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    di Giovanni Sabbatucci
    
    Sommario: 1. Il trasformismo 'storico'. 2. Il trasformismo come
    categoria morale. 3. Il trasformismo come scelta di sistema. 4.
    Trasformismo e storia d'Italia. □ Bibliografia.
    
    1. Il trasformismo 'storico'
    
    Il termine 'trasformismo' entrò nel linguaggio politico
    italiano tra la fine del 1882 e l'inizio del 1883 per definire, con
    chiara connotazione polemica, la politica inaugurata in quel periodo
    dall'allora presidente del Consiglio Agostino Depretis. Per la
    verità il vocabolo traeva origine da un'espressione
    pronunciata dallo stesso Depretis in un discorso tenuto a Stradella
    l'8 ottobre 1882, nell'imminenza delle prime elezioni politiche a
    suffragio 'allargato', che si sarebbero tenute di lì a due
    settimane. In risposta a coloro che criticavano gli accordi da lui
    stipulati in campagna elettorale con la Destra di Marco Minghetti e
    lo accusavano di aver così snaturato il programma della
    Sinistra, Depretis si giustificava con una frase destinata a restare
    celebre: "Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole
    accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e
    diventare progressista, come posso io respingerlo?" (cit. in
    Candeloro, 1970, p. 161).
    
    Non era la prima volta che il presidente del Consiglio si esprimeva
    in questi termini. Esattamente sei anni prima, e sempre a Stradella,
    nel corso della campagna elettorale del 1876, Depretis aveva
    esplicitamente invocato "quella concordia, quella feconda
    trasformazione dei partiti" che sola avrebbe consentito la
    formazione di una "salda maggioranza". In quello stesso discorso,
    però, il leader della Sinistra aveva contraddittoriamente
    ricondotto la portata del suo appello entro i termini di quello che
    oggi definiremmo un accordo bipartisan, facendo riferimento alla
    "concordia delle due grandi parti politiche che devono alternarsi al
    potere" (cit. in De Mattei, 1941, p. 9). E del resto l'esito
    trionfale delle discusse elezioni del 1876 avrebbe garantito alla
    Sinistra una maggioranza non solo salda, ma addirittura
    schiacciante, rendendo superflua qualsiasi ipotesi di accordo con
    l'opposizione. Nel 1882, invece, ogni accenno all'alternanza era
    scomparso, mentre si dava per scontata la convergenza dei moderati
    sulle posizioni 'progressiste' che Depretis aveva sempre rivendicato
    come sue.
    In realtà, da questo punto di vista, le parole del presidente
    del Consiglio contenevano una buona dose di insincerità. Che
    gli uomini della Destra moderata (o almeno quelli che si
    riconoscevano nelle posizioni di Minghetti) si fossero trasformati,
    o si stessero trasformando, in progressisti era affermazione quanto
    meno opinabile. Minghetti era lo stesso uomo politico che, poco meno
    di dieci anni prima (nel 1873), da capo del governo aveva proposto
    al Depretis allora capo dell'opposizione un accordo 'centrista' in
    tutto e per tutto simile a quello che poi si sarebbe realizzato a
    parti invertite nel 1882. Il leader della Sinistra, che pure non era
    alieno da simili prospettive e non era nemmeno nuovo a combinazioni
    politiche 'trasversali' (aveva fatto parte per due volte di governi
    a guida moderata), aveva allora rifiutato la proposta, privilegiando
    l'esigenza di tenere unita la sua parte politica in vista di una
    prossima ascesa al potere; e i fatti gli avrebbero dato ragione. La
    diversa scelta operata da Minghetti nel 1882 era motivata in parte
    dalle preoccupazioni suscitate dalla appena varata riforma
    elettorale circa la possibile irruzione nell'arena parlamentare di
    forze non legittimate (preoccupazioni comuni, come vedremo, a larga
    parte della Sinistra di governo), in parte dalla presa d'atto del
    carattere irreversibile della sconfitta subita con la cosiddetta
    'rivoluzione parlamentare' del marzo 1876 e più ancora con le
    elezioni dell'ottobre di quell'anno: non era certo, dunque, il
    risultato di una significativa evoluzione politico-ideologica.
    
    A subire un'evoluzione in senso opposto, e dunque in qualche misura
    a 'trasformarsi', erano stati piuttosto gli uomini della Sinistra
    moderata. Chiusasi, con la formazione nel maggio 1881 del quarto
    ministero Depretis, la parentesi progressista dei governi Cairoli,
    esauritasi, con l'approvazione della nuova legge elettorale, la
    stagione delle riforme, gli eredi della Sinistra risorgimentale
    apparivano soprattutto preoccupati di rafforzare le loro basi di
    consenso e di garantire al tempo stesso la solidità delle
    istituzioni nel segno di un liberalismo moderato non molto diverso,
    nella sostanza, da quello dei loro antichi rivali. Ad accentuare le
    loro preoccupazioni contribuivano da un lato le sempre più
    visibili manifestazioni di un nuovo dissenso politico e sociale (non
    solo di ispirazione radical-repubblicana, ma anche di matrice
    socialista) che stava trovando proprio allora nuove e più
    definite forme organizzative, dall'altro le possibili conseguenze
    della riforma elettorale che loro stessi avevano voluto e approvato
    dopo non pochi tentennamenti (v. Romanelli, 1988). Una riforma che,
    pur essendo ispirata a un prudente gradualismo (legare il suffragio
    al requisito dell'istruzione primaria significava diluire in tempi
    molto lunghi l'accesso alle urne del grosso della popolazione),
    accresceva di tre volte il corpo elettorale e soprattutto lo mutava
    dal punto di vista qualitativo, rendendolo meno controllabile e
    minacciando di favorire, accanto alla sinistra moderata, anche una
    sinistra estrema ben radicata in alcuni strati della piccola
    borghesia e delle nascenti élites operaie.
    
    Furono soprattutto queste preoccupazioni a rendere necessaria e
    urgente, agli occhi dei moderati di ambo le parti, un'operazione
    politica volta a superare gli schieramenti tradizionali (i cui
    confini peraltro non erano mai stati nettamente segnati e da molti
    anni ormai si andavano facendo sempre più incerti) e a dar
    vita così a una nuova grande maggioranza 'centrista',
    teoricamente inattaccabile e capace dunque di garantire l''area
    della legittimità' (v. Sabbatucci, 1990) dalle possibili
    incursioni delle forze antisistema, fin allora neutralizzate dalla
    stessa ristrettezza del suffragio. L'operazione, destinata a
    rivelarsi irreversibile e a segnare nel lungo periodo la storia
    della politica italiana, si attuò in effetti già nella
    campagna elettorale del 1882: grazie anche al meccanismo dei collegi
    plurinominali introdotto dalla nuova legge (che in teoria avrebbe
    dovuto moralizzare e spersonalizzare i termini della competizione),
    numerosi furono i casi di accordi fra Destra e Sinistra sul nome di
    uno o più candidati. La consacrazione ufficiale della nuova
    maggioranza si ebbe però nel maggio 1883, con la formazione
    del quinto ministero Depretis, ufficialmente appoggiato da una parte
    cospicua della vecchia Destra.
    
    Non si trattò, peraltro, di un'operazione indolore. Anche a
    prescindere dalle accese polemiche che essa suscitò,
    soprattutto a sinistra (e dalle quali ebbe origine la stessa parola
    'trasformismo'), l'alleanza Depretis-Minghetti accelerò in
    primo luogo il processo di individuazione e di separazione di una
    sinistra 'radicale' (che in realtà esisteva già da
    alcuni anni, ma non si poneva in netta soluzione di
    continuità con le componenti progressiste della Sinistra di
    governo). In secondo luogo provocò all'interno della stessa
    maggioranza una vasta dissidenza raccolta attorno a cinque fra i
    personaggi più prestigiosi della Sinistra storica: Crispi,
    Nicotera, Cairoli, Zanardelli e Baccarini. In realtà,
    nonostante la sua non trascurabile consistenza parlamentare, la
    cosiddetta 'pentarchia' non assunse mai il ruolo e la figura di una
    nuova ed efficiente opposizione: i suoi leaders erano infatti divisi
    da forti rivalità (Crispi faceva parte per se stesso e i
    progressisti settentrionali, Cairoli, Zanardelli e Baccarini, non
    avevano nulla in comune con un personaggio discusso come Nicotera) e
    tutt'altro che determinati a costituire un solido fronte comune in
    vista di un'alternativa di governo. Alternativa che sfumò
    definitivamente con l'ingresso (aprile 1887) di Crispi e Zanardelli
    nell'ottavo e ultimo ministero Depretis.
    
    La fine del trasformismo 'storico' viene comunemente fatta
    coincidere con la morte di Agostino Depretis (luglio 1887) e con
    l'ascesa di Francesco Crispi alla Presidenza del Consiglio. E in
    effetti, da allora, la stessa espressione 'trasformismo' uscì
    dal linguaggio politico corrente. In realtà, pur tenendo
    conto delle cospicue differenze fra i due statisti, quanto meno
    nello stile di governo, proprio la successione 'interna' di Crispi,
    che ereditò dal suo predecessore sia la compagine
    ministeriale sia la maggioranza parlamentare, segnò la
    definitiva affermazione del modello trasformista in senso lato: di
    un modello, cioè, caratterizzato dalla presenza di una
    'grande maggioranza' mobile e plastica, pronta a spezzarsi e a
    ricomporsi attorno alla figura di singoli leaders, non fondata su
    precise pregiudiziali di programma, ma ugualmente capace di
    monopolizzare l'area della legittimità costituzionale (e
    dunque di bloccare sul nascere qualsiasi alternativa di governo),
    relegando le opposizioni ai lati estremi e simmetrici dello
    schieramento parlamentare.
    
    2. Il trasformismo come categoria morale
    
    L'operazione politica avviata da Depretis nell'autunno 1882 aveva,
    come si è visto, scopi evidenti di stabilizzazione.
    Ciò non toglie che, almeno nelle intenzioni del suo
    principale promotore, essa si iscrivesse in una logica e in una
    cultura di segno positivista e moderatamente progressista. L'accenno
    di Depretis alla "trasformazione" non solo alludeva a una tendenza
    ormai in atto da molti anni, che mirava al superamento delle vecchie
    divisioni nel nome degli interessi nazionali (e vedeva infatti il
    continuo proliferare di 'centri-sinistri', di 'terzi partiti', di
    'sinistre giovani' e via elencando), ma rinviava anche a un contesto
    lessicale e culturale in cui il termine 'trasformazione'
    (così come 'evoluzione') acquistava una connotazione
    implicitamente positiva (v. Bollati, 1983, p. XI).
    
    Questa connotazione risultò capovolta nel passaggio al
    derivato 'trasformismo' che divenne subito sinonimo di politica
    senza principî, di amoralità, di sostanziale
    corruzione. Uno slittamento semantico comune a molti termini del
    linguaggio politico, in particolare al coevo 'opportunismo', calco
    del francese opportunisme, parola coniata per indicare una politica
    sostanzialmente analoga, sia nella pratica sia nelle motivazioni, a
    quella avviata in Italia da Depretis. Sembra che all'origine del
    termine vi fosse un riferimento all'abilità dei Gambetta e
    dei Ferry nello sfruttare le 'opportunità' a loro
    disposizione: il sostantivo 'opportunità' era dunque usato in
    senso positivo, mentre i derivati 'opportunismo' e 'opportunista'
    acquistarono subito, nel linguaggio degli oppositori radicali, il
    significato spregiativo che tuttora conservano.
    
    Se 'opportunismo' è diventato un termine universale -
    ricorrente soprattutto nel linguaggio e negli schemi mentali del
    movimento operaio - quella di 'trasformismo' è invece rimasta
    una categoria tipicamente italiana. Una categoria che non solo
    è stata usata come chiave di lettura dell'intera storia
    politica unitaria (il che, come vedremo, è, almeno in parte,
    legittimo), ma addirittura, anche in analisi recenti e raffinate (v.
    Altan, 1989), è stata assunta a elemento cardine del
    carattere nazionale: il trasformismo come vizio italico, come segno
    di un'inclinazione, maturata attraverso i secoli, a non prendere
    troppo sul serio fedi e ideologie, ma anche, in positivo, come
    manifestazione di uno speciale talento applicato alla
    capacità di adattamento e di sopravvivenza. Italiano era del
    resto il più famoso trasformista di tutti i tempi: quel
    Leopoldo Fregoli, attore livornese nato nel 1867 e morto nel 1936,
    la cui specialità consisteva nel cambiare abito e trucco con
    prodigiosa rapidità. Il suo lungo e indiscusso successo sulle
    scene di mezzo mondo contribuì certamente alla fortuna del
    vocabolo e anche alla piegatura semantica che lo identificava in
    buona sostanza con l'abitudine a mutar casacca con disinvoltura:
    donde l'uso improprio dei termini trasformismo e trasformista in
    riferimento al passaggio di uomini o gruppi politici da uno
    schieramento all'altro.
    
    L'interpretazione morale, o moralista, del trasformismo traeva in
    verità alimento da alcuni dati reali, relativi ai caratteri
    assunti dalla pratica di governo e dalla lotta politica in Italia
    dopo la svolta del 18821883. Il venir meno di ogni discriminante
    ideologica e programmatica fra i due maggiori schieramenti in campo
    (ossia la fine di quel sia pur imperfetto modello bipolare che aveva
    caratterizzato la scena parlamentare italiana nel primo ventennio
    postunitario) ebbe come effetti un visibile degrado del dibattito
    politico all'interno della 'grande maggioranza' costituzionale e il
    trasferimento delle funzioni proprie dell'opposizione a forze non
    pienamente legittimate (l'estrema radicale, repubblicana e poi
    socialista) oppure a gruppi eterogenei o marginali, pronti peraltro
    a rientrare alla prima occasione nel gioco delle combinazioni
    ministeriali (la pentarchia o l'ala più dura della vecchia
    Destra). 
    
    La necessità per l'esecutivo - non più sorretto da una
    maggioranza in qualche modo precostituita - di costruirsi la sua
    base di consenso giorno per giorno, mediando fra gruppi di pressione
    e interessi locali, non giovò certamente alla qualità
    dell'azione di governo né alla trasparenza dei processi
    decisionali. La combinazione fra queste maggioranze e un apparato
    statale fortemente accentrato - elemento essenziale, quest'ultimo,
    della "formula trasformistica" (v. Vivarelli, 1991, vol. II, pp.
    64-71) - esaltava l'intreccio triangolare fra i singoli deputati, il
    governo e una pubblica amministrazione da sempre poco portata a
    interpretare il suo ruolo in modo imparziale.
    
    Questi fenomeni, che peraltro furono solo esaltati e non creati
    dalla prassi trasformistica (l'uso disinvolto degli apparati
    pubblici, ad esempio, era parte essenziale della pratica di governo
    della Destra storica), non vanno però considerati, in
    un'ottica essenzialmente deprecatoria, solo in quanto manifestazioni
    di malcostume e fomite di corruzione; né tanto meno possono
    essere ricondotti a un presunto carattere nazionale (categoria,
    quest'ultima, sfuggente quant'altre mai e già fortemente
    criticata da Croce). Essi erano invece la conseguenza di un
    determinato assetto istituzionale e il risultato di alcune precise
    scelte politiche. Scelte sicuramente opinabili e forse non
    coraggiose, ma non prive di motivazioni serie: in quel periodo la
    fedeltà alle istituzioni delle forze escluse dall'area della
    legittimità (estrema sinistra da un lato, cattolici
    dall'altro) era tutt'altro che scontata; e l'Italia, unificata da
    appena un ventennio, aveva un disperato bisogno di
    rispettabilità anche internazionale (il 1882 è non
    solo l'anno della riforma elettorale, ma anche quello della Triplice
    alleanza). Dunque, ciò che spingeva i moderati di ambo le
    parti a far blocco al centro era non tanto una smodata brama di
    potere, quanto un eccesso di prudenza. In altri termini, il
    trasformismo non nasceva da una connaturata inclinazione al
    compromesso dei politici italiani, ma era il portato della debolezza
    originaria dello Stato unitario, della fragilità delle
    istituzioni e della cronica esiguità delle loro basi di
    consenso. Non era il prodotto di un carattere nazionale, ma la
    risposta, forse sbagliata, a un problema reale.
    
    3. Il trasformismo come scelta di sistema
    
    Inteso in questo senso ampio, il trasformismo non fu, e non
    è, certamente un fenomeno solo italiano. Le sue origini si
    possono rintracciare nella teoria e nella pratica del juste milieu
    guizotiano ai tempi della Monarchia di luglio: un modello, questo, a
    cui, pur dandone un'interpretazione dinamica, si era già
    esplicitamente ispirato Cavour nel promuovere la politica del
    'connubio'. A livello di teoria costituzionale, il trasformismo
    trovava una sorta di giustificazione preventiva nelle opere del
    giurista svizzero Johann Kaspar Bluntschli, autore nel 1869 di un
    fortunato trattato di politica in cui si sosteneva tra l'altro la
    necessità dell'unione fra i partiti medi, ossia conservatori
    e liberali, al fine di impedire la prevalenza di quelli estremi
    (reazionari e radicali) nella conduzione dello Stato. Tradotta negli
    anni settanta dell'Ottocento in Francia e in Italia, apprezzata e
    citata, non a caso, da Marco Minghetti (v., 1881), l'opera di
    Bluntschli esercitò una forte influenza in tutta Europa (v.
    Pombeni, 1994, p. 110) e fornì ulteriori argomenti ai
    sostenitori del governo di coalizione come alternativa al modello
    bipartitico tipico dei paesi anglosassoni (ma in verità non
    sempre funzionante in quel periodo nemmeno in Gran Bretagna).
    
    Il principale campo di applicazione di queste teorie - e il
    più importante precedente del trasformismo depretisiano - va
    sicuramente individuato nella Francia degli esordi della Terza
    Repubblica: la cui nascita stessa - a partire dalla tribolata
    approvazione da parte dell'Assemblea Nazionale delle lois
    constitutionelles nel 1875 - si dovette a un accordo fra i 'centri'
    (monarchici orleanisti e repubblicani moderati), e la cui intera
    vita sarebbe stata poi segnata dal rapido succedersi di instabili
    governi di coalizione. La storia politica della Francia repubblicana
    conobbe, è vero, un dinamismo più pronunciato rispetto
    a quella dell'Italia liberale e consentì persino un blando
    simulacro di alternanza fra coalizioni a prevalenza conservatrice e
    alleanze a tinta progressista (si trattava però, appunto, di
    un simulacro, in quanto l'alternanza era dovuta più agli
    spostamenti dei gruppi in Parlamento che non ai verdetti
    elettorali). Ma i due sistemi politici funzionavano in modo molto
    simile. Analoghe erano, in primo luogo, le cause di fondo che, nei
    due paesi, facevano apparire praticamente obbligata la via
    dell'unione dei centri e che, riferendosi all'esigenza di tutelare
    le istituzioni dagli attacchi delle forze politiche estremiste
    (anche se in Francia le istituzioni da difendere e da consolidare
    erano quelle repubblicane), rinviavano implicitamente all'assenza, o
    all'insufficienza, di un patto originario largamente condiviso, di
    un quadro di legittimità comunemente accettato. Analoghe,
    nella sostanza, erano anche le conseguenze pratiche del modello
    adottato: mobilità delle maggioranze, instabilità
    degli esecutivi, scarsa trasparenza dei processi decisionali,
    corruzione politica favorita dall'assenza di quel fondamentale
    correttivo che è rappresentato dall'alternanza di governo per
    via elettorale (o dalla semplice possibilità che essa si
    verifichi).
    
    In questo senso, il trasformismo italiano non merita né il
    giudizio assolutorio formulato nella sua Storia d'Italia da
    Benedetto Croce (v., 1928), il quale giungeva a negare al concetto
    ogni dignità di categoria politica, né le definizioni
    severe che, sulla scorta delle polemiche democratiche di fine
    Ottocento, ne hanno dato alcuni fra i maggiori esponenti della
    storiografia di questo dopoguerra: sia quelli di formazione marxista
    (v. Carocci, 1956 e 1992; v. Candeloro, 1970), che ne hanno messo in
    rilievo soprattutto i risvolti conservatori e immobilisti, sia
    quelli di formazione salveminiana (v. Vivarelli, 1991), che hanno
    insistito sui suoi effetti deleteri sul costume politico e sulla
    funzionalità delle istituzioni. In particolare, in un'ottica
    di comparazione con altre coeve esperienze europee, sembra eccessivo
    il giudizio formulato da Carocci (v., 1992, p. 10), uno dei
    più autorevoli studiosi del trasformismo: "una sottospecie
    degenerata della maggioranza di centro alla francese". È
    forse più corretto parlare della versione italiana -
    né particolarmente corrotta né specialmente virtuosa -
    di un modello di governo, e di sistema politico, affermatosi in
    molti regimi parlamentari europei del tardo Ottocento (non solo in
    Italia e in Francia) in alternativa a quello tendenzialmente
    bipartitico sviluppatosi nei paesi anglosassoni.
    
    La notevole fortuna incontrata da questo modello va ricondotta in
    primo luogo alla lentezza e alla difficoltà del processo di
    impianto sul continente delle istituzioni parlamentari e, in
    prospettiva, di quel sistema che oggi siamo soliti definire
    'democrazia liberale'. Il problema, infatti, non sussisteva nemmeno
    nei regimi autoritari, o semiautoritari, dell'Europa centrale, dove
    i governi potevano in qualche misura prescindere dall'appoggio delle
    assemblee rappresentative. Là dove, invece, la sorte del
    potere esecutivo era in vario modo collegata alle manifestazioni
    della volontà popolare, tanto più se espresse
    attraverso forme di suffragio allargato o universale, l'esigenza di
    proteggere le maggioranze parlamentari dalla possibile prevalenza
    delle tendenze estremiste si imponeva come prioritaria. Soprattutto
    nei paesi - ed erano i più - in cui erano ampie le fratture
    politico-ideologiche (o anche religiose o etnico-linguistiche, si
    veda il caso del Belgio), forte l'eredità dei conflitti
    passati e debole il consenso alle istituzioni, la competizione
    bipolare propria del modello anglosassone appariva troppo
    pericolosa, in quanto era ritenuta, a torto o a ragione, capace di
    rivelare e di approfondire lacerazioni e fratture preesistenti e di
    offrire più larghi spazi di intervento alle forze della
    rivoluzione e a quelle della reazione assolutistica.
    
    Nati, come si è visto, per rispondere a un'esigenza
    legittima, in una fase in cui le istituzioni liberaldemocratiche
    stavano muovendo in molti paesi i loro primi passi, i sistemi lato
    sensu trasformistici mostrarono nel tempo una spiccata tendenza
    all'autoperpetuazione. Le grandi maggioranze centriste tendevano
    infatti fatalmente a usurarsi e, contraddicendo allo scopo
    originario per cui erano sorte, lasciavano spazi sempre più
    larghi, sulle loro ali estreme, allo sviluppo di opposizioni
    'irresponsabili', la cui crescita, a sua volta, serviva a ribadire
    l'esigenza di far blocco al centro. Il sistema sopravviveva
    ammettendo nell'area della legittimità singole componenti
    delle opposizioni, che, nel momento in cui si costituzionalizzavano,
    venivano però sostituite da nuove forze radicali. Il ricambio
    avveniva dunque attraverso meccanismi di cooptazione e di
    esclusione, mai mediante un fisiologico processo di alternanza per
    via elettorale: il che certo non giovava né alla
    funzionalità del sistema né alla sua moralità.
    
    Questo schema di funzionamento - che facilmente può sfociare
    nel modello del "multipartitismo polarizzato" descritto da Giovanni
    Sartori (v., 1982) - è tipico di tutti i sistemi politici
    originariamente fondati sul blocco al centro con esclusione delle
    estreme. Ma proprio in Italia, paese d'origine del trasformismo
    storico, esso ha trovato le applicazioni più integrali e
    più sistematiche: tanto da informare di sé, pur
    nell'alternarsi delle leggi elettorali e degli assetti
    istituzionali, oltre un secolo di storia politica del paese.
    
    4. Trasformismo e storia d'Italia
    
    Se il trasformismo inteso in senso etico (o addirittura come dato
    antropologico) ha un significato soprattutto polemico, e non aiuta
    molto a capire la storia italiana, il trasformismo inteso nel senso
    'sistemico' appena descritto si rivela invece una chiave utile per
    leggere la vicenda politica nazionale in un'ottica di lungo periodo
    (v. Sabbatucci, 1990; v. Salvadori, 1994). Nel caso italiano,
    infatti, alla naturale tendenza del sistema all'autoperpetuazione,
    si aggiunse l'anomala persistenza di quei fattori di debolezza del
    tessuto politico-istituzionale (forti contrasti ideologici e ampie
    fratture sociali, carenza di valori generalmente condivisi, presenza
    di agguerrite opposizioni antisistema) che abbiamo visto essere
    all'origine della tendenza a far blocco al centro.
    
    Secondo molti studiosi (v. Mack Smith, 1959; v. Maranini, 1967; v.
    Galli, 1975), la connotazione trasformistica del sistema politico
    italiano risalirebbe addirittura al periodo preunitario, più
    precisamente al "connubio" fra "centro-destro" e "centro-sinistro"
    promosso da Cavour e Rattazzi nel 1852 in sede di Parlamento
    subalpino. In realtà, anche a prescindere dalla valenza
    patriottica e progressiva di quell'operazione - valenza
    vigorosamente sottolineata da Rosario Romeo (v., 1977, t. 2, pp.
    59-80) -, va ricordato che essa era chiaramente legata a una precisa
    strategia politica (l'alleanza fra la monarchia sabauda e il
    movimento liberale-nazionale) e che, a unità raggiunta
    (grazie anche all'autoesclusione dalla vita politica di cattolici
    intransigenti e legittimisti), il Parlamento italiano riassunse una
    configurazione tendenzialmente bipolare, imperniata sulla divisione
    fra liberali moderati e liberali progressisti.
    
    L'operazione varata trent'anni dopo da Depretis, svincolata da ogni
    chiara opzione programmatica, ebbe invece un carattere
    irreversibile. La grande maggioranza da essa creata non solo
    occupava saldamente il centro dello schieramento politico, ma
    coincideva, almeno in teoria, con l'area della legittimità
    costituzionale e dunque non ammetteva alternative che non fossero
    traumatiche. Per rompere quello schema, la classe dirigente liberale
    avrebbe dovuto dividersi secondo una netta linea di separazione fra
    conservatori e progressisti: il che, però, non poteva fare se
    non a prezzo di far entrare nel gioco politico (in funzione
    determinante e non solo subalterna) le forze cattoliche e
    socialiste, la cui lealtà nei confronti delle istituzioni
    continuava a essere quanto meno dubbia. Nei primi anni del secolo
    parve, per la verità, che Giolitti e Sonnino si presentassero
    come i possibili leaders, in ambito liberale, di due schieramenti
    alternativi, ispirati a programmi contrapposti. 
    
    In realtà Giolitti e Sonnino, come avevano fatto prima di
    loro Crispi e Rudinì, usavano i loro programmi per proporsi
    come capi non già di due maggioranze diverse, ma della stessa
    'grande maggioranza' liberale, occasionalmente allargata a questo o
    a quello spezzone delle forze già escluse dall'area della
    legittimità. Paradossalmente, fu il 'conservatore' Sonnino a
    portare per la prima volta i radicali al governo, mentre fu il
    'progressista' Giolitti a promuovere, sia pur in forme graduali e
    coperte, i primi tentativi di inserimento dei cattolici nel quadro
    istituzionale dello Stato liberale.
    
    Il sistema fondato sulla grande maggioranza superò bene la
    prova del suffragio 'quasi universale' maschile (grazie anche
    all'escamotage del patto Gentiloni, che permise alla classe
    dirigente di utilizzare a suo vantaggio almeno una parte del voto
    cattolico). E sopravvisse persino alla gravissima spaccatura
    apertasi nell'area liberale sulla questione dell'intervento nella
    grande guerra: la frattura tra interventisti e neutralisti si
    manifestò a livello di schieramenti parlamentari solo alla
    fine del 1917 (senza peraltro esercitare un'influenza di rilievo
    nella formazione delle maggioranze governative) e si chiuse
    definitivamente nella primavera-estate del 1920, con la formazione
    dell'ultimo ministero Giolitti.
    
    A quel punto, però, il sistema era già entrato in
    crisi, non per i contrasti interni alla maggioranza costituzionale,
    ma per l'improvviso venir meno di quella maggioranza in seguito
    all'esito traumatico delle elezioni del novembre 1919: esito
    spiegabile a sua volta con la concomitanza di una gravissima
    emergenza politico-sociale (quella del 'biennio rosso' 1919-1920) e
    di una riforma elettorale (la rappresentanza proporzionale con
    scrutinio di lista) che sconvolgeva d'un colpo il collaudato sistema
    di rapporti fra eletti ed elettori su cui il personale politico
    liberale aveva costruito le sue fortune.
    La perdita dell'autosufficienza da parte della classe dirigente di
    matrice risorgimentale non costituiva però la premessa di un
    nuovo sistema, alternativo al vecchio. Al contrario, la presenza
    minacciosa in Parlamento di una fortissima opposizione antisistema
    (i 156 deputati di un Partito socialista schierato su una linea di
    radicale rifiuto delle istituzioni) obbligava tutte le altre forze a
    confluire in una stessa maggioranza per dare al paese un
    qualsivoglia governo; in particolare costringeva la variegata
    galassia liberal-democratica a cercare la collaborazione di un
    partito cattolico ormai strutturatosi in moderna formazione di massa
    ed emancipatosi dalle logiche subalterne del clerico-moderatismo
    d'anteguerra. Le ultime maggioranze parlamentari dell'età
    liberale furono dunque anch'esse trasformiste in senso lato: nel
    senso cioè che erano prive di alternative, non avevano una
    connotazione programmatica precisa ed erano guidate da una logica di
    mera sopravvivenza. 
    
    Quelle maggioranze, però, non potevano più disporre di
    alcuni degli strumenti classici del vecchio trasformismo (il
    rapporto personale, non mediato dalle strutture partitiche, fra il
    capo del governo e i singoli deputati, il legame fra il deputato e
    il suo collegio); e mancavano di quel minimo di omogeneità
    che la comune matrice liberal-risorgimentale aveva bene o male
    assicurato alle maggioranze prebelliche: causa non ultima, questa,
    del collasso funzionale dell'intero sistema e della conseguente
    ascesa al governo di Mussolini.
    
    Lo stesso Mussolini, peraltro, dopo aver fondato il suo primo
    esperimento di governo sulla preesistente maggioranza
    liberal-popolare, si fece promotore di una riforma elettorale che
    prevedeva, come condizione per il successo del fronte governativo,
    la concentrazione di tutte le forze autenticamente 'nazionali' in un
    unico 'listone'. Quella realizzata con la legge Acerbo del 1923 e
    poi con le elezioni del 1924 fu certamente molto più che una
    semplice operazione trasformista: fu la premessa necessaria per
    l'instaurazione di una dittatura monopartitica. Essa fu però
    grandemente facilitata da una tradizione politica che considerava
    normale la concentrazione di tutte le forze 'sane' in un unico
    blocco (e anche da una cultura giuspubblicistica che vedeva nel
    parlamento più un'articolazione del potere statale che
    un'espressione della pluralità dei soggetti operanti nella
    società). Questa tendenza di fondo non mutò nella
    sostanza nemmeno dopo la caduta del fascismo e la riconquista delle
    libertà democratiche. A guerra conclusa, parve naturale che i
    partiti che avevano guidato la lotta di liberazione (o almeno i
    maggiori fra di essi) continuassero a governare insieme il paese.
    Quando, nel 1947, la coalizione tripartita si ruppe per iniziativa
    di De Gasperi, le sinistre furono espulse non solo dal governo, ma
    anche da una ridefinita area della legittimità, entro la
    quale sarebbero poi state riammesse in tempi e modi diversi (i
    socialisti col centrosinistra, i comunisti con la solidarietà
    nazionale), contestualmente al loro ingresso nelle maggioranze
    governative: senza mai assumere dunque la figura del polo
    alternativo in un quadro di opposizione costituzionale.
    
    Leggere la storia politica repubblicana nella sola chiave della
    continuità col vecchio trasformismo sarebbe riduttivo, oltre
    che scorretto. Il modello originario si fondava, come si è
    visto, su maggioranze mobili costruite giorno per giorno attraverso
    gli accordi con i singoli deputati o con i gruppi di interesse
    locali: il tutto in assenza di schieramenti partitici e di gruppi
    parlamentari fortemente strutturati. Quello della 'democrazia dei
    partiti' attuato in età repubblicana (e già
    parzialmente sperimentato negli anni successivi alla prima guerra
    mondiale) era invece un modello rigido, i cui equilibri erano in
    larga parte predeterminati in base alle intese di vertice fra le
    segreterie. La rigidità del sistema e la solidità
    delle maggioranze da esso espresse risultavano però attenuate
    a causa della frammentazione partitica, favorita dalla legge
    elettorale proporzionale, e delle divisioni interne alle formazioni
    politiche maggiori: ragion per cui, nella pratica, la vita dei
    governi era legata a un complicato gioco di mediazioni fra partiti e
    correnti che aveva qualche punto di contatto con quello messo in
    atto dai leaders parlamentari dell'Italia prefascista. Restava poi,
    come costante immutabile, la sostanziale inamovibilità delle
    coalizioni di governo, instabili e conflittuali ma inattaccabili per
    via elettorale, e suscettibili di cambiamento solo attraverso
    meccanismi di cooptazione e di esclusione.
    
    La 'rivoluzione maggioritaria' dei primi anni novanta - segnata
    soprattutto dall'esito vittorioso del referendum del 1993
    sull'elezione del Senato - ha avuto per obiettivo proprio la rottura
    di questo modello e l'avvento di una democrazia bipolare di stampo
    anglosassone. Il tempo dirà se e in quale misura l'obiettivo
    sia stato raggiunto. È certo comunque che le resistenze
    soggettive e gli ostacoli oggettivi con cui si è dovuto
    misurare il processo di transizione verso un modello compiuto di
    democrazia dell'alternanza vanno in larga parte attribuiti
    all'eredità del trasformismo: inteso come scelta di sistema e
    non come mera espressione di un costume politico, come prodotto non
    tanto di una irresistibile vocazione al compromesso, quanto
    piuttosto di una scarsa propensione a riconoscersi in un quadro di
    regole e di valori condivisi.