'impero (4 giugno
1805) e trasformò la repubblica di Lucca in principato per
sua sorella Elisa, moglie di Felice Baciocchi.
Sino dal febbraio 1803, con l'Atto di mediazione, s'era asservita la
Svizzera, dalla quale aveva quindi ottenuto il Vallese.
Contemporaneamente, dovendosi risarcire i principi tedeschi per i
territorî perduti sulla sinistra renana, di cui l'annessione
alla Francia era stata riconosciuta a Lunéville, aveva preso
egli stesso l'iniziativa di confiscare le terre ecclesiastiche della
Germania e di darle, insieme con molte città libere, ai
principi stessi per farseli complici e quindi alleati. Tutti tesero
le mani per la grande rapina, che fu tosto sanzionata dalla dieta di
Ratisbona (25 febbraio 1803). Allora l'Inghilterra, che non aveva
mai restituito Malta ai Cavalieri vedendo anche di malocchio la
nuova fervida attività che la Francia spiegava nelle colonie
e nei mercati internazionali, ruppe la pace di Amiens (maggio 1803).
Il Bonaparte, per rappresaglia, occupò quindi il Hannover,
possesso personale del re Giorgio III, e raccolse numerose truppe a
Boulogne per invadere, se la possibilità si presentasse, le
Isole Britanniche; ma, nel pericolo, la diplomazia inglese
riuscì a formare, con Austria, Russia, Svezia e Napoli, la
terza coalizione. N. porta rapidamente il suo esercito dalle coste
della Manica al Danubio, e a Ulma in Baviera, che gli è
alleata, costringe K. Mack a capitolare con 45 mila uomini e 200
cannoni (19 ottobre 1805). Il 13 novembre entra in Vienna. Il 2
dicembre, anniversario della cerimonia di Notre-Dame, vince gli
Austro-russi ad Austerlitz. Era la consacrazione dell'impero.
L'Austria, mentre i Russi si ritirano, segna quindi per suo conto la
pace a Presburgo (26 dicembre 1805) con la quale cede le antiche
provincie venete alla Francia, il Vorarlberg, il Tirolo, il
Trentino, Passau, Lindau e Augusta all'elettore di Baviera, che
riceve il titolo regio, la Svevia al duca di Württenberg pure
fatto re, il Brisgau, l'Ortenau e Costanza al marchese di Baden che
diviene granduca. Intanto, il 15 febbraio 1806, il Masséna
entrava in Napoli, mentre i Borboni si rifugiavano per la seconda
volta in Sicilia. Allora N. riordina da capo l'Italia: assegna
Napoli al fratello Giuseppe, aggiunge al regno italico le nuove
provincie ottenute dall'Austria, ma gli toglie il ducato di
Guastalla per sua sorella Paolina, moglie del principe Camillo
Borghese, e il principato di Massa e Carrara per Elisa Baciocchi,
già principessa di Lucca e Piombino. Poi, volgendosi altrove,
trasforma la repubblica batava in regno d'Olanda per suo fratello
Luigi (giugno 1806) e crea - antico disegno del Mazzarino - la
Confederazione del Reno, di cui si proclama protettore (luglio
1806). Così finiva il sacro romano impero, e Francesco II,
rinunziando di mala voglia a una dignità che per tanti secoli
aveva dato forza e prestigio alla sua famiglia, conservava solo il
titolo d'imperatore d'Austria, assunto già nel 1804.
Questi mutamenti determinarono la quarta coalizione. La Prussia,
neutrale dal 1795, era stata largamente compensata, nel 1803, della
perdita delle sue terre sulla sinistra del Reno e aveva anche avuto
promessa d'ulteriori guadagni nel Hannover; ma ora constatava, e non
senza umiliazione, che le sconfitte dell'Austria avevano servito,
nella Germania stessa, al sempre maggiore incremento della potenza
francese. Il 1° ottobre 1806 Federico Guglielmo III, trascinato
dal partite della guerra, intimò a N., senza neppure
attendere i Russi, di ritirare le sue truppe sulla sinistra del Reno
e di non opporsi a una lega della Germania settentrionale sotto la
presidenza della Prussia. Il 14 ottobre l'esercito del grande
Federico era disfatto a Jena e ad Auerstädt. Il 27 N. entrava
in Berlino; poi, spintosi nella Polonia prussiana, occupava, il 20
dicembre, Varsavia, accolto dappertutto come liberatore. Risorgeva
il regno di Giovanni Sobieski? N. lo lasciò sperare, e
rievocando, come aveva fatto con gl'Italiani dieci anni prima, le
grandi memorie nazionali, accese l'entusiasmo dei patrioti, di cui
parecchi accorsero sotto le sue bandiere. Sicuro così alle
spalle, passò la Vistola e s'inoltrò nelle immense
pianure della Polonia russa. L'8 febbraio 1807, a Eylau, in una
spaventosa battaglia combattuta sotto una tempesta di neve,
arrestò la marcia del gen. A. di Bennigsen che dovette quindi
ritirarsi, con 30 mila uomini, verso Königsberg. Seguirono
alcuni mesi d'inazione. Il 14 giugno, anniversario di Marengo,i
Russi furono sconfitti in decisiva battaglia a Friedland. L'8 luglio
fu firmata la pace di Tilsit. Lo zar otteneva di potersi ingrandire
nella Finlandia ai danni della Svezia e nei principati danubiani
contro la Turchia, ma abbandonava alla Francia le Isole Ionie e
Cattaro, paesi occupati dalla Russia rispettivamente nel 1799 e nel
1806, riconosceva tutti i mutamenti avvenuti o che fossero per
avvenire nell'Europa occidentale, e consentiva a chiudere i suoi
porti alle navi dell'Inghilterra, qualora questa si ostinasse a
continuare le ostilità. Così N. aveva il continente ai
suoi piedi. Federico Guglielmo III dovette pagare una grossa somma e
contentarsi di riavere la Prussia, la Slesia, il Brandeburgo e la
Pomerania. La Polonia prussiana, tranne Danzica proclamata
città libera, formò il granducato di Varsavia, che fu
dato al duca di Sassonia divenuto re; e in tal modo, per ottenere
l'alleanza russa, N. deluse quasi completamente, malgrado le
preghiere di Maria Walewska, le speranze dei patrioti polacchi.
Finalmente i territorî sulla sinistra dell'Elba, compresa
Magdeburgo, formarono, insieme con l'Assia-Cassel, con il Brunswick
e con una parte del Hannover, il regno di Vestfalia di cui ebbe la
corona Girolamo Bonaparte.
Sino dal 1800 N. aveva cercato di guadagnarsi l'alleanza russa
contro l'Inghilterra. Ora vi era riuscito. Il 21 novembre 1806, da
Berlino, aveva lanciato il famoso decreto di blocco continentale.
Fallita l'impresa d'Egitto e perduta per sempre, dopo la distruzione
della sua flotta e di quella spagnola a Trafalgar (21 ottobre 1805),
la speranza di sbarcare un esercito nelle Isole Britanniche, la
chiusura del continente, mezzo estremo di lotta già pensato
anch'esso dalla Convenzione, avrebbe dovuto costringere
l'Inghilterra a dichiararsi vinta e a deporre le armi. Gravi furono
le conseguenze economiche del blocco, ma non meno gravi quelle
politiche. Nell'agosto 1807 una flotta inglese comparve a Copenaghen
e, adducendo a pretesto che la Danimarca era amica della Francia,
s'impadronì di tutta l'armata e spogliò l'arsenale.
Dal canto suo N., nell'ottobre del medesimo anno, invase il
Portogallo, di cui una parte destinò a Maria Luisa d'Etruria,
che dovette intanto abbandonare Firenze e non ebbe poi mai il nuovo
stato. La Toscana, annessa all'impero, fu eretta, nel 1809, in
granducato per Elisa Baciocchi. Dopo, fu la volta della Spagna. Dal
1795 Carlo IV s'era mantenuto fedele alla Francia. La flotta
spagnola aveva combattuto a Trafalgar a fianco di quella francese e
il suo ammiraglio Carlo Gravina era stato ucciso. Ma, alla vigilia
della battaglia di Jena, dopo l'occupazione francese di Napoli, la
Spagna era stata sul punto di unirsi alla Prussia. N. parve
perdonare questa infedeltà e anzi patteggiò ancora con
Emanuele Godoy, ministro e favorito della regina, ai danni del
Portogallo. Ma egli sapeva adesso che la Spagna cercava di
sfuggirgli. Così occupò anche questo paese nei modi
sleali ch'ebbero il loro epilogo a Baiona (10 maggio 1808). La
corona fu data a Giuseppe, e a Napoli andò allora Gioacchino
Murat, già granduca di Berg, marito di Carolina Bonaparte.
Ma, caduta la dinastia, la nazione si sollevò con
irrefrenabile slancio. N. stesso, assicuratasi contro l'Austria la
fedeltà dello zar nel convegno di Erfurt (settembre-ottobre
1808), discese nella Penisola Iberica e ricondusse il fratello a
Madrid (dicembre 1808). Tuttavia la guerriglia spagnola e
portoghese, aiutata direttamente dagl'Inglesi, continuò e fu
una ferita sempre aperta nei fianchi del grande impero. A ciò
contribuì la lotta che intanto N. stesso aveva impegnata con
Pio VII. Le cause di dissidio erano andate rapidamente aumentando
dopo il 1804, poiché l'imperatore pretendeva non solo di
disporre dello stato pontificio nella sua guerra contro gl'Inglesi
o, come li chiamava, gli "eretici", ma anche di esercitare una
specie di supremazia sulla Chiesa, in tutti i paesi dove
direttamente o indirettamente si estendeva la sua sovranità.
L'occupazione di Napoli e poi della Toscana fu di grande pregiudizio
all'indipendenza anche spirituale della Santa Sede. Già nel
febbraio 1806, proclamandosi successore di Carlomagno e difensore
della Chiesa, N. aveva scritto a Pio VII: "Votre Sainteté est
souveraine de Rome, mais j'en suis l'Empereur. Tous mes ennemis
doivent être les siens". Nel novembre 1805 aveva occupato
Ancona; nel giugno 1806 s'impadronì di Benevento e
Pontecorvo, di cui fece due principati, feudi per il Talleyrand e il
Bernadotte; nel novembre 1807 prese tutte le Marche, che poi
unì al regno d'Italia (aprile 1808); finalmente, nel febbraio
1808, il gen. S.-A.-F. Miollis occupò Roma, mentre Pio VII si
rinchiudeva, protestando, nel Quirinale. Da allora non vi fu
più stato della Chiesa, ma il decreto che lo aboliva
formalmente, dichiarandolo non più rispondente agli scopi pei
quali "Charlemagne empereur des Français et notre auguste
prédécesseur" lo aveva costituito, fu firmato soltanto
il 17 maggio 1809. Roma e il suo territorio divennero così,
dentro l'impero, i dipartimenti del Tevere e del Trasimeno, e al
pontefice fu assegnata una rendita annua di due milioni di franchi
oltre al possesso dei suoi palazzi, all'esenzione da qualsiasi
imposta e al godimento di particolari immunità: qualche cosa
come la legge delle guarentigie del 1871. Pio VII lanciò la
scomunica, che non poté però avere pubblicità.
Nella notte dal 5 al 6 luglio 1809 venne arrestato e condotto a
Savona, dove, sebbene non gli fossero negati personali riguardi, fu
messo nell'impossibilità di esercitare, privo com'era di
consiglieri sicuri, il suo ministero religioso.
Il decreto che sopprimeva il potere territoriale dei papi era datato
dal castello di Schönbrunn presso Vienna. Nella primavera del
1809 l'Austria aveva ripreso le armi invitando i popoli a spezzare,
sull'esempio della Spagna, le loro catene e a rendersi liberi e
indipendenti. N. dal 19 al 23 aprile vinse in Baviera l'arciduca
Carlo in cinque battaglie (Thann, Abensberg, Landshut, Eckmühl,
Ratisbona). Il 13 maggio entrò in Vienna. Il 21 e il 22
combatté con esito incerto ad Aspern e a Essling, ma il 6
luglio sconfisse a Wagram lo stesso arciduca Carlo, onde l'Austria
dovette conchiudere a Znaim (Znojmo) un armistizio (12 luglio), che
condusse, il 14 ottobre 1809, alla pace di Schönbrunn.
La quinta coalizione era stata vinta come le altre, ma non senza
insolita fatica: un nuovo spirito era parso animare gli eserciti
avversarî e qua e là s'era avuto qualche tentativo di
rivolta, celebre fra tutti quello tirolese di Andrea Hofer, fucilato
poi a Mantova (20 febbraio 1810) insieme con 23 compagni. Le forze
della rivoluzione già accennavano a spostarsi dappertutto dal
campo francese in quello degli alleati dell'Inghilterra. Intanto
però l'Austria vinta dovette cedere alla Baviera il paese di
Salisburgo; alla Russia un pezzo di Galizia, di cui un'altra parte
passò, insieme con Cracovia, al granducato di Varsavia. La
Francia ebbe Gorizia, Trieste, parte della Carinzia, della Carniola
e della Croazia, terre che, insieme con Istria, Dalmazia, Cattaro e
Ragusa (quest'antichissima repubblica era stata abbattuta dai
Francesi nel 1806), furono aggregate all'impero col nome di
Provincie Illiriche. Il regno d'Italia, privato dei territorî
nazionali dell'Istria e della Dalmazia, ebbe dalla Baviera il
Trentino sino alla Chiusa di Bressanone. Così l'Austria
perdette quasi quattro milioni di abitanti, e fu ridotta entro
confini più ristretti di quelli della Francia di Luigi XVI,
senza più alcuno sbocco sul mare.
La pace di Schönbrunn segna l'apogeo della potenza napoleonica.
Quasi tutta l'Europa era soggetta alla Francia. Luigi Bonaparte, re
d'Olanda, rimproverato per l'inefficace osservanza del bloccn,
abdicò (3 luglio 1810) e il suo regno fu annesso all'impero.
La medesima sorte, alcuni mesi più tardi, ebbero le
città anseatiche di Amburgo, Brema e Lubecca, onde la Francia
rimase direttamente padrona delle foci della Schelda, della Mosa,
del Reno, dell'Ems, del Weser e dell'Elba. Nella Svezia il partito
francese aveva già costretto Gustavo IV, amico
dell'Inghilterra, ad abdicare, e la dieta aveva quindi proclamato re
suo zio Carlo XIII (5 giugno 1809), il quale, non avendo eredi,
adottò come suo successore il maresciallo Bernadotte:
così anche la Svezia, come già la Danimarca,
aderì al blocco continentale. Dopo questi rivolgimenti
l'impero comprendeva 130 dipartimenti con 44 milioni di abitanti,
senza tener conto delle Provincie Illiriche e delle Isole Ionie che
avevano governo speciale. Inoltre re d'Italia era N., mentre cinque
principi della sua famiglia regnavano nella Spagna, in Olanda, a
Napoli, a Lucca e nella Vestfalia. Quest'ultima era come una
sentinella francese nella confederazione renana; l'altra era il
granducato di Berg dove, nel marzo 1809, a Gioacchino Murat successe
il primogenito (aveva allora cinque anni) di Luigi ancora re di
Olanda; la terza il granducato di Francoforte, destinato a Eugenio
de Beauharnais (1° marzo 1810), viceré d' Italia, e
amministrato intanto dal cardinale G. Fesch, zio di N., come
coadiutore dell'ex-elettore Carlo Teodoro Dalberg. La Confederazione
era un enorme cuneo tra l'Austria e la Prussia, respinte l'una al di
là dell'Inn, l'altra al di là dell'Elba, e riceveva
anch'essa, non meno della repubblica elvetica e del granducato di
Varsavia, la legge di N. "Il ira loin si les circonstances le
favorisent"! La Chiesa stessa s'era in gran parte piegata, sì
ch'egli disponeva delle diocesi, nominava i vescovi, convocava i
concilî, esercitava tutta l'autorità di pontefice
massimo. Mai s'era vista, nei tempi moderni, così sterminata
potenza. E, poiché a coronarla sembrava necessario un erede,
fatto annullare dal clero di Parigi il suo matrimonio del 1804, col
pretesto che non era stato pubblicato, divorziò dalla
compagna prima delle sue fortune Giuseppina Beauharnais, per sposare
l'arciduchessa Maria Luisa, giovine figlia dell'imperatore
Francesco. Il 1° aprile 1810 le nozze austriache furono
celebrate a Saint-Cloud, e il 20 marzo 1811 nacque il re di Roma.
N. non fu mai a Roma, ma quel titolo dato al suo erede era un
programma. Ora bisognava conquistare l'Oriente. Una volta, primo
console, aveva usato consigliarsi con gli uomini di lunga esperienza
e di sicura dottrina: adesso, avvolto nella porpora imperiale, non
interrogava più nessuno, e regnava e amministrava i suoi
immensi dominî sino nei più piccoli particolari. "Quand
un ministre" così al viceré Eugenio il 31 luglio 1805,
"vous dira: cela est pressé, le royaume est perdu, Milan va
brûler et que sais-je moi? il faut lui répondre: Je
n'ai pas le droit de le faire, j'attendrai les ordres du Roi...".
Voleva intorno a sé gente nuova, giovani a preferenza, che,
tutto dovendo a lui, eseguissero i suoi ordini senza discuterli; e,
mentre nei rapporti familiari era buono e talora anche debole, nelle
cose politiche non tollerava il più piccolo segno di
disapprovazione. Una sera di novembre, a Fontainebleau,
domandò al card. Fesch, il quale deplorava l'arresto di Pio
VII, se scorgesse qualche cosa nell'oscurità del cielo e,
avendo quegli risposto di no, soggiunse con voce concitata: "Eh
bien, sachez donc vous taire: moi je vois mon étoile: c'est
elle qui me guide. Ne comparez plus vos facultés
débiles et incomplètes à mon organisation
supérieure". Egli infatti credeva ugualmente e fermamente
alla sua fortuna e al suo genio.
L'alleanza di Tilsit s'era fatta intanto sempre meno sicura dopo la
pace di Schönbrunn. Lo zar si doleva che il granducato di
Varsavia, accresciuto con una parte della Galizia, alimentasse le
speranze di risurrezione del regno polacco. Inoltre era preoccupato
per la scelta del Bernadotte come successore di Carlo XIII.
L'adesione della Svezia alla politica francese non avrebbe dato a
N., alleato della Danimarca e signore delle città anseatiche,
quell'egemonia sul Baltico che da Pietro I in poi era appartenuta
invece alla Russia? Soprattutto però lo offendevano i mal
dissimulati disegni napoleonici sull'Oriente balcanico ch'egli
voleva riservato soltanto alle sue ambizioni.
La crisi si aggravò quando da una parte la Russia
riaprì le sue frontiere alle merci britanniche e, per porre
un freno all'emigrazione dell'oro, decretò un'altissima
tariffa doganale sui vini e sui generi di lusso ch'erano importati
dalla Francia, dall'altra N. tolse il granducato di Oldenburgo a un
congiunto dello zar (febbraio 1811) e occupò inoltre la
Pomerania svedese col pretesto che Carlo XIII non osservava il
blocco (gennaio 1812). Allora il Bernadotte, che guidava ormai lui
solo la politica della Svezia, si avvicinò alla Russia e
così, sotto gli auspici dell'Inghilterra, fu formata la sesta
coalizione. La guerra incominciò nel giugno. N. aveva
raccolto nella Germania 670 mila uomini, di cui la metà era
costituita di sudditi dell'impero, l'altra di alleati, e inoltre di
un corpo ausiliario prussiano all'estrema ala sinistra e di uno
austriaco alla destra. Il 24 passò il Niemen a Kovno, il 28
giunse a Vilna e un mese più tardi entrò in Vitebsk. I
Russi si ritiravano. Alcuni generali erano di parere che convenisse
arrestarsi sugli antichi confini della Polonia, ricostituire per
intero l'antico regno facendo insorgere la Volinia e la Podolia, e
aspettare l'offensiva dei Russi, anziché inseguirli nelle
loro steppe. Ma N. voleva una grande vittoria che, come Austerlitz e
Jena, annientasse le forze nemiche e riempisse di stupore l'Europa.
Come Carlo XIl subiva il fascino misterioso della Russia immensa. Il
17 agosto arrivò a Smolensk; il 7 settembre, a Borodino,
vinse in sanguinosissima battaglia M. I. Kutuzov; il 14 entrò
in Mosca. In altri tempi, a questo punto, lo zar sarebbe venuto a
patti. Ora no: perché ora dietro i sovrani stava la
giovinezza ardente delle nazioni. Ed ecco l'incendio di Mosca, la
ritirata prima verso Malojaroslavec, poi verso Smolensk, e il freddo
e la neve e i cosacchi, le forze alleate del cielo e della terra
sulla via fatale della Berezina. Il 5 dicembre i superstiti arrivano
a Smorgoń: 39 gradi sotto zero. Il 10 è la catastrofe di
Vilna, e poscia la fuga verso Kovno (Kaunas), dove appena 20 mila
uomini riescono a ripassare il Niemen.
Napoleone aveva redatto a Smorgoń il suo 29° e ultimo bollettino
e poi, lasciato il comando al re di Napoli, era corso
precipitosamente a Parigi. Intanto lo zar occupava la Polonia e vi
ridestava a sua volta le speranze d'indipendenza. Erano nel suo
campo parecchi patrioti polacchi e tedeschi (A. G. Czartoryski, K.
v. Stein, K. v. Clausewitz, E. M. Arndt, ecc.) i quali lo esortavano
a spingersi innanzi e a farsi liberatore di tutti i popoli oppressi
dalla tirannide napoleonica. ll 30 dicembre il gen. York, che
comandava il corpo ausiliario prussiano, stipulò per suo
conto a Tauroggen (Taurage) la neutralità: il 30 gennaio
1813, a Zaycs, fece la medesima cosa K. F. von Schwarzenberg, che
comandava quello austriaco. Il 28 febbraio fu firmata a Kalisz
l'alleanza russo-prussiana, e il 25 marzo apparve il manifesto con
cui Federico Guglielmo III annunziava la guerra dell'indipendenza e
della libertà germanica. Allora i Francesi si ritirarono
verso l'Elba. Nell'aprile giunse N. con le nuove leve, ma le
vittorie di Lützen (2 maggio) e di Bautzen (20-21 maggio) non
diedero frutti apprezzabili. E intanto il Metternich, con arte
sottilissima, trasformava l'alleanza austriaca in neutralità
armata. Il 4 giugno si conchiuse a Plesswitz un generale armistizio
per trattare la pace con la mediazione dell'Austria. Ma nessuno
faceva sul serio: non gli alleati, i quali, sentendo approssimarsi
l'ora della decisiva vittoria, volevano distruggere definitivamente
l'imperialismo francese e ristabilire su salde basi l'equilibrio
europeo; non N. il quale, come disse al Metternich nel convegno
famoso di Dresda (26 giugno), non poteva rimanere, se non vincitore,
sul trono. "Vos souverains... peuvent se la aisser battre vingt fois
et rentrer toujours dans leur capitale: moi je ne le puis pas, parce
que je suis un soldat parvenu. Ma domination ne survivra pas au jour
où j'aurai cessé d'être fort...". Era risoluto a
difendere la sua corona coi denti. "Vous n'êtes pas soldat...
Vous ne savez pas ce qui se passe dans l'âme d'un soldat. J'ai
grandi sur les champs de bataille et un homme comme moi se soucie
peu de la vie d'un million d'hommes". Altra volta s'era così
giustificato dell'uccisione del duca d'Enghien: "C'était un
sacrifice nécessaire à ma sécurité et
à ma grandeur". In tale modo il congresso di Praga
servì soltanto a offrire all'Austria un pretesto plausibile -
cosa di cui non s'era preoccupata a suo tempo la Prussia - di
entrare, come avvenne il 10 agosto, nella coalizione. Sino dal 12
luglio, a Trachenberg, s'erano presi gli accordi per le future
operazioni militari. N. vinse ancora, il 27 agosto, a Dresda (dove
fu mortalmente ferito il Moreau, il quale combatteva nell'esercito
russo), ma, di lì a poco (8 ottobre), anche la Baviera, col
trattato di Ried, passò dalla parte degli alleati, e, subito
dopo (16-19 ottobre), la grande sanguinosa battaglia di Lipsia
restituì alla Germania la sua indipendenza. Il 5 dicembre i
Francesi avevano ripassato il Reno.
La Spagna era perduta sino dal giugno; la Svizzera e l'Olanda si
ribellarono nel novembre e quest'ultima richiamò subito
l'esule statolder; in Italia, intanto, il viceré Eugenio, che
aveva abbandonate le Provincie Illiriche fin dall'ottobre, dovette
ritirarsi dalla linea dell'Isonzo su quella dell'Adige (novembre),
prima che la defezione di Gioacchino Murat lo obbligasse a ripiegare
sul Mincio.
Tra il novembre e il dicembre si trattò di pace a
Francoforte. Gli alleati offrivano, più o meno
esplicitamente, i confini delle Alpi e del Reno, ma N. non sapeva
decidersi e sembrava attendere qualche cosa che da un momento
all'altro dovesse trasformare in trionfo l'imminente catastrofe. Nel
gennaio 1814, prima di recarsi al campo, rimise in libertà
Pio VII che, un anno innanzi, a Fontainebleau, aveva firmato e poi
disdetto una specie di capitolazione (25 gennaio 1813); ricevette la
guardia nazionale, a cui affidò suo figlio e sua moglie,
nominata reggente; volle infine recarsi nei quartieri poveri di
Parigi, dove la folla lo accolse con entusiasmo frenetico. Intanto
cinque eserciti avevano passato i confini. L'Olanda e la Svizzera,
bastioni di cui la Francia s'era valsa per invadere l'Europa,
dovevano servire ora all'Europa per serrare nelle sue morse la
Francia. Egli si getta tra i Prussiani e gli Austriaci per
distruggerli separatamente, e riesce vincitore a Brienne (27 gennaio
1814), ma ha la peggio a La Rothière (1° febbraio).
Tuttavia, poiché G. L. v. Blücher avanza per la valle
della Marna e lo Schwarzenberg per quella della Senna, si slancia
contro il primo e, dal 10 al 15 febbraio, lo batte a Champaubert, a
Montmirail, a Château-Thierry, a Vauchamps; poi si volge
contro il secondo e lo vince a Mormant, a Villeneuve e a Montereau
(17-18 febbraio). Ma sono vittorie sterili. Il 1° marzo, a
Chaumont, gli alleati rinserrano i patti della loro lega, e poi, nel
congresso di Châtillon (4-18 marzo), offrono, questa volta, i
confini del 1789 con qualche rettifica, forse Nizza, la Savoia e una
parte del medio Reno, come aveva già proposto l'Inghilterra
nel 1797. Così le ostilità continuano. Il 9 marzo il
Blücher a Laon, il 20 lo Schwarzenberg ad Arcis-sur-Aube hanno
la loro rivincita: il 30, con una serie di combattimenti slegati,
A.-F.-L. de Marmont tenta, per l'onore, la difesa di Parigi, e, il
dì seguente, lo zar Alessandro, accompagnato dal re di
Prussia, fa il suo ingresso nella grande metropoli ponendo
gloriosamente fine alla guerra patriottica ch'era incominciata
subito dopo l'incendio di Mosca.
N. era a Fontainebleau: le truppe gli restavano fedeli, ma i
generali apparivano freddi e sfiduciati. Il 1° aprile il senato,
su proposta del Talleyrand, lo dichiarò decaduto dal trono.
Il 4, dopo un violento colloquio con i marescialli Ney, Lefebvre,
MacDonald, Moncey e Oudinot i quali volevano la sua abdicazione per
evitare una completa catastrofe, acconsentì a cedere la
corona a suo figlio, rifugiato con l'imperatrice a Blois. Ma era
troppo tardi! Anche il Marmont ora l'abbandonava. Così, il 6
aprile, abdicò senza condizioni; e poi, rimasto quasi solo
mentre i suoi più alti funzionarî civili e militari
andavano ad accaparrarsi un posto presso Luigi XVIII che stava per
giungere, tentò, si dice, di avvelenarsi. L'11 aprile
sottoscrisse il trattato che assegnava a lui la sovranità
dell'isola d'Elba con due milioni di rendita; a sua moglie e a suo
figlio quella del ducato di Parma, Piacenza e Guastalla; a sua
madre, ai suoi fratelli, alle sue sorelle e a Giuseppina, che
conservavano i loro titoli principeschi, cospicue pensioni annue
trasmissibili agli eredi. Finalmente, il 20, si accomiatò
dalla sua Guardia baciando tra i singhiozzi dei soldati la gloriosa
bandiera, e partì con pochi fedeli verso la piccola isola che
gli era donata dall'Europa già sottomessa tutta al suo
impero.
Sbarcò a Portoferraio il 4 maggio: "Ce sera l'île du
repos". A Fontainebleau aveva detto ai soldati: "Je veux
écrire les grandes choses que nous avons faites ensemble".
Invece, sino dai primi giorni, si diede tutto a trasformare e a
riorganizzare il suo regno quasi avesse dovuto rimanervi per sempre.
Tale era il suo profondo istinto. E contava appena 45 anni. Intanto
la sua popolarità rinasceva tra i malcontenti e i delusi
della restaurazione, e, d'altra parte, le potenze che s'erano
raccolte a Vienna per dare perfezionamento al trattato di Parigi (30
maggio 1814), si dolevano ogni giorno più d'averlo
così vicino all'Italia e meditavano quindi di trasformare la
sua sovranità in una specie di relegazione in qualche remota
isola dell'Oceano. Egli sapeva queste cose; e qui appunto è
il movente egoistico dell'avventura dei Cento giorni che parve
allora un delitto. Il 26 febbraio 1813 s'imbarcò
sull'Inconstante e, seguito da sei piccole navi con 1100 uomini,
fece vela verso le coste francesi. Il 1° marzo, dal golfo Jouan
sulla spiaggia di Cannes, lanciò il celebre eloquente
proclama: "La victoire marchera au pas de charge. L'aigle, avec les
couleurs nationales, volera de clocher en clocher jusqu'aux tours de
Notre-Dame". Così fu infatti. Il 7 marzo era a Grenoble; il
10, a Lione, riprese, tra il delirio dei contadini e dei soldati,
l'esercizio della sovranità. Da allora le diserzioni non si
contarono più nell'esercito regio: il 14 fu quella del
maresciallo M. Ney, che aveva promesso, pochi giorni innanzi, a
Luigi XVIII di portargli l'avventuriero "dans une cage de fer".
Giunse la mattina del 20 a Fontainebleau, e là seppe che il
re aveva abbandonato Parigi. La meravigliosa impresa non era costata
una goccia di sangue: egli aveva ricuperato il suo impero "en
montrant son chapeau". La sera alle nove l'aquila raccolse il volo
sulle Tuileries.
Ma le potenze non erano disposte a ratificare il fatto compiuto,
onde, sino dal 13, lo avevano proclamato fuori della legge come
perturbatore della pace pubblica. Egli cercò di rendersi
amica la borghesia intellettuale con una costituzione all'inglese,
simile alla Carta di Luigi XVIII (Atto addizionale alle costituzioni
dell'impero, 23 aprile 1815), che venne promulgata il 1° giugno
nel Campo di Marte. Ma fu espediente per lo meno inutile.
"Déjà Bonaparte" scrisse allora da Pietroburgo J. De
Maistre, "n'existe plus: ce que nous voyons n'est pas lui: c'est une
effigie empaillée, et cette effigie même
périra". Tuttavia conservava integro il suo genio guerriero.
Mise frettolosamente insieme un esercito pronto a dargli, in un
estremo sacrificio, tutto il suo sangue. Lasciò Parigi il 12
giugno e, penetrato nel Belgio, sconfisse, il 16, il Blücher a
Ligny, mentre il Ney batteva il duca di Wellington a Quatre-Bras. Il
18 avvenne la battaglia decisiva che prese nome del villaggio di
Waterloo. Vincitori al castello di Hougoumont e alla fattoria di
Haie-Sainte, i Francesi non riuscirono a occupare le alture di
Saint-Jean, dove il Wellington, con una tenacia che gli
meritò il titolo di Duca di ferro, attendeva i Prussiani del
Blücher. E quando questi, sfuggendo alla sorveglianza di E. de
Grouchy, comparve finalmente sul campo, la catastrofe napoleonica fu
inevitabile. Quindici anni innanzi, a Marengo, era arrivato
L.-Ch.-A. Desaix a gettare sulla bilancia della fortuna il peso
delle sue truppe. Allora il Melas aveva visto nel Bonaparte l'uomo
del destino; adesso N. riconobbe forse l'uomo del destino nel
Wellington. Senza l'arrivo del Blücher, il 18 giugno avrebbe
segnato probabilmente una vittoria francese, ma l'Europa, unita da
forze ignote alle prime coalizioni, era ormai in grado di continuare
a oltranza la guerra, e N. non avrebbe quindi tardato ad avere
altrove la sua Waterloo; poiché in realtà la sua
missione era finita nel mondo.
Giunse a Parigi il 20 giugno. Il 22 abdicò in favore di suo
figlio, e si ritrasse poscia alla Malmaison, dove nessuno aveva
più posto piede dal giorno in cui vi era morta, l'anno
innanzi, l'imperatrice Giuseppina. Ne uscì il 29 e
tentò d'imbarcarsi a Rochefort per gli Stati Uniti; ma non
poté, e, poiché non ignorava che il Blücher
voleva fucilarlo, provvide a salvare almeno la vita salendo a bordo
del Bellerophon che apparteneva all'armata britannica. Era la
prigionia perpetua. L'8 agosto, insieme coi generali H.-G. Bertrand,
Ch.-T. de Montholon e G. Gourgaud, con le famiglie dei primi due e
col conte E.-A. de Las Cases, offertisi tutti volontariamente suoi
compagni d'esilio, salpò sul Northumberland verso la lontana
isola di S. Elena. Ivi, in una modesta dimora a Longwood, trascorse,
sotto la sorveglianza del governatore inglese Hudson Lowe, gli
ultimi anni dolorosi dettando la narrazione delle sue gesta sino
alla campagna di Siria. Morì d'un cancro allo stomaco, il 5
maggio 1821, confortato dalla religione dei suoi padri, e fu sepolto
all'ombra di due salici presso una sorgente. Più tardi, nel
1840, le sue ceneri furono portate in Francia, dove tuttora
riposano, sotto la cupola degl'Invalidi, sulle rive della Senna "au
milieu de ce peuple français" com'egli aveva detto "que l'ai
tant aimé".
L'ha amato, soggiunge il Taine, come il cavaliere ama il suo
cavallo. In realtà amava se stesso, e gli altri solo in
quanto potevano servire alla sua ardente passione di conquista e di
dominio. Mai un'idea di personale sacrificio ha attraversato il suo
spirito. Volontà imperiosa, intelligenza sovrana,
instancabile in ogni genere di lavoro, fu anzitutto un grande
condottiero d'eserciti. Nessuno ha mai saputo parlare come lui al
soldato e come lui avvincerselo per la vita e per la morte. La sua
arte è tutta nel suo genio. Concepiva i piani strategici a
linee semplici e, dopo averli studiati e ristudiati, li traduceva in
calda rapida azione nel punto e nell'ora giusta. L'urto era la sua
gioia e la sua festa. Le campagne del 1796 e del 1814 sono i suoi
capolavori: con rapidità divinatoria giudicava le situazioni
tattiche più imbrogliate e sceglieva ed eseguiva le mosse
nuove e impreviste che conducono con piccoli mezzi a grandi
risultati, il che è l'eccellenza dell'arte. Né era
diverso nelle negoziazioni diplomatiche e nel tumulto delle lotte
politiche. Conoscitore profondo dell'anima umana, aveva l'istinto
delle circostanze come il cacciatore ha l'istinto della preda; ma la
relativa facilità con cui poté stabilire, in un
ambiente preparato, il regime unitario e autoritario del consolato e
dell'impero rafforzò in lui, figlio del sec. XVIII e di
un'isola del Mediterraneo, la fede superba che nulla fosse precluso
alla sua intelligenza. Lo dominava un bisogno prepotente di
conquistare e di organizzare, onde più volte fece e disfece
la carta d'Europa e, padrone dell'Occidente, mirò all'Oriente
senza sapere se da Costantinopoli e da Bombay non avrebbe poi voluto
slanciarsi verso Pechino. Poiché nulla era fatto
finché rimaneva qualche cosa da fare. Così, perduta
qualsiasi aderenza con la realtà storica, era destinato a
sparire con l'opera delle sue mani; ma, credente sempre nella
propria infallibilità come in un dogma religioso, non
immaginò mai che fuori di lui esistessero forze collettive
superiori al suo genio, e sino all'ultimo attribuì le sue
disgrazie ora alla cattiva scelta degli uomini, ora
all'ostilità degli elementi, ora al caso o al destino.
Organizzatore e codificatore di una rivoluzione cosmopolita,
incominciata in Europa assai prima che cadesse la Bastiglia, non si
accorse di vivere in un'età di decisivo sviluppo nazionale e
allargò la Francia, oltre le Alpi, sino a Roma; ma come la
lima, dice J. De Maistre, fa la chiave e la ignora, così egli
fu, senza volerlo e senza prevederlo, l'eroe provvidenziale che
diede il soffio della nuova vita alle nazioni moderne. E ciò
avvenne non perché nella sua marcia impetuosa furono travolti
istituti decrepiti destinati a cadere da sé, ma
perché, sotto la pressione del suo stesso dispotismo, tutti i
popoli, dalla Spagna alla Russia, acquistarono o riacquistarono la
coscienza e l'orgoglio della propria personalità. In nessun
paese, sotto questo aspetto, sebbene per diverse vie, la sua azione
fu così profonda come in Italia. Coloro che nel 1796 avevano
ricevuto da lui la bandiera delle loro speranze e che poi lo
seguirono fedeli nei campi dei suoi trionfi e delle sue catastrofi
non lo dimenticarono più, poiché sentivano che per lui
s'era ridestata nei loro cuori un'energia assopita da secoli, quella
volontà di potenza che è condizione essenziale del
Risorgimento.
Le campagne di Napoleone.
N. possiede le qualità del capo, nel senso più lato
della parola. Ciò che, per effetto di quelle qualità,
ha operato nel campo della strategia, emerge da un succinto esposto
delle principali campagne di guerra da lui personalmente condotte.
Campagna del 1796-97. - L'annata campale del 1795 era stata nefasta
per le armi francesi: gli eserciti del Reno (Pichegru) e di Sambra e
Mosa (Jourdan) avevano dovuto abbandonare la linea del Reno e
l'esercito d'Italia (Schérer) non aveva saputo profittare
della vittoria del Masséna a Loano. Bonaparte, benemerito del
direttorio dopo l'implacabile e fortunata repressione del moto
parigino del vendemmiaio, tenuto in pregio dai due più
influenti membri dell'Esecutivo (il Carnot, particolarmente
incaricato di seguire gli affari della guerra, e il Barras, capo
spirituale del direttorio) ottiene il comando dell'esercito
d'Italia. Il giovane generalissimo, che ha promesso immediata
offensiva e sicura vittoria, lascia Parigi (dopo soli tre giorni
dalle sue nozze con Giuseppina) per raggiungere l'esercito d'Italia
(marzo 1796). I documenti contabili dànno presenti poco meno
di 100.000 uomini, ma i combattenti non raggiungono forse i 40.000,
di cui circa 4000 di cavalleria. Scarsa la disciplina (compromessa
anche dall'insufficienza dei rifornimenti logistici); le bocche da
fuoco per la maggior parte immobilizzate dalla mancanza di animali
da traino.
Queste forze organizzate in 6 divisioni di fanteria e 2 di
cavalleria, sono sparpagliate dalla riviera di Savona-Voltri per
Ormea, fino alla testata di Val Vesubia, con altre poche forze a
sinistra sulle Alpi, dall'Argentera al Cenisio. Di contro sono
l'esercito sardo (M. Colli) e quello austriaco (Beaulieu), il primo
dei quali gravita fra Ceva e Mondovì con la sinistra alla
Bormida occidentale, e il secondo è estesamente dislocato fra
Acqui, Alessandria e Tortona. Mentre il Beaulieu progetta, e inizia
un'offensiva che deve avere la sua prima manifestazione contro
l'occupazione francese tra i monti e il mare nella regione del Colle
di Cadibona, il generale Bonaparte dà inizio alla sua manovra
che mira a sfondare lo schieramento nemico nel punto di congiunzione
dei due avversarî, dove sarà logicamente minima la
compattezza della resistenza e dove un successo determinerà
una divergenza d'interessi: dovendo il Colli tendere naturalmente
alla protezione di Torino e il Beaulieu alla protezione della
Lombardia e di Milano. Gli elementi tecnici e quelli
psicologico-politici convergono per determinare questa concezione.
L'esecuzione fulminea rivelerà le doti eccellenti del
capitano. Dal 10 al 14 aprile l'obiettivo è raggiunto
(combattimenti vittoriosi di Montenotte, Dego, Cosseria, Millesimo).
Colli si ritira, ordinatamente, su Mondovì (mantenendosi
aggressivo specie con la cavalleria) e poi su Torino. A Cherasco (27
aprile) è firmato l'armistizio separato franco-sardo.
Beaulieu rimasto solo ripiega il grosso in direzione di Alessandria,
poi passa il Po a Valenza. Bonaparte inizia la seconda fase della
campagna. Astuto manovratore, invece d'inseguire direttamente gli
Austriaci, egli corre rapido lungo la destra del Po, per Stradella
fino a Piacenza e passa quivi il fiume per prevenire gli Austriaci
sull'Adda. Intanto Beaulieu, saputa la mossa francese, accelera la
marcia e Bonaparte riesce a cogliere e battere al ponte di Lodi
soltanto una retroguardia austriaca (10 maggio). I Francesi restano,
comunque, padroni di tutta la Lombardia esattamente trenta giorni
dopo l'iniziata offensiva in Liguria. L'occupazione di Milano, il
riordinamento delle divisioni assai provate, la necessità di
reprimere con rigorosa fermezza la guerriglia cosiddetta dei
"barbetti" e alcune ribellioni scoppiate a tergo delle milizie
francesi (specie a Pavia) non ritardano l'ulteriore avanzata contro
gli Austriaci, riparati nel quadrilatero delle fortezze venete. Il
contatto è ripreso a fine maggio. Con una puntata energica a
Borghetto e Valeggio, la linea del Mincio è superata, poi
è raggiunto l'Adige. Le truppe austriache ripiegano nel
Trentino, mentre Bonaparte assedia Mantova, di dove accorre, con
parte delle forze, nell'Emilia, nella Romagna e nella Garfagnana,
compiendovi opera più politica che militare per sedare le
rivolte eccitate dai retrivi. Intanto Vienna prepara la riscossa,
affidata al maresciallo Wurmser, che scende dal Trentino alla testa
di 50.000 uomini, con la massa maggiore a oriente del Garda, e con
una colonna secondaria per il Bresciano. Bonaparte torna
immediatamente a nord del Po, opera il concentramento di tutte le
forze a sud del Garda nella regione di Lonato; e per aumentare la
massa di manovra leva audacemente l'assedio a Mantova, limitandosi a
osservarne da Marcaria (Sérurier) il presidio, che
resterà paralizzato da quegli eventi inopinati. Con le forze
raccolte Bonaparte intende attaccare prima la colonna austriaca che
opera nel Bresciano (Quasdanovic) poi il grosso (agli ordini dello
stesso Wurmser) sulla linea del Mincio. A Lonato (3 agosto)
sbaraglia il Quasdanovic, le cui soldatesche sono parte prese, parte
uccise o disperse; e due giorni dopo, a Castiglione, mette fuori
causa il Wurmser che intanto ha passato il Mincio nella speranza di
giungere in tempo a collegarsi col Quasdanovic. Bonaparte rioccupa
la regione fra Mincio e Adige e cinge nuovamente Mantova d'assedio.
Vengono ora al generale in capo suggerimenti dal direttorio
perché si scosti da Mantova e attacchi il Wurmser riparato
nel Trentino, e quindi prosegua per il Brennero a fare massa col
Moreau in Baviera. Bonaparte, invece, considera una puntata su
Trento, soltanto come premessa (sicurezza del fianco sinistro) a
un'ulteriore offensiva per il Friuli, da condurre al momento
opportuno, meta ultima Vienna. Ma intanto il Wurmser, ricevuti
rinforzi, inizia una nuova offensiva da Trento per la Valsugana, col
grosso delle forze imperiali, poche rimanendo a guardia del
Trentino. Il Bonaparte è già in marcia su Trento dal
Bresciano e dal Veronese e ha già cacciato gli Austriaci da
Mori, da Ala e da Rovereto, quando apprende la mossa del principale
corpo nemico per Bassano. Decide allora di cacciarsi alle sue
calcagna per la Valsugana a marce forzate (100 km. in due giorni),
raggiunge e attacca di sorpresa a Primolano la retroguardia del
Wurmser. mentre ai suoi corpi staccati nel piano ordina di manovrare
in modo da accerchiare il nemico. Percosso e disorientato, il
generale austriaco riesce soltanto con parte delle forze a sfuggire
all'accerchiamento e a raggiungere Mantova, dove vorrebbe
campeggiare fuori della piazzaforte per mantenersi in grado di
manovrare in campo aperto con l'appoggio della fortezza. Ma
Bonaparte lo attacca alle porte di Mantova, a San Giorgio e alla
Favorita (15 settembre) e lo obbliga a riparare dentro la piazza,
dove lo rinchiude.
Frattanto però le vicende della guerra in Germania volgendo
favorevoli per l'Austria, questa si dispone a tentare nuovamente la
liberazione di Mantova e la riconquista della Lombardia. Mette in
piedi un nuovo esercito di 50.000 uomini (Alvinezy), il quale da
Trento sbocca per Bassano con parte delle forze e si affaccia ai
primi di novembre con altre forze dai Lessini sopra Verona, mentre
una terza colonna punta su Verona per la Valle d'Adige. Ancora una
volta, troppo estesa fronte di avanzata per così scarse
forze. Bonaparte ne profitta con fulminea decisione e attua
rapidamente un'altra manovra per linee interne. Passato l'Adige a
Ronco muove contro il corpo principale dell'Alvinczy, che batte ad
Arcole, dopo tre giornate di lotta (15, 16, 17 novembre)
obbligandolo a ripiegare oltre il Brenta, ciò che trae seco
il ripiegamento su Trento delle altre forze austriache. Nel gennaio
1797, avuti rinforzi, l'Alvinczy ritenta la prova scendendo questa
volta col grosso fra l'Adige e il Garda, mentre altre forze tendono
a Mantova dal basso Adige. Bonaparte immediatamente attacca e batte
l'Alvinczy fra Rivoli e La Corona (14-15 gennaio), poi con
sorprendente rapidità si mette in grado il giorno dopo (16
gennaio) di accerchiare il corpo diretto a Mantova per la bassa
pianura e di annientarlo. Pochi giorni dopo (2 febbraio) Mantova si
arrende. L'Austria desiste dalla lotta in ltalia. Il Bonaparte
può iniziare una rapida azione politico-militare nella
Romagna e nelle Marche, per vincere l'ostilità che, in sua
assenza, si è riaccesa nello Stato Pontificio. Poi, in marzo,
con i rinforzi venutigli dal Reno, inizia la fase risolutiva della
guerra riprendendo l'offensiva contro l'Austria, in più largo
stile, nella direzione di Vienna. Al comando degl'imperiali che
fronteggiano l'esercito francese d' Italia, è ora posto il
migliore dei generali austriaci, l'arciduca Carlo, cui anche si
promettono altri rinforzi dal Reno. Disegno del Bonaparte: lasciare
una sola divisione nella marca d'Ancona, a scopo d'intimidazione;
puntare col grosso (5 divisioni di fanteria e una di cavalleria) per
il Friuli, la Carinzia e la Stiria, sulla capitale nemica, mentre un
forte distaccamento (3 divisioni) compirà l'epurazione
dell'Alto Adige, obbligherà gli Austriaci a passare il
Brennero e poi per Val Drava si riunirà al grosso, a
Klagenfurt, dove convergerà un'altra colonna inviata per
Gorizia e Lubiana. Gli Austriaci, battuti in successivi scontri, e
infine a Neumarkt, lasciano aperta la via di Vienna. Il Bonaparte
giunge fino a Leoben, dove è firmato un armistizio a
richiesta austriaca.
In questa campagna il giovane condottiero rivela a pieno le doti che
ne fanno un dominatore di eventi: percezione immediata e chiara
delle situazioni politiche e militari, inseparabili; pronta
ideazione dei piani operativi; audacia "organizzata" di esecuzione;
manifestazioni di autorità e procedimenti di comando, che
eccitano le energie morali dei capi in sottordine e delle masse dei
gregarî; intervento personale nei momenti decisivi, là
dove sono maggiori i pericoli ed è più esemplare la
prova del coraggio.
Campagna d'Oriente (Egitto e Siria) del 1798-99. - Durante la
campagna d'Italia nacque nella mente del Bonaparte l'idea di una
spedizione in Egitto, come risulta da espliciti propositi contenuti
in una sua lettera al ministro Talleyrand, scritta subito dopo il
trattato di Campoformio e nella quale il vittorioso generale
giustifica la larghezza delle clausole favorevoli all'Austria e da
lui stesso proposte, le quali mirano ad avere sicuri i possedimenti
francesi in Europa per colpire l'Inghilterra. Dove? Il generale lo
accenna in altra lettera al direttorio (16 agosto 1797): "per
distruggere l'Inghilterra occorre rendersi padroni dell'Egitto", in
quanto di lì si sbarrano le comunicazioni con le Indie.
Mascherata da propositi di diretta invasione delle Isole
Britanniche, la spedizione attraverso il Mediterraneo si va
preparando sotto la vigile cura del futuro comandante in capo
dell'impresa, il quale conferma, in questa occasione le sue
eccellenti qualità organizzative. Nel tempo stesso N. studia
il piano d'azione (politico e militare insieme) per l'invasione e la
stabile occupazione dell'Egitto. La soluzione dovrebbe essere
imperniata da un lato sull'alleanza con Costantinopoli, in modo che
le armi francesi possano quasi apparire come liberatrici del paese
dal dispotismo dei bey e dei Mamelucchi, in perenne stato di
ribellione verso la Sublime Porta; e, dall'altro lato, sulla
protezione dell'elemento arabo costituente gran parte della
popolazione egiziana, contro le angherie feudali degli stessi bey.
Egli lasciò le coste francesi soltanto con una parte del
convoglio e altri numerosi elementi raccolse per via, a Genova, ad
Ajaccio, a Civitavecchia; occupò Malta - da cui si dominano i
due bacini del Mediterraneo - per prevenire una manomissione
inglese, che i Cavalieri dell'isola non erano in grado d'impedire;
previde, in caso d'incontro con la flotta inglese del Mediterraneo,
di dovere spezzare il convoglio in più parti, assegnando a
ciascuna un proprio punto di sbarco sulle coste africane. Ma, quasi
per miracolo, la navigazione avvenne senza incontrare la crociera
del Nelson. Il 1° luglio 1798 il grosso convoglio è in
vista di Alessandria. Il corpo di spedizione, costituito da cinque
divisioni di fanteria e una di cavalleria (senza cavalli, che
saranno requisiti sul posto), muove senz'altro, con i primi elementi
sbarcati, all'attacco di Alessandria, che viene occupata con un
brillante assalto. Poi N. avanza sul Cairo per la sinistra del Nilo;
respinge i primi reparti avanzati dei Mamelucchi e procede per
attaccare il grosso del nemico, schierato presso le Piramidi e
costituito da masse eterogenee di fanti irregolari (poco atti a
battaglie campali condotte con arte) e da abbondante e valorosa
cavalleria. Bonaparte ha prescritto ai suoi una speciale formazione
in "quadrati doppî", al centro dei quadrati fa collocare
artiglierie e impedimenta; e i quadrati dispone a scacchiera, in
modo che possano fiancheggiarsi l'un l'altro. Contro queste
formazioni e la loro massa di fuoco s'infrange l'impeto dei
cavalieri mamelucchi. Allora, con elementi distaccati dai quadrati,
e conservando il nocciolo di questi, perché vi si possano
eventualmente riformare le truppe battute, muove al contrattacco e
sbaraglia le fanterie nemiche. Le porte del Cairo gli sono aperte. I
Francesi sono padroni del basso Egitto. È ora per il
generalissimo d'iniziare l'organizzazione politico-sociale del
paese. A quest'opera il Bonaparte intende, quando improvvisamente
scoppia la folgore di Abukir. Il 1° agosto, esattamente un mese
dopo lo sbarco, Nelson ha sorpreso la flotta da guerra francese che
aveva scortato la spedizione, alla fonda nella rada presso
Alessandria (Abukir) e l'ha distrutta. Ciò significa per il
Bonaparte l'isolamento dalla madrepatria, la certezza d'immediate
reazioni dell'infido elemento arabo, che egli andava amicandosi e
dei vinti Mamelucchi, infine la perdita di ogni speranza per un
favorevole atteggiamento di Costantinopoli. Sulla disastrosa
situazione, il Bonaparte si leva gigante. Con ogni sforzo,
mostrandosi egli stesso tranquillo, riesce a tenere alto il morale
dei suoi. Le difficoltà sorgono a ogni passo. Il 21 ottobre
è dai Francesi faticosamente repressa un'insurrezione al
Cairo, ma continua la rivolta araba diffusa lungo le vie di
comunicazione. Intanto la Turchia arma un esercito da sbarcare ad
Alessandria, mentre i pascià della Siria mostrano anch'essi
intenti aggressivi. Per prevenire questi ultimi, N. organizza una
spedizione oltre l'istmo di Suez, che inizia nel febbraio del 1799
con circa 12.000 uomini e senza nessuna speranza di essere
appoggiato dal mare. Occupa Giaffa, assedia San Giovanni d'Acri,
muove incontro al pascià di Damasco, avanzante con forze
triple delle sue, e lo batte ai piedi del Tabor (16 aprile). Non gli
riesce però di fare cadere S. Giovanni d'Acri, soccorsa dal
mare dagl'Inglesi; e, quando apprende che un corpo turco si affretta
verso Alessandria, decide di levare l'assedio e di tornare in
Egitto. Quando giunge, circa 12.000 Turchi sono già sbarcati;
ed egli li assale (25 luglio) sulla costa di quella stessa rada di
Abukir che aveva visto un anno prima la distruzione della flotta
francese. Il corpo turco è annientato. Ma la situazione
interna permane grave, rimanendo i conquistatori, in effetto,
assediati nella loro conquista. Di più, Bonaparte viene
indirettamente informato che la Francia traversa ore critiche per
malgoverno interno e insuccessi militari. Decide allora di
rimpatriare segretamente, lasciando il comando in capo al
Kléber. L'anno seguente i Francesi dovranno abbandonare
l'Egitto. Genialità d'ideazione, audacia, sapienza
organizzativa e sensibilità politica del Bonaparte sono state
frustrate dall'insufficienza della marina da guerra francese.
Campagna d'Italia del 1800. - Il Bonaparte, primo console, vuole
consolidare l'ancora vacillante potere, con una clamorosa impresa
militare. Mentre il Moreau opera in Germania, e il Masséna in
Italia, egli prepara un esercito di riserva, la cui importanza cerca
di sminuire, di fronte agli avversarî, facendo correre voce
che è costituito quasi interamente d'invalidi (soccorre a
ciò la divulgazione di caricature). Poiché la
costituzione consolare non consente al primo magistrato della
repubblica di assumere il comando di eserciti, figura titolare il
Berthier. Da Digione l'esercito di riserva potrebbe appoggiare
così le operazioni in Germania come quelle in Italia; ma se
ciò può tenere incerto il nemico, la nascente
rivalità fra il Bonaparte e il Moreau esclude in effetto la
prima ipotesi, tanto più che, nel frattempo, il
Masséna è costretto a riparare in Genova, dove gli
Austriaci lo assediano. D'altra parte l'esercito di riserva,
più che a Digione come si diceva, si raccoglieva in Savoia e
nel Vallese. Lo costituivano ottimi elementi, quasi tutti ricuperati
dalla Vandea in via di pacificazione. Ai 40.000 uomini circa che lo
componevano Bonaparte aveva divisato di aggiungerne altri 15-20.000
che il Moreau ebbe ordine di inviargli per il Gottardo. Fra il 17 e
il 25 maggio il grosso dell'esercito di riserva passa le Alpi per il
Gran S. Bernardo e subito il Bonaparte magnifica l'impresa al di
sopra del suo reale valore. Nulla ha, in realtà, di
prodigioso il passaggio delle Alpi in quella stagione e in quella
zona. La scarsa artiglieria, smontata, fu trascinata su slitte,
improvvisate con tronchi e tavoloni, ripiego che nulla aveva
d'inusitato. Superato con astuzia l'intoppo del forte di Bard,
Bonaparte non punta direttamente sul Melas, che ha i suoi più
grossi elementi sul Varo e in Ligutia, ma dagli sbocchi alpini muove
in direzione di oriente per occupare la Lombardia e manovrare sulle
retrovie dell'avversario. Vuole così assicurarsi il
più facile congiungimento con le truppe che gli debbono
venire, come si è detto, di Germania e vuole intimidire il
generalissimo avversario, che, invece, non si lascia soggiogare
dalla volontà del Bonaparte e conserva la propria iniziativa,
rimanendo nel Piemonte meridionale e nelle Liguria, dove la
ricchezza agricola e la vicinanza del mare, dominato dagli alleati
inglesi, gli consentono di far vivere le truppe anche
indipendentemente dalle comunicazioni con l'impero. Il primo console
si trova così, ad avere manovrato a vuoto nella direzione
Brescia-Milano-Cremona e, per giunta, troppo ampiamente. Allora
ripassa a Piacenza a sud del Po, ripiega verso occidente per
ricercare la massa principale avversaria, quando già, in
seguito alla resa di Genova, le condizioni austriache migliorano.
Hanno luogo il combattimento di Montebello (v.) e la battaglia di
Marengo (v.), la quale è per i Francesi fortuita vittoria.
Grande per risultati politici, la campagna d'Italia del 1800
è tecnicamente imperfetta, il primo console essendosi
trovato, nel momento dell'azione decisiva, con le forze disseminate
nel campo strategico e, nella zona tattica, inferiore di numero
all'avversario, e cioè in opposizione con il fondamentale
principio, da lui stesso proclamato, sulla necessaria realizzazione
di una superiorità locale nel punto e nel momento decisivi.
Campagna del 1805. - Gli ostentati preparativi che da lungo tempo
conduceva l'imperatore Napoleone per un'invasione dell'Inghilterra
dalle coste della Manica e dal Mare del Nord, e perfino dalle coste
atlantiche, dove aveva raccolto numerose forze in varî campi
(principale quello di Boulogne), indussero l'Inghilterra a dare vita
a una terza coalizione antifrancese (Austria, Russia, Svezia e poi
Napoli). Scende prima in campo l'Austria con due eserciti: l'uno in
Germania (68.000 uomini) sotto gli ordini nominali dell'imperatore
Francesco, ma, in realtà, del Mack; l'altro in Italia (85.000
uomini) sotto gli ordini dell'arciduca Carlo. Debbono subito seguire
tre eserciti russi (135.000 uomini) l'uno al comando del Kutuzov,
gli altri agli ordini del Bennigsen e del Buxhöwden, oltre la
guardia imperiale comandata dal granduca Costantino. N. prontamente
decide di rinviare il progetto d'invasione dell'Inghilterra per
aggredire i nuovi nemici nell'Europa centrale e formula il disegno
strategico di agire con la massa maggiore delle forze in Germania
per mettere fuori causa l'Austria prima che giungano i rinforzi
russi, mentre in Italia svolgerà operazioni secondarie, che
affida al Masséna. Levati improvvisamente i campi della
Manica e del Mare del Nord, dirige i corpi a marce forzate sul Reno
e sul Meno, che passa rispettivamente fra Magonza e Strasburgo e fra
Magonza e Würzburg nel settembre del 1805. Il Mack ha avuto
l'imprudenza di avanzare, solo, attraverso la Baviera fino nei
pressi di Ulma; e N. lo prende a bersaglio delle prime azioni
offensive della grande armata. Fa compiere ai corpi di Lannes, Ney e
Murat una dimostrazione frontale nella Foresta Nera, ed egli stesso
si reca ai passi sul Danubio a valle di Ulma con le rimanenti forze,
volgendosi con una parte verso ovest e con l'altra verso est; questa
seconda con l'obiettivo di sbarrare il passo al Kutuzov in marcia, e
già prossimo (7-9 ottobre). Il Mack intuisce la minaccia di
accerchiamento e tenta sfuggire verso nord per raggiungere la
Boemia, ma ne è impedito dalla vigorosa azione del corpo Ney,
lasciato a tale scopo a nord del Danubio (8-15 ottobre). Due giorni
dopo, il Mack si arrende e cede la piazza di Ulma con una fretta che
lo farà accusare di viltà e condannare a morte. N.
decide ora di operare a masse contro gli Austro-russi, i quali
però non accettano per il momento il duello e riparano in
Moravia sotto la piazza di Olmütz (Olomouc), mentre Vienna (13
novembre) apre le porte al vincitore per ordine del governo.
L'arciduca Carlo, che ha operato in Italia contro il Masséna
con esito incerto, risolve di ritirarsi in Germania dopo la
capitolazione di Ulma.
I due imperatori di Russia e d'Austria hanno preso il comando
diretto dei loro eserciti e decidono di muovere controffensivamente
contro N., che ha lasciato Vienna e punta in direzione di Bruna, per
attaccare gli Austro-russi. L'incontro avviene sul campo di
Austerlitz (v.), dove i Francesi conseguono una grande decisiva
vittoria (2 dicembre). I due imperatori alleati cedono le armi e due
giorni dopo è conchiuso un armistizio con l'Austria, cui
segue la pace di Presburgo (Bratislava). Ma Inghilterra, Russia e
Svezia non accedono a questo trattato e dànno vita alla
quarta coalizione, cui si aggiungono la Prussia, la Sassonia e i
piccoli stati del Nord germanico.
Campagna del 1806-1807. - Lo stato maggiore prussiano - che ha
prontamente messo in campo un esercito di 128.000 uomini, compreso
un corpo sassone, e lo ha formato in due nuclei di prima linea
dietro la foresta di Turingia, con un terzo nucleo in riserva a
Magdeburgo - rinnova l'errore del Mack dell'anno precedente, e si
spinge troppo innanzi ritardando così il congiungimento coi
Russi ancora lontani ed esponendosi isolato. N. che possiede una
notevole superiorità numerica (180.000 uomini) approfitta di
quell'errore con fulminea decisione; spinge innanzi la cavalleria
del Murat e il corpo del Lannes contro la massa di sinistra
prussiana (valle della Saale) e l'obbliga a una parziale ritirata
(9-10 ottobre 1806), mentre rincalza col grosso nella stessa
direzione. L'attacco a fondo avverrà il 14 ottobre con la
doppia battaglia di Jena (attacco del grosso, guidato da Napoleone,
contro il corpo prusso-sassone del Hohenlohe, funzionante come
copertura della ritirata dell'esercito verso il nucleo di
Magdeburgo) e di Auerstädt (attacco del maresciallo Davout
contro il grosso prussiano). Il 25 ottobre i Francesi entrano a
Berlino, mentre l'imperatore dispone, per rendere strategicamente
definitiva la vittoria tattica sulla Saale, un nuovo attacco contro
gli avanzi dell'esercito prussiano (i Sassoni si ritirano dalla
lotta), per impedire loro il congiungimento coi Russi. Tutte le
piazzeforti prussiane si arrendono a una a una.
Ciò ottenuto, N., sfidando audacemente il crudo inverno,
avanza in Polonia per prevenire colà i Russi; mette i campi
attorno a Varsavia, e in pari tempo consegue il risultato politico
dell'amicizia polacca. Ora deve urgentemente provvedere a rinforzare
l'esercito, senza sguarnire le linee di comunicazione che passano
attraverso territorî ostili. Ordina perciò la
mobilitazione dei coscritti del 1807 e chiama dalla Francia e
dall'Italia nuovi reggimenti. Col proclamato "blocco continentale"
contro l'Inghilterra (21 novembre) l'animosità bellica della
coalizione si acuisce. Infatti, i Russi si presentano al Narew per
aggredire. Ma N. subito li attacca (Pultusk) e i Russi retrocedono
verso Ostrolenka. Lo zar, insoddisfatto del vecchio generalissimo
Kamenskij, lo sostituisce con il Bennigsen e il nuovo capo disegna
di riprendere l'offensiva aggirando di sorpresa i campi francesi da
nord. N., che ha contromanovrato prontamente nella speranza di poter
serrare il nemico contro la costa del Baltico, vedendosi sfuggire il
Bennigsen, che, avvertito a tempo, riesce a riparare a Eylau, lo
attacca in questa località (8 febbraio 1807). Grande
battaglia, molto cruenta, ma tatticamente indecisa. Le grandi
operazioni hanno un tempo di arresto e non riprendono che all'inizio
dell'estate, dopo la caduta di Danzica nelle mani dei Francesi. N.
avanza allora nella valle dell'Alle, riesce (10 giugno) a sloggiare
da Heilsberg il Bennigsen, che però riprende, quattro giorni
dopo, l'offensiva contro il fianco delle colonne francesi in marcia
su Königsberg, ma senza fortuna. Il 14 giugno N. ottiene la
vittoria decisiva di Friedland. Dodici giorni più tardi, il
26 giugno, ha luogo il convegno di Tilsit fra l'imperatore di
Francia e l'imperatore di Russia e il 7 luglio finalmente viene
stipulata l'alleanza tra i due grandi imperi.
Campagna del 1809. - La guerriglia spagnola e le difficoltà
politiche e militari che N. incontra nella Penisola Iberica
incoraggiano l'Inghilterra, fortemente danneggiata dal blocco, a
mettere in piedi una quinta coalizione (Inghilterra, Austria,
Spagna, Portogallo). L'Austria prende l'offensiva: in Germania
(arciduca Carlo) invadendo la Baviera alleata dei Francesi e in
Italia movendo dal Friuli contro le linee dell'Adige (aprile 1809).
N. accorre dalla Spagna per rimediare al disseminamento delle forze
francesi dislocate in Germania a cavallo del Danubio; situazione
alla quale il Berthier (che questa volta era stato poco felice
interprete delle istruzioni dell'imperatore) non ha saputo rimediare
in tempo. Prontamente N. riesce a fare la massa in presenza del
nemico: il 22 aprile, a Eckmühl batte il centro e la destra
dell'arciduca Carlo, che a stento ripassa il Danubio a Ratisbona per
raggiungere Vienna lungo la sinistra del fiume, mentre l'imperatore
marcia a tappe forzate sullo stesso obiettivo per l'opposta riva. Il
12 maggio Vienna si arrende, ma gli Austriaci hanno distrutto i
ponti sul Danubio. N. ordina che, profittando di un gruppo
d'isolotti (Lobau), si gettino ponti con materiali d'occasione e si
forzi il passaggio, risolutamente difeso sull'opposta sponda
dall'arciduca Carlo. Il tentativo dà luogo alla cruenta
battaglia di Essling (21-22 maggio), ma i ponti francesi sono rotti
dall'artiglieria austriaca durante la lotta e N. deve ritirare, alla
meglio, le proprie truppe sull'isola Lobau grande, che sarà
punto di partenza per una nuova offensiva iniziata un mese e mezzo
dopo (5 luglio), col passaggio dei Francesi su ponti gettati
più a valle di quelli del tentativo precedente, a fine di
aggirare i trinceramenti che l'arciduca Carlo ha fatto costruire
sulla riva sinistra dirimpetto a Lobau. Sanguinosa battaglia di
Wagram (5-6 luglio) e vittoria francese duramente contrastata.
L'arciduca riesce a riparare con gli avanzi del suo esercito in
Moravia. I corpi Masséna e Marmont inseguono; ma l'armistizio
evita una nuova battaglia. La Russia, alleata già
intiepidita, ha operato contro l'Austria in Galizia, ma fiaccamente,
ed è stata di scarso ausilio. Il 14 ottobre l'Austria
abbandona la coalizione e firma, con Francia e Russia, una pace
separata.
Campagna di Russia (1812). - Il blocco contro l'Inghilterra, della
cui rigida applicazione N. faceva il cardine della sua politica
estera, aveva urtato anche gl'interessi della Russia, preoccupata
altresì per gl'ingrandimenti del granducato di Varsavia. Si
andava perciò delineando da tempo una rottura del trattato di
Tilsit, quando fu alfine stipulata l'alleanza (6ª coalizione)
fra la Russia e le potenze direttamente colpite dal blocco e
cioè Inghilterra, Spagna e Portogallo. N. rompe per primo
gl'indugi e dichiara ufficialmente la guerra alla Russia il 22
giugno 1812. La decisione dell'imperatore s'ispira non solo al
principio che convenga assicurarsi l'iniziativa strategica, ma anche
a una valutazione politica, in quanto non volendo cedere sulla
questione del blocco, giudica che la rapidità delle mosse per
colpire la Russia attraverso la Germania può sola
assicurargli il consolidamento dei malsicuri vincoli di alleanza che
uniscono alla Francia l'impero austriaco e la Prussia. N. ha
personalmente curato la preparazione organica e logistica della
Grande Armata che è di poco inferiore al mezzo milione di
uomini, con prevalenza, però, di elementi non francesi; e ha
altresì elaborato con ogni cura, e abbondanza di mezzi,
l'organizzazione logistica delle linee di operazione verso la
Russia. La radunata delle forze francesi si compie in Polonia e lo
schieramento presenta nelle sue linee essenziali un'ala destra
(austriaca) agli ordini dello Schwarzenberg, un centro
(prevalentemente francese) agli ordini diretti di N. (che,
naturalmente, ha anche il comando supremo degli eserciti alleati) e
una sinistra (prussiana) nominalmente agli ordini dello York, al cui
fianco è, però, posto il maresciallo francese
Macdonald. Subito dopo la dichiarazione di guerra, la Grande Armata
passa il Niemen e i Russi ripiegano commettendo l'errore (tanto
più pericoloso in presenza di N.) di ritirarsi in due
direzioni eccentriche. N. si caccia innanzi nel vuoto intermedio e
occupa Vilna, il che avviene appena sei giorni dopo la dichiarazione
di guerra. Ma fino dall'inizio si risentono gl'inconvenienti della
scarsa omogeneità morale e tecnica delle forze di stati
diversi e N. decide una sosta di due settimane, quando sarebbe
stato, teoricamente, necessario impedire alle due masse russe di
riunirsi indietro in direzione di Smolensk, come avvenne. Quantunque
Davout abbia battuto a Mohilev (23 luglio) la sinistra russa
(Bagration) e Murat - sostenuto dagl'Italiani del viceré
Eugenio - abbia battuto a Ostrovo (25 luglio) la destra russa
(Barclay de Tolly), un nuovo arresto ordinato da N. a Vitebsk
allontana la sperata battaglia decisiva; e quando le operazioni
saranno riprese a metà agosto, la vittoria della Grande
Armata a Smolensk (16-19 agosto) non impedirà la riunione
delle due masse nemiche e la loro sistematica marcia retrograda, in
condizioni ormai divenute, per i Russi, più favorevoli, nella
direzione di Mosca. La marcia retrograda è soltanto
interrotta da un tempo di arresto sulla Moskova (ordinato dal nuovo
generalissimo russo Kutuzov), del quale N. approfitta per dare
nuovamente battaglia (7 settembre). L'azione - estesa e intensa -
riesce molto cruenta; ma anche qui, il successo francese non
è decisivo, e il Kutuzov può proseguire la ritirata.
N. ne è sconcertato, ma giuoca ormai il tutto per il tutto, e
si spinge risolutamente fino a Mosca. Ma i Russi abbandonano la
città dopo avervi appiccato il fuoco, distruggendo
così - con gl'immensi depositi di materiali e di vettovaglie
- le speranze francesi di abbondanti rifornimenti, di cui la Grande
Armata avrebbe necessitato per svernare colà. La crisi
logistica precipita la situazione strategica, sotto gli occhi dei
Russi che attendono l'inesorabile epilogo del dramma, mentre
riescono a mantenere N. nell'illusione di una prossima pace. Passato
poco più di un mese, la situazione diviene insostenibile,
tanto più che Kutuzov, ridivenuto aggressivo, ha sorpreso e
battuto Murat a sud di Mosca. Il 18 ottobre, N. ordina l'inizio
della ritirata, che si compirà nel cuore di un inverno
particolarmente rigido e porterà al quasi totale
annientamento della Grande Armata. Durante la ritirata, a
Malojaroslavec (24 ottobre), a Vjazma (3 novembre), a Krasnoe (16-19
novembre) i corpi italiani della Grande Armata, sotto gli ordini del
viceré Eugenio, compiono prodigi di valore e ottengono
successi in azioni controffensive contro le masse russe inseguenti,
finché la Grande Armata è pressoché annientata
al passaggio della Berezina (26-28 novembre). Che le sorti della
Grande Armata siano ormai perdute, basterebbe a rivelarlo il fatto
significativo dell'abbandono del comando supremo da parte di N., una
settimana dopo la Berezina. Da questo momento la demoralizzazione e
il disordine funzionale determinano un vero sfacelo, completato
dalle defezioni dell'Austria e della Prussia, le quali passano al
campo nemico.
Campagna di Germania (1813). - Mentre, nei primi mesi del 1813, il
viceré Eugenio (rimasto a capo degli avanzi della Grande
Armata, dopo l'arbitrario ritorno di Murat a Napoli) conduce i pochi
resti della Grande Armata francese dietro la Saale a Magdeburgo, N.
in Francia compie un nuovo miracolo di organizzazione, con la leva
di coscritti e con la raccolta delle armi e dei materiali
necessarî a mettere insieme un nuovo esercito, ch'egli
personalmente conduce alla Saale. Quivi, alla fine di aprile 1813, i
veterani della campagna di Russia e i coscritti provenienti dalla
Francia si congiungono a formare un insieme ancora valido, la cui
efficienza è moltiplicata dal dinamismo del capo. Con queste
forze infatti N. avanza subito contro Russi e Prussiani in direzione
di Lipsia. Dopo un primo successo dell'avanguardia del Ney (30
aprile), il grosso francese è sorpreso a Lützen (2
maggio) da un attacco di fianco dei Russo-prussiani, reso possibile
dall'incompleto servizio di esplorazione, dovuto alla scarsezza
della cavalleria. Ma l'attacco è, in definitiva, respinto e
N. può continuare la marcia, fino a raggiungere le principali
forze nemiche a Bautzen, sulla destra della Sprea, dove ottiene
ancora una grande vittoria (21-22 maggio), sebbene non decisiva.
Ispirati dallo zar Alessandro, i collegati adottano il procedimento
strategico che ha giovato ai Russi l'anno precedente: cedere terreno
e, nel tempo stesso, far balenare a N. la speranza d'una pace
vantaggiosa. Tale speranza politica induce infatti il grande
stratega all'armistizio di Plesswitz (4 giugno-12 agosto). Ma le
possibilità d'intesa sfumano durante il congresso di Praga.
Alla ripresa delle operazioni, N. prende l'offensiva strategica,
com'è suo costume, e ottiene a Dresda (26-27 agosto) un'altra
grande vittoria tattica, cui l'accennata scarsità di
cavalleria non gli consente di conferire carattere strategicamente
risolutivo. Di più sono manchevoli le disposizioni esecutive
del suo capo di stato maggiore Berthier, ormai stanco. Così i
collegati riescono a riparare in Boemia, conservandosi combattivi,
come mostrano certi loro scatti controffensivi, uno dei quali porta
alla cattura di un corpo d'inseguimento francese (Vandamme).
Poiché anche i corpi francesi del Macdonald, dell'Oudinot e
del Ney, distaccati dal grosso, hanno subito parziali insuccessi
(ciò che aggrava la situazione complessiva), N. tenta di
affrettare la conclusione vittoriosa con un altro colpo audace:
lascia a un piccolo distaccamento le conquistate posizioni di Dresda
e imprende la marcia su Berlino; ma lo spirito dei suoi luogotenenti
dà segni di depressione e l'imperatore, con senso realistico,
rinuncia a un progetto che supera le forze degli esecutori e
appoggia su Lipsia, mentre i collegati abbozzano una larga manovra
per accerchiare N. e tagliargli la ritirata verso il Reno. A Lipsia
(16-19 ottobre) i Francesi sono attaccati e, benché inferiori
di numero, sostengono a lungo la lotta; ma, infine, sono decisamente
battuti. A stento N. riesce a salvare alcuni resti dell'esercito, i
quali ripassano il Reno a Magonza ai primi di novembre; ma non i
presidî delle piazze interne della Germania rappresentanti un
complesso di 100.000 uomini perduti. La guerra oltre i confini
è finita. Alla fine di dicembre i collegati invadono il
territorio francese.
Campagna di Francia (1814). - Napoleone fa nuovamente appello al
paese per una nuova leva di coscritti. Il paese risponde "presente"
per inveterata abitudine, ma a malincuore. Rifulge più che
mai, in questa ora, la forza d'animo dell'imperatore. Quantunque
assillato, anch'egli, da tragiche previsioni, si prodiga per tenere
desta la fede di tutti, mentre sembrano in questa circostanza
moltiplicarsi le sue facoltà di grande stratega. La campagna
di Francia del 1814 è un modello classico di condotta della
guerra ed è riprova del peso che le qualità personali
del capo - spirituali e tecniche - hanno sugli eventi avversi.
Senza contare le truppe operanti in Italia e nei Pirenei, la
coalizione anti-francese ha al confine franco-germanico due eserciti
di forza pressoché uguale (poco meno di 300.000 uomini
complessivamente) agli ordini rispettivamente del Blücher e
dello Schwarzenberg; può inoltre contare su abbondanti
riserve (russe, prussiane, austriache, svedesi, olandesi, ecc.) tra
il Reno, il Danubio e la Vistola, le quali avrebbero potuto
più che raddoppiare i corpi operanti. Per contro, N. - per le
operazioni in campo aperto sul suolo francese - non può
riunire che 100.000 uomini (in piccola parte veterani e per la
maggior parte coscritti), coi quali costituisce sette piccoli corpi
d'armata, oltre i 2 della Guardia, disposti in largo schieramento
iniziale dal mare al confine svizzero, cui dovrà seguire il
concentramento nel luogo e nel momento opportuno. Ma lo schieramento
è ancora in via di compimento, quando i collegati imprendono
l'offensiva (che, in verità, avrebbero potuto iniziare alcune
settimane prima) violando, consenziente il governo federale, la
neutralità svizzera, con l'esercito Schwarzenberg e passando
il Reno fra Mannheim e Coblenza con l'esercito Blücher.
Quantunque incompleta, la copertura francese oppone resistenze
tenaci, senza però evitare di doversi inflettere; e N. - che,
dopo avere invano tentato di avanzare da Vitry a Saint-Dizier, ha
dovuto retrocedere e sostenere due sanguinose battaglie a Brienne e
La Rothière, per non vedersi aggirato - risolve di fare massa
indietro nella regione fra Senna e Marna, e cioè in una
posizione centrale, dalla quale tenterà di battere
separatamente le colonne principali d'invasione; le quali appunto
tendon0 a Parigi per le vallate di quei due fiumi, lasciando un
imprudente varco fra l'una e l'altra. Poco dopo, a queste due
colonne se ne aggiungerà una terza - dal basso Reno e dal
Belgio - agli ordini del Bülow e del Wintzingerode.
Poiché il Blücher avanza non solo distaccato dallo
Schwarzenberg, ma anche con le forze proprie troppo ampiamente
distese, N. lo assale d'improvviso, e in cinque giorni (10-14
febbraio) lo batte in quattro brillanti battaglie (Champaubert,
Montmirail, Chateau-Thierry, Vauchamps). Il generalissimo prussiano
ripiega su Chalons sur-Marne; e la stasi dell'offensiva si propaga
al Wintzingerode; non però allo Schwarzenberg, che continua
ad avanzare giungendo con le punte a Fontainebleau, dopo sospinti
dinnanzi a sé i corpi dei marescialli Victor e Oudinot.
Allora N., il giorno dopo la vittoria ottenuta sul Blücher,
raccoglie le truppe meno stanche, corre veloce verso sud-ovest,
batte a Mormant l'avanguardia dello Schwarzenberg, dispensa dal
comando il Victor mostratosi fiacca, passa a Montereau sulla
sinistra della Senna e minaccia di spezzare in due il grosso della
colonna d'invasione. Schwarzenberg, intimidito, si ritira a Troyes,
dove N. lo insegue nella speranza di una battaglia, cui però
Schwarzenberg sfugge ripiegando all'Aube; e allora N. ritorna
fulmineo per Sézanne contro il Blücher e lo sospinge a
nord dell'Aisne (3 marzo), poi di lì muove all'attacco degli
altri collegati che vengono da nord, coi quali il Blücher
è riuscito a riunirsi, e li batte a Craonne (6 e 7 marzo),
poi li attacca ancora a Laon (9 marzo) senza riuscire a sloggiarli
da questa località; di qui, per Soissons, vuole attaccare
nuovamente, con le truppe stanchissime, la colonna Schwarzenberg,
che ha ripreso la marcia su Parigi. Questa volta Schwarzenberg
previene con la propria offensiva ad Arcissur-Aube l'offensiva
francese (20 marzo) e poiché N., con audacia disperata,
insiste in un duello a oltranza con forze che sono appena 1/5 di
quelle nemiche, il ripiegamento dell'esercito francese tardivamente
ordinato, si compirà (21 marzo) con gravi perdite al
passaggio sui ponti dell'Aube. Le colonne d'invasione sono ormai
riunite e non è più possibile durare utilmente nella
lotta contro avversarî preponderanti. La campagna è
finita.
Campagna del 1815. - Quando al ritorno di N. dall'Elba si forma una
nuova coalizione (Inghilterra, Austria, Prussia, Russia, Spagna,
Paesi Bassi, ecc.) per riprendere la guerra, le armi delle potenze
collegate sono pressoché pronte, poiché la
smobilitazione, dopo la guerra dell'anno precedente, è stata
solo in piccola parte attuata. L'esercito francese, invece, è
in gran parte da rifare, perché un anno di restaurazione
borbonica ha disorientato gli spiriti; gli stessi capi (molti dei
quali hanno accettato di servire i Borboni) sono combattuti fra
opposti sentimenti; inoltre la sicurezza di un lungo periodo di
pace, sulla quale fidava a ragione la Restaurazione, aveva conferito
alle forze armate borboniche un carattere più proprio al
servizio d'ordine interno che all'azione guerriera. Altra ragione di
preoccupazione la Vandea, che al ritomo di N. ha nuovamente
inalberato la bandiera bianca borbonica, sicché l'imperatore
dovrà impiegare colà un corpo di truppe (30.000
uomini). In definitiva, l'esercito campale, organizzato con la
massima oculatezza compatibile con la gran fretta,
raggiungerà appena 123.000 uomini contro 850.000 che i
collegati hanno di contro al confine francese, dal Belgio alle Alpi.
Di queste forze, circa 115.000 uomini sono nel Belgio, ripartiti fra
l'esercito dell'inglese Wellington e quello del prussiano
Blücher.
I collegati intendono di raccogliere le forze su una fronte di
partenza più ristretta, prima d'iniziare la marcia
concentrica su Parigi, e perciò la loro offensiva è
prevista soltanto per il 1° luglio. N., invece, vuole profittare
di quel disseminamento per battere una frazione dell'avversario; e
sceglie le forze dislocate nel Belgio, quali più prossime e
più minacciose. Più precisamente decide di puntare con
fulminea mossa nella zona di contatto fra l'esercito inglese situato
a occidente della strada Bruxelles-Charleroi e l'esercito prussiano
situato nella regione che si distende a nord della Sambra fra
Charleroi e Namur. I sei corpi francesi (Guardia compresa)
concentrati a sud della Sambra, fra Solre-le-Château e
Philippeville, sono rapidamente spinti dall'imperatore nella notte
del 15 giugno, senza che i nemici se ne avvedano, ai ponti di
Marchiennes, Charleroi, Le Châtelet, dove respingono truppe
avanzate nemiche, continuando poi, per tutto il giorno 15,
l'avanzata contro la sinistra inglese e la destra prussiana. Solo a
sera del 15 il Wellington apprende al suo quartier generale di
Bruxelles l'impreveduta offensiva francese e ordina al suo esercito
il concentramento a sinistra per fare massa nella regione di Marbais
coi Prussiani; i quali a loro volta si concentrano verso destra per
analogo scopo. Napoleone intuendo il doppio movimento nemico ordina
alla propria ala sinistra (Ney) di attaccare gl'Inglesi il mattino
seguente, 16 giugno, in direzione di Quatre-Bras, mentre il resto
dell'esercito attaccherà i Prussiani in direzione di Ligny.
La necessità di agire in modo fulmineo fa apparire poco
energiche le risoluzioni dei luogotenenti e lente le mosse delle
truppe, ma in realtà l'esercito francese di operazione ha
continuamente marciato e combattuto dalla notte del 15. Il Ney non
riesce a occupare Quatre-Bras, mentre l'attacco di destra riesce a
sloggiare il Blücher da Ligny (v.). Ma il maresciallo prussiano
si sottrae abiìmente al contatto con l'ala destra nemica,
sicché i Francesi rimangono incerti se i Prussiani si siano
ritirati a sud-est su Namur o a nord su Wavre (come effettivamente
è avvenuto), ciò che rende ineseguibile l'ordine
inviato da N. il mattino del 17 di seguire i Prussiani alle calcagna
e di completare, con un contegno aggressivo senza soste, il successo
di Ligny. Il maresciallo Grouchy, che comandava quell'ala, si avvia
a tentoni per una direzione intermedia (Gembloux) allontanandosi in
tal modo da quello che sarà l'indomani il campo della
battaglia decisiva (Waterloo, 18 giugno) combattuta da N. contro
l'esercito inglese, che il Blücher rinforzerà, da Wavre,
nell'ultima fase della lotta, decidendo della sconfitta di N.
La logica semplicità del disegno strategico dell'imperatore,
la fulminea rapidità delle mosse, gli ordini tempestivi e
tutti convergenti allo scopo, l'audacia con la quale i corpi
francesi sono lanciati contro forze doppie, collocano questa
campagna (svoltasi in 3 giorni e 20 ore, attraverso marce forzate e
combattimenti vittoriosi) fra le più ammirevoli del grande
capitano, non essendo le cause della sconfitta finale imputabili
né a difetto di genialità né a diminuita
energia volitiva. Chi cerca quelle cause nella supposta stanchezza
fisica dell'imperatore è fuori della realtà, la breve
campagna e la stessa battaglia decisiva essendo piuttosto
l'espressione di un'audacia confinante col parossismo.