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Critico drammatico italiano (Roma 1887 - ivi 1955) dell'Idea nazionale, della Tribuna, del Giornale d'Italia, e poi del Tempo di Roma; direttore e collaboratore di numerose riviste e collane drammatiche; dal 1945 al 1955 titolare delle cronache teatrali a Radio Roma. Fondò e presiedette l'Accademia d'arte drammatica (ora intitolata al suo nome), diresse la sezione del teatro nell'Enciclopedia Italiana e l'Enciclopedia dello Spettacolo (1954-62). Di primo piano l'opera sua a vantaggio del teatro, e specialmente per un teatro italiano veramente moderno. Si occupò anche, da cattolico militante, di argomenti religiosi (Le strade che portano a Roma, 1924; Pellegrini in Terra Santa, 1926; Certezze, 1932); e, da cultore di cose romane, trattò di poeti, in dialetto e in lingua, della sua città (Bocca della verità, 1943): della quale, o propriamente della Roma della sua infanzia e adolescenza, si fece trepido evocatore nel romanzo Le finestre di piazza Navona (pubbl. postumo, 1961).
Fu tra i primi sostenitori della necessità, per l'Italia, di teatri stabili, e dell'opera di un direttore illuminato; considerò nociva per lo spettacolo teatrale, da lui concepito come spettacolo d'insieme, la preminenza del primo attore (il cosiddetto "mattatore").
Opere principali: Il teatro dei fantocci, 1920; Maschere, 1921; Ibsen, 1928; Il teatro italiano del '900, 1932; Storia del teatro drammatico, 4 voll., 1939-40; Dramma sacro e profano, 1942; Palcoscenico del dopoguerra, 2 voll., 1953. Postume sono state raccolte, in 2 voll., le principali sue Cronache del teatro: I (1914-1928), 1963; II (1929-1955), 1964.
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DBI
di Paolo Petroni
Nacque a Roma il 3 febbr. 1887 da Fedele e
Filomena Viola.
Il padre, originario di Torricella Peligna (Chieti), era stato
chiamato a Roma dallo zio paterno Domenico, noto stuccatore e
decoratore, che gli lasciò i suoi beni; la madre, invece,
romana, proveniva da una famiglia di intellettuali più o meno
liberaleggianti; cattolica osservante, diede una profonda educazione
religiosa ai figli.
Il D. andrà così a scuola dai gesuiti: Arnaldo
Frateili, suo compagno all'istituto "M. Massimo" di Roma, ricorda la
sua critica partecipazione alle recite scolastiche (in A. Frateili,
Dall'Aragno al Rosati, Milano 1964, pp. 269-73). Iscritto quindi
all'università, il D. si laureò in giurisprudenza, ma
frequentò anche la facoltà di lettere e filosofia,
spintovi sia dai suoi interessi artistici e teatrali sia dagli amici
che contava in quell'ambiente. Nel 1911, anno in cui sposò
Elsa Minù (dalla quale ebbe tre figli: Fedele, Marcello e
Alessandro), venne assunto per concorso al ministero della Pubblica
Istruzione dove lavorò per dodici anni, con una interruzione
tra il 1915 e il 1917, quando partecipò volontario alla prima
guerra mondiale.
In questi anni prese forma definitiva il suo impegno teatrale: dal
1914 collaborò al quotidiano romano L'Idea nazionale come
vice del critico drammatico Domenico Oliva, al quale succedette,
dopo la fine della guerra, come titolare della rubrica, assumendo
anche la direzione della terza pagina del giornale.
L'inizio della sua attività come critico militante coincise
col suo debutto come autore teatrale, che però, dopo la messa
in scena, il 17 genn. 1913 al teatro Argentina, di un poema tragico
in versi, scritto in collaborazione con Alessandro Rosso,
Savonarola, non ebbe seguito, se si eccettua un testo di tutt'altra
natura, tratto da laudi sacre del XIII e XIV secolo, Mistero della
Natività, Passione e Resurrezione di Nostro Signore, la cui
regia fu curata dalla Pavlova per le celebrazioni giottesche del
1937 a Padova. Esempio raro e filologico di drammaturgia religiosa,
il lavoro fu poi riproposto da Orazio Costa nel 1965, a dieci anni
dalla morte del D., al Piccolo di Milano, primo esem pio nel secondo
dopoguerra di un teatro stabile come egli lo andava definendo da
tempo. In quegli stessi anni uscirono an che i suoi due primi libri:
Il teatro deifantocci, del 1920, e Maschere, del 1921, che certo lo
aiutarono a ottenere la nomina di professore di storia del teatro
alla scuola di recitazione presso l'Accademia di S. Cecilia di Roma
nel 1923.
Già nel primo volume, che pure fu in seguito, sembra,
ripudiato e che raccoglie saggi su autori drammatici italiani e
stranieri del primo dopoguerra, c'è sin dal titolo un
polemico rifiuto "dell'ormai stanca routine ottocentesca", come
dirà poi e del suo teatro realista "borghese", sul quale
polemizzò con Marco Praga, tra il novembre e il dicembre del
1921, con vari articoli. Più organici saranno gli scritti del
suo libro più noto, Il tramonto del grande attore del 1929,
che fece molto rumore.
Partendo più dal titolo che dal contenuto, molti vi videro un
ideologico rifiuto del grande attore, mentre il D. invece ne
indagava solo i motivi di decadenza, traendone conclusioni per un
rinnovamento del teatro, secondo esigenze che aveva percepito
durante i suoi viaggi un po' in tutta Europa, legate a una moderna
scelta e a una rispettosa interpretazione dei testi. La sua
battaglia contro "i Marci Praga d'Italia", come li chiamava Adriano
Tilgher, ravvisabile anche nell'interesse per un'anima inquieta e
sensibile come H. Ibsen, cui nel 1928 aveva dedicato un saggio,
trovò un punto di forza e quindi un alleato in L. Pirandello,
che proprio allora, anche se tra molte polemiche, stava diventando
la figura principale del nostro teatro e una delle più
interessanti della moderna scena internazionale: "poeta tragico
dell'ora europea", come il D. stesso lo definì
interessandosene con acume e preveggenza fin dai primissimi anni
della sua attività critica. Attori che non considerino il
testo solo un pretesto per esprimere se stessi e coinvolgere
artificiosamente lo spettatore; autori nuovi sganciati dalle pastoie
del provincialismo piccolo borghese; e poi una nuova figura che
coordini e interpreti, magari con sapienza "francescana" come il suo
amato Jacques Copeau, e che al contrario del vecchio direttore
elabori una concezione organica dello spettacolo, un "regista",
secondo una parola che lo stesso D. propose su Scenario per la prima
volta nel 1932: sono questi i punti principali, gli obiettivi della
difficile battaglia che il critico combatté tutta la vita,
anche eccessiva sino a definirla calvinista.
Perché questa sua visione dell'arte potesse realizzarsi,
perché il testo tornasse a vivere e il grande attore a
servirlo e non a servirsene (e a questa precoce scoperta della
profanazione della parola sono legate tante pagine anche di memoria
del D., da quelle sulla Famiglia dell'antiquario con E. Novelli
contenute in Le finestre di piazza Navona, a quelle sul Cyrano con
A. Maggi ne Il teatro non deve morire, dove è riferita
un'esperienza che risale ai suoi quattordici anni, alla famosa
stroncatura degli Spettri con E. Zacconi in Maschere, condotta senza
mezzi termini: "L'attore ostentava di non aver capito assolutamente
nulla", ponendo in primo piano la figura del figlio, Osvaldo, invece
che quella della madre), per il D. era necessaria innanzitutto
un'adeguata preparazione di attori e registi, culturale e tecnica,
da portarsi a termine in una scuola; sottrarre poi questi al
nomadismo delle compagnie di giro, che ora qua e là non
possono mai conoscere un momento di riflessione, di studio, creando
dei teatri stabili delle strutture che necessitavano dell'aiuto
dello Stato, avvertendo poi che l'interesse di questo per il teatro
"non deve essere di natura politica, ma culturale", perché,
come dice il titolp del libro da cui è tolta questa frase, Il
teatro non deve morire.
Già il critico napoletano Edoardo Boutet aveva portato avanti
alcune di queste idee alla fine dei secolo scorso, fondando poi nel
1905 con Ferruccio Garavaglia la Compagnia stabile romana che doveva
realizzare il suo desiderio di un teatro nuovo, m'a che era durata
solo tre anni: "In apparenza, fallì tutta la sua vita...
Eppure Boutet non è stato uno sconfitto. Perché ha
gettato un seme che non potrà andare disperso", scrisse il D.
nel necrologio del 1915, raccolto in uno dei suoi volumi più
interessanti, Invito al teatro. Del resto anche l'amatissimo Copeau
aveva patito insuccessi e sconfitte, ma aveva tentato esperienze
sulle quali era nato il teatro francese moderno, anzi un po' di quel
teatro europeo, per stare ai termini del pensiero del D., che al
maestro del "Vieux Colombier" era arrivato attraverso la tanto
stimata E. Duse.
I mille motivi polemici, nati dalla quotidiana analisi della
realtà del teatro di prosa, non fini a se stessi, ma legati a
una nuova concezione e alla convinzione della necessità di
intervenire in modi precisi, non potevano restare lettera morta
sulle pagine di giornali e libri e la situazione, che aveva fatto
del Boutet un isolato e uno sconfitto sul piano pratico, era
cambiata. Così il D. arrivò a lavorare fattivamente
per quell'istituzione che avrebbe dovuto formare attori e registi
diversi, culturalmente e tecnicamente preparati: "ci vuole
l'adozione (vedi i russi, vedi Copeau) d'una specie di regola
monastica in cui i giovani diano, asceticamente, tutte le ore della
propria esistenza all'arte".
Dopo aver studiato e visitato scuole italiane e straniere, le sue
idee trovarono una sistematizzazione concreta nelle proposte per un
rinnovamento del teatro e la nascita della Corporazione dello
spettacolo, stese nel 193 1 e incluse nel vol. La crisi del teatro.
L'attore - il cui stile, come per ogni artista, sia un fatto intimo
e personale che "nasce dal di dentro", non meccanizzando
un'interpretazione secondo formule predeterminate, che non recita
come se parlasse in nome del verismo, né va all'eccesso
opposto tutto estetizzando estremamente, l'attore che nel suo parto
sarà giusto sia assistito da quell'"ostetrico", come lo
definì Dancenko, che è il regista, "colui che dirige e
intona una schiera di interpreti a trasportar la parola d'un autore,
dalla vita ideale della pagina, a quella concreta della scena",
servando il "verbo sovrano", che il D. perorava con tanta fede -,
comincerà a uscire così da quella Accademia nazionale
d'arte dranunatica, la cui costituzione e struttura il D. stesso
formulerà nel 1935, quando la scuola venne costituita. Egli
ne fu il primo presidente, dopo che dall'alto fu rifiutata la nomina
di Pirandello, che il D. stesso aveva proposto, e vi occupò
allo stesso tempo la cattedra di storia del teatro.
Per aiutare i primi diplomati e difendere il ruolo del regista, che
era certo la novità vista con più diffidenza, lo
stesso D. non esitò a mettersi a capo, per la stagione
1939-40, di un gruppo di suoi allievi, nell'ambiente battezzato
Compagnia dell'Accademia, che permise a molti giovani di iniziare a
lavorare e affermarsi.
L'Accademia non distolse comunque mai il D. dal suo quotidiano
contatto col teatro, che venne meno solo durante l'occupazione
tedesca, quando, più che per un preciso impegno politico, per
una incapacità di destreggiarsi e di sottomettere la propria
libertà intellettuale a motivi opportunistici, fu costretto a
nascondersi in casa di amici. a palazzo Lancellotti in piazza
Navona, e fu anche imprigionato tra i "politici" nel sesto braccio
di Regina Coeli. Luigi Squarzina ha ricordato come il D. non solo
permettesse, ma incoraggiasse in Accademia, anche negli anni tra il
1939 e il 1943, la satira politica di molti allievi, e che subito
prima e subito dopo l'8 settembre vennero presentati come saggi una
"sferzante parodia antifascista tratta dalla Beggar's Opera e Uomini
e topi, portando la polemica sociale a toni fino allora
inconcepibili sulle scene italiane". Nel 1945 il D. pubblicò
poi Il teatro non deve morire, in cui si analizzano anche
realtà e storture della scena negli anni del fascismo e se ne
indicano ancora una volta le vie per una rinascita, legata a quella
del paese.
Per tutto il resto della vita il D. non tralasciò mai il
proprio mestiere di critico drammatico militante, per usare una
espressione che gli si adatta particolarmente. quando L'Idea
nazionale confluì nella Tribuna (1925), è su questa
che egli continuò a lavorare, per passare poi, dal 1941 al
1943, al Giornale d'Italia. Nel 1945, dopo la Liberazione, riprese
la propria attività e firmò le cronache drammatiche
per altri dieci anni sul Tempo di Roma. Critica che esercitò
allo stesso tempo su vari - periodici: dal 1923 al 1928 sulla Festa
di Milano, dal 1934 al 1946 sulla Nuova Antologia, dal 1952
sull'Approdo e sull'Illustrazione italiana, mentre sempre nel 1945
fu pure titolare della rubrica, teatrale di Radio Roma.
Il suo fervore, intellettuale, mai sganciato da una volontà
di realizzazione pratica, loi portò anche a fondare nel
1932,e a dirigere sino al 1936 insieme con N. De Pirro, la rivista
Scenario, e a dirigere, dal 1937 al 1941 la Rivistq italiana del
dramma (poi Rivista italiana del teatro), edita dalla Società
italiana autori ed editori. Innumerevoli furono le sue
collaborazioni occasionali, in Italia e all'estero, e i corsi e
lezioni tenuti un, po' in tutto il mondo. Ricordiamo ancora che
diresse la sezione teatro della Enciclopedia Italiana e
collaborò alla Encyclopaedia Britannica; che diresse la
collana di critica edita da Treves Il teatro del Novecento e quella
di testi teatrali, Repertorio, per le edizioni Roma. Delegato
italiano a vari congressi internazionali del teatro, fu anche
segretario del Convegno Volta per il teatro, presieduto da
Pirandello presso l'Accademia d'Italia nel 1934 e presidente del
Congresso dell'Institut international du théâtre nel
1952 a Venezia.
Con il passare del tempo, il D. sentì poi sempre più
l'esigenza di dare una sistemazione critica e storica alle sue
ricerche drammaturgiche. Oltre a scrivere un "sommario storico"
della regia attraverso il tempo, intitolato Mettere in scena
(1954),utile anche ai fini didattici, dopo aver inaugurato nel 1932
la collana da lui diretta sul Teatro del Novecento con un volume sul
Teatro italiano, in cui nel panorama drammatico contemporaneo
individuava quei nuovi caratteri che contribuivano a ridare
originalità, qualità e autonomia al nostro teatro, il
D. iniziò a lavorare alla sua opera più importante, i
quattro, volumi della Storia del teatro drammatico di tutto il mondo
(1939-40).
Questa storia, aggiornata nel 1968 con una appendice firmata da Raul
Radice e di cui esiste un'edizione ridotta a cura del figlio del D.,
Alessandro, quando apparve era la prima a non tener conto solo della
letteratura drammatica, má a prestare attenzione alla "storia
del dramma rappresentato, spessissimo tradotto, forse non meno
spesso tradito, e tuttavia vivente in un suo modo particolarissimo
appunto in grazia di un tale tradimento", come Pautore stesso
precisava nella introduzione all'ultima edizione da lui curata, in
polemica con "le nostre università, dove la, storia del
dramma, è saltuariamente affidata ai maestri delle rispettive
letterature". Implicita era in ciò anche l'intenzione
anticrociana: "Vero è che l'estetica moderna, dal Croce al
Pirandello dei Sei personaggi, nega la possibilità di artisti
che interpretino altri artisti e dichiara che la cosiddetta
interpretazione scenica è un'illusione.... Ma si tratti pure
di un'illusione, d'un equivoco, di un gioco: è l'illusione di
cui da ventiquattro secoli, il teatro drammatico vive. E il presente
libro non ha altro scopo che esporre brevemente la storia di
quest'equivoco". Un equivoco, se si vuole, che nasce dalla
complessità della messinscena e dei vari elementi che
concorrono alla vita del teatro e che il D. non ha mai. inteso. in
modo disgiunto. Eppure ha suscitato polemiche. -la sua difesa della
parola, anzi del "verbo", per i termini di fede in cui venne
espressa, non minori di quelle sorte un tempo per la difesa della
regia o di quelle che seguirono i suoi attacchi all'attore
mattatore. Così la grande storia del teatro universale del D.
nasce da un mondo nel suo complesso, che si scalda "al fiato del
pubblico" e, nella sua incredibile ricchezza di riferimenti e
citazioni sistematizzate, è ancora un termine essenziale
d'ogni discorso sul teatro.
In una curiosità e apertura riconosciutegli anche da chi in
molte cose aveva idee diverse, in una capacità di far
interagire informazioni ed esperienze ricchissime è la.spinta
che, dopo la Storia del teatro drammatico lo indurrà nel 1944
a stendere il piano per un'altra opera unica al mondo, quella
Enciclopedia dello Spettacolo di cui il D. vide uscire solo il primo
volume e che fu terminata da coloro che aveva chiamato per aiutarlo
a elaborarne criteri e struttura. L'enciclopedia era dedicata non
solo al teatro drammatico, ma a tutte le forme di spettacolo di
tutte le epoche e di tutti i paesi e di tutte le persone che ne
furono protagoniste anche se con particolare attenzione all'Italia.
Se lo stesso D. nel 1953 aveva dato alle stampe una piccola parte
delle sue ultimo cronache drammatiche col titolo Palcoscenico del
dopoguerra, soltanto nel 1963 e 1964 Laterza pubblicò, a cura
di Ferdinando Palmieri e Alessandro D'Amico, una scelta più
indicativa delle sue recensioni e scritti d'occasione che va dal
1914 al 1955.
Cattolico, osservante, il D., nei suoi scritti, specioe in quelli
più storici e di sistemazione, non si lasciò guidare
dalla fede nei suoi giudizi estetici, che pure della sua
religiosità talvolta risentivano, per l'intensità con
cui era capace di avvertire un discorso piuttosto di un altro. Le
sue pagine più attente al valore specialmente morale del
teatro moderno, pacate nell'esposizione di idee e documenti anche
quando nascevano da spinte- polemiche, le raccolse nel volume Dramma
sacro e profano. Ma il suo più esplicito impegno di cattolico
lo si trova negli scritti non dedicati al teatro, spesso
dimenticati, testimonianza di una fede sentita e sempre presente, a
cominciare da Le strade che portano a Roma, edito nel 1924, che si
apre con un capitolo di devozione verso il papa, a cui si era
dimostrato fedele e obbediente sin dagli anni seguenti l'enciclica
Pascendi e la condanna del movimento "modernista" alle cui riviste
erano legati i suoi scritti letterari giovanili. Di eguale interesse
sono i libri di viaggio, da Pellegrini di Terra Santa (1925) a
Scoperta dell'America cattolica (1928); riflessioni nate da visite a
luoghi sacri o da letture particolari sono invece raccolte nel 1932
sotto l'esemplare titolo di Certezze. La sua fede si fuse sempre con
l'amore per la città eterna, come testimoniano gli scritti
contenuti in Bocca della verità, riguardanti vari personaggi,
dal Belli a Petrolini all'amato Trilussa. Il suo libro più
interessante, al di là di quelli sul teatro, è
però il romanzo Le finestre di piazza Navona, uscito postumo
(Milano 1961).
La sua stesura risale agli anni della, guerra, quando il D.
concepì il progetto di una narrazione ciclica in quattro
parti, il "ritratto di una famiglia" tra il 1898 e il 1939,
attraverso cui comporre la storia di una generazione, la sua.
Convivono così nelle pagine di invenzione di questo libro,
definito "prologo" di un seguito che non ci fu, il cronista di
un'epoca, di una Roma borghese che s'agita tra le nuove idee,
liberali e una stretta osservanza cattolica, il memorialista di
tradizione francese e l'attento osservatore culturale, ironico e
curioso. Personaggio principale del romanzo, che sul finale si
ammanta di mistero e acquista tinte drammatiche col suicidio del
padre e la morte della madre, è la giovane Attilia, anima
inquieta della famiglia Alessandri, vivace e sensibile, attraverso
la quale ci giungono ricordi e giudizi dello stesso autore,
politici, teatrali e letterari. Tra questi, uno particolarmente
è interessante, quello sulla scoperta di Fogazzaro, cui
queste pagine sembrano per certi versi tendere col loro sereno
recupero di un tempo passato, in cui sono echi di tutto il nostro
verismo minore, fino alle sue propaggini scapigliate, per esempio di
un Faldella.
Lo spirito, la vitalità e l'impegno quotidiano del D.,
all'Accademia e come critico, non vennero mai meno, sino alla breve
malattia che in pochi giorni lo condusse alla morte, avvenuta a Roma
il 1° apr. 1955.
"Sembrava fossimo noi la sua giovinezza, e invece era lui la
nostra", scriverà subito dopo Luigi Squarzina, mentre
Vittorio Gassman, sapendo come il D. tornasse tre o quattro volte a
vedere uno stesso spettacolo, ogni volta realmente assistendovi, lo
ricorderà "fedele a motivi e ideali che erano evidentemente
le stesse native urgenze della sua vita spirituale".
Il giorno della sua morte tutti i teatri di Roma rimasero chiusi in
segno di lutto, mentre a Torino, Milano e Bologna venne commemorato
durante l'intervallo dello spettacolo. I suoi funerali furono
celebrati a spese della presidenza del Consiglio dei ministri, del
Comune di Roma, del quotidiano Il Tempo e dell'Accademia nazionale
d'arte drammatica che venne intitolata al suo nome.