Achille Loria e lorianesimo

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di Riccardo Faucci - Stefano Perri

LORIA, Achille. - Nacque a Mantova il 2 marzo 1857 da Salomone, detto Girolamo, di famiglia di origine catalana, e da Anaide D'Italia, entrambi israeliti.

Della città padana parlò sempre con dispetto e rimpianto, da una parte bollandola come "recinto squallido e tetro", ma dall'altra richiamando le notevoli personalità che ne animavano la vita politica e culturale: A. Mario, R. Ardigò, S. Cognetti de Martiis.

Uscito dal liceo classico "con una pagella di gloria", si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza di Bologna, dove ebbe come compagni i coetanei F. Turati, E. Ferri e L. Bissolati, ai quali sarebbe rimasto sempre legato. Non attirato dai corsi delle materie giuridiche (salvo quelle di P. Ellero e di G. Ceneri: cfr. A. Loria, Ricordi di uno studente settuagenario, Bologna 1927, pp. 10 s.), si laureò il 30 maggio 1877 con una tesi intitolata "Tentativo di esposizione intorno alla proprietà fondiaria ne' suoi rapporti col diritto e colla economia". Il nome del relatore non ci è noto; è probabile che sia stato il modesto economista liberale A. Marescotti, che il L. (di solito generoso se non untuoso nei suoi ringraziamenti) mai ricorda nei suoi scritti. Rielaborazione della tesi è la prima, voluminosa monografia, La rendita fondiaria e la sua elisione naturale (Milano 1880, ma uscita nell'ottobre 1879), che si proponeva "un raffronto fra l'evoluzione economica e sociale dell'Europa e delle sue colonie", per dimostrare "che a ciascun grado successivo di densità di popolazione e di occupazione della terra corrisponde un correlativo assetto economico e che perciò una popolazione europea, la quale fondi una colonia, deve fatalmente riassumervi tutte le istituzioni economiche dell'Europa primitiva, per poi procedere gradualmente ai successivi assetti economici del mondo europeo" (Ricordi(, p. 34). Qui sono presenti gli elementi portanti del suo determinismo storico-economico-geografico.

Risulta il tentativo di costruire un modello del sistema capitalistico partendo dal regime di proprietà fondiaria e spiegando tutto il resto (accumulazione, distribuzione del reddito, ecc.) sulla base della struttura e dell'evoluzione del regime fondiario. La definizione di rendita è desunta da D. Ricardo, che il L. considerava il massimo economista di tutti i tempi. Molto ardita è la tesi principale: che in tutte le società storicamente esistite la rendita sia stata "elisa", cioè eliminata, attraverso il suo trasferimento come reddito ad altri soggetti economici, diversi dai proprietari, e precisamente agli altri membri della comunità agricola tramite la sua ripartizione egualitaria nell'antica Germania, alla Chiesa come decima nel Medioevo, allo Stato con l'imposta fondiaria e altri tributi in tutte le epoche.

Nell'età contemporanea invece, secondo il L., l'affermarsi del capitalismo nelle campagne, da un lato concentrando e monopolizzando la proprietà fondiaria, dall'altro scoraggiando la piccola proprietà coltivatrice, aumenta il divario fra le produttività marginali e quelle inframarginali e accresce la quota di rendita sul prodotto complessivo. A livello distributivo, la rendita fondiaria si mangia il profitto industriale (a causa del peggioramento delle ragioni di scambio fra industria e agricoltura), per cui i capitalisti industriali, per mantenere i propri margini di profitto, sono costretti a rifarsi sui salari, abbassandoli al livello di sussistenza. Dalla crisi economica e sociale conseguente si esce, secondo il L., soltanto con energiche misure legislative a favore della cooperazione e della piccola proprietà agricola.

Le opere successive del L. (fra cui principalmente Analisi della proprietà capitalista, I-II, Torino 1889-90, e La costituzione economica odierna, ibid. 1899) non faranno altro che aggiungere a questa rappresentazione altri pezzi, il principale dei quali è rappresentato dalla "terra libera", il cui declino storico (dovuto all'appropriazione e messa a coltura di terre vergini, come il Far West) rende più aspro il conflitto fra capitalisti, i cui profitti sono schiacciati dalle rendite, e lavoratori, i cui salari sono schiacciati dai profitti. È agevole per i capitalisti (che a un certo punto si alleano con i proprietari fondiari) impedire ai lavoratori l'"accesso" alla terra e la conseguente trasformazione in coltivatori diretti. Il monopolio della proprietà fondiaria diventa la chiave di volta del sistema, garantendo ai capitalisti industriali un abbondante esercito di manodopera costretta ad accettare le condizioni salariali peggiori. Il quadro ricardiano è così vivacizzato con pennellate marxiane.

Il L. fu professore ordinario di economia politica, prima a Siena (1881-91) dove fu anche preside nel 1886, poi a Padova (1891-1903), da dove passò a Torino (1903-32). Poliglotta, collaborò ai principali periodici scientifici italiani e stranieri, dal Giornale degli economisti a La Riforma sociale, all'Economic Journal, al Journal of political economy, alla Revue d'économie politique, all'Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik. Molte sue opere furono tradotte, e in diversi paesi, principalmente in Russia e negli Stati Uniti, ebbe ammiratori se non seguaci. Entrò anche in contatto con K. Marx, dichiarandosi suo ammiratore, seppure non suo stretto seguace (K. Marx - F. Engels, Corrispondenza con italiani, a cura di G. Del Bo, Milano 1964, p. 288), e ottenendone un tiepido incoraggiamento. Assente Marx, in un soggiorno a Londra nel 1882 incontrò Engels. Ma nel 1883, in un necrologio apparso nella Nuova Antologia (1( aprile, pp. 509 s.), egli prese vivacemente le distanze da Marx, criticandone la teoria del valore-lavoro e mettendo in luce, forse per primo, la difficoltà di conciliarla con una efficace teoria della formazione dei prezzi di mercato. Questo causò una veemente risposta epistolare di Engels, che da allora non mancò di bollare il L. da "Dulcamara", additandolo al disprezzo come intellettualmente disonesto (cfr. la prefazione a K. Marx, Il capitale, l. III, Roma 1965, pp. 26 s.).

Negli anni seguenti diversi economisti e sociologi italiani e stranieri intervennero sull'opera del L., con accenti generalmente di rispetto, ma anche muovendo critiche non marginali alla solidità dell'impianto e alla lucidità del ragionamento. Il suo maggiore avversario, seppure mai uscito allo scoperto, fu Antonio Labriola, preoccupato dell'influenza ideologica negativa delle idee del L. sul movimento socialista. Tali idee in effetti avevano ospitalità nella Critica sociale di Turati e in opuscoli di propaganda del Partito socialista italiano. Nel 1896 Labriola stimolò B. Croce a muovere un attacco frontale, dalle pagine della rivista Le Devenir social di G. Sorel (II, pp. 881-905), con il saggio Les théories historiques du prof. L. (cfr. la trad. it. in B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, Milano-Palermo 1900, pp. 39-84).

Si tratta di un lavoro che intendeva ristabilire la verità dal punto di vista filologico su che cosa Marx avesse inteso dire, e su cosa il L. gli avesse fatto dire falsandone il pensiero per meglio criticarlo. Croce, però, meditando sulle debolezze del L., si accorse che non soltanto il positivismo, di cui il L. era rappresentante, ma anche il marxismo come concezione della storia non era esente da gravi difetti, e negli anni successivi se ne discostò per sempre.

La pretesa debolezza speculativa del L. attirò anche gli attacchi di A. Gramsci. Nei Quaderni del carcere, la locuzione "lorianesimo" esprime una categoria in cui Gramsci colloca la maggior parte degli intellettuali italiani fra Otto e Novecento, incapaci di dare un indirizzo cosciente alla società civile, ma interpreti delle tendenze più irrazionali. Va peraltro osservato che il L. contro cui si scaglia Gramsci non è neppure quello, più celebrato, della teoria economica della proprietà fondiaria, ma quello, davvero bizzarro ma innocuo, di alcune conferenze e scritti (per es. sulle "influenze sociali dell'aviazione" e su "misticismo e sifilide") che destarono la meraviglia se non l'ilarità dei contemporanei (cfr. fra gli altri U. Ricci, Tre economisti italiani. Pantaleoni, Pareto, L., Bari 1939). Fu persa, dunque, l'opportunità di approfondire l'analisi critica delle teorie economiche classico-marxiste, presente in vari testi del Loria.

Nonostante che la sua notorietà si fondi sulla teoria della terra libera, egli ha dato infatti notevoli contributi alla teoria della produzione e distribuzione seguendo un approccio rigorosamente classico, che doveva essere ripreso con ben maggiore fortuna da P. Sraffa molti decenni più tardi. Sraffa fu studente della facoltà di giurisprudenza a Torino, ma - sotto l'evidente influenza di Gramsci e degli altri studenti socialisti torinesi - non menzionò mai il L. né nei suoi scritti né nelle sue corrispondenze, e si laureò con L. Einaudi.

Per il L. il nucleo della teoria economica classica è costituito dall'analisi del sovrappiù e della distribuzione. Il prodotto totale di un sistema economico, detratte le spese per i mezzi di produzione, è rappresentato da una quantità data di ricchezza che si divide in due parti: la prima è costituita dalle sussistenze dei lavoratori, mentre la seconda, il sovrappiù, o reddito nella terminologia del L., remunera le classi dei non lavoratori. I compiti fondamentali della teoria economica sono sia quello di determinare le leggi della distribuzione del prodotto e del reddito in una data società ("critica quantitativa") sia quello di mostrare come la divisione tra classe dei salariati e classi dei redditieri non è eterna né dettata dall'operare di una qualche legge naturale ("critica qualitativa": cfr. La scienza economica e i problemi sociali del nostro tempo, in Giornale degli economisti, XXVII [1903], p. 532).

All'interno di questa concezione, il L. apportò un contributo originale proponendo un interessante modello di determinazione dei prezzi e del saggio di profitto. In questo modello i prezzi sono rappresentati, sia pure in modo più semplificato rispetto ai successivi lavori di V.K. Dmitriev e L. von Bortkiewicz, in termini di "quantità datate di lavoro", cioè nei termini delle quantità di lavoro necessario alla produzione, suddivise a seconda della distanza di tempo che corre dal momento in cui esse sono erogate al momento in cui il prodotto finale è completato. Il saggio di profitto, poi, è calcolato sulla base delle condizioni di produzione dei beni-salario, attraverso una equazione molto simile a quella che è stata successivamente chiamata "equazione del sovrappiù", nel corso del dibattito seguito alla pubblicazione di Produzione di merci a mezzo di merci (Torino 1960) di Sraffa. In questo modo, date le condizioni di produzione dei beni e il salario reale percepito dai lavoratori, sono determinati il saggio di profitto e i prezzi dei beni. Significativamente il L. chiama i beni-salario, dalle cui condizioni di produzione nel suo modello dipende il saggio di profitto, "prodotti base" (cfr. Analisi della proprietà capitalista, I, pp. 77-84).

Da questo modello il L. trae alcune conclusioni. Da una parte evidenzia la propria critica alla teoria del valore di Marx, perché nell'economia capitalista i prezzi relativi dei beni dipendono sostanzialmente dalla distribuzione del reddito, oltre che dalle condizioni di produzione. Secondo il L., infatti, il valore di scambio dei beni non può essere ricondotto unicamente alla quantità di lavoro "reale" in essi contenuta, ma a una quantità di lavoro "complesso", cioè al lavoro effettivamente contenuto, più una componente "immaginaria", rappresentata dal profitto sul capitale "tecnico", cioè dal profitto calcolato sul lavoro erogato nel passato per produrre i mezzi di produzione. Questa quantità è detta immaginaria perché non corrisponde al lavoro effettivo, ed è variabile perché dipende dal saggio di profitto e dai cambiamenti nella distribuzione del reddito. Dall'altra si differenzia dai critici marginalisti, che riconducono il profitto alla produttività del capitale. Per il L., infatti, il profitto dipende unicamente dall'incontro delle parti contrattuali nel mercato del lavoro e può cambiare anche quando le condizioni di produzione, e quindi il capitale e la sua produttività, restano immutate. Secondo il L., inoltre, finiscono per cadere in contraddizione tutte quelle teorie che si propongono di determinare i salari e i profitti sulla base della conoscenza del valore dei beni, poiché i rapporti di scambio non possono essere determinati se non dopo aver determinato la distribuzione del reddito e dunque il saggio di profitto.

Sempre nel filone dell'economia classica si colloca il volume Studi sul valore della moneta (Torino 1891; 2ª ed., ibid. 1901), in cui la teoria del costo di produzione veniva applicata anche al valore della moneta-merce e conseguentemente alla determinazione del livello dei prezzi.

Fu costantemente critico della svolta marginalista, in particolare della scuola austriaca. Respinse in particolare la nozione di utilità, "che non è che un rapporto tra il prodotto e l'uomo, una evaporazione psichica di quello, un'aureola nebulosa che circonda la materia reale". Il marginalismo impedisce quindi un'analisi approfondita e sopprime "l'interesse della ricerca economica, poiché al problema stesso della distribuzione dei prodotti toglie vitalità e importanza" (La scuola austriaca nell'economia politica, in Nuova Antologia, 1( apr. 1890, p. 509). Rispetto agli altri marginalisti, salvò A. Marshall in quanto fondatore di un indirizzo di compromesso, definito non a caso neoclassico. E a Marshall dedicò un breve e simpatetico profilo (Alfredo Marshall, Roma 1924).

Pur rimanendo sempre fortemente critico della teoria marginalista, il L. non disdegnò di utilizzarne gli strumenti analitici quando potevano essere applicati all'indagine dei rapporti di produzione e distribuzione.

Entrò in discussione con l'economista inglese F.Y. Edgeworth sul valore nel duopolio. Edgeworth aveva sostenuto che in caso di duopolio l'equilibrio è indeterminato e il prezzo oscilla continuamente tra la posizione di massimo profitto dell'uno o dell'altro venditore e il punto in cui l'intera offerta di un venditore è venduta. Secondo il L., invece, lo stesso interesse dei due oligopolisti li spingerebbe presto a fissare il prezzo che accorda al capitale complessivamente impiegato il massimo profitto, che verrebbe poi ripartito in proporzione al capitale impiegato da ciascuno di essi (Marshall and Edgeworth on value, in Economic Journal, XVI [1906], pp. 364-371).

Parimenti utilizzò l'analisi marginalista del monopsonio, cioè del mercato in cui esiste un unico compratore, per mostrare come i capitalisti, in quanto classe sociale che possiede i mezzi di produzione, detengono un vero e proprio potere monopolistico nel mercato del lavoro e limitano la domanda di lavoro a quella quantità che permette loro di massimizzare i profitti aggregati. Il sistema economico capitalista non tende quindi alla piena occupazione della forza lavoro, ma strutturalmente crea una certa quantità di disoccupazione in conseguenza del fine della massimizzazione dei profitti.

Taglio macroeconomico ha invece il suo contributo all'analisi della disoccupazione. Qui il L. sviluppò la sua teoria del "subprodotto", secondo la quale nel sistema economico capitalistico il prodotto effettivo è generalmente inferiore al prodotto potenziale: secondo questa teoria sfruttare tutte le potenzialità di produzione è dannoso per il sistema perché ha l'effetto di deprimere i profitti e alla fine indebolisce le basi stesse della divisione tra le classi proprietarie e i lavoratori su cui esso è fondato. In questo quadro, secondo il L., si manifestano i fenomeni del "capitale improduttivo" e del "lavoro improduttivo".

Il "capitale improduttivo" sorge quando un ulteriore incremento del capitale produttivo condurrebbe alla diminuzione dei profitti aggregati. Il capitale accumulato, allora, cerca una remunerazione in campi diversi dalla produzione, creando nuove forme di rendita soprattutto, nel capitalismo moderno, finanziaria ("in sotterranei tenebrosi si agita e baratta una turba di falsi monetari, che manipola e traffica la ricchezza altrui e ne ritrae con frode larghissimi guadagni", in Corso completo di economia, Torino 1910, p. 303). Il L. propone di tassare queste nuove forme di rendita al fine di stimolare la produzione e allargare il benessere (I fondamenti scientifici della riforma economica, ibid. 1922).

Il "lavoro improduttivo", che il L. riprende da Smith, è collegato invece alle esigenze di riproduzione del consenso sociale. Questa funzione è svolta sia creando una classe media, distinta ma legata agli interessi della classe capitalistica, che sembra offrire speranze di mobilità sociale verso l'alto ai lavoratori, sia "distraendo" l'attenzione dei lavoratori dalla condizione in cui versano per mezzo dell'industria dell'intrattenimento e allargando ideologicamente il consenso. Nelle sue multiformi manifestazioni, la classe dei lavoratori improduttivi è quindi "l'istituto necessario all'equilibrio sociale, perché concilia la ricchezza degli uni con la povertà degli altri" (Corso completo, p. 329).

Il L. nega quindi che l'economia capitalista tenda a una polarizzazione in due sole classi sociali, i lavoratori e i capitalisti. Infatti, nonostante sia questa la divisione fondamentale che "sta a base della ossatura della società e dei contrasti secolari e violenti, di cui è riempita la storia", permane una differenziazione notevole tra i vari gruppi che vivono del sovrappiù senza aver concorso direttamente alla sua produzione e la cui esistenza è giustificata da ragioni tanto economiche (la tendenza al "subprodotto") quanto politico-sociali (la conquista ideologica del consenso).

Senatore del Regno dal 1919, durante il fascismo restò dignitosamente in disparte. Alla fine del 1922, dopo la marcia su Roma, prese la parola in Senato per rilevare che, con il voto a favore della richiesta dei pieni poteri da parte di B. Mussolini, si assisteva "allo spettacolo di un Parlamento che si suicida abdicando alle sue prerogative secolari" (cfr. R. Faucci, Finanza, amministrazione e pensiero economico. Il caso della contabilità dello Stato da Cavour al fascismo, Torino 1975, p. 166).

Durante la seconda guerra mondiale, braccato dai nazifascisti, il L. si rifugiò con la famiglia a Luserna San Giovanni (Valle Pellice), dove morì il 6 nov. 1943.

Nel 1932, in occasione del pensionamento, l'amico L. Einaudi aveva redatto la sua imponente bibliografia (Bibliografia di A. L., Torino 1932). Oltre alle opere del L. già citate nel testo, si ricordano ancora: Il capitalismo e la scienza, Torino 1901; Marx e la sua dottrina, Milano 1902; La sintesi economica. Studio sulle leggi del reddito, Torino 1909; Dinamica economica, ibid. 1935.

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Lorianesimo

Alcune connotazioni spirituali hanno caratterizzato le qualità mentali di un gruppo di intellettuali italiani e la cultura nazionale. Esse hanno dato corpo ad una particolare categoria culturale che per definizione gramsciana va sotto il nome di lorianesimo. In essa confluiscono "(...) disorganicità, assenza di spirito critico sistematico, trascuratezza nello svolgimento dell'attività scientifica, assenza di centralizzazione culturale e quindi irresponsabilità verso la formazione della cultura nazionale (...).

Il nome a questa categoria intellettuale viene da Achille Lòria (1857-1943), professore padovano di economia, il quale (Marx era appena sceso nella tomba) pubblica sull'attività politica e letteraria del pensatore tedesco nella "Nuova Antologia" dell'aprile 1883 un articolo infarcito di note polemiche e di dati biografici inesatti. Con quest'articolo il lorianesimo, inteso come mollezza ed indulgenza etica nel campo dell'attività scientifico-culturale, è già cominciato. Il Lòria accusa Marx "(...) di un fallimento tecnico completo..., di un suicidio scientifico (...)", a proposito della teoria sul valore nello scritto L'opera postuma di Carlo Marx, apparso in "Nuova Antologia" il 1° febbraio 1895, specialmente alle pp. 478-479. Marx è giunto alla scoperta del plusvalore innanzi tutto attraverso l'analisi della società primitiva senza classi, poi esaminando il lavoro schiavistico e quello del servo della gleba nel Medioevo, e quindi il lavoro della società moderna divenuta società produttrice di merci, quando già le leggi economiche sono determinate dal valore delle merci medesime. Tutto ciò è sfuggito ad Achille Lòria, così come (il che importa di più) egli non considera che nella società attuale divisa in classi, dove il flusso dei beni materiali è prodotto dal lavoro, la parte di questo prodotto che supera quella necessaria al sostentamento del lavoratore, va alla classe dominante la quale, proprio perché detiene i mezzi di produzione, domina il processo produttivo e contribuisce così allo sviluppo e al potenziamento del sistema capitalistico. Il lettore s'avvede che si tratta di una teoria dalle molteplici implicazioni storico-culturali. Il Lòria pretenderebbe di ridurre tutta l'analisi di Marx, centralizzatasi nella teoria del plusvalore, al principio banale e dozzinale del valore identico al prezzo della merce. E' giusto quindi che il lorianesimo sia sottoposto ad una critica dissolvente sin dalla sua prima formulazione, anche se i suoi princìpi teorici tarderanno ancora ad essere tradotti in dottrina, mentre altre categorie intellettuali subiscono una rielaborazione critica quando sono diventate centro di pensiero, perché hanno riportato la conoscenza primitiva a quella già posseduta.

Comincia F. Engels il 4 ottobre 1894: "(...) L'Italia è la terra della classicità. Dalla grande epoca in cui spuntò sul suo orizzonte l'alba della civiltà moderna, essa ha prodotto grandi caratteri, di classica ineguagliata perfezione, da Dante a Garibaldi. Ma anche l'età della decadenza e della dominazione straniera le ha lasciato maschere classiche di caratteri, fra cui due, e particolarmente elaborati: Sganarello e Dulcamara. La loro classica unità noi la vediamo impersonata nel nostro illustre Lòria (...)". Al lettore non sfugga il riferimento a Dulcamara che simboleggia il tipo umano del ciarlatano, e l'ironia che batte sull'aggettivo illustre, nome ed attributo naturalmente riferiti al Lòria. E si rammenti che Dulcamara è topico del lessico di Engels, se ritorna per esempio nella prefazione all'edizione tedesca del 1890 al Manifesto del Partito Comunista a proposito dei socialisti utopisti. Due anni dopo, nel settembre 1896, Benedetto Croce recensisce l'opera di Achille Lòria dal titolo Teoria economica della costituzione politica. In essa, attraverso interminabili logomachìe finalizzate a fissare il concetto di homo oeconomicus, l'autore afferma che tutte le manifestazioni dello spirito sono solamente strumenti di cui l'homo oeconomicus medesimo si serve. Il Croce allora perentoriamente postilla: "(...) In tutta questa trama di teorie colpisce, in primo luogo, la curiosa incapacità del Lòria a porre e mantenere la distinzione tra il fatto e l'idea, o meglio, tra il fatto particolare ed il concetto del fatto; operazione elementare senza cui qualsiasi disputa scientifica è impossibile (...)".

L'intervento di Croce è il secondo momento, dopo quello di Engels, della critica al lorianesimo inteso come categoria intellettuale incapace di legare al tempo ed alla storia ogni prodotto umano, in quanto non si ritiene che esso, proprio perché nasce dalla storia, si riversi e si collochi in essa e concorra a formarla e a svilupparla.

Il terzo momento critico, quello che mette allo scoperto le prerogative del lorianesimo inteso come una categoria intellettuale che nega all'uomo la capacità di essere sensibile alla storia, è teorizzato da Gramsci. A Gramsci siamo debitori se la critica del lorianesimo è diventata autentico elemento di dottrina che trova la sua applicazione nella critica politica ed in quella letteraria. Come è noto, uno dei problemi più importanti che Gramsci ha dovuto risolvere, riguarda la necessità di storicizzare l'ideologia generale del proletariato per dimostrare che esso vive nel complesso della vita statale come elemento nazionale. Gramsci ha dovuto cioè liberare il proletariato dalle incrostature di cui la stampa, la scuola e la tradizione borghesi lo hanno rivestito. Uno strumento di tale operazione culturale è stato appunto Achille Lòria, vero propagandista della borghesia, che ha contribuito a divulgare in forma capillare con affermazioni pseudo-scientifiche l'idea che il socialismo fosse una cosa morta, incapace di uscire "(...) dalla palude dell'arruffata e confusa concezione positivistica (che era una caricatura del materialismo storico) (...)".

Nel fatto che il Lòria ignori il primo dovere degli scienziati, e cioè quello di vagliare i documenti e servirsi soltanto di quelli che hanno la prerogativa della genuinità e della autenticità, Gramsci ha individuato una delle articolazioni fondamentali del lorianesimo, che altrove egli chiama "volgarità e trivialità spirituale", consistente nella mancanza di serietà propria degli studiosi che si spacciano per non dilettanti. Che cos'altro è se non un esempio di "volgarità e trivialità spirituale" l'accostamento fatto da Achille Lòria tra Dante Alighieri e Carlo Marx, tra il Capitale e la Divina Commedia, accostamento giustificato dal fatto che l'Alighierti e Marx sono vissuti ambedue in esilio ed hanno scritto in esilio la loro opera maggiore? Per queste considerazioni lorianesimo non è tanto volgarità e trivialità dell'apparenza verbale, ma della vita interiore, è manifestazione di un pensiero volgare, anche se espresso in forma elegante. L'eleganza, difatti, è solo apparenza vistosa, ma non è arte. Rispetto a Lòria ed al lorianesimo, per esempio, Gramsci è scrittore che crede nel principio della necessità della cultura per l'istaurazione dell'autorità spirituale accettata spontaneamente come riconoscimento di una morale e consapevole gerarchia di valori.

Il lorianesimo, invece, ammette che lo scienziato si serva per fini politici di valori che possono anche non essere politici, di autorità non controllabili che spesso nella realtà sono puri pregiudizi che incoraggiano il servilismo, residuo morale delle dominazioni dispotiche. Ecco due esempi di lorianesimo come forma di autorità non controllabile. Il prof. Lòria nell'articolo Le influenze sociali dell'aviazione (verità e fantasia)[19] espone la teoria dell'emancipazione operaia dalla coercizione del salario e del lavoro di fabbrica per mezzo degli aeroplani che, opportunamente unti di vischio, permettono ad ognuno di nutrirsi con i numerosi uccelli impaniati. Il prof. Giuseppe Prato nell'articolo Ciò che non si vede del costo della vita[20] pretende di teorizzare che l'aumento della vendita del vino da parte dell'Alleanza Cooperativa Torinese diventa prova scientifica di alcoolismi intensivo. Meno demagogicamente la spiegazione di questo aumento potrebbe consistere nell'apertura di nuovi distributori dell'Alleanza e nell'accresciuto numero di clienti che bevono il vino a desinare. Gli esempi addotti provano che lorianesimo significa anche fama fondata sulle parole e sull'opinione generica e non sulla cultura critica che può controllare i valori, col distorto risultato di poter influire sulla pubblica opinione per la generica autorità da cui si è circondati e non per la verità che si professa. Il questo senso il lorianesimo è anche una categoria che trova larga applicazione nella critica letteraria.

Se n'è accorto per primo il Croce, il quale così scrive: "(...) Debbo dire la mia impressione: il Lòria mi pare che non prenda troppo sul serio né le sorti della scienza né quelle della società. Egli è un vero temperamento di letterato, di quelli che amano scrivere libri, dare prova di ingegnosità e di eloquenza, raccogliere elogi e lasciarsi applaudire dagli studenti (...)". Ed ancora, come esempio di retorica di pessimo gusto, Croce riporta il seguente passo di Lòria, tratto dall'articolo già da noi menzionato L'opera postuma di Carlo Marx: "(...) poiché se in questa [la seconda parte del Faust] trovo una serie di scene inanimate, splendidamente interrotte dall'incantevole episodio di Elena, nel secondo volume di Marx le squisite pagine sul giro del Capitale sono la gemma fulgida e solitaria, cinta da una corona di inutili raziocinii. Se ti piacesse, o lettore, una diversa rassomiglianza direi che il primo Capitale sta al terzo Bonaparte, e che il secondo, rannicchiantesi tra l'uno e l'altro, ha tutta la moritura fiacchezza e la cadaverica tinta del Re di Roma (...)". Il lettore s'avvede che dall'iniziale rapporto tra il secondo volume del Capitale di Marx e la seconda parte del Faust, si è passati ad un giudizio storico sui Napoleonidi. Trattasi di un esempio loriano di disorganicità. Il secondo volume del Capitale, insieme col terzo, invece, contengono la dottrina da cui si svilupperà la nuova storia, e cioè la legge dell'accumulazione capitalistica da cui nasce la lotta di classe del proletariato. Essi "(...) offrono qualche cosa di infinitamente più prezioso di ogni compiuta verità: l'incitamento al pensare, alla critica e all'autocritica, che è l'elemento più originale della dottrina che Marx ha lasciato".

Che cosa resta, dunque, del pensiero di Achille Lòria? Soltanto l'inclinazione all'ambiguità ed al gioco allusivo e sfaccettato delle corrispondenze e dei contrasti (triste corona, cadaverica tinta), ma manca del tutto l'interpretazione e la visione storica. Siamo in presenza di una forma scadente di seicentismo che considera marginale l'attività scientifica ed invera una grossissima crisi dell'equilibrio ideale e dello spirito umano. Verrebbe fatto di dire che il lorianesimo riproduce un aspetto nuovo del seicentismo come goffaggine o maniera scomposta di superare contraddizioni conoscitive e ideali.]