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Storico, patriota e uomo politico italiano (Milano 1801-Castagnola di Lugano 1869).
Allievo di G. D. Romagnosi, laureatosi in giurisprudenza nel 1824, incominciò nel 1828 a collaborare agli Annali universali di statistica e agli Annali di giurisprudenza pratica in cui nel 1837 pubblicò le "Ricerche economiche sulle interdizioni imposte dalla legge civile agli Israeliti" che ebbero allora vasta eco anche fuori d'Italia e che sono tuttora un modello di studio socio-economico.
Nel 1839 uscì il primo numero della sua rivista Il Politecnico, col sottotitolo "Repertorio mensile di studi applicati alla prosperità e coltura sociale", in cui fino al 1844 comparvero tutti i suoi scritti, che toccavano svariatissime discipline: letteratura, economia, storia, tecniche agricole e industriali, politica, ecc., fra loro intimamente connesse. Nel 1844 apparve il primo vol. delle Notizie naturali e civili su la Lombardia cui era premesso un saggio storico di notevole importanza.
Pur partecipando attivamente in quegli anni alla vita pubblica cittadina, nell'Istituto Lombardo, nella Società d'incoraggiamento d'arti e mestieri e in altre istituzioni civiche, Cattaneo non ebbe una parte politica di grande rilievo; pensava, senza ottenere largo seguito, che si dovesse favorire la trasformazione dell'impero asburgico in una federazione di Stati comprendente il Lombardo-Veneto e che questo avrebbe dovuto staccarsene per partecipare a una federazione di Stati italiani.
Tuttavia, quando scoppiò l'insurrezione del marzo 1848 (Cinque giornate di Milano), Cattaneo non solo aderì incondizionatamente, ma si trovò a esserne la guida prima militare, a capo del Consiglio di guerra, e poi politica come rappresentante a Parigi quando gli Austriaci rientrarono a Milano: quello stesso anno si ritirò in Svizzera alla Castagnola presso Lugano, dove rimase fino al 1859 e dove svolse anche funzioni di consigliere per il governo del canton Ticino in materia di pubblica istruzione (per opera sua fu istituito il Liceo Cantonale in cui insegnò lui stesso) e di trasporti; ivi pubblicò anche (1849) il saggio Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra, di cui era già uscita una redazione in francese, e, tra il 1851 e il 1855, i 3 vol. dell'Archivio Triennale delle cose d'Italia dall'avvenimento di Pio IX all'abbandono di Venezia, una fondamentale raccolta critica di documenti storici.
Tornato a Milano nel 1859, riportò in vita Il Politecnico, che diresse fino al 1865; eletto deputato nel 1860, rinunciò alla carica e accettò invece l'invito di Garibaldi a studiare la questione delle strade ferrate meridionali; rieletto nel 1867, pur accettando l'elezione non prese mai parte ai lavori della Camera per non dovere giurare fedeltà alla monarchia.
In campo filosofico Cattaneo, sulle orme del Romagnosi, svolse in senso positivistico l'esigenza vichiana di un accertamento del vero nel fatto. La filosofia deve assumere dalle scienze sia il metodo sia i fatti, giungendo a una sintesi dei risultati delle altre scienze "per collocare nella trama della realtà l'uomo verso il quale viene fatto convergere il tutto". L'uomo che Cattaneo pone così al centro della sua indagine è l'uomo nella sua dimensione politico-sociale, per cui egli mostrò grande interesse a una filosofia civile, volta a comprendere oltre che l'universo fisico "il mondo delle genti, l'ordine dell'umanità, la vita degli Stati" e per una "psicologia delle menti associate" il cui oggetto e i cui compiti sono pressappoco quelli attribuiti alla sociologia. In questo campo le sue opere più significative sono: Un invito alli amatori della filosofia (1857), Psicologia delle menti associate (1859-66).
Txt.: DELL'INSURREZIONE DI MILANO NEL 1848 E DELLA SUCCESSIVA GUERRA
Txt.: CONSIDERAZIONI SUL 1848
Txt.: PSICOLOGIA DELLE MENTI ASSOCIATE
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DBI
di Ernesto Sestan
Nacque a Milano il 15 giugno 1801, da Melchiorre e da Maria Antonia
Sangiorgi già vedova Cighera (Epistolario, IV, p. 260).
La famiglia era scesa nel Milanese nel secolo XVIII dalla Val
Brembana bergamasca. Era una famiglia di fittavoli, passata a Milano
città dove il padre del C. teneva bottega di orefice. Era
così entrato nei ranghi della media borghesia cittadina, ma
per il grave carico di famiglia si poteva considerare appena
mediocremente agiato. Non erano stati rotti i contatti con la
campagna: "Vissuto da fanciullo nelle risaie dei miei
vecchi",ricorderà il C. da vecchio egli stesso (Epist., IV,
91), "ionon so di pratica agraria se non quanto ne udii per una
lunga tradizione di famiglia da molti anni troncata" (Epist., IV,
227). Qualche po' di terra era rimasta, quand'egli era fanciullo,
nella pianura di Casorate e di Pizzabrosa (Epist.,IV, 483).
Iniziò gli studi nel seminario di Lecco, passando poi in
quello di Monza; ma dell'istruzione ecclesiastica non gli rimase
quasi nulla, se non una buona conoscenza del latino e, forse,
qualche duratura amicizia con sacerdoti (Epist., IV, 169).
Proseguì gli studi a Milano nel liceo municipale, laico, di
S. Alessandro (progenitore dell'attuale liceo Beccaria).
Non si ha notizia né indizi che questo passaggio dal
seminario a una scuola laica fosse dovuto o accompagnato da una
crisi nella fede tradizionale della famiglia (la quale, per giunta,
contava un prete fra i suoi). Ma è probabile che il distacco
da quella fede avvenisse proprio in questi anni, senza drammatiche
rotture, ma piuttosto per naturale scarsa sensibilità
religiosa sul piano psicologico e per una forte presa della
razionalità su quello intellettuale. Nel liceo milanese, nel
quale gli fu compagno il quasi coetaneo C. Cantù, subì
l'influenza dell'insegnante di storia, Giovanbattista De
Cristoforis, del quale ricordava "d'avervi per la prima volta aperta
la mente all'idea del medioevo e del vasto mondo asiatico e ad altre
fonti escluse dal circolo degli antichi studi" (Scr. stor. e
geogr.,III,51). Ancora studente liceale, a 18anni, entrava in
amicizia col trentenne G. Montani che, reduce dal gruppo dell'allora
soppresso Conciliatore, si preparava a passare a Firenze
all'Antologia del Vieusseux (Epist.,IV, 101), e che procurava al
giovanetto, evidentemente di belle speranze, la conoscenza di altri
intellettuali del gruppo, comprendente del resto anche il De
Cristoforis.
Compiuti gli studi liceali, fece istanza, nell'estate del 1820, per
ottenere uno dei posti gratuiti nel collegio Ghislieri di Pavia,
allegando, e forse un po' esagerando, le strettezze economiche della
famiglia. Non ebbe la borsa,ma la pensione di studente del legato
Cazzaniga (Epist.,IV, 103). che non poté accettare
perché implicava la presenza a Pavia, mentre egli aveva
necessità di restare a Milano, per aiutare la famiglia o per
rendersi economicamente indipendente da essa, il che fa supporre
che, effettivamente, le condizioni non fossero floride. Ottenne
invece, il 13 nov. 1820, un posto dapprima provvisorio, poi subito
stabile,di insegnante nel corso inferiore (di grammatica) e poi
superiore (di umanità) nel ginnasio municipale di S. Marta a
Milano, e contemporaneamente, su suggerimento dell'amico conte
Giacomo Barbò (Epist., IV, 102: "quella tua parola decise
della mia vita"), ai corsi universitari di diritto, che G. D.
Romagnosi era stato autorizzato ad aprire a Milano, con valore
legale, purché lo studente fosse immatricolato
all'università di Pavia e vi sostenesse gli esami semestrali.
Così, giovane diciannovenne, il C. si trovò ad essere
insieme docente e discente.
L'insegnamento nel ginnasio municipale durò 15 anni, fino al
1835,in locali malsani, causa alla tempra gagliarda del C. di
disturbi di natura artritica che lo molestarono per il resto della
vita. Questa quindecennale esperienza didattica milanese non incise
sensibilmente nella sua formazione intellettuale, ma trovò un
discepolo che gli rimase fedelissimo per tutta la vita, M. Macchi, e
qualche collega, come il poeta Samuele Biava, in difesa del quale
sostenne, fra 1832-33,una fiera polemica che fece molto chiasso a
Milano; mentre con altri colleghi insegnanti entrò in
discordia, mostrando il suo caratterino piuttosto difficile nei
rapporti umani. Tutt'altra cosa il discepolato presso il Romagnosi,
un discepolato, diremo così, istituzionale di breve durata:
dal novembre 1820all'11 giugno 1821,alla quale data il Romagnosi fu
arrestato sotto l'accusa di non avere denunziato S. Pellico, che
avrebbe voluto aggregarlo alla carboneria. Il discepolato non
riprese dopo la scarcerazione del Romagnosi (6 dic. 1821),
perché il Romagnosi, per protesta, si rifiutò di
riprendere l'insegnamento, né poi, perché il 24 ott.
1822 l'autorità di polizia fece divieto al Romagnosi di
tenere corsi privati. Ma non poté impedire che il giovane C.
visitasse e frequentasse, da privato, il vecchio maestro, anche se
il nome del C. non figura fra le persone indicate dalla polizia
quali frequentanti abituali del Romagnosi. Scriveva il C. nel
1843,contro i troppi che vantavano il loro discepolato romagnosiano:
"Il fatto si è che tra tutti quelli che scrivono in Italia,
io, per singolare caso, sono il solo ed unico che sia veramente
stato suo regolare allievo nelle scienze legali. Gli altri erano
tutti giovani eleganti che, come è il costume del grosso e
pigro paese, finito il corso degli studi, più non pensarono a
dottrina alcuna e più non si curarono di lui" (Epist.,I,
425).
Non si sa se il C., dopo questo incidente romagnosiano, frequentasse
altri insegnanti privati di Milano o seguisse i corsi pavesi,
ciò che sembra poco compatibile con le sue funzioni
d'insegnante nel ginnasio con l'obbligo di quattro ore giornaliere.
Certo, dette a Pavia regolarmente gli esami semestrali, senza dei
quali non avrebbe potuto conseguire la laurea dottorale, che gli fu
conferita in giurisprudenza il 19 ag. 1824. Non se ne valse
professionalmente; gli servì solo a premettere, come soleva,
il titolo accademico al suo nome e cognome, e continuò a fare
l'insegnante e, nei suoi beati vent'anni, anche a godersi un poco,
moderatamente, la vita, come è adombrato nello scritto Se
fossi ricco (Scr. lett.,I, 393-399).
Giovane, prestante, bello, intelligente, ebbe molte ammiratrici ed
amiche nella cerchia della sua società borghese: le sorelle
Bisi pittrici, la "giardiniera" del Risorgimento Bianca Milesi,
ecc.; e a sua volta ammirò e corteggiò, anche con
composizioni poetiche, fra il '22 e il '24,la beltà non
inespugnabile di Costanza Perticari, la figlia di V. Monti. Strinse
amicizia con giovani letterati e non, e anche con giovani
aristocratici, come i fratelli Belgioioso, con Ferdinando
Grilenzoni, nipote del Romagnosi. L'amicizia col Montani gli
procurò la collaborazione, non continuata, nella Antologia
del Vieusseux, con una recensione, nel 1822, di un'opera del
Romagnosi; quella col ticinese Stefano Franscini, allora maestro di
scuola a Milano, ma che negli anni seguenti, nel 1839, sarà
il corifeo della rivoluzione democratica nel Canton Ticino, lo
inizierà nell'ammirazione delle istituzioni democratiche
svizzere e lo faciliterà negli anni dell'esilio. Col
Franscini, nel settembre-ottobre 1821, fece una rapida escursione
fino a Zurigo. Non è escluso che abbia potuto conoscere lo
Stendhal (Epist., I, 383).
L'ambiente suo in questi anni non pare fosse percorso da molti
brividi politici. Nemmeno l'amicizia con alcuni giovani titolati lo
portò ad avere qualche parte, anche solo di testimone, nella
congiura dei cosiddetti Federati, nel 1821, che si era alimentata
soprattutto di quei nobili, ma i più di generazione
più avanzata, quella dei quarantenni, come il Confalonieri,
loro capo. Così, insospettabile agli occhi della polizia,
poté, in perfetta buona fede, chiamato a testimoniare,
difendere dignitosamente e fermamente il suo Romagnosi.
Operosissimo, come fu in tutta la sua vita, alternava in quegli anni
giovanili i suoi obblighi didattici con larghissime letture.
Leggeva di tutto, storia, filosofia, economia, linguistica, fisica,
chimica, tecnologia, facilitato in ciò dal fatto che un suo
parente, Pietro Cighera, era prefetto della Biblioteca Ambrosiana, e
un cugino, Gaetano Cattaneo, era conservatore del Gabinetto
numismatico di Brera e dell'annessa biblioteca. Tradusse anche in
questi anni, con qualche guadagno non disprezzabile per il tempo,
adattandoli sotto veste di anonimo alle scuole milanesi, cinque
testi scolastici di storia e geografia dal tedesco, che a tutt'oggi
non si sono potuti identificare.
Nella scuola però non si sentiva pienamente a suo agio:
cercò due volte di uscirne, anche per le condizioni igieniche
disastrose nelle quali era costretto ad insegnare: fece, senza
successo, domanda per un posto di bibliotecario a Brera (aprile
1826: Epist.,I,17) e un'altra volta, sempre senza successo, per un
posto di segretario amministrativo nella Congregazione municipale di
Milano (febbraio 1830: Epist., I,21). In questi anni di intensissima
preparazione culturale scrisse qualche cosetta, rimasta fino a
questi ultimi anni inedita; abbozzò un geniale schema, nel
1824, di un lavoro Della influenza delle invasioni dei barbari sulla
favella italica, ma rimase uno schema (Scr. lett., I, 405-410).
Erano anche gli anni della sempre più stretta consuetudine
col Romagnosi e dell'influenza su di lui del pensiero romagnosiano,
non tanto del pesante, sistematico pensiero giuridico, ma piuttosto
del pensiero, si direbbe spicciolo, che il Romagnosi nei suoi ultimi
anni veniva profondendo specialmente negli Annali universali di
statistica, ove trattava di tutto, di economia, di storia, di
diritto, di scienze fisiche e naturali, di tecnica, di geografia.
Sono gli stessi interessi enciclopedici che dominano, in questi
anni, anche la sete intellettuale del giovane Cattaneo.
Cade anche in questi anni, tramite probabile la Milesi (Scr.
lett.,II, 456), l'incontro con una giovine quasi coetanea
anglo-irlandese, Anna Woodcock, di educazione e di vita un po'
cosmopolitica, con parentado aristocratico internazionale in
Inghilterra, in Irlanda, in Francia; venuta, non ricca, in Italia
per dimenticare un romantico amore infranto (non quello non
corrisposto, pare, che ebbe per lei Augustin Thierry). La giovane si
innamora del bel milanese, ed è corrisposta. La parentela si
oppone a lungo a una soluzione matrimoniale, considerata,
socialmente, una mésaillance, ma alla fine cede e la coppia
può contrarre regolare matrimonio a Trieste il 19 ott. 1835.
"Mi tacqui per dieci anni; e solo per suo impulso [del Romagnosi] e
quasi per suo comando ripresi a scrivere negli Annali di statistica"
(Epist., I,425). Veramente, qualche coserella di minor conto il C.
aveva pubblicato nella rivista L'Eco e in qualche strenna, e
già dal 1828 era entrato in rapporti con l'editore Francesco
Lampato di Milano, che pubblicava tutta una serie di periodici, di
medicina, di chimica, di giurisprudenza, di economia e di statistica
(Greenfield, p. 253), onorati dalla collaborazione del Romagnosi.
L'attività pubblicistica continuata del C. comincia nel 1831.
Sono, sul modulo del suo maestro Romagnosi, brevi, talora brevissime
notizie, spesso non firmate o firmate con l'iniziale del cognome,
sugli argomenti più vari: su questioni urbanistiche milanesi,
sul pauperismo (tema toccato anche dal Romagnosi), sui trasporti per
mare, per terra, per ferrovia specialmente, sull'agricoltura
nostrale e tropicale,sull'istruzione agraria, su scoperte
geografiche, su problemi di finanza e di dogane, sulla politica
coloniale, sull'India (altro tema romagnosiano), sul giornalismo,
sulla Cina, sulle due Americhe, sull'educazione ecc. Sono, per lo
più, semplici notizie informative tratte di solito da
periodici stranieri, ma non senza che qua e là non trapeli
qualche commento od osservazione personale. Ma alcuni di questi
scritti hanno sviluppi più ampi, come il saggio sulla
questione delle tariffe daziarie negli Stati Uniti (1833), nella
quale il C. vede già un insanabile conflitto di interessi fra
Nord e Sud, due anni prima che il Tocqueville pubblicasse la sua
celebre opera; o quello sulla lega daziaria germanica (cioè
lo "Zollverein").
Morto l'8 giugno 1835 il Romagnosi, da lui filialmente assistito
fino al sepolcro, ne prosegue ancor più intensamente l'opera
negli Annali universali di statistica, oltre che con le consuete
notizie, con saggi di più complessa portata: sui prezzi delle
sete, sulle finanze del Regno di Napoli, sul progetto della linea
ferroviaria Milano-Venezia e Milano-Como; e del Romagnosi difende,
con mordace polemica, la memoria contro il Rosmini, che aveva
indiziato il Romagnosi di ateismo.
Il 1835 è un po' un anno di svolta nella vita del C., non
solo per il matrimonio e per la perdita del Romagnosi, quasi
assunzione di nuove responsabilità, ma anche perché il
C. lascia l'insegnamento ginnasiale e inizia un'attività di
libero giornalista, o piuttosto pubblicista, continuando tuttavia la
collaborazione ai periodici dell'editore Lampato. Anzi, nel 1836, si
proponeva, insieme con G. Ferrari, pure dell'ultima cova
romagnosiana, allora venticinquenne, che doveva esserne il
finanziatore e direttore, di pubblicare una rivista di scienze
filosofiche e storiche, L'Ateneo;ma il governo negò la
licenza (Epist., III, 176). Nella nuova situazione poteva muoversi
con una relativa indipendenza economica, non certo per la tenue
pensione dopo 15 anni d'insegnamento (non più di 933 lire
austriache all'anno) ottenuta dopo lunghi contrasti con
l'amministrazione, mentre il suo stipendio era stato di 2000 lire
all'anno, abbastanza notevole per quei tempi. Mortogli il padre,
aveva assunto la cura dei fratelli e di una sorella e il carico di
debiti paterni: proprio nel 1835, poco avanti il matrimonio, si era
accollata l'azienda paterna di orefice con un socio, immettendovi un
capitale di 15.000 lire (Epist.,I,127). Il matrimonio con la
Woodcock, non ricca ereditiera, ma nemmeno nullatenente, lo
aiutò ad affrontare la situazione familiare, mettendo a
frutto la dote della moglie (circa 90.000 lire: Epist.,I, 391, 394).
Ma contro quello che asserirono poi i biografi, il connubio non
trascorse sempre senza qualche nube. Già ad un anno dalle
nozze, fra il settembre 1836 e il marzo 1838, proprio per la
questione della libera disponibilità della dote, i coniugi
vennero ai ferri corti: lui parlava addirittura di possibile
separazione legale, lei di "infelice matrimonio" e scriveva "dal mio
prigione di Spilberg [sic!]" (Epist., I, 395). Si turbarono anche,
gravemente, in questo tempo, i rapporti col fratello maggiore
Filippo, sempre per questioni di quattrini (Epist., I,127). E
tuttavia erano anche gli anni di intensa attività
pubblicistica.
Il peso degli Annali di statistica e dell'annesso Bollettino gravava
quasi tutto sulle sue spalle: ogni fascicolo è pieno di note,
articoletti, ecc. del C.; ed esce anche in altro periodico del
Lampato, gli Annali di giurisprudenza pratica, il suolavoro fino a
quel momento più complesso e impegnativo, le Ricerche
economiche sulle interdizioni imposte dalla legge civile agli
Israeliti, scritto in poco più che due mesi, fra la fine del
'35e i primi del '36,ma potuto uscire, e amputato di un paragrafo,
per le lungaggini della censura, solo nel 1837 (anche se con la data
del 1836). Prende lo spunto da una controversia sorta in Isvizzera,
nel cantone di Basilea-Campagna, per l'opposizione fatta
all'acquisto di proprietà fondiarie da parte di israeliti
francesi. È, fra tutti gli scritti del C., quello più
filologicamente, si direbbe più scolasticamente, documentato
e condotto con rigoroso procedimento logico di stampo ancora
romagnosiano, inteso a dimostrare le ragioni non solo di
equità ma di opportunità economica ad abolire i
divieti e i limiti posti agli israeliti.
Libero dalle cure scolastiche il C., dopo il '35,moltiplica
l'attività pubblicistica, con preferenza ai problemi
economici, della finanza, dell'industria, delle intraprese
ferroviarie e della politica sociale. Vedono la luce in questi anni,
sempre ancora negli Annali di statistica, oltre a minori di indole
geografica, gli articoli sulla produzione e sul commercio delle
sete, con un progetto di istituzione di un Monte delle sete, su vari
problemi ferroviari, sulla pubblica beneficenza e, solitario, uno
splendido studio, nutrito delle sue letture giovanili, sul Nesso
della nazione e della lingua valacca coll'italiana. Ma in fatto di
economia e finanza l'attività del C. in questi anni non
restava nel campo teorico del progettista, del "suggeritore",come
egli amava dire, ma veniva arricchita e, in parte, collaudata
dall'attività pratica. Egli si ingolfava, con l'impeto della
sua personalità, nel mondo degli affari, acquistava azioni
ferroviarie, anche fuori di Lombardia, per es. della Firenze-Livorno
(Epist., I, 101) e di altre intraprese del nascente capitalismo
milanese (Compagnia del gas di Milano e di Trieste, miniere di
lignite nel Veneto), entravacome apprezzato ma non certo comodo
segretario, dal settembre 1837 al 21 ag. 1838 (Epist., I, 87-90),
nella Sezione lombarda della Società della strada ferrata
Venezia-Milano, involgendosi in aspre polemiche circa il tracciato
della ferrovia, che egli voleva escludesse Bergamo e contrastando
duramente l'ingegnere-capo della costruzione,Giovanni Milani;
ciò che gli costò il posto, dal quale dovette
dimettersi.
Questa sua instancabile attività di pubblicista e di
polemista, e anche di uomo di affari e consulente di affari gli
procurò vasta notorietà in Milano e in tutto il Regno
lombardo-veneto; e poiché queste sue battaglie furono, in
sostanza, disinteressate e ispirate al progresso economico e civile
della Lombardia, crearono già in questi anni attorno al suo
nome la fama di uomo certo non facile nel commercio umano,
intransigente, battagliero, ma anche di uomo quanto competente
altrettanto retto. "On me dit que tu as acquis une immense influence
commerciale",gli scriveva da Parigi, con la solita enfasi, G.
Ferrari (Epist., I, 402).
Intanto anche i rapporti col Lampato si erano fatti difficili fino
alla rottura: dalla fine del 1838 il C. non scrisse più negli
Annali di statistica né in altri periodici di quell'editore.
Si era procurato un periodico tutto suo: il Politecnico.
Veramente, l'idea non era stata tutta sua e nemmeno il titolo, che
parve un po' strano. Altri si erano procurati la necessaria licenza
governativa per la pubblicazione del nuovo periodico: il padre
Ottavio Ferrario, farmacista-capo dell'ospedale dei Fatebenefratelli
e chiaro studioso di chimica, e il prof. G. B. Menini, al quale
risaliva la paternità del titolo (Epist., I, 94).
IlC.sopravvenne come terzo comproprietario, in realtà come
vero proprietario e direttore, in quanto esonerava gli altri due da
ogni rischio di perdita e assicurava a ciascun di loro una somma
annua fissa. Anche verso il tipografo Luigi Pirola era il C. che si
assumeva ogni responsabilità (Epist.,I, 405-409).
Nei quarantuno fascicoli della prima serie del Politecnico
(1839-1844) profuse il meglio della sua attività in questo
quinquennio. I temi sono quelli già toccati negli Annali, ma
altri nuovi se ne aggiungono. Di carattere letterario, come le
recensioni, talora veri e propri studi, del Lorenzino de' Medici del
Revere, della Vita di Dante del Balbo, del Romancero del Cid, del
Don Carlos diSchiller nella versione del Maffei, la stroncatura di
Fede ebellezza del Tommaseo; di storia, quali Della milizia antica e
moderna aproposito di un lavoro di Andrea Zambelli; Della conquista
dell'Inghilterra pei Normanni, a proposito della traduzione italiana
della celebre opera di A. Thierry; Dell'evo antico traendo lo spunto
da un corso di storia universale di Heinrich Leo; Della Sardegna
antica e moderna; Di alcuni stati moderni, a proposito di un volume
di Cristoforo Negri; e dopo la polemica col Rosmini, di filosofia:
sulla Scienza nuova di Vico a proposito dell'opera di G. Ferrari
Vico et l'Italie;sulla filosofia della storia sempre a proposito del
Ferrari; di architettura e di urbanistica, di pittura, di geografia,
di demografia, di chimica, di agricoltura, di zoologia; della allora
vulgatissima frenologia; di problemi dell'istruzione, di ragioneria,
di banca, di moneta, di pubblica beneficenza e di pauperismo, di
emigrazioni interne, di riforma penale e carceraria; perfino di
pubblici macelli, ecc. ecc.; riprendendo gli studi di linguistica,
il saggio Sulprincipio istorico delle lingue europee e Sulla lingua
e le leggi dei Celti;e nel campo dell'economia, lo studio penetrante
Dell'economia nazionale di Federico List, oltre alle importanti,
acute prefazioni ad ognuno dei sette volumi del Politecnico, e
infinite altre brevi note sugli argomenti più vari, e
tuttavia tutte condotte, sia pure con un intento di alta
divulgazione, con precisa conoscenza.
I più dei quarantuno fascicoli del Politecnico sono usciti,
per tre quarti e più, dalla sua penna veramente prodigiosa, e
tanto più prodigiosa se si pensi che tutto questo lavoro non
lo distoglieva dall'attività nel campo della finanza. La
serietà dei suoi scritti, il non raro piglio polemico lo
facevano rispettato e anche un poco temuto. Il Politecnico,anche se
non tanto diffuso quanto il C. avrebbe sperato (se ne tiravano 500
copie; gli associati, nel 1843, erano 390; Epist., I, 149),era
guardato con considerazione in tutt'Italia: il Vieusseux ebbe, nel
1840,l'idea, presto dimessa, di farne una imitazione in Toscana
(Epist., I, 102).
La notorietà e la stima che circondavano il C. ebbero un
pubblico riconoscimento, cui egli teneva molto: la nomina, per
risoluzione imperiale del 21 genn. 1843, a membro dell'Istituto
lombardo-veneto, la più alta e ufficiale istituzione
accademica del Regno, ricostituita nel 1838 (Epist., I,126).
Non fu una cosa facile: "La mia nomina era stata proposta più
volte nelle terne dell'Istituto, ma sempre scartata, finché
nel 1843, essendo annunciato il Congresso degli scienziati per il
'44, i membri proposero tre terne, in ognuna delle quali io ero
compreso e così forzarono la mano al governo" (Epist., III,
465). "In principio del 1848, per volontà dei colleghi e per
franchigia dell'Istituto, io fui ammesso ad una pensione vacante"
(ibid.).
Dal 1845 è anche segretario-relatore della Società
d'incoraggiamento delle arti e dei mestieri, promossa fino dal 1841
dal munifico tedesco-ambrosiano Enrico Mylius.
Intanto, i rapporti con lo stampatore si erano fatti tesi e il C.
sentiva la fatica di tenere tutto sulle sue spalle il peso del
Politecnico. Così il periodico finì col quarantunesimo
fascicolo del 1844, non completando nemmeno l'annata VII
(sarà completata solo nel 1860, col fascicolo
quarantaduesimo). Il bilancio era stato, in definitiva, positivo,
anche sul piano finanziario. Ma già dall'aprile 1843 il C.
era preso da un'altra iniziativa, che, veramente, sarebbe stata
conciliabile col lavoro del Politecnico:aveva aderito a un'idea
lanciata primamente dai fratelli conti Alessandro e Carlo Porro di
offrire a coloro che nell'estate del '44 sarebbero convenuti a
Milano per il Congresso degli scienziati non una semplice guida,
come si era fatto in analoga occasione, altrove, per i precedenti
congressi, ma una illustrazione della città, che il C. volle
subito estesa a tutta la Lombardia, una illustrazione che
presentasse la regione sotto tutti gli aspetti naturali e civili. Il
C. dovette lottare contro l'inerzia e la malavoglia
dell'amministrazione comunale e specialmente del suo podestà
G. Casati, che inizialmente parve disposto ad assumere l'iniziativa.
Finì che se l'assunse tutta il C., che per l'apertura del
Congresso riuscì a presentare il grosso volume di Notizie
naturali e civili su la Lombardia, unico uscito fra quelli
programmati, nel quale, in mezzo a contributi di altri, brilla lo
scritto omonimo del C., uno degli scritti in cui il suo genio
storico arriva ad attingere le vette più alte.
Ponendo fine al Politecnico, non era certo intenzione del C. di
abbandonare l'attività pubblicistica: voleva solo liberarsi
dall'onere della direzione e della quasi intera compilazione di una
rivista. Strinse subito intese con C. Tenca per la collaborazione,
già dal 1845, alla Rivista europea, che il Tenca dirigeva. E
infatti, nel corso del 1845, pubblicava in quella rivista alcuni
scritti di indole precipuamente geografica sul Messico, e principale
quello Dell'India antica e moderna. Negli stessi anni 1846-47
raccoglieva poi in tre grossi volumi intitolati Alcuni scritti il
meglio e il più importante della sua multiforme produzione,
ripartendola fra "Letteratura" (I), "Frammenti di storia universale"
(II) e "Filosofia civile" (III). Inoltre, nel Giornale ufficiale
dell'Istituto lombardo, che aveva assorbito in sé la
Biblioteca italiana, pubblicava, nel 1847, D'alcune istituzioni
agrarie dell'Alta Italia applicabili a sollievo dell'Irlanda.
Comunque, nel triennio 1845-48 il ritmo pubblicistico del C., anche
se non subisce una sosta, è meno impetuoso, quasi meno
travolgente che negli anni del Politecnico.
Nel 1846, a distogliernelo, erano intervenute gravi,sgradevolissime
complicazioni col fratello ingegnere Giuseppe, che si era impelagato
in infelici speculazioni finanziarie, nelle quali lasciò
qualche penna anche il C. con capitali propri e della moglie; onde
un nuovo momento, come già dieci anni prima, di crisi nella
vita coniugale. Fu superata anche questa. Ma a parte queste nubi
passeggere, il tono sociale del suo ménage doveva essere
piuttosto elevato: ricordandolo, molti anni dopo, nel 1862,
nell'esilio, e rifiutando un trasloco a Milano, sottolineava: "Ma in
una gran città io non potrei lasciar trovare questa donna dai
suoi parenti (ministri, Pari e ambasciatori) in un quartino da
professore e in men gentile apparenza ch'ella avesse prima del 1848,
quando il nostro focolare era il convegno degli amici e di quelli
che, nemici fra loro dappertutto, si adattavano a parere amici in
casa mia" (Epist.,IV, 92 e n. 1). Insomma, un salotto di
intellettuali italiani e stranieri di buona borghesia, con cameriere
e cuoco. Abitudinario e sedentario per natura, il C. si era lasciato
andare, nell'autunno del 1842, perfino a un breve viaggio in Toscana
(Scr. lett.,I, 11 ed Epist., II, 424) in occasione della morte a
Livorno della suocera.
Lo occuparono anche in questi anni le annuali relazioni, lette alla
presenza del viceré arciduca Ranieri, in occasione della
distribuzione dei premi della Società di incoraggiamento
d'arti e mestieri (15 maggio 1845, 18 giugno 1846, 27 maggio 1847),
per la quale scrisse anche un progetto per la istituzione di un
grande stabilimento di agricoltura. Le relazioni sono molto
interessanti anche come documentazione dell'atteggiamento politico
del C. in questi anni. Pur con i richiami agli augusti nomi del
Beccaria, del Volta, del Romagnosi, glorie lombarde, l'omaggio
all'arciduca protettore della Società, al governatore, al
nuovo arcivescovo Romilli, non sono soltanto un non evitabile atto
cerimoniale, ma una espressione di non ancora perduta fiducia nella
collaborazione con i governanti (Scr. polit., III, 356 s. e Scr.
econ., III, 3,12 s., 29).
Questi scritti dello scorcio del '47 non fanno ancora presentire
ciò che bolle in pentola: sono pieni di ottimismo
sull'avvenire operoso, progressivo della Lombardia. Solo in una
lettera del 19 nov. 1847 si accenna alle "circonstances politiques
devenant plus graves de semaine en semaine" (Epist., I,220). Ma
nessun accenno alle infatuazioni neoguelfe del momento, da cui il C.
rimase assolutamente immune, sempre. Una certa tensione, tuttavia,
risulta dal fatto che, alla fine di maggio 1847, il C. si rifiuta di
leggere un discorso che la censura avrebbe voluto esaminare
preliminarmente (Scr. stor. e geogr., IV, 21-22 e 347)
nell'occasione di un ricevimento in onore dell'illustre economista e
uomo politico inglese Richard Cobden. Nello stesso tempo un alto
burocrate austriaco confessava al C. che "il governo riconosceva la
materiale impossibilità di continuare quel suo sistema; ma
che era ben malagevole il dire per qual via si potesse uscirne
fuori". E il C. commentava: "Perciò sono persuaso che stava a
noi di trovargliela e di fargliene precetto, atteggiandoci ad
un'esigenza ragionata, misurata, inesorabile" (Scr. stor., IV, 22).
Il 18 dic. 1847 perfino la di solito prona Congregazione centrale
della Lombardia si faceva coraggio con la mozione del deputato G. G.
Nazari. E nei primi giorni del seguente gennaio il C., relatore di
una commissione dell'Istituto lombardo per redigere su invito del
governo un rapporto sull'insegnamento e sulla stampa, nel quale il
C. insisteva particolarmente sulla istituzione di corpi militari
lombardi (Scr. stor.,IV,36), è proposto dalla polizia per il
confino a Lubiana insieme con i patrioti conosciuti come più
agitati. Solo l'intervento del Mylius presso l'arciduca Ranieri
ottenne la sospensione del provvedimento (Epist., IV, 63). Eppure
egli è contrario a una insurrezione, per la disparità
delle forze: disarmata la popolazione, armatissimo l'esercito
austriaco, il C. pensava che "chi amava la patria doveva arretrarsi
a quel pensiero e rivolgere la mente a meno incerti e meno
disastrosi disegni". Considerato lo stato fallimentare delle finanze
austriache, l'esercito si sarebbe smembrato, il governo austriaco
avrebbe dovuto fare ricorso alle finanze lombarde assai più
floride: "Ci saremmo dunque avviati alla libertà per una
serie di franchigie, come accadde in Inghilterra e altrove...
Ciò posto, bastava tenere i nostri nemici nel duro e spinoso
campo della legalità; poiché la violenza e la guerra
ci avrebbe in quella vece consegnati alla prepotenza militare
porgendo al nemico un altro modo di vivere a nostre spese" (Scr.
stor., IV, 20-21).
I fatti si svolsero altrimenti. Giunta la notizia, il 17 marzo 1848,
che il governo di Vienna, per imposizione popolare, aveva il 14
concesso la libertà di stampa, il C. decise sull'istante di
iniziare l'indomani la pubblicazione di un giornale, col titolo
significativo Il Cisalpino, e ne stese l'articolo inaugurale, che
non sarà pubblicato perché gli avvenimenti presero
altra via. Ma l'articolo è ugualmente molto sintomatico e si
riassume, secondo lo stesso C., in questo: "Armi e libertà
per tutte le nazioni dell'impero, ognuno entro i suoi confini, e i
soldati italiani al servizio degli italiani" (Scr. stor., IV, 39).
Non è affatto un appello di guerra contro l'Austria
rigenerata dalla recente rivoluzione, e tanto meno un appello alla
dissoluzione della monarchia asburgica, né al distacco da
essa, né al programma di una unità politica italiana.
È un appello alla trasformazione dell'Austria in uno Stato
federale con istituzioni liberali, anche meglio specificato in un
abbozzo di articolo dello stesso tempo (Epist.,I, 444-466).Ma gli
avvenimenti prendono la mano anche al C., il quale, per sua
confessione, la mattina del 18 marzo "homme de paix... j'avais
supplié mes jeunes amis de n'en rien faire, mais de commencer
par tirer parti de la liberté de la presse et des autres
concessions qu'on venait de nous octroyer" (Epist., I,242). Ma visto
con sorpresa che l'insurrezione popolare si era scatenata, resisteva
ed aveva probabilità di vittoria, ritornava sui suoi
pensieri, vedeva che sul momento la necessità prima era di
dare una guida unitaria alla insurrezione.
Confessava, nel 1850, riandando a quel momento: "Avevo sempre atteso
a cose più alla mano e più pronte a friggere. Se mi
avvolsi nel diavolezzo dei cinque giorni, fu per lo sdegno che mi
fece la dappocaggine dei maggiorenti e dei loro barbieri e
perché mi vi tirò per i panni quel buttafuori di
Cernuschi e mi mise in punto di fare l'eroe per 48 ore" (Epist., II,
39).All'alba del 18 marzo, richiesto di consiglio da amici, non
persuaso che ci fosse una preparazione armata né un comitato
organizzatore, sconsigliava ancora ogni gesto inconsulto.
Rotti oramai gli indugi, il C. suggeriva che il quartier generale
degli insorti passasse nel meglio difendibile palazzo Taverna. Alla
proposta altrui di un governo provvisorio, contrapponeva quella,
accettata, di un Consiglio di guerra, indicando i nomi dei
componenti, del quale fu il vero animatore.
Si deve a lui se furono imposti ordine e disciplina; se fu
risparmiata la vita al Bolza, sgherro della polizia; se furono
trattati cavallerescamente gli ufficiali austriaci prigionieri.
Emanò proclami per rincuorare i combattenti, rifiutò
contro il parere della municipalità un armistizio di 15
giorni fatto chiedere dal Radetzky e poi un altro di 3 giorni
invocato dai consoli stranieri (ma su questo punto dei due rifiuti,
che presenta il C. come il vero capo anche politico e, in
definitiva, colui che portò a fondo vittoriosa l'insurrezione
popolare, ci furono in anni molto più tardi e nel clima non
sereno di una lotta elettorale, delle contestazioni, intese,
soprattutto da parte di L. Torelli, testimone e partecipe, a
limitare la parte esclusiva del C.: Epist.,IV, 455 n. 1). Il C. si
oppose nel Consiglio di guerra a una votazione dei cittadini per
invocare l'intervento di Carlo Alberto, e alle insistenze del conte
E. Martini, emissario del re sabaudo e mediatore, perché a
lui fosse fatta la dedizione della città insorta, si oppose
con la famosa lettera da lui dettata: "Se il Piemonte accorre
generosamente, avrà la gratitudine dei generosi d'ogni
opinione.
La parola gratitudine è la sola che possa fare tacere la
parola repubblica" (Scr. stor., IV, 75).
All'alba del 22 marzo il Consiglio di guerra, assolto il suo
compito, trapassò in un Comitato di guerra, inteso come una
specie di ministero della Guerra alle dipendenze del governo
provvisorio. Così "il Consiglio di guerra visse solo
quarantott'ore" (Scr. stor.,IV, 80). Il C. entrò nel nuovo
Comitato non come presidente, che fu il conte P. Litta, ma come
membro e sia pure autorevole. E non ebbe a compiacersene, secondo
ricordava molti anni dopo: "Dei miei tre compagni uno, Giulio
Terzaghi, non si curava; l'altro, Giorgio Clerici, non era buono da
nulla e allora era fatto comandante della Guardia nazionale;
l'altro, Cernuschi, era inviso ai mazziniani Ceroni, Pezzotti e
Correnti" (Epist.,IV, 10).
Tuttavia, anche nel Comitato di guerra la sua azione personale
è rilevante: ancora nella giornata del 22 comanda una puntata
verso porta Ticinese, tenuta ancora dal nemico; provvede alle
operazioni intese a sbarazzare le zone fra Lodi, Cremona e Crema e a
istituire a Cremona un Comitato di guerra; si oppone a una eccessiva
burocratizzazione dei comandi militari e alle resistenze dei vecchi
generali all'utilizzazione di volontari, anzi spinge i volontari di
Manara e gli svizzeri di Arcioni a intercettare le vie dal Tirolo;
provvede di carte geografiche lo Stato maggiore piemontese che ne
era, inspiegabilmente, privo.
Vistosi continuamente intralciato dal governo provvisorio
filo-piemontese, il 31 marzo 1848, insieme con gli altri tre membri
del Comitato di guerra, dava le dimissioni. Dirigeva un appello agli
Ungheresi e dopo dodici giorni di vita pubblica, gli unici della sua
vita, tornava a vita privata. Riprendeva la sua attività di
pubblicista. L'articolo pubblicato nell'Italiadel popolo del 3
luglio è notevolissimo, un'esaltazione della parte avuta
nell'insurrezione dalle classi popolari milanesi, statistiche alla
mano (Scr. polit., II, 426-429). Il 30 aprile ci fu un incontro con
Mazzini, che si rassegnava, per amor di concordia, ad accettare la
guerra regia. Fu chiesta al C. la sua collaborazione per abbattere
il governo provvisorio, proclamare la Repubblica e invocare
l'intervento armato francese. Non si intesero. Corsero,
nell'agitazione degli animi, parole atroci e ingiuste. Il C. aveva
avuto dal Governo provvisorio offerte di uffici: segretario generale
alla Guerra, consigliere alla Pubblica Istruzione, redattore del
giornale ufficiale, inviato straordinario a Londra. Rifiutò
tutto (Epist., I, 246). A sua insaputa il suo nome fu fatto da
quegli estremisti repubblicani che il 29 maggio tentarono di
abbattere il Governo provvisorio, moderato e filosabaudo (Epist.,
I,252 s.). Pochi giorni dopo il C. già pensava di andare, da
privato, all'estero e chiedeva il passaporto (Epist., I, 255).
Quando già, nel luglio, le sorti della guerra regia volgevano
al disastro, si incontrò (27 luglio) con Garibaldi e fu
nominato commissario di guerra per Lecco, Bergamo e Brescia per
tentare in quei luoghi e sulle Alpi l'estrema resistenza. Un suo
piano, datato da Bergamo il 5 ag. 1848, prevede nelle valli
bergamasche, a ridosso del confine svizzero, un'azione continuata,
ad oltranza, di guerriglia (Epist., I,267-270). La sconfitta e il
ritiro delle truppe piemontesi la resero ineffettuabile. Il C., con
la moglie sofferente, riparava a Lugano, dove si era costituita, con
la partecipazione di Mazzini, di Garibaldi, di altri, una Giunta
d'insurrezione nazionale italiana, la quale il 9 agosto, inviava il
C. a Parigi con la missione di invocare presso il ministro degli
Esteri Jules Bastide l'intervento della Repubblica francese contro
gli Austriaci. Il C. giungeva a Parigi "delirante di sdegno" il 16
agosto (Epist., II, 103). Salvo un attimo di speranza ai primi di
settembre (Epist., I, 280), capì ben presto che non c'era da
cavarci nulla: gli uomini politici e l'opinione pubblica francesi
erano malissimo informati. Ebbe relazione con politici "d'ogni
opinione: Cavaignac, Cintrat, Mignet, Thierry, Larochejacquelin,
Drouin-de-Lhuys ecc. Chi mi palesò animo più propenso
e ospitale si fu Lamartine; e meglio intendere le cose d'Italia mi
parve Quinet" (Scr. stor., IV, 4). Si chiuse in casa e buttò
giù affrettatamente, col cuore in tumulto e in non buone
condizioni di salute, il pamphlet L'insurrection de Milan en 1848,
che il 22 sett. era già in corso di stampa (Epist., I, 290),
ridotto a un quarto della prima redazione sulle mille pagine
(Epist., I,294 s.). Uscì il 25 ottobre. Il 1º novembre
il C. era di nuovo a Lugano, subito impegnato nel redigere una
versione italiana della Insurrection, che infatti uscì,
notevolmente ampliata ("molto aggiunsi, nulla tolsi": Scr. stor.,
IV, 6) il 31 genn. 1849 (Epist., I, 312).
Tanto la redazione francese, di cui furono fatte riproduzioni
abusive e che fu sequestrata in Piemonte dal governo democratico,
quanto la redazione italiana, poterono circolare liberamente nella
Lombardia tornata austriaca, fino alla rotta di Novara. Il governo
austriaco ritenne più profittevole a lui le veementi pagine
sulle viltà dei maggiorenti moderati sabaudisti milanesi e
sulle perfidie carloalbertine ispirate, secondo il C., a interessi
monarchici non nazionali, che non perniciose a lui quelle
antiaustriache. "La predica è buona e non ne muterei nemmeno
una virgola" ribadiva il C. tredici anni dopo (Epist.,IV, 113).
A fine febbraio 1849 pubblicava, anonimo, un mordace manifesto
contro il Gioberti (Scr. polit., II, 429-441). Rifiuta qualunque
ufficio offertogli: di deputato a Genova, a Torino, in Toscana, e di
ministro delle Finanze della Repubblica romana. Per le precarie
condizioni di salute della moglie dismette l'idea di stabilirsi in
Francia o in Inghilterra: rimarrà a Castagnola presso Lugano,
in una modesta casetta fra il verde. Nel settembre 1849 comincia ad
attuare un'idea lanciata dal Dall'Ongaro, di un Archiviotriennale
delle cose d'Italia, cioè una raccolta di documenti relativi
al triennio 1847-1849, divisata in una trentina di volumi, rimasta
incompiuta, a tre. La difficile raccolta del materiale, che poi
avrebbe dovuto essere conservato in una sorta di archivio-museo, lo
tenne occupato nei primi anni dell'esilio, ticinese, trascorso anche
in strettezze finanziarie ("ridotto allo stretto necessario":
Epist., II, 48), complicate dalla morte del fratello Giuseppe
nell'agosto 1850 (Epist., II, 36). Dava il suo consiglio e la sua
opera per la collocazione di un prestito nazionale italiano, di
schietta impronta mazziniana, ma esprimendo scetticismo sulla
possibilità di una ripresa, alla spicciolata, della lotta
armata contro i governi e suggerendo invece una intensa opera di
propaganda con gli scritti. Fu la ragione, nel settembre 1850, del
suo distacco da Mazzini (Epist.,II, 44-48). Il primo volume
dell'Archiviotriennale uscivanel settembre 1850, con una importante
appendice di Considerazioni sulle cose d'Italia nel 1848, il secondo
nell'agosto 1851 (Epist., II, 80), mentre il C. veniva occupandosi
anche di altre cose: di un progetto di ferrovia a cavalli fra Sesto
Calende e Tornavento (Lonate Pozzuolo); di un progetto di bonifica
del piano di Magadino presso Locarno; della stampa delle Carte
segrete della polizia austriaca; della collocazione dello scritto
del Pisacane Guerra combattuta inItalia negli anni 1848-49. Egli fu
in questi anni al centro della vasta attività della
Tipografia Elvetica di Capolago, a poche miglia da Lugano, come
consigliere e promotore, pur fra mille difficoltà, specie
dopo l'arresto e l'uccisione di L. Dottesio, il diffusore
clandestino delle edizioni in Lombardia e in Piemonte. Il colpo di
Stato napoleonico del 2 dic. 1851 fu interpretato dal C. in senso
positivo, nel senso cioè che le ambizioni napoleoniche in
Italia avrebbero rotto la situazionestagnante dopo il fallimento del
'48-49 (Epist., II,137-141).
Il C. godeva di grande autorità nel Cantone, non solo per le
relazioni personali che teneva con le figure eminenti del partito
liberale-democratico allora al potere (alcune, come quelle col
Franscini, risalenti alla prima giovinezza), ma anche per la
accreditata fama di uomo di studi, specialmente in materie
economiche, ma non solo in queste. A ciò si deve, se egli,
invitato, presentò nell'aprile 1852 un vasto piano per la
riforma dell'insegnamento secondario nel Cantone, che fu fatto
proprio dal governo e pubblicato nel giornale ufficiale cantonale.
Proprio in relazione a ciò, egli veniva, il 20 ott. 1852,
nominato professore di filosofia e direttore (ma a questa carica
rinunziò subito) del neo istituito liceo di Lugano, nel quale
e in altre scuole del Cantone egli riusciva a dare un pane anche ad
altri proscritti italiani, anche non federalisti come lui, quali
Giovanni Cantoni, il Bellerio fratello della Sidoli, ecc. (Epist.,
II, 187,192). Nel novembre 1852 teneva la prolusione al suo corso di
filosofia (Scr. filos., I, 10-26) che provocava larghi commenti, non
tutti favorevoli, per il suo dichiarato laicismo.
I rapporti fra i mazziniani "unitari" e i cattaneani "federalisti"
si erano inaspriti: i fatti milanesi del 6 febbr. 1853, con il
conseguente atteggiamento minaccioso dell'Austria, che pretendeva
l'espulsione dal Cantone degli esuli italiani e che giungeva fino ad
un blocco economico, durato fino all'aprile 1855, resero delicata la
posizione del C., benché non ci fosse nessuna esplicita
richiesta di bando contro di lui e contro gli altri insegnanti
italiani; ma i non molto numerosi suoi seguaci furono assurdamente
accusati dai mazziniani di essere stati essi i denunciatori dei
compromessi nei fatti del 6 febbraio. Soffiavano poi nel fuoco i
clericali-conservatori ticinesi contro i liberali-democratici che,
ostensibilmente, proteggevano gli emigrati. Intanto il C.
collaborava con personalità del governo ticinese per progetti
di legge sulle miniere, sulle assicurazioni, ecc.; entrava anche in
speranze di speculazioni, in intraprese di bonifiche e di ferrovie.
Dietro le quinte, come consigliere (e non poteva di più in
quanto forestiero e cittadino soltanto onorario del Cantone) il C.
ebbe anche parte, nell'ottobre 1854, nelle lotte politiche cantonali
e fu in prima linea nel sostenere il laicismo pedagogico nell'aspra
polemica che si accese nel 1855 nelle aule stesse del suo liceo
contro le mene della parte clericale-reazionaria.
Tutto ciò spiega come la sua attività letteraria abbia
subito un po' una sosta negli anni 1852-53, benché tempo non
poco spendesse in intraprese che non videro mai la luce, quali i
primi volumi di una ristampa dei muratoriani Rerum Italicarum
Scriptores. Egli, ovviamente, seguiva col massimo interesse anche
dal Canton Ticino gli avvenimenti politici: la crisi di Oriente, la
partecipazione piemontese alla guerra di Crimea, ma soprattutto
seguiva la politica di Napoleone III, nella convinzione che le cose
italiane potessero prendere un altro corso per qualche iniziativa
politica del secondo Impero. Nel 1855 incomincia la collaborazione
al Crepuscolo del Tenca ("il miglior giornale d'Italia": Epist.,II,
326) col saggio sul Thierry del Terzo Stato e sul Kalevala e
finalmente, dopo una sosta prolungata, esce ai primi del 1855, ma in
una tipografia di Chieri, il terzo e ultimo volume
dell'Archiviotriennale.
Gli avvenimenti del 1859, di poco preceduti dal suo geniale studio
sulla città italiana, lo mettono in molto imbarazzo: vede
operata dal non amato Piemonte e senza partecipazione di popolo,
quella liberazione della Lombardia che egli aveva visto e secondato
undici anni prima, ma per opera del popolo lombardo. Già il
23 giugno, prima ancora della conclusione delle operazioni militari,
il Cantù lo invita a tornare a Milano; ma per il momento non
si muove. Pensa di riprendere il Politecnico, principalmente come
organo di critica alla politica cavouriana. Il Cavour lo ripaga di
pari moneta: con acredine si oppone alla nomina del C. a segretario
dell'Istituto lombardo, gli nega perfino gli arretrati di pensione
che gli spettavano per gli undici anni passati in esilio (Epist.,
III, 465). "In verità la rivoluzione e il trionfo di questa
brava gente, mi sono costati 150.000 franchi" concludeva
malinconicamente nel marzo 1861 (Epist.,III, 472). Il C. segue con
trepida simpatia la spedizione dei Mille. Invitato a Napoli a
collaborare con Garibaldi nelle ambagie della costituzione di un
nuovo governo, vi risiede per un mese, dal 21 sett. al 18 ott. 1860;
ma nauseato e impotente di fronte alla lotta serrata che si
combattevano attorno al dittatore le fazioni filopiemontese e
autonomista e di fronte alla disorganizzazione che, per colpa dei
cavouriani, mandava i volontari alla battaglia con due cartucce a
testa (Epist., III, 467), abbandona la città, più che
mai risoluto a non avere parte nell'azione politica, e torna al suo
romitaggio di Castagnola.
Il 21 genn. 1861 rifiuta la cattedra che gli veniva offerta
all'Accademia scientifico-letteraria (università) di Milano,
con uno stipendio annuo di 8.000 lire. Ètutto preso dalla
nuova serie del Politecnico, alla quale molto fatica per ridare il
tono e il valore della prima serie.
Voleva che il periodico pubblicasse "cose serie, ma non troppo
pesanti a leggersi, perché il Politecnico non può
essere una raccolta speciale e riservata a pochi lettori"
(Epist.,IV, 69). Ilnuovo Politecnico era osteggiato dai cavouriani,
che fecero togliere abbonamenti alla rivista "nelle pubbliche
biblioteche e presso molti privati di Milano" (Epist., III, 467).Ma
già nel febbraio 1861,si rabbuia perché, in fatto di
progetti ferroviari, il Politecnico segue "un ordine di idee che non
è mio e che in molti punti contrasta con molti impegni
già presi da me e dai miei amici" (Epist., III, 468).D'altra
parte, si difende dall'accusa rivolta al Politecnico di non essere
tecnico, di essere troppo pieno di filosofia e di letteratura
(Epist., III, 485). "Mispiace molto anche l'invettiva del signor Loy
contro il dottor Castoldi. Altra volta i collaboratori del
Politecnico non divertivano il pubblico col darsi fra loro delle
legnate come i signori Vera e Loy" (Epist., IV, 97 s.).
In questo primo anno di ripresa del Politecnico la sua
attività pubblicistica è frenetica. Scrive di tutto:
di filosofia (sull'uomo nello spazio e sull'uomo nel tempo,
sull'uomo nell'ordine, sulla formazione dei sistemi), di economia
(sui disastri dell'Irlanda nel 1846-47,sul credito personale e il
credito reale); di politica dei trasporti (sulla ferrovia di Como,
sulla ferrovia per La Spezia, sulle ferrovie transalpine e in
particolare su quella del Gottardo); di storia militare e di
questioni militari; di linguistica; di storia e di geografia (sul
Giappone, sull'Asia Minore e sulla Siria, sugli antichi Messicani);
su questioni politiche del momento (su Nizza e Savoia, sulla
Sardegna); sulla politica amministrativa del nuovo regno; sulla
politica scolastica; sulla pena di morte; di storia letteraria (su
Foscolo e l'Italia); e dà in Italia la prima notizia
sull'opera del Darwin sull'origine della specie. E insieme trova il
tempo per ripubblicare, introducendovi anche qualche modificazione,
sotto il titolo di Memorie di economia pubblica, un primo volume, il
solo pubblicato per le difficoltà poste dall'editore Sanvito
(Epist., III, 470), raccogliente i suoi scritti più
importanti sulla materia dal 1833 al 1860. Quanto a fecondità
di scritti siamo ritornati al C. del 1839 e anni seguenti. Questa
febbrile attività prosegue fino al 1865,via via attenuandosi
tuttavia negli ultimi anni. Continua la stessa straordinaria
versatilità sui temi più diversi.
Per limitarci ai più importanti, non si possono non
rammentare i saggi sulla Cina antica e moderna, sul pensiero come
principio di economia pubblica, sulle questioni del Trentino, di
Trieste, dell'Istria, sulla poesia del Mickiewicz, sui nuovi
ordinamenti militari italiani che vorrebbe sulla base della nazione
armata, sulle origini italiche, sull'antico Egitto, sul
riordinamento degli studi scientifici in Italia, sull'industria
moderna, sull'Argentina, ancora sulla Sardegna, sul confine
orientale d'Italia, sui Lusiadi di Camões, sul Lassalle, sul
romanzo femminile, sull'opera storica di G. Ferrari, sui dazi
suburbani, perfino sul tifo dei bovini.
Nel luglio 1862 il ministro dell'Istruzione Matteucci lo vorrebbe
professore a Milano, anche a costo di "fare sole dodici lezioni in
un anno" (Epist.,IV, 64). Rifiuta. Poco dopo, nell'agosto 1862,
redige, per le insistenze del Bertani e contro voglia, protestando
che "è il contrario delle mie idee" (Epist., IV, 67) un
appello alla nazione francese (Scr. polit., IV, 216) in nome di 500
associazioni politiche di ogni parte d'Italia, al fine di indurre
Napoleone III a non opporsi a una spedizione di Garibaldi su Roma,
che è quella che porta ad Aspromonte.
All'indomani dello scontro scrive scoraggiato: "Son codesti
piemontesi così accecati da non veder dove vanno? Io son
vecchio abbastanza per potervi dire che in tre anni hanno fatto
più viaggio che i tedeschi non ne fecero in trenta;
poiché solo dal 1814 al 1847 io non ho mai visto le baionette
al petto dei cittadini, mai, mai" (Epist., IV, 72 s.) e vede come
epilogo della situazione caotica, in cui "Napoli spogliata di ogni
lustro paventa il re vecchio, bestemmia il re nuovo, non crede alla
repubblica e dispera della monarchia",la costituzione
dell'Unità italiana attraverso il cesarismo napoleonico.
Profezia, evidentemente, che non tiene conto della situazione
generale europea, ma espressione di uno stato d'animo di
disperazione e della tenace idea cattaneana di vedere,
tendenzialmente, nel cesarismo di Napoleone III una reduplicazione
del primo.
Non ci pensava a stabilirsi a Milano, un po' per la salute sempre
cagionevole della moglie, alla quale il clima del lago di Lugano
conferiva. E poi "qui l'affitto mi costa non più di duecento
franchi all'anno e la bellezza e salubrità del luogo scusa
tutto" (Epist.,IV, 92). Già alla fine del '61 sente una certa
stanchezza morale: "È la vita senza piaceri e senza speranze.
Solo il continuo lavoro mi allontana i pensieri tetri e mi conserva
l'aspetto naturalmente gioviale; ma di dentro sono morto" (Epist.,
III, 585).E infatti il lavoro inesausto continua su ogni sorta di
problemi sui quali, mentore alla nazione, egli crede necessario o
utile di far sentire il suo parere.
Una novità, relativa novità, perché raccoglie
pensieri che hanno una lunga incubazione e che risalgono al
sodalizio romagnosiano e alla sua attività didattica del
liceo milanese, è la pubblicazione di scritti di filosofia: a
cominciare da quello Del pensiero come principio d'economia
pubblica, che è del 1861, per continuare con le letture fatte
all'Istituto lombardo Dell'antitesi come metodo di psicologia
sociale, Della sensazione, Dell'analisi come operazione nelle menti
associate, tutte pubblicate, tranne l'ultima, anche nel Politecnico,
oltre che negli Atti dell'Istituto. Èanche di questi anni lo
studio Del diritto e della morale, e degli anni del suo insegnamento
le lezioni di cosmologia, psicologia, ideologia, logica, pubblicate
postume.
Il C. continuò a scrivere sul suo Politecnico fino al '65, ma
concedendosi qualche evasione in altri periodici e giornali, quali
Il Diritto del suo amico A. Lemmi e la Rivista contemporanea diretta
da L. Chiala.
Certo all'origine di questo suo disamorarsi alla sua creatura era la
difficoltà dei suoi rapporti con l'editore Daelli. La
rivista, economicamente, andava bene: aveva 1.200 abbonati nel 1862
(Epist.,IV, 100 n. 1) e 1.400 l'anno dopo (Epist.,IV, 162), secondo
un'asserzione del C., di valore tuttavia discutibile, perché
in altra lettera (Epist.,IV, 184) ammetteva: "non conosco il numero
degli abbonati". Ma dal febbraio 1862 i rapporti col Daelli si
fecero sempre più tesi, specialmente per la formulazione del
contratto; nel dicembre del '62 la controversia fu rimessa nelle
mani di arbitri, A. Bertani e M. Macchi, amicissimi del C.(Epist.,
IV, 106, 110). Egli temeva che la rivista cadesse in mani
ministeriali (Epist.,IV, 120, 127 s.). "Oramai credo inevitabile che
diventi del tutto bottega, come ogni altra cosa in Italia,
dall'altare al trono" (Epist., IV, 122). Nel settembre 1863 si apre
addirittura una causa civile (Epist., IV, 167). La vertenza si
concludeva nel dicembre 1863, per cui al C. restava la
proprietà del terzo degli utili, detratte le spese di
redazione,stampa e amministrazione (Epist.,IV, 184), ma non la
effettiva direzione della rivista (Epist.,IV, 187), benché
continuasse a pubblicarvi le cose sue.
Rispetto agli avvenimenti interni ed esteri che si svolsero nel
decennio 1859-1869non mancarono i commenti del C., ma in modo
discontinuo e con strani silenzi su non pochi di essi: nessuno, ad
esempio, sulla guerra di secessione degli Stati Uniti così
ammirati da lui negli anni precedenti, e che avrebbe dovuto scuotere
la sua fede federalistica. La sua partecipazione di fatto alla vita
politica italiana fu scarsa e discontinua anch'essa: nelle elezioni
del marzo 1860fu eletto deputato nel V collegio di Milano, nel I di
Cremona e in quello di Sarnico, dopo una furiosa battaglia attorno
al suo nome a Milano, per cui finì con l'accettare
esplicitamente le tre candidature (Epist., III, 306,451)più
che altro "per corrispondere debitamente a quanti mi avevano
spontaneamente difeso dalle brutture della stampa servile" (Epist.,
III, 447). Ma una volta eletto non andò mai al Parlamento di
Torino: "eletto io non potei far di più che serbare la
promessa fin da principio offerta di scrivere sulle questioni
parlamentari" (Epist., III, 447). Crede di essere più utile
alla sua causa con l'azione pubblicistica che non con l'azione
parlamentare (definita "la commedia del parlamento", Epist., III,
469). Si rifiutò, per quanto sollecitato, di porre la sua
candidatura alle successive elezioni del 27 genn. 1861 (Epist., III,
438, 446n. 2, 447, 450);e così pure rifiutò per le
elezioni dell'ottobre 1865 (Epist.,IV, 346, 451).Ma finì con
l'accettare per le elezioni del marzo 1867 e fu eletto, ma non con
larghissima maggioranza, nel primo collegio di Milano, che era stato
di Cavour (Epist., IV, 455).Andò a Firenze, in tre riprese,
nella primavera e nell'autunno del '67,ma non pose piede in
Parlamento. Anche la sua vita nel romitorio di Castagnola e a Lugano
era sensibilmente mutata: il 28 ott. 1865 siera dimesso dal posto di
professore nel liceo di Lugano (Epist.,IV, 355).
La ragione era stata questa: per la questione della ferrovia del
Gottardo aveva avuto in pubblico un violento diverbio con l'avvocato
Luigi Maria Pioda, un'eminente personalità del Canton Ticino
e in quel tempo titolare della più alta carica cantonale,
quella di presidente del Consiglio di Stato. Vani furono i tentativi
per convincere il C. a ritirare le dimissioni, a giungere a un
compromesso, difficile del resto anche per l'autorità
cantonale.
Il C. trascorse da privato a Castagnola gli ultimi tre anni o poco
più della sua esistenza circondato dal rispetto e dalla stima
dei Ticinesi; ma sempre più isolato, nonostante qualche
frequente visita a Milano e anche, come si è detto, a
Firenze. Già cagionevole di salute negli ultimi anni, affetto
da vizio cardiaco, assistito dalla moglie e dal Bertani che era
medico, non, come è stato detto, dal Mazzini che in quei
giorni giaceva pure lui malato a Lugano, perse la conoscenza il 31
gennaio; trapassò nelle prime ore della mattina del 5 febbr.
1869(Epist.,IV, 644).Pochi mesi dopo, il 25 ott. 1869, lo seguiva
nella tomba Anna Woodcock, la compagna della sua vita.
Considerate la vastità e la varietà della produzione
cattaneana, non è facile ricondurla a un pensiero unitario
centrale. Tuttavia, due pensieri sembrano dominare la mente del C.:
il rifiuto di ogni metafisica; l'idea e la fede nel progresso.
L'insegnamento filosofico d'impronta sensistica era tradizionale
nelle scuole, anche ecclesiastiche, della seconda metà del
'700 in Italia (Epist.,III, 75). Anche il C. ne fu preso. È
probabile che muovesse di lì il suo fedele, spesso ripetuto
apprezzamento del condillacchiano ginevrino Charles Bonnet (a un
"negletto pensiero del quale" attribuisce addirittura lo spunto
della Genesi del diritto penale di Romagnosi: Scr. polit., I,
412-22) e lo portasse ad esaltare, con manifesta esagerazione,
"l'ultima metà del secolo XVIII" come il "secondo secolo
d'oro per l'Italia". Ma la sua cultura filosofica è,
sostanzialmente, di seconda mano e riecheggia motivi diffusi nella
cultura del tempo: poche o punto letture dirette di testi
filosofici, anche dei più ricordati, Bacone, Locke, Vico;
avversione per ogni logomachia sui temi, a parer suo, vacui e
inconcludenti, di ogni impostazione idealistica del pensiero
filosofico, bollati da lui col termine spregiativo di
"braminici",come relitti di pensiero non molto distante e diverso da
quello magico, che i tempi moderni hanno superato o dovrebbero
superare, per rivolgersi ai problemi della vita associata, non a
quelli dell'uomo separato dalla società, come avevano fatto e
facevano i metafisici. La sua filosofia, come ha detto N. Bobbio con
felice espressione, è una "filosofia militante",uno strumento
per operare sulla società e contribuire a migliorarla; nella
quale opera "l'uomo nel soddisfacimento dei suoi vasti desideri non
ha altra guida che l'esperienza e la ragione",come diceva nel suo
primo scritto a stampa, nel 1822, recensendo un'opera del suo
Romagnosi (Scr. filos.,I, 7). Egli ne aveva, in sostanza, assorbito
il sensismo (per quanto rifiutasse il termine) che il Romagnosi si
portava dietro dal secolo precedente; ma epurato da tutto il
faticoso apparato deduttivo sistematico che aduggia molte delle
opere del maestro e applicato ai problemi concreti che la vita
presenta. I problemi metafisici, comunque proposti e risolti, non
hanno valore agli occhi del C., anzi sono devianti e ritardanti
nello studio (egli dice l'analisi) delle difficoltà che via
via si oppongono nella vita degli uomini in quanto stretti in
società. Il C. lascia intendere che le metafisicherie sono
uno spasso e un perditempo individuale, apprezzabile, al più,
come la poesia, anch'essa opera di fantasia. Perciò egli
riprende e prosegue l'ultimo Romagnosi, quello delle note,
informazioni, suggerimenti negli Annali di statistica, assai meno -
se non nei presupposti generali sensistici - quello delle massicce
opere teoriche. Solo negli anni posteriori al 1852, per la sua
professione di docente liceale di filosofia e dopo il 1859, dopo il
rientro nell'Istituto lombardo (ma qui veramente nessuno l'avrebbe
tenuto a dissertare proprio in cose filosofiche) cercò di
sistemare speculativamente le idee che, sparsamente e senza
connessione organica, avevano presieduto alla sua attività di
poligrafo, ed ora esponeva secondo la tradizionale quadripartizione
scolastica.
Si può lasciare ingoluta la questione se il C. fosse o non
fosse un positivista o addirittura il primo banditore del
positivismo in Italia, su una linea che andrebbe da Romagnosi
attraverso Cattaneo ad Ardigò. Pare certa, nonostante alcune
evidenti affinità, la sua indipendenza da Comte e da Spencer,
che non sono mai da lui citati. Rifiutava la storia della filosofia
e in particolare l'eclettismo di Cousin, che era stato superato
dalla fase attuale del pensiero scientifico e che poteva avere al
più un interesse meramente erudito. Respinge Platone,
respinge Spinoza, come responsabili del ripetuto risorgere di teorie
trascendentali; e anche Aristotele non trova grazia ai suoi occhi
perché gli imputa, come inventore del sillogismo, di avere
contribuito al decadere della filosofia sperimentale nel Medioevo.
Indipendentemente da Condorcet, ricordato solo fuggevolmente in anni
tardi (Scr. polit.,IV, 398), aveva tratto dallo sviluppo della
scienza, da Francesco Bacone in poi, l'idea del progresso indefinito
del genere umano, non affatto rettilineo, ma deviato da ostacoli e
da momentanei arretramenti,rifiutando il pessimismo di Machiavelli e
di Vico (i "tristi sistemi di decadimento": Scr. polit.,IV, 398),
che questo progresso negavano con l'idea di un movimento ciclico che
ritorna sulle posizioni di partenza. Il pensiero filosofico del C.
si presenta sostanzialmente già compiuto nelle polemiche del
1836-37 prima col Subalpino poi direttamente col Rosmini
trascinatesi poi fino al 1842. Èribadito il rifiuto delle
idee innate, del resto già negate dal sensismo; ribadita
l'adesione a un "sistema progressivo" fondato su studi di economia e
di statistica (Scr. filos.,I, 20 s.), al culto della realtà.
Circa l'idea del progresso indefinito, è probabile che il C.
l'avesse fatta propria sulla scia del Romagnosi di Che cosa è
l'incivilimento, che è del 1832. Il C. la sviluppa largamente
nel corso luganese di vent'anni dopo, nella parte Ideologia delle
genti (Scr. filos.,III, 3-216, specialmente pp. 214 s.). Per il C.
condizione del progresso è il contrasto di idee e di
situazioni, il quale contrasto, per essere efficace e rompere un
sistema retrogrado, ha bisogno della libertà ed essere
guidato da principi razionali, laddove quelli irrazionali non fanno
che rafforzare i sistemi retrogradi o riportare ad essi. Il C.
amò chiamarsi soprattutto economista (oltre che ideologo,
cioè filosofo). E infatti la sua genialità si
manifesta largamente nel campo dell'economia, sia teorica che
applicata. Nel primo campo emergono i due scritti Del pensiero come
principio di economia pubblica e Dell'economia nazionale di Federico
List. Entrambi rispondono bene al pensiero anche filosofico del C.,
in quanto che egli attribuisce al pensiero un ruolo determinante in
ogni azione umana; il pensiero è un fattore della produzione
alla pari col capitale, col lavoro, ecc. Nuove concezioni religiose,
artistiche, morali, giuridiche, nonché le scoperte di nuove
materie e fonti di energia, di macchine, di metodi organizzativi
danno l'impronta decisiva all'attività economica. Altrettanto
coerente col suo pensiero filosofico e politico è la recisa
affermazione del liberismo economico, la condanna di ogni privilegio
e di ogni nazionalismo economico, con il corollario dell'auspicio di
vaste unioni doganali. Queste idee trovano applicazione negli
scritti su problemi e situazioni reali, quali sulle istituzioni
agrarie in Alta Italia, in Sardegna, in Irlanda, in Inghilterra,
sulla politica doganale e commerciale, sul credito, soprattutto a
sovvenzione del commercio delle sete e, non ultimi, sulle ferrovie e
i trasporti in genere, fra i quali eccellono i numerosi scritti
sulle linee ferroviarie nuove, in costruzione o in progetto, il
problema del secolo, si direbbe, a cui erano fortemente interessati
capitalisti, industriali, commercianti. In tali questioni il
criterio direttivo del C. fu che i tracciati delle nuove linee
dovevano ispirarsi a ragioni di ordine economico, allacciare centri
di produzione e di scambio che garantissero la convenienza economica
della linea. Di qui, attraverso una battaglia lunghissima e dura, la
preferenza alla linea per il Gottardo, diretta ad unire la Lombardia
principalmente con l'Europa nordoccidentale renana, rispetto a
quella, da altri tenacemente sostenuta, per il passo del Lucomagno,
diretta invece verso il lago di Costanza. Carattere economico, oltre
che storico-giuridico, ha il celebre scritto sulle Interdizioni
israelitiche, che sottolinea, sì, le ragioni di equità
e di giustizia, in definitiva di libertà, in rapporto agli
ebrei, ma non meno quelle di convenienza pratica, economica.
Dai problemi economici a quelli sociali era breve il passo. Il C.,
da buon borghese ambrosiano, ha un culto della proprietà:
"Giova tenere viva nei popoli la certezza che la proprietà
acquistata a lettera di legge è inviolabile; altrimenti
incertezze, confusione e scemamento di cambi e di utili transazioni"
(Scr. econ., I, 62); e coerentemente respinge con energia il
socialismo proudhoniano "quell'odioso detto: La proprieté
c'est le vol" (Scr. econ., III, 342s.) e il comunismo "tratto fuori
da obliato sepolcro",il quale "demolirebbe la ricchezza senza
riparare alla povertà, e sopprimendo fra gli uomini
l'eredità e per conseguenza la famiglia, ricaccerebbe il
lavorante nell'abiezione degli antichi schiavi, senza natali, senza
onore" (Scr. filos.,I, 260 s.). Questo nel 1844 a quattr'anni dal
Manifesto. Ma vedeva come "una grande speranza d'Italia" le
società operaie (Scr. polit., III, 123).per le quali, nel
1864, preparò un progetto di regolamento (Scr. polit., IV,
412 ss.), pur facendo osservare che "i nomi che vi sono firmati sono
quasi tutti di avvocati, dottori e professori" (Epist., IV, 195).Ma
aveva meno fiducia nel senso politico delle masse contadine e
deplorava che nel '48fossero state chiamate a votare per la fusione
col Regno (Scr. stor.,IV, 152).
"Je suis économiste et idéologue de mon métier
et je n'ai point de penchant et très peu de temps pour la
politique" (Epist.,III, 66) scriveva nell'agosto 1858 al cognato A.
Brénier, diplomatico di professione; ciò che non
impedì che il C. di politica si occupasse, continuatamente,
almeno negli ultimi vent'anni e più della sua vita. I suoi
modelli politici furono la Svizzera e gli Stati Uniti d'America.
Egli auspica "il giorno che l'Europa potesse, per consenso
repentino, farsi tutta simile alla Svizzera, tutta simile
all'America, quel giorno ch'ella si iscrivesse in fronte: Stati
Uniti d'Europa" (Scr. stor., II, 178 s.), esalta "la poderosa
semplicità di quella associazione del mondo americano, nella
quale è sempre identico l'interesse delle parti e del tutto"
(Scr. stor., I, 273 s.). Per lui il sistema federale non soltanto
discende da tutta la storia d'Italia, ma è l'unico che possa
garantire l'esercizio della libertà, contro le tendenze
sopraffattrici centralistiche e burocratiche. "La formula degli
Stati uniti o Regni uniti" (infatti non esclude nemmeno, luglio e
settembre 1860, una federazione degli ex Stati italiani: cfr.
lettera al Crispi, "la mia formula è Stati uniti, se volete
Regni uniti": Epist., III, 373 e anche 268) "è in Italia
l'unica possibile forma di unità e di durevole amicizia e di
pratica e soda libertà; essa esprime la sola possibile
armonia delle libere forze" (Scr. polit.,IV, 94), mentre condanna
"il modello chinese, il principio dell'onnipotenza e onniscienza
ministeriale, che per una scala infinita di incaricati discende a
regolare le faccende dell'ultimo casale del regno e dell'ultima
capanna delle colonie" (Scr. stor., I, 285). "Io guardo alle immani
unità viventi, alla Francia, alla Spagna, alla Russia, alla
China: vedo che la libertà o non può nascere o non
può vivere, o risuscitata il mattino, ripiomba nella fossa la
sera" (Epist., III, 441); e in altra lettera (Epist., IV, 52):
"Vedete ch'io sono federale anche nei miei studi; perché
questa è la sola forma di unità che sia possibile con
la libertà, con la spontaneità, con la natura. D'una
unità chinese o russa o francese nulla m'importa" (Una lucida
esposizione del suo federalismo anche in lettera al Bertani del
1862: Epist.,IV, 56). Ai suoi occhi, un reggimento federale è
anche quello che dà maggior garanzia di pace internazionale
(Scr. stor., II, 419) e maggior nerbo militare alla nazione. "Il
nostro ideale è una nazione tutta, fino dalla prima
gioventù, ammaestrata e pronta sempre alle armi" (Scr.
polit.,IV, 110), perché "l'armamento nazionale ha in
sé un principio di moralità eminente; poiché,
mentre è irresoluto e inefficace alle guerre ambiziose e
invasive, è tanto più poderoso nelle guerre
d'incolpabile difesa" (Scr. polit.,IV, 67) ed anche più
economico (Scr. econ.,III, 368 e Scr. polit.,IV, 65). Perciò
avrebbe voluto che un insegnamento militare fosse impartito
già nelle scuole e nell'università (Scr. polit.,IV,
109 s.; e Epist., III, 536). Respingeva l'idea che uno Stato
unitario fosse militarmente più forte che uno Stato federale:
"L'Italia si è innamorata dell'unità, perché
crede sia la forza. E se nell'unità si sente crocifissa, si
rassegna, perché crede che il martirio la condurrà in
paradiso" (Epist., III, 518). Alla vigilia della guerra del '59
vuole togliere ogni illusione a coloro che ritenevano, intanto, si
dovesse lasciar fare alla monarchia, salvo poi a istituire una
Repubblica, unitaria o federale, a guerra vinta (Epist., III, 132
ss.). Ma alla fine del '59 suggeriva, fantasiosamente, al Bertani:
"Arrischiate, accettate, rifate a voto universale le quattro
assemblee [subalpina, lombarda, emiliana, toscana]; poi fate un
Congresso federale in Roma - Stati Uniti d'Italia; e avete un
modello bello e grande e tutte le questioni già sciolte
dall'esempio e dalla pratica di ottant'anni" con allusione al
modello statunitense (Epist., III, 231). Lo Stato federale che egli
sognava doveva essere articolato non in regioni, ma in Stati,
risultanti dagli ex Stati italiani, più Sicilia e Sardegna:
"Diciamo stati e non regioni" (Scr. polit.,IV, 111). Si tratta di
"coordinare la vera e attuale vita legislativa degli stati italiani
a un principio di progresso comune e nazionale. Tutto ciò che
dev'essere comune deve essere assolutamente e altamente
progressivo... Ma la vita legislativa dei vari regni non può
rimanere interamente e violentemente soppressa" (Scr. polit., IV,
78). Anche nelle istituzioni comunali, la massima libertà:
"assicurare la più libera diffusione del diritto municipale
su tutta la superficie dell'Italia" (Scr. polit.,IV, 439). Un
Parlamento centrale,che egli chiama congresso, doveva occuparsi solo
dei problemi generali; ma per il resto "ogni fratello padrone in
casa sua. Quando ogni fratello ha casa sua, le cognate non fanno
liti" (Epist.,III, 373).
Gli interessi cattaneani per la linguistica non pare abbiano
connessione con gli insegnamenti romagnosiani; pare più
probabile che accompagnino gli interessi genericamente letterari del
C. nella prima gioventù e anche qualche suo esperimento
poetico in quegli anni, e risentano forse delle discussioni di
allora fra puristi e non puristi, e rientrino anche in una sua
curiosa riforma ortografica, fino ad un certo segno anche applicata
nei suoi scritti, e che dà preferenza alle ragioni
etimologiche su quelle di pronunzia. Ècerto, ad ogni modo,
che questi interessi linguistici non andarono oltre il tempo del
primo Politecnico. Pare che soprattutto si riconnettano con gli
interessi storici del C. per i mondi quasi mitici delle origini,
impregnati di sacralismo magico, e per il nascere, comporsi e
scomporsi di popoli e nazioni. Già il ricordato schema di
lavoro del 1824,lavoro che non compirà mai, ma che si
ricollega con gli scritti suoi più geniali in questo campo:
Nesso della nazione e della lingua valacca con l'italiana e Sul
principio istorico delle lingue europee, precorre (Timpanaro) certe
idee poi fatte proprie dai glottologi, quali la netta distinzione
fra affinità linguistica e affinità razziale,
l'opposizione alla teoria del poligenismo linguistico, la teoria del
sostrato, idea che G. I. Ascoli, dapprima contrario e riservato,
finirà con l'adottare.
Ma la mente del C. era, più propriamente, mente di storico;
non c'è, si può dire, scritto suo di qualche ampiezza
che non sia permeato di senso storico, del senso del nascere, dello
svilupparsi, del trasfondersi in forme nuove. Poco deve il C. al suo
Romagnosi nella concezione della storia: è romagnosiana,
anche se non soltanto tale, l'idea di un'età delle potenti
caste sacerdotali, tramite necessario dell'incivilimento. Ma il
più gli viene dai suoi liberi studi di linguistica, dalla
lettura degli storici romantici, dal senso del moto vitale che
percorre tutte le sue pagine storiche e rende il suo stile
così vibrante, spesso intimamente drammatico. C'è una
certa predilezione per le storie o preistorie dei popoli nelle loro
fasi più antiche, nei loro primi passi faticosi sul cammino
della civiltà e per forme desuete di civiltà, morte o
moribonde, lontane dalla civiltà europea. Il C. vede nella
storia una funzione educativa e morale, in quanto mette sotto gli
occhi la potenza dell'intelletto come forza civilizzatrice (allo
stesso modo che nell'economia), intesa a comporre in unità e
cospirante verso un fine arcano di progresso anche ciò che
appare al primo sguardo incoerente e in perpetuo irragionevole
antagonismo. Perciò è rivalutato anche il Medioevo,
solitamente un ostacolo per i ricostruttori di uno sviluppo
progressivo della società. L'ufficio utile, pratico della
storia, da lui sottolineato, sarebbe dovuto al fatto che la storia
è scienza, non, almeno principalmente, arte. Questo sforzo di
scientificità è particolarmente visibile nei quadri
storici dedicati a regioni italiane (Lombardia, Sardegna) e a paesi
lontani (India, Cina, Giappone, Messico). Sono tutti costruiti
secondo un modulo comune: una descrizione fisico-geografica, dalla
quale si trapassa quasi insensibilmente alla storia degli uomini;
ciò che gli dà modo di mostrare come l'intelligenza e
la volontà umane sappiano reagire a quei dati naturali,
costruendo su di essi una propria civiltà: quasi
un'anticipazione della nota moderna teoria del Toynbee. Gli
avvenimenti quarantotteschi dettero indubbiamente una scossa anche
alla storiografia del C.: si fa più impregnata di politica e
meno di etnografia e di antropologia, e questo non soltanto nella
Insurrezione di Milano, pamphlet storico-politico fra i più
appassionati e tuttavia più sostanzialmente veridici che
annoverano le lettere italiane. Il suo federalismo si accentua e si
travasa nelle concezioni storiche: il saggio La città
considerata come principio ideale della istoria italiana è la
giustificazione, in sede storica, del federalismo politico
cattaneano, come le Notizie naturali e civili sulla Lombardia sono
espressione del suo milanesismo, un inno alla funzione storica di
Milano, che trova polemica applicazione nella sua ardente ribellione
anche solo all'idea che Milano potesse sottostare alla Torino dei re
sabaudi, dei gesuiti, dei generali ignoranti, dei codici arretrati.
La straordinaria versatilità, dalla speculazione filosofica
alla tecnica, gli acquisì l'estimazione sorpresa dei
più dei contemporanei, ma non sempre, anzi di rado,
l'accoglimento nella pratica delle sue proposte, dei suoi
suggerimenti. Si formò attorno a lui la fama di uomo di
altissimo ingegno, di sterminata cultura, ma con scarsa presa sulla
realtà: evidente paradosso per un uomo che tutta la vita non
aveva fatto altro che insistere sul reale. La quasi generale
condanna del suo federalismo politico, del suo proporre "un'Italia
in pillole",si ripercosse, ingiustamente, come giudizio perentorio
di inattuabilità di altre sue idee. Gli ideali repubblicani
non morivano con lui, ma vivevano nella visione unitaria mazziniana,
minimamente in quella federalistica cattaneana. Nella coscienza
della sua superiorità intellettuale, non disgiunta talora da
una punta di orgoglio, egli sentì questo isolamento, senza
farne un dramma, anzi, non senza il compiacimento un po' amaro, ma
imperterrito, dell'uomo che sa e crede di avere ragione contro
tutti, anche contro chi gli era più vicino. "Le opinioni
proclamate dagli amici miei ben rare volte sono le mie" affermava
nel 1864 (Epist., IV, 234). I fedeli ammiratori del C., i Bertani, i
Mario, i Rosa, più tardi i Ghisieri, i cattaneani di stretta
osservanza si riducevano a una esigua pattuglia alla fine del
secolo. Il fenomeno C. sembrava oramai concluso, senza un'eco
attuale, ridotto a una chiesuola di pochi fedeli. Anche il C.
prosatore potente non trovava collocazione nella storia letteraria.
Il ritorno della sua fortuna, la riproposta dei suoi problemi
accompagna le due crisi più gravi dell'Italia unita: quelle
successive alle due guerre mondiali. Si è risentita allora
l'attualità dei temi proposti dal C. e si è scoperto
in lui uno dei pochi grandi italiani del secolo scorso che ebbero
statura veramente europea e moderna.
Enciclopedia Europea, vol. 3, pp. 77-79
Cattaneo, Carlo (Milano 1801-Castagnola, Lugano, 1869) storico, ideologo e uomo politico italiano.
■ La formazione culturale. Figlio di un orefice, studiò nei seminari di Lecco e di Monza e al liceo milanese di Sant'Alessandro. Dedicatosi all'insegnamento ginnasiale, incominciò a seguire gli studi legali presso la scuola privata di diritto di G.D. Romagnosi e nel 1824 si laureò in giurisprudenza a Pavia. Dall'incontro con Romagnosi Cattaneo trasse, per poi svilupparlo in modo originale, il principio della socialità posta a fondamento della vita civile, il tema dell'incivilimento e del progresso «deliberato e perpetuo», l'esigenza di indagare i problemi concreti del proprio tempo, il proposito di rinsaldare il nesso tra filosofia, economia e diritto. Cattaneo non fu filosofo di professione: ma fin dal 1836 nella polemica contro A. Rosmini e V. Gioberti, si pose nella linea più avanzata del pensiero italiano della prima metà dell'Ottocento. Nel 1828-29 iniziò la sua attività di giornalista e pubblicista particolarmente assidua sugli «Annali universali di statistica», di cui poco più tardi diventò redattore.
La sua opera pubblicistica si proponeva di stimolare la diffusione delle conoscenze tecnico-scientifiche nell'ambito della cultura lombarda, offrendo così alla classe imprenditoriale strumenti atti a promuovere uno sviluppo economico più avanzato. Tra il 1836 e il 1837 Cattaneo pubblicò i suoi due primi scritti di ampio respiro: le Interdizioni israelitiche e il Nesso della nazione e della lingua valacca con l'italiana. Nel primo Cattaneo sottolineava la priorità dei fattori economici in rapporto allo sviluppo e alla determinazione della vita sociale, incentrando la sua attenzione sullo sviluppo della cultura materiale nel corso della civiltà. Nel secondo emerge già come negli studi linguistici egli fosse mosso dal tentativo di collegarli alla storia e conciliarli con la filosofia. Il passaggio poi dagli studi romanzi a quelli indoeuropei, avvenuto intorno al 1840 parallelamente alla maturazione di un classicismo aperto agli stimoli del movimento romantico, indusse Cattaneo ad affrontare il problema delle grandi migrazioni indoeuropee, da lui con solida argomentazione rifiutate per ribadire il principio della stazionarietà dei popoli, quello della distinzione tra affinità linguistica e razziale, cioè tra linguistica e antropologia, e quello dell'origine umana dei linguaggi.
■ Il «Politecnico». Ormai pronto a tentare un'impresa culturale originale, all'inizio del 1839 Cattaneo fondò «Il Politecnico. Repertorio mensile di studi applicati alla prosperità e cultura sociale», la cui prima serie durerà fino al 1844. Nel «Politecnico» (che contò fino a settecento abbonamenti) la scienza e la tecnica ebbero una funzione dominante, quali strumenti dello sviluppo, del progresso e del rinnovamento sociale. La scienza «vivente e progressiva» sulle orme di Galileo e di Vico era contrapposta alla «ostinata tradizione» delle scuole filosofiche. Le scienze, indirizzate al bene comune, rappresentano per Cattaneo un sapere liberatorio concreto, che modifica la realtà, esprime le esigenze dell'incivilimento e si identifica, in ultima istanza, con il progresso dell'intera società. In questa persuasione rientrava la celebrazione della feconda scienza sperimentale, di cui Cattaneo rivendicava all'Italia la paternità.
La rivista può dirsi il frutto della consapevolezza della dimensione mondiale del capitalismo, di cui la borghesia era la forza portante, e della necessità di uno sviluppo e di una diffusione culturali che interpretassero tale realtà. Non per caso in quegli anni Cattaneo fu in contatto abbastanza stretto con il mondo industriale e finanziario lombardo e partecipò a diverse iniziative e imprese tecniche e industriali. Il suo crescente prestigio venne confermato anche da incarichi e riconoscimenti ufficiali; nel 1843 divenne socio effettivo dell'Istituto lombardo di scienze, lettere ed arti; dal 1845 fece parte della Società d'incoraggiamento delle arti e dei mestieri, mentre prendeva a collaborare alla «Rivista Europea» di C. Tenca, e dopo la sospensione del «Politecnico», in occasione del quarto congresso degli scienziati italiani, scrisse le celebri Notizie naturali e civili della Lombardia (1844).
■ Filosofia, storia e società. Era la conclusione di un periodo di attività feconda, nel quale Cattaneo aveva svolto opera di guida intellettuale e morale, e il suo pensiero si era proposto come un'alternativa consapevole dei limiti oltre che della grandezza propri al movimento illuministico e a quello romantico. Privilegiando i collegamenti fra i diversi aspetti del sapere, il rinnovamento aperto nella scienza si sarebbe potuto attuare anche nella filosofia, intesa come «scienza di riassunto, di connessione, di sintesi». Il richiamo a Vico si trasformava, su un terreno tutto storico e sperimentale, nell'«ideologia sociale», nell'esigenza di studiare «l'individuo nel seno dell'umanità». Cattaneo cercava nella storia la descrizione del pensiero universale e, poiché i limiti della scienza coincidono con quelli della descrizione sperimentale, i campi della storia e quelli della scienza venivano per lui a coincidere. La polemica costante contro la coscienza solitaria, l'accento posto sull'operare umano in tutti i suoi aspetti, conducevano Cattaneo a una concezione dinamica dell'incivilimento, per cui la vita era varietà, molteplicità delle forze espansive, contrasto dei principi, transazione e movimento d'interessi. I motivi della trasformazione progressiva delle società erano ravvisati nell'ineguaglianza e nel conflitto delle forze all'interno delle singole società, ma soprattutto nei contatti e nei rimescolamenti tra le stirpi e i popoli. E la storia universale di Cattaneo comprendeva i popoli primitivi non europei e lo studio delle origini accanto a quello del mondo feudale e comunale e ad aspetti delle civiltà orientali estranee a quelle europee.
Il modello di sviluppo anglosassone, l'espansione del capitalismo in Asia e nel mondo, il colonialismo e i suoi effetti erano stati al centro dell'ideologia cattaneana ben prima del 1848. L'Inghilterra rappresentava l'esempio classico del moderno sviluppo economico, l'esempio del capitalismo trionfante, ma Cattaneo era in grado anche di scorgerne alcuni limiti. L'espansione coloniale inglese era la prova del ruolo capitale della borghesia, che «costituisce il principio istorico e civile del sec. XIX». Indagate le origini della società borghese, Cattaneo cercava di cogliere «l'intimo principio di quella grandezza» e lo trovava nella forza espansiva della classe sociale che promuoveva lo sviluppo della società capitalistica, fondata sul libero scambio e sulla libera concorrenza, nei quali sta «la chiave dei destini del genere umano». Analogamente, già prima del 1848 Cattaneo si era posto il problema delle origini della borghesia italiana, che aveva individuato nelle città, nei municipi («Vita di Dante» di Cesare Balbo, 1839) e nel loro particolare rapporto con la campagna. La città rappresentava per lui il principio progressivo e antifeudale della storia italiana, il principio dell'egemonia borghese che sarebbe divenuto poi, nel famoso saggio su La città considerata come principio ideale delle istorie italiane (1858), il filo unificatore di trenta secoli della nostra storia.
■Cattaneo e l'insurrezione milanese del 1848. Sul terreno più strettamente politico, prima del 1848 sussistevano parecchi punti di contatto tra i moderati e Cattaneo sul programma delle riforme. Alla vigilia dell'insurrezione milanese, egli stava così dalla parte degli «oppositori legali», fidando nella possibilità che l'Austria si trasformasse in una federazione di popoli cui avrebbero partecipato la Lombardia e il Veneto, come primo passo verso l'indipendenza. Quando Milano insorse contro gli austriaci (18 marzo 1848), Cattaneo, intuendo la portata del movimento rivoluzionario, costituì un consiglio di guerra per coordinare la difesa degli insorti (20 marzo). La sera del 21, tuttavia, il consiglio si sciolse e il 22 G. Casati formò un comitato di guerra di cui a Cattaneo furono affidati la direzione delle operazioni militari, la propaganda e il servizio d'informazioni. La caduta del comitato (31 marzo) fu dovuta soprattutto al suo atteggiamento di critica verso l'orientamento del governo provvisorio, a cui da quel momento si mostrò apertamente contrario. Ritornati gli austriaci, si rifugiò a Lugano (agosto) e di qui passò a Parigi con l'incarico di informare l'opinione pubblica francese sulla reale situazione italiana e di chiedere l'intervento delle forze francesi; resosi conto però dell'incomprensione generale, per chiarire al più vasto pubblico i termini del problema italiano pubblicò L'insurrection de Milan en 1848. Tornato poi a Lugano, elesse a sua definitiva dimora il comune di Castagnola.
■L'esilio svizzero. La riflessione sul 1848 italiano ed europeo inserì Cattaneo nel cuore del dibattito politico, lo trasformò in oppositore, spesso assai aspro, delle principali correnti politiche italiane e ne fece il grande «suggeritore», l'animatore, dei democratici radicali. Il 1848 era fallito perché fondato su un controsenso aperto, su una contraddizione non sanata: l'indipendenza, cioè la vittoria nazionale, non si poteva raggiungere se non per la via della libertà. Ma «l'ordine cittadino», ossia il medio ceto, non aveva saputo dirigere il movimento né far trionfare la rivoluzione per la politica della classe dirigente lombarda che, alleata alla corte sabauda, aveva rifiutato la libertà vera per cercare di ottenere un'indipendenza che doveva innanzitutto lasciare intatti i suoi privilegi.
Dopo il 1848 l'astensione programmatica di Cattaneo dall'azione e dall'impegno politico si giustificò con l'adesione al principio illuministico, che fosse in primo luogo necessario «educare» le masse per prepararle alla lotta su scala nazionale. Le basi per trasformare la società civile e suscitarne le forze progressive si dovevano costruire attraverso la diffusione dell'«opinione». Nel ritiro di Castagnola raccolse così il materiale per una vastissima documentazione sul 1848, L'Archivio triennale delle cose d'Italia dall'avvenimento di Pio IX all'abbandono di Venezia (1850-55, 3 voli.). Partecipò anche attivamente alla vita del Canton Ticino (nel 1858 ricevette la cittadinanza svizzera) conducendo una battaglia politica laica e riformatrice contro cattolici e conservatori. Ma soprattutto tenne lezioni di filosofia al liceo di Lugano (1852-64) che testimoniano un approfondimento della sua riflessione filosofica. Tra il 1859 e il 1866, Cattaneo scrisse le sue pagine filosofiche più nuove e impegnative, la Psicologia delle menti associate, in cui la filosofia è intesa come indagine psicologica e antropologica riguardante la vita collettiva. La Psicologia ha per oggetto l'atto più sociale degli uomini, il pensiero, e costituisce l'anello tra ideologia dell'individuo e ideologia della società. Per Cattaneo essa era la premessa necessaria alla filosofia civile, sociologicamente intesa, di cui l'ideologia della società rappresentava l'ultima e somma parte. E l'ideologia sociale era storia delle civiltà interpretata come storia delle idee. Riappariva approfondito il concetto di «sistema»: i sistemi potevano essere chiusi, cioè retrogradi, o aperti e progressivi, secondo i principi prevalenti; la successione dei sistemi spiegava il corso delle civiltà e costituiva il corpo del progresso. Il rinnovamento dei sistemi, e dei principi in essi dominanti, si sostituiva ai corsi e ricorsi vichiani della storia ideale eterna; il pensiero vichiano, trasportato su terreno storico-antropologico, era quindi inserito nella grande tematica comune agli scrittori del Settecento e dell'Ottocento. Ma si notava anche un distacco dalla società del lavoro, degli interessi e dei bisogni, alla quale in precedenza, anche attraverso l'indagine sulla storia della cultura materiale, Cattaneo aveva dedicato significativa attenzione. L'intellettualismo, che limita la sociologia cattaneana e la distanzia dal mondo pratico e produttivo degli uomini, trova un interessante riscontro nello scritto Del pensiero come principio d'economia pubblica (1861), in cui l'intelligenza è assunta come fonte prima di ogni ricchezza. La risoluzione della storia delle società e delle civiltà in storia d'idee, con cui il Cattaneo più tardo concluse la sua meditazione storica, filosofica ed economica, rappresenta la premessa e contemporaneamente il riflesso del suo pensiero politico: egli riuscì solo parzialmente a identificare le forze in campo nella seconda metà del secolo e confidò più nell'«opinione», nella forza dell'intelligenza e delle idee, che nelle lotte reali delle masse popolari.
■ L'attività politica degli ultimi anni. Nel 1859, liberata la Lombardia, Cattaneo non volle tornare a Milano; solo nel 1860, per l'insistente pressione degli amici, accettò la candidatura al parlamento subalpino; ma sebbene fosse stato eletto, non prese parte ai lavori parlamentari. Accettò invece di recarsi a Napoli presso Garibaldi, partecipando alle discussioni sul plebiscito e pronunciandosi, inutilmente, contro l'annessione immediata. Dopo il 1860, il suo programma federalista diventò più concreto: non si fermò all'aspetto amministrativo dell'autogoverno, ma chiese una democrazia quale pratica di autogoverno (con allargamento della legge elettorale) e ampliamento delle autonomie locali. La seconda serie del redivivo «Politecnico» (1860) ebbe un carattere spiccatamente ideologico e politico; Cattaneo vi prese ferma posizione sulla questione della Savoia e di Nizza e su quella dei confini orientali, e affrontò alcuni nodi cruciali del riordinamento e del decentramento amministrativo. I suoi suggerimenti per la riorganizzazione degli studi scientifici in Italia, l'interessamento per le casse di risparmio e le forme di piccolo credito come mezzo per la formazione di un capitale autonomo, la tenace battaglia per il traforo del Gottardo: sono tutte tessere di un unico mosaico che Cattaneo non rinunciò a comporre per la costruzione di un paese moderno e avanzato, che si potesse dire europeo, e che rispondesse agli ideali democratici di cui egli fu, nel nostro Ottocento, l'ideologo più coerente e rigoroso. Si aggiunga, negli anni 1862-63, un atteggiamento più aperto verso il quarto stato, che gli sembra «intendere la voce dei tempi». Anche negli ultimi scritti Cattaneo fu ricco di proposte sul piano politico e culturale: le lettere Sulla legge comunale e provinciale (1864) e quelle Ai liberi elettori (1867), contro la tassa sul macinato e la vigente legge elettorale, furono un nuovo appello alla dinamica delle forze produttive.
■ La fortuna di Cattaneo. Nell'ambito di una valutazione complessiva della cultura democratica dell'Ottocento, delle idee filosofiche e politiche circolanti in Italia durante e dopo il risorgimento, l'opera di Cattaneo ha assunto un significato esemplare e una funzione
quasi paradigmatica. Il tema dominante del progresso e dell'incivilimento, attraverso mutazioni storiche che comprendono anche il regresso e la decadenza; l'opera del capitalismo su scala mondiale e il ruolo della borghesia, in particolare nella storia italiana; il rapporto tra stato e società civile, tra società e individuo; la funzione dell'intellettuale e il valore dell'«opinione», il ruolo delle idee; il rapporto tra scienza, tecnica ed economia; la funzione del sapere e la sua destinazione sociale: questo parziale elenco di temi, centrali
nell'opera cattaneana, ne mostra la vitalità e la complessità. Quando si aggiunga che in Cattaneo è stato ravvisatoil fondatore della storiografia antimoderata, il sostenitore appassionato di una «rivoluzione» intellettuale e civile, in Italia non ancora avvenuta, il protagonista (come Gobetti ebbe a scrivere) dell'antistoria d'Italia, si comprenderanno in sintesi le ragioni della sua«sfortuna» passata e della sua particolare e limitata «fortuna». Che oggilasciano il posto a una valutazione critica in parte nuova della sua opera e
allo sforzo di situarla nel contesto oggettivo della società in cui ebbe a operare.
Delia Castelnuovo Frigessi