Le memorie della mia vita di famiglia nella fanciullezza, e della mia educazione sono semplici assai e di tipo comune, senza niente di particolare o di eccezionale. Sono nato il 27 ottobre 1842 a Mondovì, dove mio padre, Giovenale, teneva il posto di Cancelliere di quel Tribunale, e dove morì un anno appena dopo la mia nascita, di una polmonite presa in una gita di montagna. La famiglia di mio padre era originaria di Val di Macra; una delle vallate delle Alpi Occidentali che da occidente a oriente confluiscono al Po. Mio nonno paterno, che io non ho conosciuto, era notaio a San Damiano di Macra, e faceva da segretario e un po' da factotum a tutti quasi i Comuni della vallata. Le memorie della famiglia risalgono sino al nonno di mio nonno, del quale si sapeva che era venuto da Acceglio, il Comune più alto della Valle, sui 1500 metri, e propriamente dalla borgata Lausetti, da cui vennero pure i Ponza di San Martino.
La nostra insomma era una famiglia di contadini-montanari, che
      deve avere vissuto per secoli in quella vallata che ebbe sempre
      una fiera indole democratica. Infatti la Val di Macra, da San
      Damiano in su, e sino al 1427, era stata, una piccola repubblica
      indipendente, retta da suoi speciali statuti, che ancora si
      conoscono. I capi di famiglia si radunavano annualmente ad
      Acceglio, e nominavano due consoli e due giudici per la durata
      d'un anno. Per un esempio della semplicità dei suoi statuti, valga
      la legge della istruzione pubblica, che si compendiava tutta in
      questa frase latina: — Quod quisquis possit tenere scholas, et
        quisquis adire scholas sine ulla molestia.
      
      Questo istinto democratico si mantenne nonostante le mutate
      condizioni ed istituzioni. Nel 1427 la minuscola repubblica
      montanara fece un accordo coi marchesi di Saluzzo, accettandone la
      signoria, ma assai nominalmente; infatti i valligiani si
      riservavano la nomina dei giudici e pattuivano che nella valle non
      dovessero mai essere introdotti né il feudalismo né l'inquisizione
      religiosa; ciò che era notevole assai per quei tempi. Quando il
      Marchesato di Saluzzo si unì con la Casa di Savoia, questa si
      obbligò a mantenere tutte le concessioni già fatte. Ma quando
      essa, mancando agli impegni, iniziò persecuzioni contro i
      protestanti, dei quali erano nella valle alcuni nuclei, i
      valligiani tutti si sollevarono, e verso il 1550 ne nacque una
      guerra dichiarata. Il primo anno i valligiani ebbero la meglio, ma
      l'anno appresso furono battuti; e la Casa di Savoia, a compensare
      gli ufficiali che avevano condotto la piccola guerra, attribuì
      loro titoli di nobiltà presi da quei Comuni; e nacquero così le
      famiglie dei La Marmora, degli Stroppo, dei Paglieres e degli
      Acceglio. 
      
      I valligiani, battuti ma non disanimati, si opposero, ricorrendo
      alla Camera dei Conti e sostenendo che la Casa di Savoia non
      avesse diritto di dare titoli di nobiltà nella valle, il suo
      dominio essendo stato accettato col patto che non vi sarebbe mai
      introdotto il feudalismo. La Camera dei Conti respinse l'istanza;
      ma i valligiani, raccoltisi ad Acceglio, deliberarono che il primo
      dei nuovi feudatari che mettesse piede nel paese fosse ammazzato.
      E nessuno tentò mai l'avventura, restando così i soli titoli,
      senza alcuna effettiva applicazione dei diritti feudali in essi
      implicati. La valle così salvò e mantenne la sua democrazia.
      
      Mia madre, di nome Enrichetta, era di una vecchia famiglia, i
      Plochiù, che si era distinta per il suo liberalismo. Suo padre,
      che aveva accolte le idee nuove, era stato Procuratore generale a
      Torino sotto il governo francese. Con l'avvento della
      restaurazione, nel 1814 egli si ritirò; e pochi anni dopo, nei
      moti del 1821, fu alla testa del movimento rivoluzionario nella
      provincia di Pinerolo. Domata l'insurrezione dovette riparare
      all'estero; ma poi gli fu concesso di rientrare nel regno con la
      esplicita condizione che vivesse in campagna; ed egli scelse a sua
      residenza Cavour, dove aveva preso moglie, che gli aveva fra
      l'altro recato in dote una casa; la stessa vecchia casa
      nell'interno del paese, dove io risiedo l'inverno. Oltre mia madre
      egli aveva avuto due altre figlie e quattro figli maschi; l'uno di
      essi, il medico Giuseppe Plochiù fu il primo deputato di Cavour,
      dove fu eletto nella prima Legislatura piemontese, nel 1848. Altri
      due suoi figli, Luigi e Melchiorre, furono magistrati, ed un
      quarto infine, Alessandro, fu fatto generale sul campo di
      battaglia di San Martino, dove aveva combattuto come colonnello
      alla testa del 6.° reggimento, che aveva prese le alture di San
      Maritino nel momento decisivo della battaglia. Tutti e quattro
      quei miei zii materni sono morti senza famiglia. Le due sorelle di
      mia madre sposarono una il colonnello Danesi, l'altra 
      il  Cav. Vaccaneo.
      
      Con la morte precoce di mio padre, mia madre lasciò Mondovì e
      ritornò nella casa della madre sua e dei fratelli a Torino. Passai
      così fra questi quattro scapoli i primi anni della mia vita;
      essendo l'unico nipote con loro convivente ero naturalmente il
      beniamino della casa. Scarsi ricordi ho di quel periodo della mia
      vita che va fino  ai  sei anni; uno dei più vividi
      ricordi si riconnette agli avvenimenti del   1848-49.
      I  miei  zii mantenevano  calorosamente la
      tradizione liberale della famiglia, trasmessa loro dal padre ed
      accolsero quindi con grande fervore la concessione dello Statuto
      fatta da Carlo Alberto; ed io ricordo di essere stato condotto a
      vedere la partenza del Re per la guerra, con una grossa coccarda
      appuntata sui miei abiti infantili.
      
      Come io apparivo di costituzione assai gracile, e la mia salute
      dava apprensioni a mia madre, che nella sua precoce vedovanza si
      era tutta consacrata alla mia educazione, mio zio medico la
      consigliò di portarmi in montagna; e mia madre lasciò Torino dove
      aveva la madre, le sorelle e i fratelli ai quali era profondamente
      affezionata e andò a stabilirsi da sola con me per tre anni,
      estate e inverno, a San Damiano, paese nativo di mio padre,
      piccolo comune della valle Macra a dieci chilometri sopra Dronero.
      Mio zio, per prescrizione medica, aveva aggiunto che mi si
      lasciasse trastullare come volevo con l'acqua e con la neve, e non
      mi si desse mai nessuna medicina. Prescrizione che ho fatto poi
      mia per tutta la vita; poiché a quasi ottant'anni a cui sono
      arrivato, io ho conservata una vera avversione alle medicine.
      Anche quando soffrii di una grave malattia di depressione nervosa,
      questa avversione alle medicine non mi si attenuò, e quando i
      medici me le ordinavano, io le discutevo, insistendo se fosse
      proprio necessario di prenderle, con l'effetto che non ne ho prese
      quasi mai....
      
      In quel paese di montagna, a quei tempi incomparabilmente più
      appartato che tali paesi non siano ora, io fui pure iniziato alla
      scuola classica. Avevo già appreso a leggere e scrivere e presso a
      che compiuta la mia istruzione elementare sotto la guida di mia
      madre; a San Damiano cominciai l'istruzione ginnasiale, unicamente
      impersonata in un prete che godeva  di  un 
      beneficio   ecclesiastico   con 
      l'obbligo di fare i primi tre anni di Ginnasio pei ragazzi
      paesani. Lo ricordo ancora: si chiamava Don Bernardo Aymar, ed era
      un tipo singolare, intelligentissimo, poeta improvvisatore,
      conosciuto, e popolarissimo per tutta la vallata. Fui alla sua
      scuola, assieme ad altri cinque o sei ragazzi del paese, dai sette
      ai dieci anni, e feci qualche strada nell'apprendere il latino; ma
      il meglio del tempo passato lassù nei monti lo spesi a giocare e a
      rinforzarmi la salute. 
      
      A diedi anni, quando tornai a Torino, mi contarono quei tre anni
      di Ginnasio montanaro per uno, e mi ammisero alla seconda classe
      nel Ginnasio San Francesco da Paola, che poi mutò il vecchio nome
      in quello attuale di Ginnasio Gioberti.
      
      In quella scuola non mi distinsi particolarmente, se non forse pel
      fatto che fui scolaro poco disciplinato. Nello studio ero fra i
      buoni, ma non fra i diligenti e primissimi. Lo studio a cui mi
      sentivo più invogliato era quello della storia, e negli esami dj
      storia prendevo spesso il premio. Ma lo studio delle lingue
      antiche, condotto anche allora con metodo grammaticale ed
      astratto, tutto fatto di regole e di eccezioni alle regole, mi
      repugnava; così pure poco mi attraevano le matematiche. Le mie
      preferenze erano per le materie più concrete. Ero attratto anche
      dalla lettura, e negli anni del Liceo feci un gran leggere di cose
      letterarie, specie dei nostri poeti dal trecento in poi. Poco
      lessi di autori stranieri, e di romanzi; preferii quelli di Walter
      Scott e di Balzac, per le loro connessioni con la tradizione
      storica o con la realtà attuale. I romanzi di intrigo o di
      passione non mi interessarono mai. Lessi e studiai molto di
      filosofia, specie dei filosofi allora celebrati, che erano il
      Rosmini ed il Gioberti; ma di questa passione filosofica fui poi
      guarito ad un tratto, ed una volta per sempre, dalla lettura della
      «Teorica del sovranaturale»  del Gioberti.
      
      Passato alla Università, entrai nel corso di legge. Feci i due
      primi anni di quegli studi secondo il sistema antico, col quale il
      curriculo di legge era diviso in cinque anni; poi, introdotto il
      sistema nuovo, compiei tre anni in uno solo, prendendo dieci esami
      e la laurea in poche settimane, parendomi che nella Università si
      andasse a rilento e si perdesse tempo. Meco presero pure la laurea
      il Malvano, quello che poi fu Segretario Generale degli Affari
      Esteri e Senatore, ed il Senatore Bertetti. Negli anni
      d'Università m'interessai allo studio del Diritto; e
      particolarmente Diritto romano e Diritto civile e loro storia. Il
      maggiore o minore interesse che si può prendere in quegli studi
      molto dipende dai professori, e in quegli anni la Università di
      Torino non ne aveva di insigni. C'era veramente di uomini insigni
      il Mancini, o meglio avrebbe dovuto esserci; perchè in tutti i
      miei anni universitarii, non che sentirlo, non l'ho visto mai.
      
      In quegli anni, cioè fra il '57 e il '60, io non ho conosciuto
      nessuno degli uomini politici in vista. Vidi spesso il Cavour ed
      ascoltai i suoi discorsi alla Camera, ma non ebbi rapporti con
      lui. 
      
      Quando sopraggiunse la guerra del cinquantanove, avevo diciassette
      anni; ero figlio unico di madre vedova, e non potevo lasciarla.
      Badavo ai miei studi; facevo grandi passeggiate in montagna;
      andavo a caccia e tiravo di scherma. Mia madre, che era donna di
      carattere molto energico, tanto che mio zio il generale soleva
      dire che avrebbe potuto comandare bene un reggimento, mi teneva
      sempre in moto. Nella scherma, alla quale mi dilettavo molto, ebbi
      maestro Achille Parise, padre del famoso schermitore Masaniello,
      poi Gandolfi e Sprani. Seguitai ad esercitarmi anche dopo, quando
      ero impiegato a Firenze, dove ebbi maestri Enrichetti, Borelli,
      Sampieri, Bellincioni. Ero diventato espertissimo e famoso; in
      accademie pubbliche avevo battuto anche dei maestri di
      professione. Credo che quell'esercizio giovanile mi abbia servito
      poi anche alla scherma parlamentare. 
      
      Ricordo in proposito un episodio curioso. Quando appartenevo al
      Ministero Crispi quale Ministro del Tesoro, un giorno, essendo
      assente Crispi, dovetti rispondere ad una interpellanza di
      politica estera presentata dall'Alfieri, che aveva dette parecchie
      corbellerie. Risposi con molta verve ed ironia, e quando ebbi
      finito, Farmi, presidente del Senato, mi disse: — Lei, nella sua
      giovinezza deve avere studiato e praticato assai bene di scherma;
      me ne sono accorto dal come ha risposto. 
      
      Ho detto che non ho mai avuti rapporti personali con Cavour. Egli
      era però molto amico del mio zio materno Melchiorre, che era anche
      azionista del suo giornale Il Risorgimento. E fu a mezzo
      di quel mio zio, il quale aveva molta influenza nel paese, che
      Cavour fece eleggere deputato al collegio di Cavour-Vigone, il
      famoso Gallenga, perchè, essendo il Gallenga corrispondente del
      Times, Cavour che conosceva la grande influenza di quel giornale
      nella vita politica inglese d'allora, teneva ad averlo alla
      Camera. A quell'elezione seguì poi il famoso episodio
      Gallenga-Mazzini. Il Gallenga infatti aveva rivelato come il
      Mazzini avesse tramata l'uccisione di Carlo Alberto,, che doveva
      essere consumata a mezzo di un pugnale ornato di lapislazzuli, da
      un certo Mariotti. Il Mazzini, irritato, rispose in modo fulmineo,
      rivelando alla sua volta che il nominato Mariotti altri non era
      che il Gallenga stesso, il quale per questo scandalo dovette
      dimettersi da deputato.
      
      Entro al Ministero di Grazia e Giustizia — La mia prima
        caricatura —La morte di mia madre e il mio matrimonio — Mia
        opera pel riordinamento della riscossione delle imposte — La
        figura e l'opera di Sella e di Lanza — Entro segretario generale
        alla Corte dei Conti—Sono  nominato 
        consigliere   di  Stato — La mia
        candidatura  e l'elezione a deputato.
      
      
      Così, a poco più di diciotto anni, avevo compiuti tutti i miei
      studi, ed ero fornito di laurea per entrare nella vita pratica. Ma
      per l'avvocatura, a cui avrei dovuto avviarmi, non avevo alcuna
      simpatia; feci un po' di pratica nello studio dell'avvocato
      Marini, che allora era uno dei più rinomati avvocati di Torino, ed
      all'Ufficio dell'avvocatura dei poveri; ma per poco tempo, poiché
      ai primi di febbraio del 1862 fui chiamato, con niente meno che il
      grado altissimo di «aspirante al volontariato» nel Ministero di
      Grazia e Giustizia dall'allora ministro Miglietti, principale
      autore del nuovo Codice Civile. Egli mi applicò al suo Gabinetto.
      Poi passai, per esame, volontario e uditore in magistratura. Al
      Miglietti successe poco dopo Raffaele Conforti. Eravamo nell'anno
      1862, e si doveva nominare tutta la nuova magistratura napoletana
      dopo  l'annessione.  
      
      Il Conforti, che era napoletano, domandò per procedere a questo
      compito delicato e pieno di possibili insidie, che gli si desse un
      impiegato che non solo non fosse napoletano, ma non conoscesse
      nessun napoletano; e gli fui indicato io, appunto per la mia
      giovinezza; ed in quel posto mi passarono per le mani tutti i
      rapporti riservati e le informazioni più gelose. Successero poi al
      Conforti il Pisanelli, il Vacca, il Cortese, il De Falco, tutti
      napoletani; poi il Borgatti, di Cento di Ferrara, che mi fece suo
      segretario particolare. Ricordo che Segretario generale al
      Ministero di Grazia e Giustizia era allora l'Eula, sotto i cui
      ordini io lavoravo; e poi circa trent'anni dopo l'Eula, che era
      diventato Presidente della Cassassione di Roma, accettò di entrare
      quale Ministro di Grazia e Giustizia nel mio primo Ministero,
      avendo prima rifiutato l'offerta di quel dicastero da parte di
      altri uomini politici.
      
      Nei cinque anni che passai al Ministero di Grazia e Giustizia ed
      al Gabinetto del Ministro, oltre il lavoro ordinario, io fui
      occupato più specialmente a raccogliere elementi e materiali per
      la grande Commissione, nominata da Miglietti, che preparava la
      compilazione del Codice Civile. Avevo a mia disposizione la
      biblioteca, con tutti i principali autori italiani e forestieri; e
      quel lavoro e quello studio servirono assai a formarmi una cultura
      giuridica, che mi fu poi sempre di grande aiuto. 
      
      Il Governo era in quegli anni passato a Firenze, ed io l'avevo
      seguito, essendo sempre addetto alla Segreteria Generale, tenuta
      ancora dal Borgatti, e lavorando in una stanza accanto alla sua.
      Il Borgatti era uomo di molto valore, ma assai modesto. Ora nel
      '66, quando scoppiò la guerra, e La Marmora dovette partire pel
      campo, Ricasoli, assumendo la Presidenza, avvertì il Borgatti di
      avere bisogno d'un Ministro di Grazia e Giustizia, e l'incaricò di
      trovarglielo. La cosa dovette esser risaputa, e parecchi aspiranti
      vennero a cercare il Borgatti ed a raccomandarglisi, facendo
      valere i loro titoli e benemerenze. Il Borgatti, molto
      conscienziosamente, fece una terna di nomi e la presentò al
      Ricasoli, il quale gli rispose: — Ma come: non avete ancora capito
      che il Ministro dovete essere voi? — Così avvenne che quando
      qualcuno degli aspiranti si ripresentò, Borgatti non potè a meno
      di avvertirlo che non sarebbe stato incluso nel ministero; ed io
      ricordo di avere sentito dalla mia camera attigua, uno di essi
      scoppiare in singhiozzi alla notizia dolorosa. Tanta era, già
      allora, la passione di ornarsi del nome di Ministro.
      
      Intanto, mia madre che era venuta con me a Firenze era caduta
      malata e desiderava tornare a Torino dove aveva i fratelli e le
      sorelle; ed io, avendo già preso da tempo l'esame di Magistratura,
      e avendo titolo per la nomina a sostituto Procuratore del Re,
      chiesi di essere destinato a Torino. L'istanza fu accolta ed io vi
      andai quale sostituto Procuratore del Re a quel Tribunale. Ero
      allora sui ventiquattro anni, ed avevo la disgrazia di parere
      ancora più giovane; e la mia giovane età e quella apparenza
      dettero occasione alla mia prima caricatura, stampata nel
      Fischietto, che mi raffigurava nella veste di Magistrato, con la
      toga e col tocco, fra le braccia della balia. 
      
      Allora a Torino c'era un foro molto rumoroso; ed io venivo mandato
      in Tribunale a fronteggiare gli avvocati più battaglieri, nei
      processi più agitati, come i processi di stampa.
      
      La salute di mia madre si era intanto andata aggravando, tanto che
      essa morì nell'agosto 1867. 
      
      Due anni dopo morì mio zio medico Plochiù. Mio zio generale morì
      più tardi assai, nel gennaio 1888, ad ottantadue anni; mio zio
      Luigi magistrato morì pure nel febbraio di quell'anno, avendo
      compiuti gli ottantasei anni; e mio zio Melchiorre morì poi a
      settantasette anni, nel   1894.
      
      Nel febbraio del 1869 il Senatore Pallieri, Presidente della
      Commissione centrale delle Imposte dirette, mi chiese se fossi
      disposto a ritornare a Firenze, come membro e segretario capo di
      quella Commissione. Dopo la morte di mia madre nessuna ragione
      particolare mi tratteneva a Torino, dove ero tornato solo per
      cagione sua; così io accettai volentieri, :e prima di partire per
      Firenze, il 31 marzo del 1869 presi moglie. Mia moglie, Rosa, era
      di una famiglia Sobrero. Suo padre era stato sostituto Procuratore
      Generale della Cassazione di Torino, ma era morto da molti anni in
      giovane età; egli era fratello di Ascanio Sobrero, il celebre
      chimico che inventò la nitroglicerina. Un altro fratello di suo
      padre
era generale del Genio ed era stato il disegnatore
      e
costruttore della fortezza di Alessandria. 
      
      Io vidi per
la prima volta quella che fu poi mia moglie, l'8
      gennaio 1869 e ci sposammo il 31 marzo dello
      stesso
anno.    ,
      
      Ritornai così a Firenze, dove fui subito occupato da quel nuovo
      lavoro che era di grande importanza per l'ordinamento dello Stato,
      e che richiedeva da parte mia tutta una nuova preparazione. Sulla
      fine di quell'anno la mia posizione cambiò ancora, mettendomi a
      contatto con un uomo di grande valore, a cui devo molto per la mia
      cultura amministrativa; Quintino Sella. Questi, avendo assunto, in
      una crisi ministeriale, il dicastero delle Finanze, a cui
      intendeva dedicare tutto il suo studio e la sua opera, chiese al
      Senatore Pallieri se nella Commissione da lui presieduta ci fosse
      qualcuno che avesse speciale conoscenza di cose legali. Il
      Pallieri gli fece il mio nome, e mi mandò dal Sella, che mi
      incaricò subito di un certo lavoro, che io finii e portai subito
      l'indomani. Me ne diede un altro, che fu subito compiuto; e di lì
      a qualche giorno il Sella mi richiamò ancora offrendomi il posto
      di Capo sezione alle Finanze. Accettai, e lavorai secolui, come
      segretario particolare, tutto il '70 e il '71. La capitale
      essendosi trasferita a Roma, il Sella venne pure a Roma; ma il
      Ministero rimase a Firenze, attendendosi la costruzione del
      palazzo, che fu finito solo nel '76. 
      
      Poco dopo, all'inizio del '72 il Sella pensò di porre mano a
      riordinare la Direzione generale delle imposte, che si trovava in
      grave stato di disordine, affidandola al deputato Giuseppe
      Giacomelli, di Udine, che si era già occupato, quale membro di una
      Commissione, di studi finanziari in quel Ministero stesso. Il
      Giacomelli, col quale io mi trovavo già in contatto, si dichiarò
      disposto ad assumersi quell'incarico, col patto però che io
      andassi con lui. Col consenso del Ministro, io accettai. Il Sella
      attribuiva a quel riordinamento una primaria importanza, specie
      per l'applicazione della nuova legge generale per la riscossione
      delle imposte. Eravamo ancora nel periodo costruttivo del nuovo
      Stato; e per la riscossione delle imposte vigevano sette sistemi
      diversi, ereditati dagli Stati scomparsi. Eccetto che nel
      LombardoVeneto, dove il sistema austriaco era affine al nuovo
      nostro, vi era tutto da mutare; in alcune regioni si riscoteva
      direttamente, in altre per appalti; in Toscana la riscossione
      della parte erariale era fatta a mezzo dei Comuni, i quali si
      erano trattenuti trenta milioni, dovuti allo Stato. Ne seguiva una
      grande confusione, con effetti rovinosi per l'entità stessa delle
      riscossioni, che avevano dietro una grande massa di arretrati.
      Occorreva compiere dunque una duplice opera; ricuperare questi
      arretrati, che sommavano alla cifra, stupenda per quei tempi, di
      duecento milioni, impiantando ad un tempo il nuovo sistema di
      riscossione, efficace ed uniforme per tutto il paese. 
      
      E questa opera doveva compiersi contro l'opposizione e l'ostilità
      degli interessati, i quali non volevano saperne di pagare gli
      arretrati ed ostacolavano l'impianto del nuovo sistema che non
      avrebbe permessi più gli antichi abusi. A. Messina e altrove
      furono uccisi degli esattori; i Comuni stessi che dovevano dare
      gli appalti vi si rifiutavano, e bisognava fare le aste d'ufficio,
      a mezzo dei prefetti. Vi era anche il lato comico; siccome in
      alcune provincie gli antichi regolamenti per la riscossione delle
      imposte davano facoltà alla direzione delle imposte di sospendere
      il versamento, da parte degli esattori, delle quote dovute da
      contribuenti irreperibili, così gran numero di questi, anche fra i
      maggiori, erano fatti apparire irreperibili. Ricordo che fra gli
      irreperibili apparvero alti funzionarli; irreperibili si
      dichiararono per fino degli stessi percettori delle imposte; e
      come irreperibile fu classificato per fino il municipio di
      Catania. 
      
      L'impianto del nuovo sistema, fronteggiando tutte queste
      difficoltà, fu un lavoro diabolico. Per condurlo a termine mi
      erano stati assegnati quattro funzionari, due dei quali erano
      ispettori superiori, e due caposezioni di prima classe; così che
      io, che dovevo comandarli, ero un funzionario di grado inferiore,
      essendo solo caposezione di seconda classe. Prevedendo le
      difficoltà che potevano risultare da questa curiosa situazione,
      posi per condizione che mi fossero dati i poteri necessari; e poi
      chiamati i miei collaboratori designati tenni loro un breve
      discorso, avvertendoli che bisognava lavorare sul serio, e che chi
      mancasse al proprio dovere sarebbe stato licenziato. Non ebbi poi
      che a lodarmi della loro collaborazione, e diventammo buoni amici.
      
      Al principio dell'anno in cui avevo dato inizio a quel lavoro, il
      presidente del Consiglio e ministro dell'Interno, Lanza, al quale
      dovevo spesso rivolgermi perchè il collocamento delle esattorie si
      faceva per mezzo delle prefetture, un giorno mi aveva detto che,
      se alla fine dell'anno medesimo, delle cinquemila esattorie che si
      dovevano impiantare, ne rimanessero ancora vacanti cinquecento, il
      governo avrebbe potuto considerarsi soddisfatto. E l'ultimo giorno
      dell'anno io gli potei dare la notizia che non ne restava vacante
      che una sola, e anche questa solamente perchè l'assuntore era
      morto in quei giorni.
      
      Quella mia lunga collaborazione con Quintino Sella, oltre che
      giovare grandemente alla mia educazione amministrativa, mi pose
      sotto gli occhi l'esempio di una capacità ed attività politica
      superiore. Il Sella infatti era indubbiamente un uomo di primo
      ordine, e che ha resi all'Italia, con un lavoro duro e continuo,
      servizii maggiori che non gli siano generalmente riconosciuti.
      Intelligentissimo e coltissimo, era sopratutto dotato di una
      sorprendente prontezza ad afferrare qualunque questione gli fosse
      presentata. Era poi un grande lavoratore; ricordo che quando io mi
      recavo da lui al mattino lo trovavo che era già da qualche ora al
      suo lavoro, perchè si alzava e vi si metteva regolarmente alle
      cinque. Di studio e professione era ingegnere delle miniere, e la
      sua opera in questo campo ha avuto per l'Italia una importanza
      classica; ma poi si era assimilato altre materie,  e specie
      nel  campo  finanziario, nel quale aveva già fatta
      esperienza come ministro nel 1862 e nel 1864. La sua benemerenza
      capitale nella costituzione del nuovo Stato italiano, fu appunto
      la rigidezza e la fermezza con cui ne amministrò le finanze
      nei  primi,  difficilissimi  tempi.
      
      Era fermissimo di carattere sempre, ma in special modo quando si
      trattava di difendere l'erario dello Stato. Ricordo in proposito
      un curioso episodio. Era allora in funzione la Commissione per la
      perequazione dell' imposta fondiaria presieduta dal Menabrea, la
      quale, volendo affrettare l'adempimento del compito ad essa
      affidato, prolungava le sue sedute e i suoi lavori nella notte. Il
      lavoro si faceva ad un tavolo con lampade a petrolio, e i
      commissarii si lagnavano del puzzo di quelle lampade e chiedevano
      si sostituissero con lampade ad olio. Ma Sella, che si era accorto
      che l'olio veniva sottratto, non ne voleva sapere. Allora si
      presentarono a lui, in forma fra allegra e solenne, due dei
      commissarii, Depretis e Valerio, per commuoverlo, e Valerio
      esclamò: — Vedi, per non soffrire del puzzo del tuo petrolio,
      verrò a lavorare con due candele in tasca. — Bravo! — gli rispose
      il Sella, — così mi risparmi anche il petrolio! — E rifiutò la
      piccola concessione. 
      
      Altra grande benemerenza del Sella, fu la sua insistenza, che
      valse moltissimo, perchè si andasse a Roma. L'opinione in
      proposito non era unanime nel Ministero; alcuni degli uomini più
      autorevoli della Destra, specie quelli di origine neoguelfa, erano
      titubanti; fra gli altri Cesare Correnti, contro il quale Sella si
      scaldava, qualificandolo «quel benedetto canonico!» La sua energia
      vinse le incertezze, e fu fortuna; perchè se non si coglieva quel
      momento chi sa quali altre difficoltà nell'interno e
      dall'estero  si  sarebbero  sollevate.
      
      Col nome del Sella si accoppia quello del Lanza, che era
      Presidente del Consiglio del Ministero in cui il Sella teneva le
      Finanze. E i due uomini si rassomigliavano assai, per la
      semplicità ed austerità della vita; per la grande onestà, e pel
      carattere dell'intelligenza. Il Lanza era meno vivo e meno ricco
      di pensiero e di cultura del Sella; per me egli rimane il tipo
      perfetto dell'uomo di buon senso, fermissimo e rettissimo. La
      modestia della sua vita famigliare è rimasta proverbiale; ed in
      questo egli era grandemente coadiuvato dalla moglie, la quale
      attendeva agli affari della loro piccola proprietà campagnola,
      mentre il marito occupava il primo posto al governo. Quando il
      Lanza morì il Re volle offrire alla vedova una pensione come
      collaressa dell'Annunziata, al cui ordine il Lanza apparteneva. Ma
      essa rifiutò dicendo: — Se con quello che avevamo abbiamo vissuto
      in due, posso tanto meglio vivere io, ora che sono sola. —
      
      Poco dopo fui nominato capo divisione. Si ebbe una crisi
      ministeriale (luglio 1873); il Sella cadde e gli successe
      Minghetti, il quale con la Presidenza prese le Finanze. Il
      Giacomelli, che aveva accettata la Direzione generale delle
      imposte dirette solo per deferenza al Sella, si dimise. Nel
      frattempo Desambrois, di Oulx, che era stato nel 1848 uno dei
      firmatari dello Statuto e poi Presidente del Senato, e che teneva
      il posto di Primo Presidente del Consiglio di Stato, senza che io
      l'avessi mai conosciuto mi mandò a chiamare, e mi chiese se avrei
      accettato il posto di referendario al Consiglio di Stato; posto
      che veniva lasciato da Angelo Fava, lo scrittore, che andava a
      riposo. Io avevo accettato; ma nel frattempo il Minghetti, dopo le
      dimissioni del Giacomelli, aveva offerto il posto lasciato da
      costui ad Enrico Pacini, il quale da prima rifiutò,
      rincrescendogli di allontanarsi da Firenze; ma poi finì per
      cedere, mettendo la condizione che io fossi Ispettore generale con
      lui, e Minghetti gli rispose annunciandogli di avere già mandato
      alla firma il decreto suo ed il mio.
      
      Rimasi con Minghetti per tutta la durata al suo ministero, che
      andò dal 10 luglio del '73 al 18 marzo '76, e fu l'ultimo
      ministero di Destra. Ebbi quindi occasione di apprezzare l'uomo,
      che per molti rispetti meritava tutta la stima che gli fu
      tributata, e della quale rimane ancora il ricordo. Le sue qualità
      precipue erano una eccezionale facilità a capire subito qualunque
      problema, ed una straordinaria facoltà di assimilazione. Ricordo
      in proposito che, quando egli era alla Camera, io dovevo stare in
      una tribuna per essere pronto a fornirgli le informazioni e gli
      elementi di cui avesse immediato bisogno nella discussione
      parlamentare, che era allora vivace assai,
      ma anche concreta. Era fra noi convenuto un segnale; egli alzava
      un foglio rosso, ed io allora discendevo e l'incontravo nel suo
      Gabinetto di Presidente, e gli fornivo gli elementi tecnici che
      servivano per la sua risposta; e su quei dati, comunicatigli in
      fretta, egli svolgeva subito, e con signorile facilità, un bel
      discorso. Era signorile in tutto, nei modi e nella cultura, e
      questa sua qualità era molta parte del fascino  che egli
      esercitava su tutti.
      
      Aveva poi certi suoi espedienti, affatto particolari. Eccone un
      caso. Si stava studiando la perequazione della imposta fondiaria,
      ed una Commissione di venticinque Senatori e Deputati, presieduta
      dal Menabrea, dopo lunghi studi aveva presentato un progetto di
      nientemeno che centosessanta articoli. Il Minghetti mi chiamò e mi
      disse: — Non mi è possibile di presentare un progetto talmente
      farraginoso; vuole esaminarlo lei procurando di abbreviarlo e
      semplificarlo ? — Quando poi, qualche settimana dopo, gli
      annunciai che il mio lavoro era compiuto, egli mi fissò un giorno
      ed un'ora per portarglielo. Quando mi recai all'udienza,
      nell'anticamera del Ministro trovai il Caneva, capogiunta del
      censimento a Milano, e il Baravelli, ispettore generale delle
      Finanze; ed allora io appresi, o meglio tutti e tre apprendemmo
      che lo stesso incarico era stato dato ad ognuno di noi, ad
      insaputa gli uni degli altri. Quando fummo ricevuti da Minghetti,
      il Caneva annunziò, con la sicurezza di avere compiuto un tour de
      force, che gli era riuscito di ridurre il progetto, dai
      centosessanta articoli originarli a soli sessanta. Il Baravelli
      presentò allora il progetto suo che la vinceva su quello del
      collega, gli articoli essendovi ridotti a quarantacinque. — E il
      suo? — chiese Minghetti a me. Glie lo presentai; io aveva ridotti
      gli articoli a tredici in tutto. Minghetti prese il progetto mio
      per base, e mi incaricò di compilare la relazione per la Caniera,
      che condussi a termine di lì a sei settimane.
      
      Quando, con quella che fu chiamata la rivoluzione parlamentare del
      1876, venne al potere la Sinistra, e Minghetti cadde, Depretis,
      formando il primo Ministero di Sinistra, prese il portafogli delle
      Finanze; segno che gli uomini più ponderati della Sinistra si
      rendevano anch'essi conto della preponderanza del problema
      finanziario, che aveva tanto preoccupata la Destra. La Direzione
      delle Finanze, essendo ormai finito il palazzo di sua sede, si
      trasferì allora da Firenze a Roma; e siccome il Pacini non volle
      lasciare Firenze, così io nel settembre del 1876, venendo a Roma,
      fui da Depretis incaricato di continuare a reggere quella
      Direzione. Vi rimasi circa un anno. Depretis aveva seco, quale
      Segretario generale, (che corrispondeva allora a quello che fu poi
      il Sottosegretario di Stato dei vari ministeri, senza però la
      facoltà, che fu data poi, di parlare e rispondere alla Camera ed
      al Senato a nome del Governo), il deputato Sesmit Doda, che gli
      era stato imposto dagli elementi estremi del partito. Il Sesmit
      Doda   era  un  brav' uomo,  ma 
      alquanto   fantasioso, «furioso» come lo chiamava
      Depretis; non aveva pratica di amministrazione e aveva chiamati al
      suo Gabinetto impiegati poco competenti; e mi mandava
      continuamente degli ordini cervellotici in contrasto con la legge,
      che io dovevo respingere, spiegando la ragione per cui non si
      potevano eseguire. Il Sesmit Doda se la prese e anzi s'insospettì,
      ed un giorno che eravamo assieme presso Depretis, egli accennò che
      nel dicastero «si congiurava». Io capii l'allusione, e gli risposi
      che se avessi voluto cospirare avrei avuto un mezzo semplicissimo,
      del quale egli mi sarebbe stato grato. Depretis, che era beffardo
      di temperamento, e se ne aspettava una divertente, m'incoraggiò :
      — Dica, dica. — Allora io dissi: — Se io volessi congiurare contro
      il Ministero, mi basterebbe eseguire gli ordini che Ella mi
      dà,.... — Depretis scoppiò in una risata, e Sesmit Doda, furioso,
      prese il cappello e se ne andò. Io allora osservai al Depretis che
      in quelle condizioni di malinteso, di contrasto e di sospetto col
      Segretario generale non sarei rimasto, e gli presentai le
      dimissioni; accettando, solo, su sua richiesta, di rimanere
      provvisoriamente.
      
      Pochi giorni dopo, ebbi dal Presidente della Corte dei Conti, il
      senatore Duchoquet, l'offerta di andarvi come Segretario generale;
      posto che era di nomina della Corte stessa. Depretis acconsentì,
      col patto che quando avesse bisogno di me mi avrebbe chiamato,
      come fece effettivamente molte volte, e ricordo in specie per
      farmi esaminare i progetti delle Convenzioni  ferroviarie.
      
      Alla Corte dei Conti rimasi cinque anni, con l'intervallo di sei
      mesi nel '79, quando ebbi dal Depretis l'incarico di Regio
      Commissario delle Opere Pie di San Paolo in Torino, la cui
      amministrazione era stata sciolta. Trovai allora che molti milioni
      erano impiegati in azioni di banche fortemente impegnate in
      speculazioni edilizie. Prevedendo che sarebbero finite male, come
      avvenne infatti pochi anni dopo, vendei tutte quelle azioni
      investendo il prezzo in obbligazioni ferroviarie garantite dallo
      Stato. E non contento di ciò feci inserire in un nuovo statuto da
      me proposto un articolo che proibiva l'acquisto di azioni
      speculative nel futuro. A mio avviso quella importante Opera Pia
      doveva sopratutto avere di mira la sicurezza dell'impiego, ed
      infatti seguendo quel sistema non ebbe mai alcun danno.
      
      Avevo da poco tempo condotta a termine quella mia missione,
      quando, nel settembre del 1879 mi colpì una terribile disgrazia,
      la tragica morte del mio figlio primogenito, Lorenzo, di sette
      anni, un bimbo intelligentissimo. La mia famiglia si trovava a
      Chiomonte, in Val di Susa, a villeggiarvi, ed io ero andato per
      due giorni a Cavour. Mio figlio, giocando con altri ragazzi, al
      primo piano di una casa rustica, posta di fronte alla mia
      abitazione, non vide una botola aperta nel pavimento, e precipitò
      nel piano di sotto, battendo la testa, e rimase morto sul colpo.
      Mia moglie accorse subito, Io trovò e lo raccolse cadavere; poi mi
      telegrafò che il ragazzo era malato, e quando alla sera arrivai
      ella ebbe la forza di animo di venirmi incontro a darmi essa
      stessa la triste notizia e a confortarmi. 
      
      Voglio qui ricordare che per tutta la sua vita mia moglie fu per
      me, oltre che compagna affettuosa, un grande aiuto morale. Era
      dotata d'intelligenza vivissima e s'interessava assai della mia
      opera politica, e nelle discussioni con famigliari ed amici aveva
      osservazioni e motti pronti e geniali; ma nello stesso tempo
      manteneva il più assoluto riserbo, non cercando in alcun modo di
      mescolarsi nella mia azione pubblica. Preferiva che io non fossi
      occupato nelle responsabilità politiche e mi riposassi nella vita
      privata; ma ogni qual volta una responsabilità precisa si
      affacciava, era essa stessa la prima ad incoraggiarmi ad
      affrontarla ed a compiere, come uomo pubblico, tutto il mio
      dovere.
      
      Alla Corte mi occupai particolarmente del controllo, esaminando i
      decreti che venivano dai vari Ministeri e riferendone al
      Presidente. Intervenivo come segretario alle sezioni del controllo
      e alle sezioni riunite; e in quistioni di controllo stendevo io le
      decisioni motivate. Quel lungo lavoro, col controllo di tutti i
      decreti, è stato per me una educazione amministrativa
      efflcacissima, mettendomi a conoscenza di tutto il meccanismo
      dello Stato; ciò che mi riuscì assai utile quando quel meccanismo
      dovetti muoverlo io stesso.
      
      Nel luglio dell'82 il Depretis mi offerse il posto di Consigliere
      di Stato, che accettai volontieri. La prima volta che intervenni
      al Consiglio, parecchi Consiglieri mancavano, ed  io 
      chiesi al Presidente che mi desse da lavorare. L'indomani
      ricevetti un pacco, poi ogni giorno un altro; più di un'ottantina
      di grossi affari. Mi misi all'opera giorno e notte, e quando dopo
      una settimana gli riportai l'intero lavoro finito, il Presidente
      della mia sezione non poteva crederlo, ed esclamava: — Ma quello
      era l'arretrato di tre mesi! — Il senatore Ghivizzani che reggeva
      la Presidenza del Consiglio mi chiamò poi, e mi fece un elogio,
      aggiungendo però: — Ma per carità non lo dica, che non si venga a
      sapere che si può sbrigare in una settimana l'arretrato di tre
      mesi! —
      
      Poco dopo entrai nella vita politica. Già alcuni anni avanti, nel
      1877, mi era stata offerta la candidatura nel collegio di
      Pinerolo, che allora avevo rifiutato, non volendo abbandonare la
      carriera. Come Consigliere di Stato ora ero eleggibile; ed
      essendosi aperta la campagna elettorale col nuovo scrutinio di
      lista, mi fu offerta la candidatura nel collegio di Cuneo, che
      comprendeva i tre collegi di Cuneo, Dronero e Borgo San Dalmazzo.
      I tre deputati uscenti, Riberi Antonio, Riberi Spirito e Ranco si
      ritiravano, i due ultimi andando al Senato; e Riberi Antonio
      scrisse una lettera agli elettori in cui, dichiarando di non
      presentarsi più, proponeva la mia candidatura. Era un mio vecchio
      amico, figlio di un bizzarro spirito, un montanaro all'antica,
      Martino Riberi, che faceva il mulattiere,  ed era ostinato
      che suo figlio seguisse lo stesso mestiere, quantunque avesse un
      fratello, distinto chirurgo, professore, senatore, medico capo
      nell'iesercito, assai arricchito, che gli proponeva di farlo
      studiare a sue spese, e di lasciargli la sua fortuna; così che il
      figlio aveva dovuto seguire il padre nel suo mestiere, e non aveva
      potuto mettersi agli studi che dopo la sua morte. 
      
      Il Riberi aveva agito di per se stesso, senza dirmi niente; così
      che la notizia della mia candidatura l'ebbi io pure da una copia
      stampata della sua getterà circolare, che mi fu mandata. Fui
      appoggiato anche dagli altri due deputati che si ritiravano; ma
      non tenendoci molto, rifiutai di andare a fare il solito giro di
      campagna elettorale. Il Sindaco di Cuneo, che era il capoluogo,
      insistè che facessi almeno una visita al collegio; ed io gli
      risposi che per cortesia avrei fatto una visita a lui; partii per
      Cuneo, arrivando alle undici di sera; feci la mia visita alle
      dieci del mattino appresso e ripartii alle undici, lasciando il
      mio indirizzo solo a tre persone: al Procuratore del Re, antico
      amico; al Sindaco di Cuneo, ed al Sindaco dì Dronero, mio cugino.
      C'erano tre liste, ero portato in tutte e tre e riuscii capolista.
      Ricordo un curioso episodio; a Peveragno ebbi l'unanimità dei
      voti. Non capivo come fosse avvenuto, ma una mia zia, che
      ricordava le vecchie storie della famiglia, me ne trovò la
      spiegazione. A San Damiano mio nonno, che era uomo popolarissimo,
      teneva la sua casa aperta a tutti, e la gente di passaggio vi
      prendeva alloggio. Il padre del Sindaco di Peveragno vi aveva
      pernottato una notte con la moglie incinta, che era stata presa
      dai dolori e vi aveva partorito, rimanendo poi ospite oltre un
      mese, sino a quando si era rimessa. Il Sindaco si era ricordato
      d'esser nato nella casa, della mia famiglia, ed aveva voluto
      compensarmi della antica ospitalità facendomi dare l'unanimità dei
      voti.
      
      
Il passaggio del governo dalla Destra alla Sinistra — L'opera
        della Destra; i suoi meriti e i suoi difetti — Che cosa
        rappresentò la vittoria della Sinistra — La personalità di
        Depretis e il trasformismo — Le divisioni della Sinistra: la
        Pentarchia e i «dissidenti» — La lotta contro la finanza del
        Magliani e il mio primo discorso parlamentare — Come Crispi
        formò il suo primo ministero — La mia entrata nel ministero
        Crispi — Le difficoltà politiche e la mia prima politica sociale
        — Perchè mi dimisi — Il ministero Rudinì, i suoi travagli e la
        sua caduta — Personalità del tempo: Crispi, Zanardelli,
        Nicotera, Magliani e di Rudinì.
      
      
      Quando entrai nella Camera, nel 1882, era al potere Depretis, che
      a quel tempo aveva già iniziata quella sua particolare azione
      politica, che ebbe il nome di trasformismo,. Ma per farsi una
      chiara idea di tutta quella situazione, e degli uomini che
      operavano in essa e ne rappresentavano le varie faccie, bisogna
      retrocedere alquanto, e vedere quale fosse stata l'opera della
      Destra e l'indole della politica da essa svolta per sedici anni, e
      le ragioni della sua decadenza e della sua caduta.
      
      Gli uomini che avevano formata e dominata l'antica Destra erano
      stati indubbiamente uomini egregi, ed anche di grande valore; veri
      patrioti la cui condotta era dettata da austeri sentimenti civici
      e da motivi superiori. Erano anche gente seria e che possedeva
      notevole competenza per il governo della cosa pubblica nei suoi
      varii campi. Siccome, dopo compiuta l'unità della patria con Roma
      capitale, il problema più grave che si affacciò subito nel nuovo
      Stato era indubbiamente il problema, finanziario, essi si
      preoccuparono precipuamente di dare allo Stato una finanza solida
      e sincera, che sola poteva cementarlo ed assicurarne l'avvenire.
      Si trovarono in questa opera di fronte a difficoltà ed ostacoli di
      ogni sorta, ai quali ho già parzialmente fatto accenno; e ad
      ottenere il pareggio, che era la meta dei loro sforzi, aggravarono
      le imposte sino al limite consentito dalle condizioni del paese,
      riscuotendole con energia, e nello stesso tempo si sforzavano di
      fare argine alle spese. 
      
      Ebbero però il torto di non preoccuparsi sufficientemente delle
      condizioni delle provincie più povere ed arretrate, e specie del
      Mezzogiorno. Già anzitutto avevano fra loro pochi meridionali,
      essendo quasi tutti piemontesi e lombardi con un po' di emiliani,
      come il Minghetti, e di toscani, quali il Ricasoli ed il Peruzzi;
      ed anche quei meridionali che erano con loro, non potevano portare
      loro le voci del loro paese, perchè erano stati o degli esiliati,
      che avevano vissuto a lungo in Piemonte, quali lo Scialoia, il
      Mancini, il De Sanctis, o come lo Spaventa erano stati racchiusi
      lunghi anni nelle carceri borboniche, perdendo il contatto con la
      realtà immediata. Erano poi tutti degli idealisti, le cui
      concezioni si fondavano su una cultura generale europea, lontana
      dalle miserie materiali e morali delle popola
zioni da cui erano
      usciti. 
      
      Ho detto che la Destra,
nella sua preoccupazione, del resto
      giustissima, del
bilancio, metteva imposte dove poteva, curando
      una
rigorosa riscossione; e, si sa, il mettere imposte
      e
riscuoterle severamente non concilia la popolarità.
Uno dei
      fatti che concorse in quel torno a indebolire
la Destra, fu
      l'imposta sul macinato, odiatissima specie nelle campagne, tanto
      che vi suscitò tumulti; la
quale era stata fatta approvare con
      legge da Cambrai
Digny ed applicata poi molto energicamente da
      Sella
e Minghetti. Altro coefficiente nella caduta della Destra
      era stato il trasporto della capitale da Firenze
a Roma. Firenze,
      danneggiata, reclamava indennizzi,
ed il governo, pure
      riconoscendo le ragioni della città,
andava a rilento nel
      concederli, perchè appunto non
voleva compromettere il pareggio, a
      cui si era sforzato per tanto tempo e con tanta industria, ed
      il
cui raggiungimento appariva molto prossimo. Allora
i toscani,
      con alla testa il Peruzzi, fecero l'accordo
con Nicotera per
      abbattere il governo. Raggiunto
questo accordo, Nicotera e gli
      altri condussero subito
alla Camera attacchi violenti. 
      
      Ricordo che, quando
la legge, di rigido carattere fiscale,
      proposta dal governo per la nullità degli atti non registrati fu
      re
spinta per un voto, Minghetti mi chiamò e mi condusse seco per
      andare a consultare il Ricasoli, che
viveva fuori Porta San
      Pancrazio, e non prendeva
più parte diretta alla politica, ma era
      sempre una
specie di gran consulente della Destra....
      
      In conclusione questo si può dire, che la Destra cadde parte per
      ragione delle sue stesse virtù, parte per certe sue deficienze.
      Essa aveva lavorato lungo tempo per dare al nuovo Stato un
      bilancio in pareggio e metterlo al sicuro dalla minaccia del
      fallimento; il raggiungimento stesso di questo scopo fu per un
      verso ragione della sua caduta; in quanto sorse allora il concetto
      che si potesse iniziare una politica economica nuova, cioè una
      politica di spese per le regioni che ne avevano più bisogno;
      concetto il quale entro certi limiti era pure giustificato. Come
      però avviene sempre, in tali rivolgimenti la tendenza dei nuovi
      venuti era di sorpassare questo limite; ma i più prudenti di essi
      si mostrarono subito preoccupati di mettere dei freni. Così il
      Depretis, formando nel marzo del '76 il primo Ministero di
      Sinistra, prese per sé il Dicastero delle Finanze, certo per
      vigilare efficacemente sulla situazione finanziaria.
      
      Alla formazione della Sinistra trionfatrice avevano concorso in
      prima linea i meridionali, specie sotto l'impulso del Nicotera.
      che fu uno dei primi capitani nella grande battaglia; poi i
      toscani secessionisti dal loro vecchio partito, poi i garibaldini,
      gli zanardelliani ed in genere tutti gli elementi di temperamento
      e di tendenze culturali democratiche, sino ai radicali, che
      rappresentavano allora l'estremismo. Questo movimento della
      Sinistra, oltre che motivi di carattere personale e di rivalità di
      capi, aveva anch'esso le sue profonde ragioni politiche; mentre la
      Destra rappresentava una  cultura  astratta 
      ed  una competenza particolare più alta, il pregio della
      Sinistra e la sua forza stavano nel fatto di meglio rappresentare
      lo stato d'animo delle masse popolari, che cominciavano a
      risvegliarsi contro il dominio degli ottimati, sia pure
      degnissimi, e mostravano di volere prendere maggior parte nella
      cosa pubblica, adottando le dottrine e seguendo gli uomini ed i
      partiti che aprivano loro la strada. 
      
      Del resto si comprende che un partito il quale aveva governato per
      sedici anni in mezzo a gravissime difficoltà di ogni genere si
      fosse logorato e indebolito; fra l'altro gli riusciva difficile di
      raccogliere reclute nuove di valore; i giovani di ingegno più
      vivace essendo attratti, come accade sempre, verso i partiti di
      opposizione. Infine vi erano i dissensi interni, fra i
      conservatori rigorosi, di vecchia scuola, quali il Cantelli e il
      Cambrai Digny, ed uomini di spirito più democratico e più aperti
      alle idee nuove, quali il Sella ed il Lanza. Ricordo anzi in
      proposito un episodio assai significativo. Quando, nel luglio del
      '73, cadde il Ministero Lanza-Sella, insidiato e minato dagli
      stessi conservatori, Costantino Perazzi, deputato del novarese e
      segretario generale di Sella, lo consigliava di passare a
      sinistra, fondando il suo concetto su questo: che egli aveva
      voluta la venuta a Roma d'accordo con la Sinistra; che egli
      rappresentava idee più avanzate del resto della Destra, e che il
      ministero a cui apparteneva era stato abbattuto col concorso
      aperto della parte più conservatrice della Destra. Se il Sella
      avesse ascoltato quel parere, probabilmente sarebbe diventato il
      capo della Sinistra; il che avrebbe parzialmente modificato il
      corso degli eventi di poi. Ma mi risulta che gli uomini più
      autorevoli della Destra avevano fatto ogni sforzo per dissuaderlo
      dall'accettare quel consiglio, e c'erano riusciti. 
      
      Quando io entrai nella Camera, la Sinistra aveva già cominciato a
      decadere. La sua popolarità nel periodo di opposizione, che
      l'aveva poi condotta al potere, era dovuta ad una ricetta
      infallibile: opporsi alle nuove imposte e chiedere nuove spese. Ma
      questi due termini sono inconciliabili: se essi possono servire
      nella polemica, falliscono quando si viene alla pratica politica.
      Servono insomma all'opposizione per attaccare il governo
      avversario; ma non per governare. Ho già detto che gli elementi
      più prudenti della Sinistra sentivano la necessità, pure
      consentendo nuove spese per le regioni bisognose, di non
      compromettere troppo la restaurazione finanziaria a cui il partito
      avverso era pure pervenuto. Queste ed altre ragioni di carattere
      politico, specie l'incompatibilità fra il suo temperamento pratico
      e positivo, e le ideologie sentimentali e fantasiose; il contrasto
      fra il suo sentimento dello Stato e il demagogismo di certi
      elementi della Sinistra, avevano portato il Depretis, traverso a
      quattro suoi ministeri, intramezzati da due brevi ministeri
      Cairoli, a cercare appoggi a Destra ed al Centro, e così era nato
      il trasformismo. 
      
      La parola ha avuto cattiva fama che si è ripercossa sull'uomo, che
      fu accusato di scetticismo e di cinismo. Ma né al trasformismo
      mancarono profonde ragioni politiche, ne il Depretis meritava quei
      giudizii. Egli era un uomo in cui era assai sviluppata una delle
      principali doti dell'uomo di governo: il buon senso. Non possedeva
      forse altre qualità eccezionali; conosceva bene l'amministrazione;
      sapeva esaminare a fondo le questioni, ed era uomo fermo e deciso.
      Era grande lavoratore, e lo si trovava sempre in mezzo a fasci di
      carte, Quando c'erano delle cose che non voleva risolvere, le
      metteva a parte, e ne aveva fatta una pila che saliva sempre più
      alta; e con quel suo fine sorriso ironico vi accennava come al
      reparto delle cose che vanno studiate lungamente. Non era affatto
      uno scettico o un cinico; odiava le vane declamazioni, ma
      s'interessava profondamente alle cose dello Stato, a cui dedicava
      tutta la sua attività ed energia. Combatteva apertamente gli
      avversari, ma era bonario, senza ombra di astio verso nessuno. 
      
      Quando io cominciai a votargli contro, egli un giorno mi domandò
      perchè fossi passato all'opposizione. Gli risposi adducendo molti
      motivi, e poi aggiunsi che non mi persuadeva che il ministero si
      appoggiasse specialmente su alcuni tipi poco raccomandabili. Al
      che egli osservò: — Ma è sicuro che persone dello stesso tipo non
      ci siano anche fra i suoi amici dell'opposizione? — Probabilmente
      ci sono, — gli replicai; — ma all'opposizione noi siamo solo
      d'accordo per dire di no, non per governare il paese.  —
      Quanto all'accusa  che  egli  fosse  un 
      furbo,  è  proprio   obbligatorio per un uomo
      di Stato di essere un ingenuo ?
      
      Poco dopo che io ero entrato nella Camera, questa dissoluzione
      della Sinistra come partito unito di governo fece un altro passo,
      col ritiro, nel maggio 1883, di Zanardelli e di Baccarini dal
      Ministero, e la costituzione della famosa Pentarchia, che aveva a
      capo Cairoli, Crispi, Nicotera, Baccarini e Zanardelli, e che
      riuniva in un fascio di opposizione buona parte degli uomini di
      Sinistra. Pure contro il Ministero, ma separato dalla Pentarchia,
      vi era il gruppo detto dei «dissidenti», che combattevano il
      Ministero sopratutto per la finanza del Magliani, ma si tenevano
      distaccati dalla Pentarchia per viarie ragioni, ma sopratutto
      perchè temevano quella politica estera, così detta delle «mani
      nette» con la quale il Cairoli, capo riconosciuto della
      Pentarchia, ci aveva condotti al grave scacco di Tunisi. A questo
      gruppo, a cui io mi ascrissi quando passai all'opposizione,
      appartenevano quasi tutti gli uomini che poi diventarono
      Presidenti del Consiglio, cioè Rudinì, Sonnino, Pelloux ed io,
      oltre Berti, Villa, Chimirri, Lacava, ecc. Eravamo quarantacinque;
      facevamo parte di quasi tutte le Commissioni e costituivamo così
      una forza parlamentare importante.
      
      I miei due primi anni di quella legislatura, durata circa tre anni
      e mezzo, dal 22 novembre 1882 al 27 aprile 1886, furono per me
      d'affiatamento e di noviziato. Fui eletto in molte Commissioni, in
      specie in quella del Bilancio, nelle quali portavo le competenze
      acquistate nell'amministrazione. La mia azione più veramente
      politica cominciò solo nel terzo anno, con l'opposizione ai metodi
      finanziari del Magliani, che teneva e tenne ancora per qualche
      anno il Ministero del Tesoro e reggeva quello delle Finanze; e il
      cui nome è rimasto famoso, come del rappresentante tipico di una
      finanza insinceramente ottimista e di una quasi prestigitazione
      finanziaria. Il Magliani veniva dalla burocrazia borbonica; era
      intelligentissimo, pronto ed abile e parlatore facondo e
      persuasivo; ma poco consistente nella sostanza e sopratutto
      debole, incapace di rispondere con quel monosillabo che dovrebbe
      essere la divisa di ogni ministro del Tesoro, col no a qualunque
      domanda di cosa dannosa alla finanza. Il Depretis per parte sua
      non lo frenava, preso com'era dalla passione di rimanere al
      governo ad ogni costo; passione che fu il fattore personale di
      quel trasformismo di cui sopra ho detto le ragioni politiche. 
      
      Questa ottimistica finanza del Magliani riusciva tanto più
      pericolosa per l'abilità con cui vi si dissimulava il disavanzo
      allo scopo di giustificare aumenti di spese. Si ricorreva, a
      questo fine, a varii trucchi e ripieghi; si era inventata la
      categoria delle spese ultra straordinarie, che non dovevano
      contare per la loro eccezionalità, vera o pretesa; e si era
      escogitata la dottrina delle «trasformazioni di capitale», per cui
      una spesa che creava una cosa reale, non doveva contare come
      spesa, essendosi convertita in capitale. Una volta messisi per
      questa via insidiosa, la necessità dei ripieghi e dei trucchi si
      moltiplicava; si arrivò al punto di fare figurare all'attivo del
      bilancio, non solo le cosidette «trasformazioni di capitale», ma a
      calcolare come aumento di valore qualunque spesa fatta intorno ad
      un oggetto. 
      
      Il discorso che contro questi metodi di finanza io pronunciai alla
      Camera nell'88, fece un gran rumore, anche per la specie di
      scandalo che proprio un nuovo arrivato venisse a proclamare il
      fatto di un grave disavanzo, e perchè io m'ero sforzato di
      semplificare i termini del problema, e di renderlo chiaro a tutti.
      E pare che ci fossi riuscito, perchè dopo il discorso venne a me
      il deputato Medoro Savini, il romanziere, uno degli uomini più
      semplici e ingenui che io abbia conosciuto, il quale mi disse: —
      Ti faccio la migliore di tutte le congratulazioni, e cioè che ho
      capito anch'io! — Il governo, che si era accorto dell'impressione
      fatta, voleva che qualche risposta al discorso mio, in attesa di
      quella più solenne del Ministro competente, venisse da qualche
      altro deputato, e ne incaricò il Toscanelli. Le cose si facevano
      allora molto bonariamente, e il Toscanelli venne da me ad
      avvertirmi e a chiedermi anche degli argomenti contro il mio
      discorso, perchè egli di finanza non se ne intendeva. Io glie li
      diedi volontieri, mostrandogli ciò che poteva rispondere, ed egli
      ne cavò un discreto discorso. Dopo il quale ritornò da me a
      chiedermi come mai fosse avvenuto che gli argomenti che io gli
      aveva dati fossero migliori e più efficaci di quelli che gli
      avevano fornito al Ministero delle Finanze.
      — Si capisce — gli risposi io — perchè io il Ministero avevamo
      interessi diversi. Al Ministero gli argomenti migliori volevano
      riservarli pel Ministro,, che doveva parlare dopo di te; mentre a
      me conveniva di fare apparire che il Magliani di finanze non ne
      sapeva più di te; e ci sono riuscito. —
      
      Così si venne alle elezioni del 1886, tenute sempre a scrutinio di
      lista, il 10 giugno. Depretis avrebbe voluto farle nell'ìautunno,
      ma siccome ciò sarebbe stato molto pericoloso per l'opposizione,
      questa gli creava ormai tali impicci nella Giunta del bilancio, e
      tali imbarazzi alla Camera con qualche episodio di ostruzionismo,
      che egli fu costretto a farle subito, quantunque il momento non
      fosse propizio per il Ministero. Ricordo che egli in quei giorni
      mi chiamò e mi disse: — Ma perchè mi volete obbligare a fare le
      elezioni subito? — Ed io gli risposi: — Ma per non darle tempo di
      prepararsi a combatterci!— 
      
      Ricordo, in quelle elezioni, un curioso episodio, che mostra come
      certe questioni, prolungatesi per tanti lustri nella politica
      italiana, nel Piemonte erano già praticamente risolte. Andai ad un
      banchetto, a San Damiano, nel quale, oltre tutti i sindaci della
      valle intervennero parecchi parroci, non ostante che in quel tempo
      la Curia romana avesse ribadito energicamente il principio del non
      expedit. Anzi il parroco più anziano volle fare un discorso, che
      si riassume tutto in queste parole: — Andate tutti a votare,
      perchè «né eletti né elettori» sono tutte balle! — Il governo
      naturalmente combatteva la nostra lista per quel che poteva, e
      aveva messo in campo un suo unico candidato il quale, sapendo che
      la mia posizione non poteva, essere toccata, cercava di persuadere
      a sostituire il nome suo a quello di uno dei miei due compagni di
      lista, che erano il Roux ed il Turbiglio. A pararci questa insidia
      io dichiarai agli elettori della valle Macra, del collegio di
      Dronero, che la lista doveva essere votata integralmente, perchè
      se votavano solo per me avrebbero bensì espressa una simpatia
      personale, ma avrebbero condannata la mia politica, che era una
      con quella dei miei colleghi. E la lista intera fu votata nei
      quindici comuni di quella valle così largamente che il candidato
      ministeriale vi ebbe due soli voti nel comune di Stroppo. Ricordo
      che qualche tempo dopo il sindaco di quel comune, incontrandomi,
      si scusò che non mi si fosse data l'unanimità dei voti e mi
      aggiunse: — Ma non accadrà una seconda volta. In paese si è saputo
      di chi erano quei due voti, e quei due elettori sono stati
      trattati in modo tale che si sono decisi ad emigrare e andarsene
      in Francia! —
      Gli risposi che ciò era veramente troppo.
      
      La tattica usata dall'opposizione, di forzare il governo a fare le
      elezioni in maggio, e non dargli tempo ad una preparazione, fu
      giustificata dai risultati. Con la nuova Camera la posizione del
      governo apparve subito assai indebolita; e noi ripigliammo
      immediatamente la nostra campagna contro la finanza del Magliani,
      la quale nelle conseguenze accumulate dei suoi errori era andata
      sempre peggiorando. In un dibattito tenuto al principio dell'87,
      il Ministero non ebbe che quindici voti di maggioranza. Era dunque
      ormai giunto il momento di stringere; e il nostro gruppo dei
      dissidenti aperse trattative con la Pentarchia. Io, Rudini e
      Lacava avemmo l'incarico di condurre quelle trattative, le quali
      del resto non toccavano che un punto: che la Pentarchia prendesse
      a suo capo Crispi al posto di Cairoli, del quale diffidavamo per
      l'ingenuità della sua politica estera; con questo mutamento i
      dissidenti s'impegnavano a votare con loro. 
      
      Andammo da Crispi io e Lacava, perchè fra Crispi e Rudini vi era
      una ruggine personale che non fu mai tolta. La Pentarchia accettò
      la nostra proposta, e Crispi fu incaricato di parlare, e parlò a
      nome di tutte le opposizioni, con la conseguenza che al voto il
      Ministero ottenne una esigua maggioranza. La sera stessa della
      votazione, per invito di Codronchi fu tenuto un convegno di
      parecchi deputati di Destra, che deliberarono di passare
      all'opposizione essi pure. Così il Ministero sarebbe caduto; e si
      seppe che in una conversazione che il giorno dopo Depretis ebbe
      col Re, Sua Maestà accennò all'eventualità di incaricare Crispi
      della formazione di un nuovo Ministero; ma Depretis  
      gli  rispose   che   credeva 
      di   potere   avere Crispi con sé. Aperse
      infatti trattative a questo scopo e Crispi si lasciò persuadere.
      Invece di tentare la formazione di un Ministero proprio, secondo
      avrebbe voluto il logico svolgimento dell'azione delle opposizioni
      riunite, égli accettò di entrare nel ministero Depretis (4 aprile
      1887) quale ministro degli Interni, mantenendo anche al Tesoro ed
      alle Finanze il Magliani; contro cui la battaglia dell'opposizione
      era stata particolarmente e lungamente condotta. Con questo suo
      passo anche il Crispi abbandonava effettivamente la Sinistra, ed
      entrava nel processo del trasformismo del Depnetis, che più tardi,
      coi varii suoi Ministeri si risolse nel governo del Centro.
      
      
      La condotta del Crispi ebbe per effetto di scompaginare la
      situazione, dividendo nuovamente le opposizioni. Ma pochi mesi
      dopo, nel luglio, Depretis morì, e Crispi ebbe l'incarico di
      formare il nuovo Ministero. Lo fece con elementi varii
      mantenendopero sempre seco il Magliani il quale, non ostante
      l'evidenza della rovina della sua finanza che conduceva ad uno
      spareggio pauroso, pareva irremovibile. Noi riprendemmo però la
      lotta, che l'anno dopo portò alla sua caduta, che fu definitiva.
      L'occasione fu data dal progetto di aumento del prezzo del sale e
      di decimi della imposta fondiaria, progetto insufficiente e non
      accompagnato, come avrebbe dovuto essere, da economie. Fummo
      nominati nove commissari per riferire sul progetto, e ci trovammo
      subito tutti d'accordo nel respingerlo. Io fui nominato relatore e
      mi impegnai di portare la relazione l'indomani mattina alle
      undici. Vi lavorai la notte; la portai alla tipografia della
      Camera alle otto del mattino, ed alle undici la presentai in bozze
      ai miei colleghi commissar! che l'approvarono ad unanimità, così
      che alle due fu distribuita stampata alla Camera. Credo che sia il
      record di una opposizione efficace e rapida. 
      
      Si era prossimi alle feste di Natale e il disegno di legge non si
      discusse; ma durante le vacanze Crispi fece una crisi parziale.
      Magliani si dimise; e siccome egli teneva le Finanze e l'interim
      del Tesoro, Crispi lo sostituì con due nuovi ministri, nominando
      alle Finanze il Grimaldi, e chiamando al Tesoro il senatore
      Perazzi, che era già stato segretario generale con Sella, e che
      prese seco come sottosegretario l'onorevole Sonnino. Durante quel
      primo suo ministero, Crispi incaricò me, insieme con Lacava e
      Della Rocca, suo segretario generale, di compilare il progetto per
      la riforma della Legge provinciale e comunale, che noi conducemmo
      in porto, ed è quella che vige tuttora.
      
      
      Venuti alle Finanze ed al Tesoro Grimaldi e Perazzi, questi fece
      alla Camera una esposizione finanziaria la quale confermava
      pienamente le nostre critiche, dimostrando che la situazione del
      bilancio non era quale l'aveva descritta il Magliani. Quella
      esposizione toccava molte responsabilità, e diede quindi luogo ad
      una discussione tempestosa assai per parte di tutti quelli che
      avevano appoggiata la finanza del Magliani. Io fui fra i pochi che
      difesero quella esposizione, ma in complesso la Camera si mostrò
      ostile, ciò che portò ad una nuova crisi. Crispi cambiò i due
      ministri, chiamando me al Tesoro e Sesmit Doda alle Finanze, e
      sostituendo pure ai Lavori Pubblici Saracco con Finali, e creando
      ad un tempo il Ministero delle Poste e Telegrafi, a cui chiamò il
      Lacava.
      
      
      Io rimasi con Crispi, in quel Ministero, dal 9 marzo del 1889 al
      principio di novembre dell'anno seguente, e potei raccoglierne,
      nel lavoro comune che si svolse nel migliore accordo, una
      impressione abbastanza compiuta, e che non mi si è nel complesso
      modificata per gli eventi intervenuti di poi. Egli era
      indiscutibilmente un fervido patriota, che sentiva altamente
      dell'Italia, ed avrebbe voluto condurla a sempre più alti destini.
      Era uomo di grande energia, di mente larga e pronta, ed aveva idee
      molto chiare nel suo programma generale; a cui non corrispondeva
      però una eguale attitudine a curare i particolari e l'esecuzione.
      Il disastro d'Adua, a mio avviso, fu appunto una conseguenza di
      questa manchevolezza; egli aveva tracciato un largo ed audace
      programma di espansione, sproporzionato però alla potenzialità del
      paese; non ne seppe curare le esecuzioni ed adeguare i mezzi allo
      scopo, avventurandosi con mezzi insufficienti, che furono la
      ragione principale della disfatta. 
      
      Possedeva un senso d'amministrazione severo, proprio d'uomo di
      governo; ricordo  che quando  ero con lui Ministro 
      al Tesoro, avendo dovuto procedere contro un suo amico, non ebbi
      da lui nonché ostacoli, nemmeno raccomandazioni. Ma la scarsa
      attitudine ed abitudine all'esame ponderato delle cose, lo portava
      alle volte addirittura al fantastico. Ricordo in proposito un
      episodio ben strano. Io mi trovavo, d'estate, in campagna a
      Cavour, quando egli mi telegrafò di venire senza indugio a Roma.
      Arrivato,, quando fui nel suo Gabinetto, egli mi disse senz'altro
      ex abrupto, che dovevamo aspettarci un colpo di mano della Francia
      sulla Spezia. — Come, — esclamai io, — siamo in guerra con la
      Francia? Abbiamo dichiarato la guerra alla Francia? — No, — mi
      rispose egli, — è la Francia che si prepara ad attaccarci
      d'improvviso, con un colpo di mano, che è imminente. — Io gli
      replicai che non credevo assolutamente alla cosa, e gli detti
      buone ragioni del mio scetticismo; fra l'altro era incomprensibile
      che la Francia, che possedeva allora una flotta tre volte
      supcriore alla nostra, si prendesse l'odio di una così enorme
      violazione del diritto, per fare un colpo di assai dubbia
      convenienza. Ma egli rimaneva fermo nella sua convinzione, come
      non avesse alcun dubbio della cosa, e mi chiese di dare il mio
      aiuto; ciò che feci per lealtà verso di lui come capo del governo
      a cui partecipavo, e per quel tanto che potevo come ministro del
      Tesoro. 
      
      Crispi aveva avvertito l'Inghilterra, che mandò a Genova un
      ammiraglio con l'incarico di parlare pubblicamente della comunanza
      di interessi fra l'Inghilterra ed Italia nel Mediterraneo, ciò che
      egli fece.
      
      Quando poi fui Presidente del Consiglio e Ministro degli Interni,
      scopersi che quella sorprendente informazione Crispi l'aveva avuta
      da un agente che teneva presso il Vaticano, e l'aveva accettata
      senz'altro come vera senza curarsi di appurarla.
      
      
      Pure di quel tempo, e cioè durante la mia permanenza al suo
      ministero, furono i primi accenni di Crispi ai suoi progetti di
      espansione coloniale nell'Abissinia. Quando nell'estate del 1890
      la Camera era chiusa, egli mi chiese un prelevamento di
      seicentomila lire per una spedizione scientifica in Abissinia.
      Dovetti rifiutare; in primo luogo perchè il fondo di riserva era
      ridotto a piccole proporzioni; e poi perchè si trattava, con
      quella richiesta, non di completare uno stanziamento di bilancio
      insufficiente, ma di aprire una spesa nuova, la quale doveva
      essere consentita dal Parlamento con legge speciale. Poco dopo
      Crispi progettò di inviare a Massaua seimila uomini; e ne fece
      richiesta al Ministro della guerra, Bertolè-Viale, e
      all'obbiezione del Ministro che per fare ciò occorreva un anticipo
      di sei milioni, Crispi gli disse di chiedermeli. Bertolè-Viale
      rispose: — Chi deve chiederli è lei, che come Presidente del
      Consiglio e Ministro degli Esteri ritiene quella spedizione
      necessaria; non io che non ci ho mai pensato. — Crispi replicò che
      a me, dopo il rifiuto avuto, non intendeva di chiedere più nulla.
      Bertolè-Viale me ne parlò poi; ma io non consentii, anche perchè,
      pure parlandomene, Bertolè-Viale mi fece capire che non era lui
      che desiderasse quella spedizione.
      
      Riguardo a quella che fu battezzata dal Cavallotti la
«questione
      morale» la mia impressione fu allora, nel
momento in cui tali
      questioni si agitavano, che il Crispi personalmente fosse onesto e
      disinteressato. Ritengo si debba escludere che egli abbia mai
      pensato di
avvantaggiarsi della sua posizione per sete di
      guadagni. Era onesto, ma disordinato, o forse meglio, su
      lui
ricadeva la soma e la responsabilità di disordini
famigliari,
      e più tardi anche di persone da cui si
era lasciato circondare;
      tanto più che a codesto
genere di disordini egli non dava
      importanza, tutto
preso dal pensiero della sua opera politica. 
      
      Le relazioni personali fra me e lui furono allora buone,
e devo
      dire che durante la mia partecipazione al
suo ministero io non
      ebbi che a lodarmi di lui
pel suo contegno e pel cordiale e
      sincero appoggio
che egli dava alla mia politica finanziaria.
      Eravamo
molto affiatati in tutto, ed egli mi chiamava spesso
a
      consulto. Un certo straniamento cominciò quando
io mi dimisi; egli
      se la prese a male, specie perchè
io avevo motivate le dimissioni
      in forma troppo
sincera, dichiarando che non mi sentivo di
      ripresentarmi alla Camera con programma diverso da quello
con cui
      ci eravamo presentati agli elettori. Vedendo
però che io non gli
      creavo difficoltà e non lo combattevo, la sua animosità del primo
      momento si
placò; e durante poi il ministero Rudinì, che seguì
al
      suo dopo il gennaio 1891, non ebbi occasione di
dubitare che ci
      fosse da parte sua ostilità alcuna
verso di me. Anzi, parlando coi
      suoi amici e seguaci
 della lotta da condurre contro Rudinì, egli
      diceva apertamente essere venuto il momento mio, e doversi seguire
      la mia guida.
      
      
      Fra gli altri uomini politici più in vista del tempo, nel
      Ministero Crispi trovai lo Zanardelli, che era uomo di grande
      onestà e dirittura, e di valore nel suo ramo speciale della legge.
      Aveva molta cultura, però alquanto antiquata; la cultura propria
      del periodo di Luigi Filippo, da lui assorbita nella sua
      giovinezza di studente; e ne aveva derivata una mentalità
      dottrinaria, che si rivela principalmente nella parte giuridica
      della sua opera principale, cioè il Codice Penale. Possedeva
      grande eloquenza, di carattere letterario; i suoi discorsi erano
      composti con grande cura, poi imparati a memoria e detti a
      perfezione. Le sue convinzioni politiche erano passionatamente
      democratiche, però della particolare democrazia borghese del suo
      tempo, mista ad un sincero lealismo per la monarchia
      costituzionale. Come molti altri, anzi quasi tutti gli uomini
      venuti su con quella cultura ed educazione, non comprendeva ed
      avversava il socialismo. Godeva di molte simpatie ed amicizie, ed
      era alla sua volta fervidissimo nelle amicizie e negli odii, che
      però mutavano. C'era sempre qualcuno che per lui era, secondo una
      sua frase abituale, «il peggiore di tutti»; ma poi l'oggetto di
      questa sua antipatia cambiava, tanto che fra noi si domandava
      scherzosamente: .— Chi è adesso il «peggiore di tutti»? —
      Appassionatissimo della politica, delle sue lotte, delle sue
      polemiche, egli impersonava proprio l'anima della Sinistra nella
      sua implacabilità contro l'antica Destra.
      
      
      Altro uomo che allora occupava l'attenzione pubblica era il
      Nicotera, al quale non mancavano qualità native ragguardevoli. Era
      dotato di ingegno naturale; aveva molta energia; era pieno di
      coraggio. Ma era pure violento e impulsivo; mancava di cultura;
      non conosceva la legislazione né aveva pratica dei congegni
      amministrativi dello Stato. Egli è rimasto per me un esempio che
      le qualità naturali non sono sufficienti a creare l'uomo politico,
      se non sono disciplinate. Anche l'energia non basta se non si sa
      poi come adoperarla a proposito e con senso dì misura.
      
      
      Assumendo il dicastero del Tesoro nel Gabinetto Crispi, io aderivo
      pienamente alla concezione democratica della Sinistra, cercando
      anzi di estenderla dal puro campo politico, a cui si arrestavano i
      criteri di Crispi, Zanardelli, Depretis ed altri, al campo
      economico per quanto me lo consentivano le mie particolari
      funzioni. Così la prima cosa che feci come Ministro del Tesoro, fu
      di mutare la legge generale di contabilità dello Stato per
      consentire la concessione di opere pubbliche entro un dato limite
      alle cooperative operaie, che erano cominciate a sorgere in quel
      tempo. Ero entrato nel Ministero in febbraio e la legge fu
      approvata e promulgata il 4 aprile. Nello stesso tempo però io mi
      scostavo da quella tendenza della Sinistra, che aveva prevalso
      negli ultimi ministeri Depretis per opera di Magnani, in quanto
      mettevo in prima linea il pareggio del Bilancio. 
      
      Bisogna in proposito ricordare che, mentre Minghetti era riuscito
      a raggiungere dopo tanti anni di sacrifizii e di sforzi la meta
      del pareggio, la finanza del Magliani lasciava un disavanzo che si
      avvicinava ai trecento milioni su un bilancia di circa un miliardo
      e mezzo. La situazione finanziaria era tanto più grave per la
      lunga crisi economica che travagliava il paese, e che non
      consentiva la speranza di potere colmare, o diminuire largamente
      quel disavanzo con nuove entrate; e per le ripercussioni della
      situazione finanziaria internazionale che creavano grandi ansie
      per i nostri pagamenti all'estero, che allora ascendevano a circa
      trecentocinquanta milioni all'anno. In seguito infatti ad una
      crisi gravissima scoppiata nell'Argentina, ed al conseguente
      disastro della famosa Banca inglese Bahring, che si era impegnata
      a fondo in quel paese, il cambio era salito fino al sedici per
      cento, inasprendo ancora le difficoltà dei nostri pagamenti
      all'estero. Per quei diciotto mesi che io rimasi al Tesoro, si
      rimediò al disavanzo con l'emissione di Obbligazioni ferroviarie
      al tre per cento, titolo creato ai tempi del Magliani; e con la
      vendita di centoventi milioni della Cassa Pensioni, che era stata
      mal creata, senza dare seguito alla legge, e non funzionava; così
      che erano rimasti nelle sue casse, a disposizione del Tesoro, quei
      centoventi milioni già dati come sua prima dotazione. 
      
      Un'altra difficoltà della nostra finanza d'allora, era creata
      dalla ostilità della finanza francese, che obbedendo alla parola
      d'ordine del suo governo, irritato dalla politica di Crispi,
      ostacolava in tutti i modi quel collocamento di nostri titoli che
      doveva servirci per i nostri pagamenti all'estero. In quelle
      difficili congiunture venne a Roma, emissario della Deutsche Bank,
      il signor Siemens, per la costituzione, da me promossa, del
      Credito Fondiario. Io colsi l'occasione per trattare con lui il
      collocamento all'estero di quei centoventi milioni di rendita, e
      potemmo venire ad un accordo per noi conveniente La sola
      condizione che egli pose fu che non fosse resa nota l'esistenza di
      quel contratto per un po' di tempo, appunto perchè la finanza
      francese ostile non creasse ostacoli al collocamento. Ricordo che
      l'accordo era stato raggiunto alla sera, e che il Siemens doveva
      venire il giorno dopo per la firma; e che la sera stessa il
      telegrafo segnalò un ribasso di sessanta centesimi della nostra
      rendita sulla Borsa di Parigi. Ma il Siemens firmò lo stesso, pure
      lamentando di avere concluso un cattivo affare. Bisogna
      riconoscere che in quel momento, e per parecchio tempo dopo, la
      nostra finanza fu molto e cordialmente sostenuta dalla Banca
      tedesca. 
      
      Le condizioni del nostro bilancio allora erano tali che, specie
      pei pagamenti all'estero bisognava ricorrere a crediti esteri,
      perchè in Italia avevamo il corso Torzoso. Ma il campo per quei
      crediti era ristretto assai; la Francia ce li rifiutava
      assolutamente, per controbattere la politica di Crispi ad essa
      ostile; ed anche sull'Inghilterra c'era poco da contare, perchè i
      finanzieri inglesi facevano scarsi affari in Europa, preferendo le
      imprese e le speculazioni coloniali, nelle quali guadagnavano
      molto di più, anche se erano esposti a catastrofi come quella che
      travolse la Banca Bahring.
      
      
      Mentre provvedevo nel miglior modo possibile a questi bisogni
      immediati, procuravo di restringere le spese; ed a questa mia
      opera di economia Crispi non si oppose nullamente sino alle
      elezioni del '90; ed anzi l'appoggiò, consentendo meco che il
      Governo si presentasse a quelle elezioni con un programma di
      economie. Tale programma io l'avevo formulato ai primi di
      settembre come programma per le elezioni stesse, chiedendo in un
      Consiglio dei ministri una diminuzione delle spese per venti
      milioni nell'esercito e per dodici nella marina, e che nessun
      aumento fosse consentito per alcun altro bilancio. E poiché come
      il Ministro più giovane fungevo da segretario nel Consiglio, ne
      profittai per metterlo a verbale, aggiungendo che senza queste
      concessioni io non avrei presentati i bilanci alla Camera. Dopo
      lunghe discussioni il Ministro della Guerra, Bertolè-Viale, e
      quello della Marina, Brin, dettero il loro assenso; ma Finali,
      ministro dei Lavori Pubblici, insistette per avere un aumento di
      dodici milioni nel suo bilancio. Io rifiutai, perchè a mio avviso
      quei dodici milioni non erano necessari, ed anche perchè il
      Ministro della Guerra, prima di cedere alla mia richiesta di
      diminuzione del suo bilancio, aveva ottenuta da me la promessa,
      che non avrei ceduto con nessun altro dei ministri. 
      
      Finali continuando ad insistere, io dichiarai in Consiglio, e
      ripetei personalmente a Crispi, che se Finali non rinunciava, e
      non si modificava il bilancio dei Lavori Pubblici nel senso da me
      indicato, avrei date le dimissioni. Crispi cercò di rimandare la
      questione per quanto potè; ma siccome Finali non cedeva, e Crispi
      forse non si aspettava che io tenessi fermo al proposito
      manifestato, le dimissioni diventarono inevitabili. 
      
      Mancando tre o quattro giorni alllapertura della Camera, io feci a
      Crispi un'ultima dichiarazione, avvertendolo che se il giorno
      dopo, a mezzogiorno, non avessi il consenso del Finali, gli avrei
      mandate le dimissioni e le avrei ad un tempo pubblicate. Non
      avendo a mezzogiorno ricevuta alcuna risposta, dieci minuti dopo
      mandai la mia lettera di dimissioni e le comunicai alla stampa. Un
      quarto d'ora dopo si dimise pure il mio sottosegretario, Lazzaro
      Gagliardo, già garibaldino, ferito al Volturno e nel Tirolo, e che
      ricordo sempre come uno dei maggiori galantuomini e degli uomini
      di maggior buon senso che io abbia incontrati.
      
      
      Non volli però creare altre difficoltà al Ministero, e seguitai a
      votare in suo favore sino alla
sua caduta, che avvenne
      improvvisamente il 31 gennaio 1891, in una seduta alla quale non
      mi trovavo presente. 
      Fu la seduta delle famose   «sante memorie». In uno dei
      suoi scatti impulsivi, Crispi aveva detto che la politica estera
      della Destra era vile. Avvenne un pandemonio; Rudinì e gli altri
      uomini del suo partito balzarono in piedi apostrofandolo, ed il
      Ministero, nella votazione avvenuta subito dopo, fu battuto e
      rassegnò le dimissioni. Ma l'episodio di quella caduta era stato
      preparato senza volerlo dal Crispi stesso, il quale, staccandosi
      sempre più dalla Sinistra, aveva favorito inconsciamente un
      tentativo di ripresa della Destra, che s'impersonò appunto nel
      Ministero costituito da Rudinì in seguito a quella crisi.
      
      
      Quando formò il suo primo Ministero, il Marchese Di Rudinì era
      considerato come il capo della Destra; essendo pervenuto a quella
      situazione con la scomparsa degli altri uomini più insigni del
      partito e per il prestigio del suo passato. Era infatti entrato
      nella vita politica giovanissimo, e in un episodio drammatico, nel
      1866, quando a Palermo, in seguito al malcontento causato dalla
      guerra, era stata tentata una vera e propria insurrezione. Era
      stata una insurrezione prettamente borbonica, preparata con gli
      elementi della malavita palermitana; la quale per tre giorni aveva
      assediato il Di Rudinì, allora sindaco della città, nel palazzo
      municipale. Il giovane sindaco si era difeso con grande coraggio
      ed energia, dando tempo alle truppe dell'esercito regolare di
      sbarcare, reprimere i rivoltosi e rimettere l'ordine nella città
      perturbata. 
      
      Questo episodio gli aveva creata una grande popolarità fra gli
      uomini della sua parte, a cui era parso di avere trovato
      finalmente in questo giovane un vero uomo di azione, che sarebbe
      stato il loro capo per l'avvenire. E si cercò di affrettarne la
      carriera; fu nominato Prefetto di Napoli, e fu poi chiamato al
      dicastero dell'Interno nell'ultimo Ministero Minghetti, quando non
      aveva ancora compiuti i trenta anni. Come avviene per le
      aspettazioni troppo vive, seguì una certa delusione, anche nella
      fila del suo partito. Ricordo in proposito una frase del De
      Sanctis, alquanto maligna, e che allora fece il giro degli
      ambienti politici : — Venne alla Camera come il fanciullo
      miracolo; il fanciullo rimase, ma il miracolo scomparve. — Le mie
      impressioni di lui sono che egli fosse un perfetto galantuomo ed
      uomo di garbo e finezza; dotato di una cultura non ricca ma certo
      superiore alla media. Non aveva e non acquistò mai una completa
      esperienza e non sapeva dominare le assemblee. Il più grande
      difetto del suo carattere quale uomo politico, era l'indecisione.
      
      
      Questa perplessità della sua indole si manifestò anche quella
      volta, nella formazione del suo Ministero. Come ho accennato, il
      modo con cui avvenne la crisi indicava il proposito di
      esperimentare un ritorno alla Destra; ma quando fu a scegliersi i
      suoi collaboratori il Di Rudinì finì per seguire l'esempio di
      Depretis al rovescio, cercando cioè di formare un Gabinetto il
      quale, movendo dalla Destra assorbisse uomini di Sinistra. Egli
      prese seco, al Ministero degli Interni il Nicotera, cioè l'uomo
      che aveva condotta la rivolta parlamentare del '76, insieme a
      uomini  di pura Destra.
      
      
      Prima di offrire gli Interni al Nicotera, il Dì Rudinì li aveva
      offerti a me; ma io non potei accettare, dando ragione del mio
      rifiuto col fatto che il nuovo Ministero si era formato sovra una
      base politica diversa da quella su cui poggiava il Ministero di
      cui ero stato parte sino a pochi mesi prima.
      
      
      Le difficoltà inerenti ad una situazione quale quella in cui il
      Ministero si era formato, non tardarono a manifestarsi, aggravate
      da un dissidio, invano dissimulato, fra i suoi due uomini
      principali, il Di Rudinì ed il Nicotera. Questi, che forse nutriva
      maggiori ambizioni, si giovava della sua posizione per scalzare il
      suo capo, al quale mancava l'energia e la decisione per
      disfarsene. Un giorno, avendomi chiamato, il Di Rudinì si sfogò
      meco, e dichiarandomi di non potere andare avanti col Nicotera
      agli Interni, concluse coll'offrirmi nuovamente quel posto. Gli
      risposi reiterando ciò che gli avevo già risposto alla sua prima
      offerta; e cioè che io non potevo entrarvi se il colore del
      Ministero non venisse cambiato, nel senso di appoggiarlo
      maggiormente verso Sinistra. Egli mi chiese in che modo, a mio
      avviso, questo mutamento potesse attuarsi, ed io suggerii di
      chiamare insieme a me Bonacci alla Grazia e Giustizia. Egli
      accettò il suggerimento, ed anzi dette a me l'incarico di fare
      l'offerta formale al Bonacci. 
      
      Io adempiei a quel mandato; ma poi non ne seppi più niente perchè
      Di Rudinì non si decise a fare la crisi, quantunque più volte
      ancora ritornasse a parlarmi dei suoi screzii col Nicotera. Poco
      dopo, durante la chiusura della Camera per le feste di Pasqua del
      1892, essendosi dimesso il Ministro delle Finanze, Colombo, egli
      mi telegrafò a Cavour dove mi trovavo, pregandomi di venire a
      Roma. Venni, ed egli mi offerse di fare un nuovo Ministero
      d'accordo meco, tutto con uomini nuovi, tenendo fermi solo il nome
      suo e quello di Nicotera. Gli risposi che non mi pareva
      opportuno.; che io con Nicotera non mi sarei trovato. — Ma lo
      sopporto io — mi disse RudinL Ed io gli replicai: — Per questo
      posso compiangerla, ma non mi sento di imitarla. — Egli offerse
      allora il Ministero del Tesoro al Genala, che non accettò; e non
      riuscendo ad accaparrarsi altro nome che portasse ad un
      rafforzamento della compagine ministeriale, il Ministero si
      presentò alla Camera incompleto. 
      
      Nel dibattito parlamentare che seguì ai primi di maggio, io parlai
      contro, osservando che il Ministero non poteva andare avanti
      perchè non riuscirà nemmeno a ricomporsi; ed il Ministero essendo
      caduto col voto provocato dal mio discorso, fui indicato per la
      soluzione della crisi ed ebbi l'incarico di formare il nuovo
      Ministero.
      
      
 
      
      Un ritorno al governo di partito — I punti fondamentali del mio
        programma: politica liberale e politica sociale; mantenimento
        della Triplice e rapporti amichevoli con la Francia — Le
        elezioni e la vittoria della Sinistra — L'inchiesta sulla Banca
        Romana e i suoi precedenti — Il pericolo pel credito nazionale e
        la riforma delle Banche d'emissione — Gli inizii del movimento
        socialista — I « Fasci » siciliani e l'azione economica dei
        lavoratori — De Felice, Barbato, Verro — La reazione
        conservatrice — 11 Comitato dei Sette e la sua opera inadeguata
        — Le accuse mosse  contro di me e le mie dimissioni.
      
      
      La caduta del Ministero Di Rudinì, che era nato da una crisi
      provocata dagli elementi conservatori sur una frase infelice del
      Crispi, e che, nonostante la partecipazione del Nicotera e le
      velleità mai adempiute del Di Rudinì di cercare altri appoggi
      verso la Sinistra, era stato complessivamente un Ministero di
      Destra, rappresentò appunto lo scacco di quel primo tentativo di
      restaurazione di una politica conservatrice, che in quella forma
      non fu più ritentata.
      
      
      Avuto l'incarico di formare il nuovo Ministero io giudicai che
      esso dovesse essere nettamente un Ministero di Sinistra, senza
      dissimulazione ed accomodamenti, e chiamai a collaborare meco il
      Bonacci,  Brin,   Martini, 
      Genala,   Lacava,  Finocchiaro-Aprile, Di
      Saint-Bon, che era sopratutto un tecnico per la marina, e per la
      guerra il Pelloux, che nel mondo militare rappresentava allora,
      avanti le sue posteriori trasformazioni, un elemento molto
      liberale. E mi formai anche il concetto di chiamare uno dei
      liberali più rappresentativi alla Presidenza della Camera,
      scegliendo lo Zanardelli, che effettivamente fu nominato alla
      Presidenza dopo le elezioni generali, il 23 novembre del '92.
      
      
      Il mio programma aveva alcuni punti capitali che lo distinguevano
      dalla politica dei miei immediati predecessori. Non solo da quella
      del Di Rudinì, rimasta sempre oscillante fra le tendenze
      conservatrici dell'uomo e il suo sforzo ad adattarsi alle
      condizioni dell'ambiente; ma anche da quella del Crispi, che
      avviatosi ormai a propositi grandiosi di espansione non teneva
      sufficiente conto delle condizioni ancora assai difficili della
      finanza e della economia pubblica, e mostrava già la disposizione
      a reagire con violenza al malcontento del paese, specie delle
      classi lavoratrici. Uno di questi punti era per me la
      restaurazione del bilancio, malamente scosso dalla finanza del
      Magliani e dalla mania spendereccia della Sinistra nei suoi primi
      tempi; e la necessità di adattare la nostra politica finanziaria
      alle condizioni del paese, che stava ancora traversando una lunga
      crisi economica, dalla quale non doveva uscire che parecchi anni
      dopo. 
      
      Un altro punto, che d'altronde era in stretta correlazione con
      questa necessità capitale del risanamento della nostra finanza,
      toccava la politica estera. Io accettavo pienamente la «Triplice
      Alleanza» conclusa parecchi anni avanti dal Depretis; ma non
      intendevo affatto di seguire l'indirizzo di Crispi, che a questa
      alleanza si era appoggiato per condurre una politica estera che la
      Francia considerava ostile e provocatrice. Tale atteggiamento di
      Crispi aveva avuto per noi ripercussioni gravi appunto nel campo
      finanziario; rendendo più acuta l'ostilità finanziaria con cui la
      Francia rispondeva alla ostilità politica del Crispi, e
      costringendoci a maggiori spese militari, come apparve poi negli
      anni seguenti, quando Crispi ritornò al Governo. Nel mio pensiero,
      già sino d'allora la Triplice doveva essere considerata da noi
      nell'aspetto di una alleanza difensiva, la quale, garantendoci la
      nostra sicurezza, ci permettesse appunto di intrattenere relazioni
      cordiali, sovra un piede di riconosciuta eguaglianza, con le altre
      Potenze. Io mi proponevo dunque nella politica estera, mantenendo
      fermi i nostri accordi con le Potenze Centrali, di smussare gli
      angoli nei nostri rapporti con la Francia, che si erano gravemente
      inaspriti durante il Ministero Crispi, e di ristabilire con essa
      relazioni equanimi e di buon vicinato. Ed a questo mio proposito
      riuscii, ottenendo appunto che la Francia partecipasse
      ufficialmente alle feste colombiane tenute a Genova, nell'agosto
      del '92, inviandovi una sua corazzata con un viceammiraglio a fare
      omaggio al Re, che era presente con tutti i Ministri.
      
      
      Il terzo punto capitale del mio programma concerneva la politica
      interna; per la quale io ritenevo arrivato il momento di avviarsi
      ad un più decisivo e pratico esperimento dei criteri democratici.
      L'avvento  infatti della democrazia  al 
      governo,  con  la cosidetta  
      rivoluzione   parlamentare   del  
      '76   ed   il trionfo della Sinistra, era
      stato di carattere più che altro dottrinario, toccando più
      particolarmente, e in modo  non  interamente
      benefico,  la politica  finanziaria dello Stato. Le
      inclinazioni democratiche della Sinistra si erano insomma più che
      altro sfogate nel fare una politica popolare di spese, che se per
      un verso  parevano   giustificate 
      dalle   condizioni  e  dai bisogni delle
      regioni meno fortunate e più arretrate, per un altro minacciavano
      la compagine finanziaria dello Stato. E se le convinzioni
      democratiche della Sinistra erano rimaste ferme  nella
      dottrina, nella pratica parlamentare avevano subito inevitabili
      oscuramenti per la politica del «trasformismo» del Depretis, e per
      le nuove tendenze dittatorie a cui il Crispi si era ormai avviato.
      
      
      C'era poi un punto nel quale le idee  mie si 
      distinguevano  nettamente da quelle degli altri
      rappresentanti della democrazia di quel tempo. La Sinistra
      democratica era pur sempre una espressione della borghesia, sia
      pure della borghesia minuta in confronto  a quella degli
      ottimati rappresentata dalla vecchia Destra, specie lombarda; e
      le  sue ispirazioni  dottrinarie  erano 
      pure  attinte alle scuole della democrazia borghese. Ho già
      detto che a quel tempo gli stessi democratici più avanzati, quali
      lo Zanardelli e il Cavallotti, erano avversi al socialismo ed alle
      sue dottrine; mentre per Crispi il socialismo era addirittura il
      nemico della patria. Per l'opinione media il socialismo si
      confondeva con l'anarchismo e la rivoluzione; e i pochi socialisti
      già arrivati alla Camera, quali il Costa, il Prampolini, il
      Badaloni, l'Agnini, se personalmente erano trattati come egregie
      persone, come meritavano, politicamente erano considerati come un
      caso eccezionale. Io pensavo invece che fosse già arrivato il
      momento di prendere in considerazione gli interessi e le
      aspirazioni delle masse popolari e lavoratrici, che in quasi tutto
      il paese soffrivano sotto la pressione di condizioni economiche,
      di salario e di vita, spesso addirittura inique, ed avevano
      cominciato, tanto nelle grandi città industriali, che qua e là
      nelle campagne, ad agitarsi e a farsi sentire. Concetti questi
      che, anche se non espressamente proclamati, informavano lo spirito
      delle dichiarazioni con cui il nuovo Ministero si presentò alla
      Camera.
      
      
      Apparve subito che la Camera, come era stata
formata nelle ultime
      elezionii fatte dal Crispi, non
avrebbe fornito una base sicura
      alla esplicazione
di quel programma. Quando mi presentai fui
      infatti
attaccato particolarmente dalla Destra, che aveva
per suo
      oratore principale Ruggiero Bonghi, che ne
rappresentava appunto
      le tendenze più retrive. Provocai, a chiudere la discussione, un
      voto di fiducia;
ed ebbi appena nove voti di maggioranza, con
      ventisei o ventisette astenuti al Centro, che facevano
capo a
      Sonnino. Quella votazione mi dimostrò che
con quella Camera era
      impossibile andare avanti, e la sera stessa mi recai dal Re per
      esporgli la situazione, che si riassumeva poi nel dilemma: o lo
      scioglimento della Camera o le dimissioni del Ministero. Le
      ragioni per cui allora non esitai a proporre lo scioglimento della
      Camera, e che esposi a Sua Maestà, erano le seguenti: che il
      sistema elettorale essendo stato mutato con la legge presentata e
      fatta approvare dal Di Rudinì, che ristabiliva l'antico collegio
      uninominale, la Camera non rispecchiava più fedelmente la
      situazione politica del paese; e che d'altronde, la Camera avendo
      abbattuti i due Ministeri del Crispi e del Rudinì, e avendo a me
      data una votazione in base alla quale non potevo assumermi la
      responsabilità del governo, ne risultava una condizione di cose
      per cui non appariva possibile di costituire una maggioranza. Il
      Re ascoltò queste ragioni e mi disse di tornare l'indomani a
      mezzogiorno per la risposta.
      
      
      Nei rapporti che durante il mio Ministero io ebbi con Re Umberto,
      egli mi apparve come un uomo molto semplice, molto cortese, e
      correttissimo dal punto di vista costituzionale. Dopo quel mio
      primo Ministero io non ebbi per un pezzo più a rivederlo; ma certo
      in quel tempo non notai in lui prevenzioni di sorta contro una
      politica liberale e democratica. Egli intendeva con alto senso di
      responsabilità la sua funzione, e s'informava moltissimo delle
      cose di Stato, interessandosi di tutto, ma in particolar modo
      della politica estera e delle cose militari.
      
      Anche in questa occasione egli mostrò d'intendere con retto senso
      costituzionale l'alto compito che gli incombeva. Appena lasciato
      il Re io avevo convocato per l'indomani alle undici il Consiglio
      dei ministri. Appena fu adunato il Genala chiese la parola, e
      mettendo in rilievo l'impossibilità di andare avanti, dichiarò
      solennemente che gli pareva opportuno di proporre la convocazione
      dei comizii elettorali. Ricordo ancora che usò la frase: — Bisogna
      fare un gran colpo. — Io presi allora la parola e dichiarai ai
      Ministri che li avevo convocati appunto per informarli che la
      proposta dello scioglimento della Camera e delle elezioni era già
      stata da me fatta a Sua Maestà, e che a mezzogiorno dovevo tornare
      a Palazzo reale a prendere la risposta. E infatti poco dopo fui
      ricevuto dal Re, il quale mi disse subito che, avendo esaminata la
      situazione parlamentare, e tenendo conto della mutazione della
      legge elettorale, era venuto alla conclusione che fosse opportuno
      interpellare il paese. Soggiunse poi che quanto al momento ed alla
      forma della dichiarazione, si rimetteva interamente a me. Con
      questa risposta tornai ai ministri, che erano rimasti ad
      aspettarmi, e li invitai a ritrovarsi tutti per le due
      all'apertura della Camera. Vi era grande aspettativa e fermento.
      Quando io mi alzai a parlare e cominciai a dire: —Ho l'onore di
      dichiarare che in seguito alla votazione di iersera il Ministero
      ha presentate a Sua Maestà le sue dimissioni — un applauso scoppiò
      dai banchi della Destra. Io li lasciai applaudire un bel po', poi
      soggiunsi: — Però Sua Maestà non le ha accettate.
      —Un altro applauso fragoroso scoppiò allora dai banchi della
      Sinistra, e Zanardelli alzandosi gridò:
      —Viva il Re! — 
      
      Per tutto il seguita poi del mio Ministero, nella Camera fu
      mantenuta questa rigida divisione di Destra e di Sinistra, quale
      non si era avuta da un pezzo, e che si dimostrava ogni volta che
      si faceva una votazione per alzata e seduta.
      
      
      Io conclusi chiedendo l'esercizio provvisorio per sei mesi. Seguì
      una lunga discussione, nella quale oratore principale contro il
      Ministero fu sempre il Bonghi, e si concluse con una votazione a
      scrutinio segreto, che mi dette settantotto voti di maggioranza.
      
      
      Sciolsi la Camera solo nell'autunno, e precisamente il 10 ottobre,
      anche perchè per l'agosto si preparavano a Genova le feste pel
      Centenario di Colombo, alle quali dovevano convenire
      rappresentanze da tutto il mondo, e che, come ho detto, ebbero
      anche un particolare significato politico, per l'intervento della
      Francia, che indicava un attenuamento della tensione fra i due
      paesi.
      
      
      Le elezioni ebbero luogo il 13 novembre col risultato di una
      notevole vittoria della Sinistra la quale guadagnò parecchi seggi
      contro la Destra. Rimasero pure colpiti i repubblicaneggianti
      dell'Estrema Sinistra, con la caduta di Cavallotti e
      dell'Imbriani, che ne fecero un chiasso indiavolato,
      attribuendomene la responsabilità, come se io avessi avuto il
      dovere di sostenere elementi che non erano perfettamente
      nell'ambito  della   Costituzione.
      
      L'anno che seguì, 1893, fu grave e difficile; per l'inasprirsi
      delle difficoltà finanziarie, con un rialzo del cambio che le
      finanze dello Stato, già da tempo in condizioni non buone,
      risentivano assai pei pagamenti che si dovevano fare all'estero, e
      che superavano i trecento milioni in oro; per le rivelazioni
      bancarie, specie quelle concernenti la Banca Romana, coi
      conseguenti scandali e polemiche che suscitarono nel mondo
      politico; ed infine per le agitazioni proletarie che culminarono
      nel movimento dei Fasci dei lavoratori, organizzatisi in Sicilia.
      A complicare tutte queste difficoltà si aggiunse la morte di
      parecchi dei miei collaboratori al Ministero: morirono l'Eula, che
      teneva il dicastero della Grazia e Giustizia, e che io sostituii
      prima col senatore Santamaria Nicolini, poi col senatore Giacomo
      Arno; morì l'Ellena, che era alle Finanze, e che fu sostituito dal
      Grimaldi; morì il Saint-Bon, che fu sostituito dal Racchia; ed
      infine morì il Genala, che sostituii io personalmente
      prendendo  l'interim dei  Lavori   Pubblici.
      
      
      Per fare fronte alle difficoltà finanziarie, che si risentivano
      specialmente per i pagamenti dovuti all'estero, escogitai due
      provvedimenti. Gli interessi del nostro Debito Pubblico all'estero
      si dovevano pagare in moneta estera o in oro. Col cambio salito al
      quindici per cento, si faceva, da Banche e privati, la
      speculazione di inviare all'estero i coupons per la riscossione,
      lucrando così quel quindici per cento a
      danno dello Stato. A mettere un argine a questa speculazione, che
      si allargava sempre più, io stabilii il sistema dell'affìdavit,
      per cui la riscossione delle cedole degli interessi all'estero non
      si poteva fare che previa dichiarazione di possesso con giuramento
      presso le autorità consolari italiane. Stabilii pure che i dazii
      doganali fossero pagati da allora in avanti in oro. Questo
      provvedimento di far pagare in oro la dogana diede luogo a
      controversie con alcune potenze estere, le quali finirono poi per
      riconoscere che il pagare la dogana con moneta scadente avrebbe
      costituito una vera diminuzione della protezione stabilita dai
      trattati. Questi due provvedimenti riuscirono perfettamente
      efficaci allo scopo, e furono poi sempre mantenuti, anche quando
      la nostra moneta si era pareggiata per un lungo periodo di anni
      con l'oro; e fu fortuna quando si consideri la condizione dei
      cambi formatasi pur troppo dopo la guerra europea.
      
      
      Ora ecco come scoppiò, e cosa fu veramente lo scandalo della Banca
      Romana.
      
      
      Bisogna anzitutto ricordare che sino a quel tempo, la vigilanza
      degli Istituti di emissione non spettava, come è avvenuto di poi
      per opera mia, ai Ministero del Tesoro, ma a quello di
      Agricoltura, Industria e Commercio. Ai tempi dell'ultimo Ministero
      Grispi, nel quale io tenevo il dicastero del Tesoro, erano corse
      delle voci e sorte delle accuse riguardo all'amministrazione della
      Banca Romana; ed il Ministro d'Agricoltura di allora, Miceli, nel
      giugno del  1889, in seguito a quelle voci aveva ordinata una
      ispezione generale degli Istituti di emissione. Per la Banca
      Romana l'incarico era stato affidato al Senatore Alvisi, il quale
      chiese la collaborazione di un funzionario del Tesoro, che gli fu
      concessa nella persona del  Comm.  Gustavo  
      Biagini.
      
      
      Siccome la cosa non era affatto di pertinenza mia, i risultati di
      quella ispezione io non li appresi che nel Consiglio dei Ministri,
      e secondo la relazione che ne dette il Ministro d'Agricoltura. È
      apparso poi che una relazione, compilata dal Biagini, facesse
      rilievi e presentasse accuse contro l'amministrazione della Banca,
      sia riguardo al suo portafoglio, viziato da molta carta di comodo
      che si rinnovava di scadenza in scadenza; sia riguardo alla
      circolazione ed un vuoto di cassa di nove milioni, coperto da
      emissione clandestina. Ma, in seguito a spiegazioni date
      personalmente dal Tanlongo al Ministro, ed a nuove ispezioni e
      studii condotti a mezzo del Commendator Monzilli, allora Direttore
      generale del credito, il Miceli fu convinto che il Biagini, per
      mancanza di pratica, fosse caduto in equivoci, tanto più che il
      Biagini stesso, dopo una seconda ispezione ordinata dal Ministro,
      aveva verificato e riferito che la Cassa era stata reintegrata; e
      la relazione che egli portò al Consiglio dei Ministri su l'esito
      dei lavori della Commissione fu complessivamente favorevole alla
      Banca Romana, e l'azione del Ministero d'Agricoltura verso la
      Banca si limitò ad alcuni provvedimenti di ordine e gestione. 
      
      Dello stesso tenore, come appare dai documenti ufficiali e dalla
      Relazione del Comitato dei Sette, furono le dichiarazioni che il
      Miceli fece poi alla Commissione parlamentare eletta per studiare
      e riferire sulla legge del 30 novembre 1889 pel riordinamento
      degli Istituti di emissione; alla quale egli presentò un sunto
      delle relazioni ricevute, in cui si tacevano le circostanze
      rilevate dal Biagini, anzi si facevano accenni lusinghieri alle
      migliorie già introdotte nell'Istituto. Nessun sospetto si poteva
      avere e mai si ebbe sulla buona fede del Miceli; e solo i fatti,
      venuti poi alla luce a mezzo della inchiesta da me ordinata,
      rivelarono il modo con cui la sua buona fede era stata sorpresa;
      fra l'altro con l'audace mascheratura del vuoto di cassa mediante
      un prestito provvisorio di dieci milioni ottenuto dalla Banca
      Nazionale. Ad ogni modo, ai Ministri colleghi del Miceli non
      competeva né il diritto né il dovere di entrare per conto proprio
      nella questione; e noi tutti accogliemmo le conclusioni del
      Ministro competente e della cosa non si parlò più. 
      
      Io, come Ministro del Tesoro, non avevo alcun diritto di ingerirmi
      nella vigilanza degli Istituti di emissione, che fu poi tolta
      all'Agricoltura e passata al Tesoro appunto con la legge che io
      stesso feci approvare nel 1893; e contrariamente alle presunzioni
      degli avversari io non conobbi la relazione particolare del
      Biagini, assorbita per me, quale membro del Gabinetto, nella
      relazione generale fatta dal Ministro Miceli.
      
      
      La  questione  della  Banca 
      Romana,   fra  la  fine del '92 e il principio
      del '93 fu portata alla Camera dal deputato Colajanni, pare, in
      base alla relazione Alvisi-Biagini, di cui egli avrebbe ricevuta
      copia dopo la morte dell'Alvisi. E cominciarono a circolare subito
      gravi voci sulle condizioni in cui la Banca si trovava,
      accennandosi sin d'allora a deficienze di cassa e ad eccedenze di
      circolazione. A questo proposito bisogna ricordare che sino allora
      le Banche d'emissione fabbricavano esse stesse i biglietti che
      emettevano, senza alcun controllo da parte del Governo; e la Banca
      Bomana che faceva fabbricare i suoi biglietti in Inghilterra ne
      poteva commissionare sin che voleva. Ed infatti si venne poi a
      scoprire che, oltre alle eccedenze di circolazione di sessanta
      milioni, essa ne aveva fatti venire altri quaranta che
      costituivano una serie duplicata; e fu fortuna che alcuni
      impiegati superiori, saputo dell' arrivo di questi biglietti, e
      spaventati delle responsabilità che potevano ricadere su di loro,
      protestarono presso i Direttori della Banca, obbligandoli a
      bruciarli. Tutto questo venne alla luce poi, per mezzo della
      inchiesta Finali, da me ordinata.
      
      
      Gli attacchi di Colajanni contro la Banca Bomana fecero molta
      impressione nel Parlamento e sulla pubblica opinione; e si propose
      una inchiesta parlamentare. Ma io, che intanto avevo cercato di
      raccogliere informazioni sulle cose, ebbi a notare che a tale
      domanda si associavano con eccessiva energia alcuni deputati che
      mi risultavano compromessi con la Banca, e rifiutai quella
      inchiesta, proponendomi di farla invece a mezzo di una Commissione
      di nomina governativa. Così, con un decreto del 30 dicembre 1892,
      nominai quella Commissione chiamandovi alla Presidenza un uomo che
      era da sé solo garanzia di serietà, di competenza, di severità
      indiscutibile, il Senatore Finali, primo Presidente della Corte
      dei Conti. La Commissione fu composta di persone il cui giudizio
      non era pregiudicato da inchieste precedenti o da uffici da esse
      coperti, e che furono scelte fra quanto di più elevato, per
      competenza, per oculatezza e per carattere, vi era nella pubblica
      amministrazione. 
      
      L'inchiesta doveva estendersi a tutti gli Istituti di emissione,
      che allora erano sei; e cioè la Banca Nazionale e la Banca Romana;
      il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia; la Banca Nazionale
      Toscana e la Banca Toscana di Credito. Furono scelti sei
      funzionari, ad ognuno dei quali fu affidata l'ispezione di una
      Banca, e di quella per la Banca Romana fu incaricato il
      Commendatore Martuscelli, segretario generale della Corte dei
      Conti. Il decreto con cui costituii la Commissione era molto
      semplice, ma diretto ad andare a fondo di tutte le varie parti che
      costituiscono una azienda bancaria: creazione, emissione e ritiro
      dei biglietti; circolazione e quantità dei biglietti di scorta;
      consistenza delle riserve metalliche; natura e entità degli
      impieghi, delle sofferenze e delle immobilizzazioni. Intervenni
      alla prima seduta della Commissione per dichiarare che ponevo a
      servizio di essa tutti i funzionari dello Stato, e tutti gli
      elementi di cui il Governo disponeva, e per pregare la Commissione
      di procedere in modo che avvenisse contemporaneamente la verifica
      di tutte le casse degli Istituti di emissione per evitare che con
      trasporti di fondi potesse coprirsi qualche vuoto di cassa.
      
      
      Nei giorni seguenti essendomi poi allontanato da Roma per recarmi
      a visitare a Cavour un mio parente ammalato, ricevetti un
      telegramma del mio collega, il Ministro di Agricoltura, Industria
      e Commercio, il quale mi comunicava il desiderio del Senatore
      Finali che fosse spedita una circolare ai Prefetti affinchè lo
      aiutassero in tutte le indagini occorrenti. Ed io risposi
      immediatamente affidando allo stesso Senatore Finali di formulare
      tale circolare nei termini che egli credesse più adatti a
      raggiungere lo scopo, ed autorizzando, nel caso vi fosse urgenza,
      il Rosano, mio sottosegretario, a firmarla in mia vece.
      
      
      Pochi giorni dopo che io aveva ordinata l'inchiesta presieduta dal
      Finali, cominciarono a correre per Roma voci di gravi disordini
      che si temeva fossero per scoprirsi alla Banca Romana; tali voci
      traevano origine da discorsi di impiegati di quella Banca, e
      vennero riferite al Ministero anche da agenti della Pubblica
      Sicurezza. Le prime indagini del Commendatore Martuscelli parevano
      riconfermare l'esistenza di quei disordini, e si ebbe pure il
      sospetto che alcuno dei responsabili potesse mettersi al sicuro
      all'estero. Allora io diedi ordine che fossero sottoposti a
      vigilanza gli amministratori tutti di quella Banca senza
      distinzione, e che in ispecie il Tanlongo, il Commendatore Cesare
      Lazzaroni e il barone Michele Lazzaroni che apparivano più
      coinvolti in quei fatti, fossero diffidati di non allontanarsi da
      Roma, che altrimenti sarebbero arrestati. Tale diffida fu fatta il
      15 gennaio '93; il Tanlongo e Cesare Lazzaroni dettero parola che
      non si sarebbero allontanati, e il Michele Lazzaroni dichiarò che
      se i suoi interessi lo avessero, come era probabile, costretto a
      partire, ne avrebbe dato avviso. 
      
      Fra i censori della Banca c'era il Duca di Ceri, che non aveva
      colpa alcuna nei fatti, e poteva solo essere considerato
      responsabile per negligenza del suo ufficio. Vedendosi vigilato,
      egli si fece accompagnare presso me da un amico, chiedendomi che
      cosa quella vigilanza significasse. — Niente altro che questo, —
      gli risposi, — che se si scopriranno magagne nella Banca Ella sarà
      immediatamente arrestato. — Ma poi conoscendolo per un perfetto
      galantuomo, lo rassicurai, senza però modificare la sorveglianza.
      
      
      Il lavoro della Commissione fu condotto avanti, avendo in
      considerazione la mole e complessità delle indagini, con
      eccezionale sollecitudine; così che il 18 di gennaio il
      Martuscelli potè stendere il suo rapporto. Il Finali mi annunciò
      che la sera stessa me l'avrebbe portato, insieme col Martuscelli,
      preavvertendomi che constatava dei fatti gravissimi. Io allora
      avvisai il Bonacci, Ministro di Grazia e Giustizia, di trovarsi
      egli pure a Palazzo Braschi per la venuta del Finali. Il Bonacci
      giunse al mio ufficio, verso le nove di sera, accompagnato dal
      senatore Bartoli, procuratore generale presso la Corte di Appello
      di Roma, dichiarandomi di averlo condotto per esaminare la
      questione se il Tanlongo, essendo stato nominato Senatore ma non
      ancora convalidato, potesse essere soggetto alla giurisdizione
      ordinaria dei Tribunali o dovesse essere mandato davanti al
      Senato. 
      
      Il Senatore Bartoli, entrando poi nella mia stanza — e ricordo
      questi particolari perchè intorno a quel convegno fu architettato
      poi un vero romanzo — mi disse che essendo egli un po' indisposto
      di salute, aveva creduto conveniente di condurre seco il giudice
      istruttore ed il sostituto procuratore del Re e li aveva lasciati
      nella prima camera del mio ufficio. Io non avevo a questo nulla da
      obbiettare, ma quei funzionari non furono da me visti in alcun
      modo. Finali, arrivando poi col Martuscelli, mi consegnò il
      rapporto, ed io dopo averne data lettura lo consegnai al Bonacci,
      accompagnandolo con una lettera affinchè rimanesse traccia
      ufficiale della sua provenienza; ed il Bonacci alla sua volta lo
      consegnò al Procuratore generale, che lo ricevette, dichiarando
      che si ritirava coi funzionari che aveva condotti seco, per
      deliberare sul da farsi. Poi io mi allontanai dal Ministero perchè
      era già ora tarda. 
      
      L'indomani mattina si tenevano al Pantheon le esequie in memoria
      di Vittorio Emanuele (19 marzo), e fu colà, mentre io vi
      assistevo, che il mio sottosegretario, il deputato Rosano, mi
      informò che l'autorità giudiziaria aveva nella mattinata presto
      spedito mandato di cattura contro il Tanlongo e Cesare Lazzaroni,
      ordinando nello stesso tempo alla Pubblica Sicurezza di procedere
      alle perquisizioni.
      
      
      Pur troppo la relazione della Commissione confermava i peggiori
      sospetti, precisando le accuse, sia riguardo alle eccedenze, ed
      alle irregolarità della circolazione ed ai vuoti di cassa, sia
      alle pessime condizioni del portafoglio, dove giaceva una ingente
      mole di cambiali in sofferenza. La inchiesta era stata condotta
      con tanta oculatezza e diligenza, che in tutte le indagini
      successive, comprese quelle ordinate dalla autorità giudiziaria
      pel processo penale contro Tanlongo e i suoi complici, non fu
      accertata una sola irregolarità che dalla inchiesta non fosse già
      stata rivelata. Credo che di rado una indagine ordinata su una
      materia così vasta e complessa sia riuscita ad andare a fondo con
      tanta sollecitudine e così pienamente.
      
      
      Quando venne così a mia notizia l'esistenza di una circolazione
      clandestina di circa settanta milioni, e l'altro fatto enorme che
      con una ordinazione mandata a Londra si erano potuti fare spedire
      a Roma, come se si trattasse di un barile di birra, quaranta
      milioni di altri biglietti all'insaputa di tutti, due timori
      gravissimi sorsero in me: il primo che un panico disastroso si
      spandesse in Italia per tutti i biglietti di Banca, unica nostra
      moneta, vigendo allora il corso forzoso, col pericolo di un
      turbamento incalcolabile di tutta la vita economica del nostro
      paese; il secondo, che potesse esservi una circolazione
      clandestina ancora maggiore di quella accertata, e che altre
      spedizioni di biglietti da Londra, oltre quella scoperta, avessero
      forse avuto luogo. 
      
      Al primo di questi pericoli altro rimedio non v'era all'infuori di
      quello che pochi giorni dopo adottai, facendolo poi approvare dal
      Parlamento, di dichiarare cioè che, trattandosi di biglietti a
      corso legale, se ne rendeva garante lo Stato. Ma prima di fare
      tale dichiarazione mi premeva di avere, la certezza, per quanto
      era possibile averla, che il male non fosse più grave di quello
      che dalle indagini compiute dal Martuscelli era risultato. Mi
      preoccupavo pure del pericolo che qualche creazione clandestina di
      biglietti potesse venire trafugata. Perciò incaricai il
      sottosegretario di Stato e la Direzione generale di Pubblica
      Sicurezza di informarmi immediatamente di tutto quanto venisse a
      sapersi intorno alla Banca Romana, sia pei risultati delle
      perquisizioni, sia per altre informazioni di qualunque genere; e
      così pervennero alle mie mani copie di alcuni documenti
      sequestrati in casa Lazzaroni ed elenchi di documenti sequestrati
      in casa Tanlongo e alla sede della Banca Romana. Tanto gli elenchi
      quanto le copie si riferivano esclusivamente a documenti trasmessi
      alla autorità giudiziaria. Ma, come vedremo appresso, queste mie
      disposizioni, che entravano nell'orbita dei miei doveri di
      governo, dettero poi luogo ad una campagna di persecuzione e
      diffamazione contro di me.
      
      
      Le  risultanze  delle   indagini 
      condotte  presso   le altre Banche di emissioni,
      riuscirono assai meno gravi, e in ogni modo non rivestirono
      l'aspetto cosi criminoso di quelle uscite dalla indagine sulla
      Banca Romana. Per il Banco di Napoli, dalla relazione risultò che
      era ridotto senza capitale, ed anzi con venti milioni di passivo.
      Non c'erano disordini nella circolazione; ma il suo portafoglio
      era gravato di una mole stupefacente di cambiali di nessun valore.
      Il metodo che era stato seguito nel Banco di Napoli per fare delle
      generosità a spese del Banco, consisteva nello scontare cambiali
      firmate da nullatenenti, che poi venivano messe fra le
      inesigibili.
      
      
      Di fronte alla scoperta di queste gravissime condizioni di cose,
      che gettava tanta ombra di discredito sulla nostra moneta, io
      pensai che il primo dovere che s'imponeva al governo era di fare
      casa nuova, procedendo ad un riordinamento totale degli Istituti
      di emissioni, con provvedimenti tali che dessero la massima
      possibile garanzia al credito ed al biglietto di Banca. Ebbi
      consenzienti i miei colleghi, e presentai al più presto a tale
      scopo un progetto di legge al Parlamento. Questo progetto
      conteneva i seguenti punti principali: 1.° Soppressione della
      Banca Romana, della Banca Nazionale Toscana e della Banca Toscana
      di Credito, perchè l'esistenza di sei Banche, con sei specie di
      biglietti a corso legale, creava grandi complicazioni ed aumentava
      le difficoltà di vigilanza da parte del governo; lasciando
      sussistere solo la Banca Nazionale, trasformata in Banca d'Italia,
      il Banco di Napoli e quello di Sicilia che avevano antiche
      tradizioni; 2.° stabilire che non si potessero fare emissioni di
      biglietti
senza il controllo dello Stato, così che d'allora
      ogni
biglietto porta il timbro dello Stato, impresso
      dalle
Officine cartevalori, rendendosi così impossibile qualunque
      emissione clandestina; 3.° si proibì in modo
assoluto che
      potessero fare parte delle amministrazioni e direzioni degli
      Istituti di emissione deputati
e senatori, che sino a quel tempo
      vi partecipavano in
grande numero, disposizione questa che ferendo
      interessi mi attirò vivi risentimenti ed odii che si sfogarono
      nelle campagne di poi. 
      
      La legge inoltre comprendeva disposizioni severissime per
      ristabilire il
credito del Banco di Napoli, molto scosso, e
      per
smobilizzare la Banca d'Italia; talmente severe, che
quando
      cominciarono a ristabilirsi condizioni più
normali, furono
      attenuate. 
      
      Così grave era stato il
pericolo corso dal credito nazionale, e
      così evidente
la necessità di rimedi immediati e radicali, che
      quella
legge fu approvata quasi senza discussione non
ostante gli
      interessi che feriva. Ed essa può considerarsi il risultato
      benefico del grave scandalo, perchè mi dette modo di creare, per
      il funzionamento
delle Banche di emissione, e per la
      circolazione
monetaria, un sistema sicuro ed efficace, che
      vige
tuttora, e per forza del quale i gravi, criminosi
      in
convenienti per quegli scandali venuti in luce, non
si sono mai
      più ripetuti.    
      
      
      La relazione della Commissione d'inchiesta, e le
voci che
      correvano  sui risultati delle perquisizioni
      e delle istruttorie processuali contro Tanlongo, Lazzaroni e i
      loro complici, e di responsabilità e colpevolezze di uomini
      politici, avevano intanto creato una grande agitazione nella
      opinione pubblica, nella stampa e nel Parlamento. Così in una
      seduta della Camera fu presentata la proposta di nominare un
      Comitato col preciso incarico di accertare le responsabilità
      politiche e di riferirne. Io, che mi ero opposto ad una inchiesta
      politica che precedesse quella amministrativa, perchè avevo
      ragione di temere che l'inchiesta politica prematura potesse
      essere strumento di salvataggio, e perchè mi premeva di stabilire
      avanti tutto quale fosse la reale condizione degli Istituti di
      emissione, e di provvedere ai rimedi; quando l'indagine
      amministrativa fu compiuta non avevo più ragione di oppormi a che
      fossero ricercate e constatate le eventuali responsabilità di
      uomini politici. 
      
      La Camera affidò al suo Presidente, che era allora lo Zanardelli,
      l'incarico di nominare questa Commissione, che prese poi il nome
      di Comitato dei Sette, e che fu nominata il 21 marzo, e risultò
      composta di Mordini, presidente e relatore, di Alessandro
      Paternostro, segretario, di Cesare Fani, altro segretario, e di
      Giovanni Bovio, Antonio Pellegrini, Eduardo Sineo  e Suardi
      Gianforte.
      
      
      Il secondo importante avvenimento di quell'anno fu l'agitazione
      proletaria, che si manifestò particolarmente con la costituzione
      dei Fasci dei lavoratori in Sicilia, e con la loro lotta pel
      miglioramento dei patti agrari e dei salari.
      
      
      Un certo movimento nelle classi popolari, e specialmente fra
      quelle operaie delle città, si era già iniziato in Italia da non
      pochi anni. Nella sua prima fase, e col favore degli elementi
      democratici, esso si era affermato con la creazione delle società
      operaie di mutuo soccorso, aliene la maggior parte dalla politica,
      ed anche nelle campagne, con la costituzione di cooperative di
      lavoro, per le quali, come Ministro del Tesoro nel Gabinetto
      Crispi, io avevo già preso disposizioni perchè certi lavori
      pubblici potessero essere affidati loro direttamente. Ma lo
      spirito e le dottrine socialiste, che avevano già avuti grandi
      movimenti di organizzazione ed episodi di lotta all'estero, specie
      in Germania ,ed in Francia, cominciavano a filtrare anche in
      Italia; e già nel 1874 c'era stata a Milano la costituzione della
      prima Camera del Lavoro, con intendimenti di lotta anche politica,
      che avevano molto allarmato i conservatori lombardi ed il governo;
      tanto che era stata sciolta e i suoi capi, tutti operai,
      processati. È da notarsi che anche i democratici milanesi non
      mostrarono alcuna simpatia per quel movimento, ed anzi
      l'avversarono. 
      
      Poi ci furono le agitazioni e la propaganda nella Romagna da parte
      di Andrea Costa, che per alcuni anni fu il solo deputato
      socialista alla Camera, ed il cui socialismo era di carattere
      rivoluzionario, e si mescolava col repubblicanesimo. In generale,
      in quelle primissime agitazioni il socialismo si confondeva assai
      con l'anarchismo che aveva per capi il Gori e il Cipriani, ed
      anche, specie in Romagna, col garibaldismo; era un movimento assai
      confuso, con tendenze di congiura e complotto e velleità
      insurrezionali, che attirava gli spiriti disordinati e ribelli, ma
      non si spandeva molto nelle masse operaie. 
      
      Un chiarimento nel senso socialista, e secondo le idee marxiste di
      progressiva educazione ed organizzazione dei lavoratori, si era
      avuto più tardi, dopo l'85 con la propaganda condotta da
      Prampolini ed Agnini nelle provincie di Reggio e di Modena, da
      Badaloni nel Polesine, e poi dal Berenini a Parma, da Enrico Ferri
      nel Mantovano, e da Bissolati nel Cremonese. 
      
      A Milano, con la pubblicazione della Critica Sociale da parte del
      Turati, mi pare verso il '90, si era formato un centro di cultura
      e di rigida dottrina marxista, che esercitava una notevole
      influenza sulla gioventù universitaria dell'Italia settentrionale,
      e che raccolse presto collaboratori a Bologna, a Genova ed a
      Torino, molti dei quali, come il Treves, lo Zerboglio, il Canepa
      ebbero poi notevole parte nel movimento politico socialista.
      Nell'agosto del 1892 era stato tenuto un Congresso a Genova, nel
      quale le due tendenze, quella anarchico-rivoluzionaria e quella
      socialista organizzatrice si erano trovate di fronte, e che si era
      concluso con la rottura; i socialisti, facenti capo a Turati e
      Prampolini e con l'adesione della maggioranza degli intellettuali
      e di parte delle organizzazioni operaie, quale la Camera del
      Lavoro di Milano, costituirono
      il Partito socialista italiano, che con varie vicende si è
      mantenuto sino ad ora, mentre i rivoluzionari andarono scemando di
      numero e d'influenza.
      
      
      Nella Sicilia il movimento operaio aveva avuta la sua origine a
      Catania, per opera di De Felice Giuffrida. Questi non possedeva
      molta cultura, e la sua indole era piuttosto di un agitatore
      popolano. Aveva cominciato col condurre una violenta lotta contro
      il municipio conservatore, muovendo accuse contro i suoi capi; e
      costoro, per vendetta e per liberarsi di lui l'avevano involto] in
      un processo ed erano riusciti a farlo condannara Si trattava di
      questo: il De Felice avrebbe dovuto testimoniare in un processo
      contro un suo amico, e se ne sottrasse presentando un certificato
      medico di malattia. I suoi nemici l'accusarono di falso
      intenzionale, per essersi giovato di quel certificato pure sapendo
      di non essere malato, e il Tribunale lo condannò a tredici mesi di
      reclusione. La condanna che parve ingiusta, suscitò una forte
      reazione nell'opinione pubblica; il De Felice diventò
      popolarissimo presso le masse e portato deputato nelle elezioni
      del '92, non ostante gli sforzi dei suoi avversari, fu eletto con
      una grande maggioranza. Per sfuggire alla condanna egli si era
      rifugiato a Malta, e dopo la sua elezione io lo feci avvertire che
      poteva ritornare sicuramente. Il suo ritorno fu veramente
      trionfale; per dare una idea della popolarità che si era
      conquistata, ricordo che durante le elezioni erano stati eretti
      molti altarini, sui quali davanti al suo ritratto bruciavano le
      candele, come davanti ai santi. 
      
      Io conobbi poi il De Felice come deputato, e la mia impressione di
      lui è sempre stata che fosse un uomo di buonafede, un galantuomo
      che ha sempre vissuto modestamente; un po' imaginoso ma
      fondamentalmente buono. Ricordo un curioso episodio della sua
      vita, che mi narrò egli stesso, e che mostra tutto il suo
      carattere. C'era il colera in un grosso comune della provincia di
      Catania, e la sua diffusione era attribuita specialmente
      all'infezione di un acquedotto, che apparteneva a un ricco barone.
      Il municipio aveva intimato al barone di interrompere
      l'acquedotto, ma costui si rifiutava negando l'infezione e
      minacciando di chiedere al municipio milioni di danni se
      l'interruzione avesse avuto luogo. Allora De Felice, insieme con
      alcuni amici, si recò nella campagna ad un punto dove l'acquedotto
      passava, e lo fracassò, per assumersene la responsabilità
      personalmente e non involvere il municipio in una lite costosa,
      dicendo: — E adesso il barone venga a chiedere a me i milioni pei
      danni subiti. — Egli era odiatissimo da Crispi, che aveva sempre
      attaccato.
      
      
      L'agitazione dei contadini, che condusse alla costituzione dei
      Fasci dei lavoratori, scoppiò nella primavera del '93 per dispute
      di salari, e si estese per tutta la Sicilia, ed ebbe dei capi
      energici, venuti dalla borghesia, come il Garibaldi Bosco, che era
      un impiegato privato, il Barbato medico, Bernardino Verro e molti
      altri. Io mi resi subito conto che si trattava di un movimento
      economico, pienamente giustificato dalle penosissime condizioni in
      cui si trovavano i contadini ed i minatori, come fu allora
      ampiamente dimostrato da inchieste condotte da giornali
      autorevoli, quali la Tribuna e il Corriere della, Sera, le cui
      rivelazioni sulle miserrime condizioni in cui si trovavano i
      lavoratori siciliani, e sull'atroce abuso che si faceva del lavoro
      dei fanciulli nelle miniere produssero una viva impressione sulla
      pubblica opinione. 
      
      Ricorderò anche che molti anni avanti il Sonnino insieme col
      Franchetti avevano compiuta una inchiesta e compilato uno studio
      sulle condizioni della Sicilia, rilevando le miserabili condizioni
      fatte alle classi lavoratrici e gli abusi dei proprietari; e
      venendo alla conclusione pessimistica che i rimedi ordinari non
      sarebbero mai riusciti efficaci, e quello stato di cose non
      avrebbe potuto essere mutato che con una rivoluzione. Non ostante
      però queste sue considerazioni di studioso, il Sonnino si trovò
      poi a far parte del Ministero Crispi, che reagì violentemente
      contro il primo tentativo di quelle classi lavoratrici di ottenere
      miglioramenti alle loro condizioni di lavoro e di vita. 
      
      Io, senza lasciarmi troppo impressionare, avevo dato ai prefetti
      istruzioni corrispondenti alla realtà della situazione; disponendo
      cioè perchè mantenessero l'ordine pubblico ed impedissero in
      qualunque modo l'uso della violenza; ma lasciassero però d'altra
      parte che i contadini e i minatori potessero ottenere patti
      migliori e cercassero anche di persuadere i proprietari a venire a
      risoluzioni conciliative.
      
      La situazione certo presentava in alcuni punti difficoltà gravi e
      qualche pericolo di disordini locali; ma, a mio avviso e secondo
      le informazioni che ricevevo dalle autorità, tutte le voci che si
      facevano correre di pericoli rivoluzionari e di minaccie alla
      unità nazionale, erano senza fondamento. Quel movimento, in
      conclusione, era molto meno grave di altri venuti dopo; ma quello
      era il primo, e le classi ricche, non ancora abituate a questo
      genere di lotte, scambiavano le agitazioni economiche addirittura
      con la rivoluzione sociale;. Io sin d'allora ero convinto che
      fosse da aspettarsi che le masse dei lavoratori non si adattassero
      a tirare avanti con condizioni di salari insufficienti non solo a
      vivere decentemente, ma anche a sfamarsi. Una cieca repressione
      delle loro legittime agitazioni intese a migliorare la propria
      sorte, non avrebbe a mio avviso risolta, ma solo rinviata la
      questione, esacerbandola, e facendo nascere davvero il pericolo
      rivoluzionario. Perciò il mio indirizzo politico era di lasciare
      che queste lotte economiche si risolvessero di per sé col
      miglioramento delle condizioni dei lavoratori, riducendo l'azione
      del governo al mantenimento dell'ordine e ad un'opera di
      persuasione per mettere d'accordo le parti. Ed avevo ragione di
      ritenere che, a parte i proprietari direttamente interessati, ed i
      conservatori reazionari, l'opinione pubblica fosse pure di questo
      avviso. 
      
      Anche nel Parlamento gli avvenimenti di Sicilia erano considerati
      sotto questo aspetto e non vi avevano destata molta impressione;
      ed anzi vi si ascoltavano con molta attenzione ed una certa
      benevolenza i discorsi con cui i deputati socialisti, Prampolini e
      Badaloni, esponevano la situazione.
      
      
      Solo la Pubblica Sicurezza, abituata alle idee antiche ed agli
      antichi metodi, si mostrava preoccupata, e mi chiedeva di
      provvedere con un decreto di scioglimento dei Fasci, che mi fu
      proposto in effetto dall'allora Direttore della Pubblica
      Sicurezza, Comm. Ramognini, al quale io lo rifiutai, mandandolo
      poi prefetto, Il Ramognini, quando fu al governo Crispi, temendo
      di essere ritenuto egli pure responsabile per il non avvenuto
      scioglimento, si recò da Crispi a ricordare che egli l'aveva
      proposto, e che quindi su lui non pesava nessuna responsabilità.
      Ed infatti la responsabilità era tutta mia, ed intendevo che fosse
      mia, in quanto rappresentava, non una negligenza, ma una nuova
      veduta di governo. 
      
      Ricordo ancora che venne da me una rappresentanza di grossi
      proprietari agricoli delle Provincie di Palermo, Trapani e
      Caltanissetta a reclamare provvedimenti energici, e sopratutto lo
      scioglimento dei Fasci; — essi mostravano di riconoscere che le
      condizioni dei lavoratori dovevano essere migliorate, ma
      insistevano di non poterlo o volerlo fare finché i Fasci fossero
      in esistenza, per non parere di avere ceduto alle loro
      intimidazioni. Ma io dubitavo assai di queste buone intenzioni; ed
      infatti quando tornai al governo nel 1901 volli verificare quali
      concessioni fossero state date dopo lo scioglimento dei Fasci
      fatto dal Crispi; e dovetti constatare che in molti luoghi le
      condizioni dei salari, invece che migliorate, erano state anche
      peggiorate. Ricordo anche che dopo lo scioglimento, si raccolse a
      Caltagirone un congresso di grossi proprietari, il quale ebbe il
      coraggio di proporre, per tutta riforma, l'abolizione della
      istruzione elementare, perchè i contadini ed i minatori non
      potessero, leggendo, assorbire delle idee nuove,
      
      
      Il punto di vista e la condotta del governo mutarono poi quando
      io, per altre ragioni, mi dimisi. Allora gli elementi
      conservatori, che avevano cominciato a stringersi intorno a Crispi
      come al loro uomo, levarono grandi reclami perchè non si era fatta
      una politica di repressione; e Crispi e il suo contorno, per
      stornare anche l'attenzione pubblica dalle questioni morali e
      politiche sollevate dallo scandalo della Banca Romana, avevano
      ogni interesse a ingrossare il pericolo, per acquistare la
      benemerenza di salvatori dell'ordine pubblico  e delle
      istituzioni.
      
      
      Nell'attesa della presentazione della relazione del Comitato dei
      Sette sulle responsabilità politiche della Banca Romana, la
      situazione parlamentare si manteneva nervosa. La lotta contro il
      Ministero veniva sempre sopratutto dalla Destra, con Bonghi come
      suo oratore principale; ma anche con l'adesione, che rappresentava
      uno strano connubio, degli elementi di estrema Sinistra, quali il
      Cavallotti e l'Imbriani, che del resto in quei tempi erano sempre
      contro  qualunque  governo,  ed  infatti
      dopo  le  mie dimissioni si schierarono anche contro
      Crispi. A questa curiosa politica di ostilità contro qualunque
      governo, senza nessuna distinzione delle sue tendenze,
      partecipavano anche i socialisti, i quali non avevano capito
      allora la mia politica riguardo le classi lavoratrici, e si
      accanivano contro di me, come avrebbero fatto contro qualunque
      altro. 
      
      L'avvento del governo di Crispi, con la sua politica verso i Fasci
      siciliani, e in seguito e per parecchi anni quella dei varii
      governi Rudinì e Pelloux, a tendenze e con azione reazionaria di
      cui i socialisti dovevano specialmente soffrire, e come partito e
      come persone, li condusse poi a rendersi conto della differenza
      che ci può essere fra governo e governo, sopratutto dal punto di
      vista degli interessi delle classi lavoratrici.
      
      
      La relazione del Comitato dei Sette fu presentata alla Camera il
      23 novembre del '93. Dopo la sua presentazione, siccome la
      conclusione conteneva accuse a mio riguardo per la nomina di
      Tanlongo a senatore, ed apprezzamenti e interpretazioni di altri
      miei atti e parole, che non potevo accettare, io dichiarai che
      davo subito le dimissioni, non volendo, se occorreva, difendermi
      dal banco di Ministro, ma da quello di semplice deputato.
      
      
      Sull'opera di quel Comitato e sulle conclusioni a cui giunse,
      bisogna dire la verità. E la verità è che il Comitato dei Sette
      non si mostrò né abile né volonteroso a condurre a fondo la
      missione che gli era stata affidata, di constatare cioè le
      responsabilità politiche connesse con gli scandali della Banca
      Romana, né franco ed imparziale nei giudizii che' credette di
      potere esprimere. Per la prima parte basti osservare che, mentre
      la Commissione da me nominata, in meno di due mesi aveva condotto
      a fondo una indagine ponderosa su l'intera situazione delle Banche
      di emissione, giungendo alla scoperta di fatti gravissimi; il
      Comitato dei Sette con più di sei mesi di lavoro non riuscì ad
      aggiungere neppure un fatto nuovo a quelli già constatati. Né
      basta: la poca voglia di andare a fondo fu provata anche da un
      episodio assai significante.
      
      Achille Fazzari aveva ricevuto, il 16 maggio di quell'anno, dal
      figlio di Tanlongo carte di tale gravità da indurlo a portarle al
      deputato Mordini, presidente del Comitato, e ad incitarlo a
      riunire gli uomini politici principali di tutti i partiti, per
      evitare uno scandalo che oltre ad oscurare tanti anni di
      patriottismo di qualche alto uomo politico, sarebbe stato di danno
      grave al paese. Il Mordini si prese ventiquattro ore a riflettere;
      ma l'indomani, quando il Fazzari lo rivide, gli si mostrò molto
      preoccupato, e finì per dichiarare che non si sentiva di fare ciò
      che gli era stato consigliato. Il Fazzari, come ne fece poi egli
      stesso narrazione non mai smentita, quantunque non autorizzato,
      giunse al punto di dichiarargli che si sarebbe assunta la
      responsabilità   di   lasciare  
      presso   di   lui  
      quelle   carte; ma il Mordini non le volle, rispondendo
      che esse stavano bene nelle mani di un patriota quale egli era. Ed
      il Fazzari, vedendosele respinte, le restituì lo stesso giorno a
      chi glie le aveva date; e questo episodio fu ammesso come vero
      dallo stesso Mordini alla Camera dei Deputati, quando nel dicembre
      1894 si discusse sulla presentazione da me fatta di documenti
      relativi alla Banca Romana. 
      
      Della esistenza di altri gruppi di documenti importanti, che il
      Tanlongo e gli altri imputati erano riusciti a sottrarre alle
      perquisizioni, si parlava ovunque e si accennava sui giornali;
      alcuni furono poi usati dalla difesa nel processo Tanlongo ; altri
      contenenti lettere di numerosissimi uomini politici, furono più
      tardi pubblicati, in un volume di 193 pagine dal figlio del
      Tanlongo, ma non risulta che il Comitato dei Sette abbia mai
      cercato di porre sovra essi le mani. 
      
      Per quanto riguarda i giudizi, io non intendo di disseppellire ciò
      che allora fu sepolto, e mi limito alle cose che mi riguardavano
      personalmente. Le accuse che mi furono fatte erano quattro: che io
      avessi conosciuto, a mezzo della inchiesta Alvisi-Biagini, le vere
      condizioni della Banca Romana quando ero stato Ministro del Tesoro
      nel Gabinetto Crispi, e le avessi dissimulate; che avessi
      contratto con la Banca Romana un prestito di sessantamila lire;
      che avessi preso dalla stessa Banca altre quarantamila lire per le
      elezioni, e che infine, per premio di questa prestazione avessi
      nominato il Tanlongo senatore.
      
      Ora, per la prima accusa, ho già detto e dimostrato che la
      vigilanza delle Banche di emissione non spettava in quel tempo al
      Ministero del Tesoro, e che dei risultati della ispezione
      Alvisi-Biagini io non avevo altro saputo che ciò che il Ministro
      competente, il Miceli, ne aveva riferito al Consiglio dei
      Ministri, attenuando, anzi quasi smentendo, ingannato ed in buona
      fede, la relazione che quei due ne avevano fatta.
      
      
      Per la seconda accusa, ecco come le cose erano andate. Quando
      nell'agosto del 1892 erano state tenute a Genova le feste pel
      centenario della scoperta dell'America, che avevano dato occasione
      ad un miglioramento delle relazioni fra l'Italia e la Francia, io
      credetti opportuno di fare una azione nella stampa estera, perchè
      questo benefico mutamento fosse ben messo in rilievo. Siccome i
      fondi messi a disposizione del governo per le spese segrete non
      possono spendersi che a un dodicesimo per mese, e la somma che si
      trovava in cassa non era sufficiente, io chiamai il Comm. Cantoni,
      Direttore generale del Tesoro, e gli dissi che mi occorreva una
      anticipazione di sessanta mila lire, che sarebbe stata rimborsata
      entro sei mesi. Siccome il Tesoro non fa anticipazioni, così la
      somma doveva essere presa a prestito presso una Banca, ed il
      Cantoni si rivolse alla Banca Romana, rilasciando regolare
      ricevuta. Il prestito era stato chiesto non da me, ma dal
      Direttore generale del Tesoro, a cui io non avevo nullamente
      indicato a chi rivolgersi. La somma fu restituita entro sei mesi,
      coi suoi interessi, e della restituzione io ottenni regolare
      ricevuta, che potei esibire al Comitato dei Sette, che riconobbe
      del resto  la  regolarità della operazione. Se la 
      Banca Romana non avesse fatto che negozi come quello, vivrebbe
      ancora, ed in floride condizioni. 
      
      La voce sparsa che io avessi poi avuto quarantamila lire
      dalla  Banca Romana  per le elezioni,  era una
      assoluta invenzione, senza la menoma base di una qualunque
      testimonianza o documento. La diceria fu sparsa prima da uno degli
      imputati che ne parlò a parecchie persone  ma poi 
      si  disdisse;  fu  ripetuta poi da un altro
      imputato. Si era cercato con molta abilità di creare degli indizii
      indiretti; il  Comitato dei Sette concluse con un giudizio di
      «non provato» arzigogolando   intorno  
      ad  una  lettera  mia  trovata presso 
      il   Tanlongo,  la  quale 
      invece   si  riferiva   a tutt'altra
      cosa. Dopo la morte dell'Ellena, mio collega alle Finanze, molti
      elettori avevano offerto  al fratello di lui, colonnello
      Ellena, la, candidatura. Egli mi aveva chiesto il mio parere sulla
      convenienza di accettare, ed io l'avevo consigliato di accertarsi
      prima se non sarebbe stato combattuto da coloro che nel collegio
      avevano maggiore influenza, fra i quali era il Tanlongo. Egli ebbe
      da questi assicurazioni e fu eletto a scrutinio di lista.  Un
      mese dopo, essendo stata sciolta la Camera egli si ripresentò al
      collegio uninominale di Frosinone; ed avendo notizia che egli
      fosse combattuto dagli agenti della Banca, io probabilmente avevo
      scritto in proposito  rammaricandomene col Tanlongo. Dico
      probabilmente perchè, come dichiarai al Comitato, non avevo della
      cosa sicura memoria. Ad ogni modo contro cotale presunzione che io
      avessi preso dalla Banca Romana quarantamila lire per le elezioni,
      stava un altro fatto ben preciso; e che cioè quando abbandonai il
      Ministero, oltre lasciare disponibili le rate mensili dei fondi
      non scaduti, ascendenti a 500 mila lire, lasciai in cassa altre
      123 mila lire, delle quali avevo la libera disposizione. Se dunque
      mi fossero occorse per un pubblico servizio quarantamila lire nel
      novembre del 1892, le avrei prese a prestito come le prime
      sessantamila e poi le avrei restituite.
      
      
      Infine, per quanto concerne la nomina di Tanlongo a Senatore, per
      la quale insistevano particolarmente le accuse e che fu deplorata
      dal Comitato dei Sette, era assai facile, dopo la rivelazione
      degli scandali della Banca, affermare che la nomina non doveva
      farsi; ma per dare un equo giudizio bisognava riferirsi al momento
      in cui era avvenuta. Al Consiglio dei Ministri era stato
      presentato un lunghissimo elenco di candidati alla dignità
      senatoriale; e la nomina di Tanlongo fu come tutte le altre
      approvata all'unanimità, in quanto egli, governatore della Banca
      Romana, presidente della Camera di Commercio e della Commissione
      provinciale delle imposte, e ricco di censo, era uno dei
      personaggi più importanti di Roma, e la stima che in Roma si aveva
      di lui era tale, che Guido Baccelli, conoscitore esatto delle cose
      e delle persone della città, non aveva esitato, anche dopo 
      le accuse mosse dal  Colajanni,  a dichiarare, nella
      seduta della Camera del 20 dicembre '92, che lo riteneva uomo
      operoso, benefico, e pieno di onore. 
      
      Che l'opera del Comitato dei Sette non fosse andata a fondo, e
      fosse monca e parziale, arrestandosi davanti a responsabilità di
      ben altra gravità, fu dimostrato dal fatto che l'opinione pubblica
      non se ne mostrò soddisfatta, e la campagna morale per gli
      scandali della Banca Romana e la complicità di uomini politici,
      continuò per lungo tempo ancora.
       
L'incarico a Zanardelli e il suo fallimento — Crispi inizia
        l'azione reazionaria e dittatoriale — Minacce contro me perchè
        ero passato all'opposizione — Le scandalose assoluzioni .nel
        processo della Banca Romana — Come nacque l'accusa di
        sottrazione di documenti e con quali scopi — Pressioni sulla
        Magistratura e irregolarità processuali — Perchè e come
        presentai il plico — La relazione della Commissione dei cinque e
        un voto sfavorevole al governo — La proroga della Camera ed un
        mandato di comparizione — Tentata violazione delle prerogative
        statutarie annullata dalla Cassazione — Le elezioni — Come fu
        sepolta la questione morale.
      
      
      Come ho già detto, dopo la relazione del Gomitato dei Sette,
      presentata alla Camera nel novembre del '93, io detti le
      dimissioni, non volendo, ove occorresse, difendere il mio operato
      dal Banco dei Ministri, ma come semplice deputato; ritenendo che
      un'ampia discussione si sarebbe aperta sulle conclusioni del
      Comitato dei Sette, che alcune cose dicevano, ma più ne lasciavano
      intravedere. Ciò poi non avvenne, ed è stato uno dei fatti più
      strani di tutta quella faccenda, che un documento, che alla sua
      presentazione aveva sollevato tanta tempesta ed eccitate tante
      passioni, fosse  poi, dopo  la crisi, messo  
      a dormire.
      
      
      Avvenuta la crisi, il Re chiamò anzitutto, per designazione degli
      uomini più autorevoli, lo Zanardelli, dandogli l'incarico, che
      egli accettò, di formare il nuovo Ministero. Devo ricordare che
      già alcuni mesi
      avanti, prevedendo che gli scandali della Banca, con
      l'inquietudine che ne era derivata nel mondo politico e
      parlamentare, uniti al movimento dei fasci e alle difficoltà
      finanziarie, avrebbero prima o dopo condotto ad una crisi, io
      avevo pensato che, considerata la composizione della Camera, dove
      la Sinistra aveva una notevole maggioranza, lo Zanardelli fosse
      l'uomo meglio indicato per risolverla. E glie ne avevo già parlato
      perchè si preparasse, e siccome sapevo che fra lui e il Re c'era
      una certa freddezza, avevo procurato di ravvicinarli, pregando il
      Re di parlargli in una occasione che si era presentata all'estate,
      cioè la inaugurazione di un monumento sul campo di battaglia di
      San Martino. Lo Zanardelli, nel cui collegio aveva luogo la
      cerimonia, vi prese naturalmente parte, ed il Re lo aveva chiamato
      a sé ed erano rimasti insieme in una lunga conversazione appunto
      sulla terrazza del monumento.
      
      
      Dopo avuto l'incarico lo Zanardelli, nelle sue conversazioni col
      Re per la composizione del nuovo Ministero, gli aveva proposti pel
      dicastero degli esteri tre nomi, e cioè il generale Dal Verme, il
      generale Morselli e il generale Baratieri; il Re gli aveva
      risposto, che pei due primi nulla c'era a ridire, ma che pel terzo
      c'era da pensarci. Ma Zanardelli si ostinò appunto sul nome di
      Baratieri, che il Re non potè accettare, avendo ricevute,
      dall'estero informazioni che l'avvento del Baratieri, irredento,
      alla Consulta avrebbe create delle difficoltà internazionali;
      Zanardelli allora finì per rinunciare all'incarico.
      
      Allora il Re si rivolse a Crispi, che formò il Ministero,
      chiamando Blanc agli Esteri, Sonnino al Tesoro con l'interim delle
      Finanze, Mocenni alla Guerra, Morin alla Marina, Saracco ai Lavori
      Pubblici, Baccelli alla Istruzione e Boselli all'Agricoltura.
      Erano degli uomini del Centro e dei tecnici senza chiara
      distinzione di partito, ciò che dette modo a Crispi di assumere
      subito un atteggiamento reazionario e dittatoriale.
      Egli infatti si presentò con parole magniloquenti, come se si
      trattasse di salvare l'unità nazionale, mettendo in primissima
      linea la questione dei Fasci siciliani, ed esagerandone le
      minaccie e i pericoli, per potere fare scomparire dietro di essa
      tutte le altre questioni e specie la questione morale, sollevata
      dalle conclusioni del Comitato dei Sette. Chiamò subito sotto le
      armi una classe; mandò cinquantamila uomini in Sicilia; vi stabilì
      lo stato d'assedio, sciogliendo i Fasci e insediandovi i Tribunali
      militari, che condannarono il De Felice, il Barbato, il Verro, il
      Bosco e gli altri capi dell'agitazione a pene mostruose. 
      
      Quando io, che nei primi momenti non avevo fatto alcun cenno di
      opposizione al Ministero, vidi tutto questo, mi avvicinai
      all'opposizione, intervenendo a riunioni nelle quali si trovavano
      fra gli altri Cavallotti per l'Estrema Sinistra e Carmine per la
      Destra. Ricordo in proposito un episodio interessante che spiega
      parecchio di quanto avvenne di poi; venne cioè da me il deputato
      Macola, che era un giornalista del contorno di Crispi, ad
      avvertirmi che se io non mi mettevo con l'opposizione avrei
      evitato dei guai. Gli risposi che non potevo assolutamente mutare
      la mia linea di condotta, che del resto era semplicemente di
      coerenza politica, senza nessun motivo di ostilità personale.
      
      
      Intanto il processo contro Tanlongo, e contro gli altri imputati
      della Banca Romana, che era stato nei mesi precedenti trascinato
      traverso a lungaggini, fu varato e, con grave scandalo della
      opinione pubblica, finì con l'assoluzione completa di tutti gli
      imputati, verso i quali l'inchiesta da me promossa aveva pure
      provato fatti così gravi e dannosi. Fatto caratteristico, nò io né
      il mio sottosegretario di Stato, Rosano, quantunque in quel
      processo fossero mosse le prime accuse contro di me per la
      presunta sottrazione di documenti, fummo chiamati, né a dare
      schiarimenti, né a presentare i documenti che pure erano già stati
      pubblicati. 
      
      Né la colpevole indulgenza si arresta qui, perchè del modo con cui
      sia andata a finire la liquidazione della Banca, nulla di preciso
      si è mai saputo, il rendiconto di quella liquidazione, che era
      stata affidata alla Banca d'Italia, non essendo mai stato
      pubblicato. Si seppe soltanto che alcuni dei maggiori debitori
      avevano potuto liquidare la loro posizione con cifre addirittura
      irrisorie. E peggio ancora, mentre i responsabili e colpevoli
      venivano assolti, dal loro processo si traevano le fila per la
      persecuzione e incriminazione degli innocenti, anzi di coloro per
      la cui opera la scandalosa situazione della Banca era stata
      scoperta e constatata.
      
      Durante il processo infatti, gli avvocati di Tanlongo e degli
      altri imputati, prendendo le mosse da affermazioni senza prove
      fatte dal Tanlongo stesso, avevano architettata la difesa sulla
      presunzione che il Tanlongo, per lunghi anni, avesse dovuto
      spendere cospicue somme, specie per incarico del Ministro
      Magliani, per la difesa della nostra Rendita sui mercati
      finanziari; e siccome non potevano addurre nessuna prova di questo
      loro asserto, affermavano che i documenti comprovanti esistevano,
      ma non si erano più trovati, e che per ciò si doveva supporre che
      fossero stati sottratti durante le perquisizioni fatte dalla
      Pubblica Sicurezza. Partendo da queste premesse fu iniziato un
      procedimento contro quattro funzionarli di pubblica sicurezza che
      avevano presieduto a quelle perquisizioni; uno dei quali era il
      Questore di Roma, comm. Felzani, e gli altri gli Ispettori Ro,
      Rinaldi e Pezzi. 
      
      Qualche tempo dopo, a cose passate, Tommaso Villa, che era stato
      uno dei difensori, non del Tanlongo ma del cassiere Lazzaroni, mi
      confessò apertamente che tutta questa storia delle spese fatte
      fare dal Magliani, e che dovevano ascendere nientemeno che a
      diciotto milioni, era stata appunto architettata come spediente di
      difesa. 
      
      E c'era un'altra prova che quei pretesi documenti sottratti erano
      imaginari, fornita involontariamente dall'accusato principale, il
      Tanlongo, il quale nel luglio del 1893, scrivendomi dal carcere
      per scolparsi di avere personalmente fruito dei danari della
      Ranca, e dichiarando di averli spesi dietro inviti di ministri,
      soggiungeva: — Le cose esposte risultano da docu1menti, a
      cominciare dall'incarico ricevuto dal Ministro nel 1881, giusta
      lettera che potrà essere resa ostensiva alla E. V. e giusta una
      infinita quantità di inviti direttimi da tutti i ministri. — 
      
      Ora, quando si fu al processo, il documento per la spesa di
      diciotto milioni con la pretesa sigla del Magliani non fu
      presentato, adducendosi, in contraddizione con quanto dichiarava
      la lettera del Tanlongo, che fosse stato sottratto. Se io fossi
      stato chiamato testimone al processo, avrei dunque potuto
      presentare la prova autentica che nel luglio del 1893, dopo le
      perquisizioni, non era stata ancora imaginata quella tabella
      firmata dal Magliani, e così sarebbe caduta una delle affermazioni
      che più servirono a facilitare l'assoluzione dei colpevoli e ad
      imbastire il processo per la pretesa sottrazione dei documenti. Si
      noti del resto che il supporre che un uomo della levatura del
      Magliani potesse con una semplice sigla autenticare un credito
      verso il Tesoro di diciotto milioni è cosa strana; ma anche più
      strano era supporre che io, che avevo combattuto a fondo il
      Magliani quando era in vita per la sua politica finanziaria, mi
      fossi poi indotto a fare commettere un reato, come quello della
      sottrazione di documenti, per difendere la sua memoria.
      
      
      L'inscenatura del processo contro questi funzionari, per una
      presunta sottrazione di documenti che non esisteva, mentre che
      vere sottrazioni avessero avuto  luogo  avanti il
      loro  arresto per parte degli
      imputati stessi era dimostrato dal modo della difesa e da varie
      pubblicazioni, in realtà mirava a me. Questi funzionari erano
      intanto stati sospesi e dall'impiego e dal loro stipendio, e nei
      procedimenti d'istruttoria si insisteva perchè confessassero, cioè
      dichiarassero il falso, osservando loro che se la sottrazione era
      stata da essi consumata per esecuzione di un ordine mio, la loro
      responsabilità cadeva ed essi sarebbero stati liberati da ogni prò
      cedimento. Per compiere una tale enormità e fuorviare la
      magistratura dalla retta via, si era fatta tutta una preparazione,
      di cui più tardi il Ministro Guardasigilli, Calenda dei Tavani, si
      lasciò sfuggire la confessione in piena Camera, rispondendo ad una
      interrogazione con la frase, rimasta celebre, che egli «aveva
      dovuto preparare l'ambiente». E come questa preparazione fosse
      stata condotta, era evidente. 
      
      Infatti sotto il Ministero da me presieduto, quando si aperse
      l'istruzione del processo della Banca Romana, non un solo
      magistrato era stato mutato; e procuratore generale, procuratore
      del Re, giudice istruttore capo, e giudici istruttori e sostituti
      procuratori incaricati del processo, rimasero quali io li avevo
      trovati assumendo il governo, ed erano tutti funzionari chiamati
      dai precedenti Ministeri; e lo stesso si dica di tutti i
      funzionari di Pubblica Sicurezza, dal questore agli agenti,
      incaricati degli arresti e delle perquisizioni. Per inscenare
      invece contro di me il processo della pretesa sottrazione di
      documenti si era ricorso ad ogni mezza di costrizione ed
      intimidazione. Il Procuratore generale, il Comm. Venturini,
      patriota egregio e magistrato da tutti stimato, fu traslocato da
      Roma, ed al suo posto chiamato un altro magistrato che io non
      conoscevo, ma che era il solo fra tutti i procuratori generali
      d'Italia che avesse ragioni di rancore contro di me, perchè ai
      tempi del mio Ministero, essendo stato traslocato dal suo posto ad
      un altro dove non aveva voluto andare, era stato messo in
      aspettativa. 
      
      Insieme al procuratore del Re erano stati mutati i giudici
      istruttori; ed era ad un tempo stata ordinata una inchiesta sulla
      magistratura affidandola a tre persone; e l'anima di questa
      inchiesta, il relatore, non era un magistrato, ma l'avvocato
      generale erariale, cioè un funzionario che dipendeva dal governo
      senza alcuna garanzia d'inamovibilità. Il tentativo di pressione
      sulla magistratura, inerente a questa inchiesta, era troppo
      scandaloso e andò fallito, la Commissione consulente per il
      personale della magistratura, composta di magistrati inamovibili,
      ed il Tribunale di Roma avendone ad unanimità respinte le
      conclusioni, dichiarando di non volere applicare nessuna pena ai
      magistrati censurati, perchè non la meritavano avendo sempre
      adempiuto al loro dovere. Il tentativo fallì, ma il fatto di
      quella inchiesta provò che il governo era disposto a ricorrere a
      mezzi illegali per agire sulla magistratura.
      
      
      Gli effetti di questi mezzi, e di questa cosidetta «preparazione
      dell'ambiente» erano intanto evidenti a tutti. Mentre il Codice
      penale vieta rigidamente di fare conoscere i risultati
      d'istruttoria;  pare che in quel caso essa fosse condotta
      davanti agli occhi di tutti, ed ogni sera i giornali riferivano
      ciò che avveniva nel Gabinetto del giudice istruttore, e gli,
      somministravano incitamenti e consigli, sempre dati nel senso a me
      più ostile. I funzionari accusati avevano chiesto per mezzo dei
      propri difensori che al loro processo fossero aggiunti i documenti
      del processo precedente, perchè la constatazione della mancanza di
      qualche documento potesse così farsi; ma tale domanda fu respinta
      dal giudice inquirente non. ostante la sua evidente giustizia. Era
      questa una cosa enorme, ma era anche una evidente conseguenza
      della consegna secondo la quale nessun occhio profano doveva
      penetrare nel sacrario dei documenti della Banca Romana. 
      
      Gli accusati presentarono pure dichiarazioni giurate di testimoni
      che riuscivano, stabilendo degli alibi, a smentire le false accuse
      della loro attività per sottrarre documenti durante le
      perquisizioni; ma erano passati più di dieci mesi senza che alcuno
      di questi testimoni fosse stato chiamato dal giudice istruttore.
      Si ricorse insomma a tutti i mezzi contro quegli egregi
      funzionari, esercitando sul loro animo ogni pressione, tenendoli
      sospesi riguardo alla loro sorte; allo scopo di ottenere da loro
      l'accusa desiderata contro di me; ma essi resistettero,
      perseverando a dichiarare che nulla avevano commesso, e si
      difesero energicamente negando nel modo più reciso ed assoluto di
      avere avuto mai da me ordine di sottrarre documenti, o di averne
      mai portati  al  Ministero  dell' Interno.
      
      Mentre così si stava istruendo dal giudice istrutitore e dai
      giornali il processo per la sottrazione dei documenti, io dovetti
      venire a Roma per accompagnarvi mio figlio. Venne a casa mia
      l'ex-questore Felzani, il quale mi disse che il principale
      argomento che si adoperava nell'accusa contro di lui e contro gli
      altri funzionari di Pubblica Sicurezza, era l'affermazione che
      delle carte di carattere politico dovevano essere giunte al
      Ministero, e che non potevano provenire che da sottrazioni operate
      da ufficiali di Pubblica Sicurezza. Gli risposi: — Potete invocare
      la mia testimonianza; carte al Ministero ne sono giunte, ma non
      sono assolutamente state portate, e voi Io sapete meglio di me, né
      da voi, né da alcuno di quei funzionari. — Allora egli mi chiese
      se avrei avuto difficoltà di rilasciargliene dichiarazione per
      iscritto.
      Per abitudine costante ciò che io dico non ho difficoltà di
      scriverlo, ed inoltre era chiaro il mio dovere di addurre la mia
      testimonianza contro false accuse che colpivano degli innocenti. E
      così, gli rilasciai, con la data del 25 ottobre '94, la lettera
      seguente:
      
      
      «Ella mi informa che nel processo per la pretesa sottrazione di
      documenti alla Banca Romana, si adduce come argomento di accusa la
      circostanza che documenti relativi alla Banca Romana sarebbero
      giunti al Ministero dell' Interno. La autorizzo a dire essere
      perfettamente vero che al Ministero dell' Interno giunsero
      documenti, che potevano gettare luce non bella sopra qualche uomo
      politico, ma quei documenti provenivano da tutt'altra parte che
      dai funzionari di Pubblica Sicurezza; furono portati al Ministero
      molto tempo dopo che le perquisizioni erano finite, ed erano carte
      le quali non potevano in alcun modo influire sul processo 
      della Banca  Romana.»
      
      
      Quella lettera la diedi perchè il Felzani la portasse al giudice,
      come argomento di difesa, per sé e per i suoi compagni. Portata al
      giudice durante il periodo dell'istruttoria segreta, essa avrebbe
      dovuto rimanere segreta e servire solamente al giudice, per
      l'accertamento dei fatti, ciò che egli avrebbe potuto fare anche
      interrogando me, il mio Sottosegretario di Stato e tutti quelli
      che potessero informare d'onde quei documenti erano venuti.
      Invece, non so per opera di chi, ma con la necessaria complicità
      del giudice, quella lettera due o tre giorni dopo fu pubblicata
      dai giornali, che ne trassero occasione di una campagna furiosa
      contro di me, come se io avessi lanciato delle accuse contro tutto
      il mondo politico italiano, e mi sfidavano a pubblicare ciò che io
      avevo. Finché si trattò di insinuazioni di giornali, resistetti e
      nulla pubblicai. Ma pochi giorni dopo fu aperta la Camera, e
      Colajanni presentò una interpellanza sulla questione. 
      
      Compresi allora che non potevo tacere più oltre, perchè la lettera
      essendo, regolarmente o no, diventata pubblica, vi era ormai di
      mezzo la dignità parlamentare. Ma volendo, in materia così
      delicata procedere con ogni cautela, io credetti mio dovere di non
      giudicare col criterio mio, e pregai quindi molti fra gli uomini
      politici più autorevoli della Camera, di darmi il loro parere;
      scegliendo a quest'uopo i deputati Cavallotti, Carmine, Coppino,
      Colombo, Damiani, Di Rudinì, Fortis, Marcora, Zanardelli e Roux,
      uomini che, oltre la loro autorità personale, rappresentavano
      tutte le parti della Camera. Il loro verdetto fu unanime, e cioè
      che nulla doveva restare non pubblicato. Offersi di consegnare
      loro i documenti perchè ne prendessero visione, ma essi mi
      dichiararono di non sentirsi autorizzati a questo. Interrogati poi
      da me personalmente questi uomini e parecchi altri della Camera,
      perchè mi dicessero quale fosse la forma che credevano più
      conveniente per eseguire quel verdetto, tutti, nessuno eccettuato,
      mi consigliarono di consegnare al Presidente della Camera i
      documenti. E nella stessa seduta in cui il Colajanni doveva
      svolgere la sua interpellanza, che egli ritirò in seguito alla mia
      decisione, io feci una breve dichiarazione, concludendo col
      portare i documenti al Presidente. Questi rifiutava di riceverli,
      ed allora io glieli lasciai sul tavolo. Egli dichiarò, fra i
      rumori, che non li accettava, e che sarebbero stati deposti nella
      cassaforte dellia Camera.
      Seguì una discussione accanita. 
      
      Da una parte Imbriani, Cavallotti e Colajanni insistevano perchè
      il plico fosse aperto seduta stante, e presentarono ordini del
      giorno in tale senso. Dall'altra parte Crispi sostenne che i
      documenti dovevano essere respinti a me, e che sopra di me doveva
      restare la responsabilità della pubblicazione, che altrimenti
      sarebbe ricaduta sulla Camera. A tale tesi portarono concorso gli
      amici particolari di Crispi, come il De Nicolò e il Casale; e
      particolarmente accanito ad opporsi a riceverli fu il Bonghi, non
      perchè egli fosse compromesso, che anzi non c'entrava per nulla;
      ma per la forte ostilità politica che una parte della Destra aveva
      preso contro di me, sentimento a cui non partecipavano il Di
      Rudinì, il Luzzatti e gli altri elementi più temperati di quella
      parte. 
      
      Alla fine il Coppino presentò una proposta intermedia fra la
      lettura immediata e la restituzione a me dei documenti, e cioè che
      fosse eletto un comitato di cinque persone che prendessero visione
      dei documenti e poi ne riferissero alla Camera. A tale proposta si
      associarono anche il Cavallotti che ritirò la proposta sua di
      lettura immediata, ed il Rudinì. Si venne alla votazione; l'ordine
      del giorno per la restituzione, presentato dal Bonghi ed a cui si
      era associato il Torraca, ebbe ventisei voti favorevoli contro
      duecentotrentanove contrari e ventisette astenuti. Il secondo
      ordine del giorno presentato dal De Nicolò, perchè i documenti
      fossero rinviati al magistrato incaricato della istruzione del
      processo per la sottrazione dei documenti, ebbe la stessa sorte, e
      la proposta della nomina di una Commissione di cinque membri per
      l'esame fu approvata per alzata e seduta. 
      
      Si tentò ancora di differire al giorno dopo la nomina della
      Commissione; ma Cavallotti ed altri si opposero, ed infine i
      Commissari furono votati e risultarono scelti il Carmine, il
      Cavallotti, il Chinaglia, il Cibrario, ed il Damiani.
      
      
      I documenti da me consegnati erano accompagnati da una lettera, in
      cui dichiaravo brevemente le ragioni per le quali, in seguito alla
      pubblicazione della lettera da me rilasciata al Felzani, per
      dovere di coscienza e nell'interesse della verità, nella
      persuasione che avrebbe servito solo per l'istruttoria segreta del
      processo in corso, — pubblicazione fatta senza la mia
      partecipazione ed anzi a mia insaputa — avevo creduto necessario
      consegnare alla Camera, nell'intento di far cessare sospetti e
      scandali, le carte in mio possesso.
      Tali documenti, e di ciò dette poi notizia la Commissione dei
      cinque, erano contenuti in sei buste sulle quali io avevo indicato
      sommariamente per ognuna il contenuto. La prima busta conteneva
      copie di una ventina di documenti esistenti nel processo della
      Banca Romana e sequestrati a Lazzaroni; copie che come Ministro
      degli Interni e Presidente del Consiglio io mi ero fatto dare,
      avendone diritto ed anzi dovere, per rendermi pienamente conto
      della gravissima situazione minacciante il credito nazionale, che
      derivava dalle rivelazioni delle condizioni della Banca e degli
      abusi consumati. Conteneva pure dieci elenchi di documenti del
      processo della Banca, che comprendevano ventisette pagine di
      scrittura. 
      
      La seconda busta, conteneva quattro lettere, che Bernardo Tanlongo
      mi aveva dirette personalmente
      in busta chiusa, valendosi della facoltà concessa ai detenuti dai
      regolamenti carcerari. Due di esse si riferivano a calcoli sulle
      perdite della Banca Romana per il cambio e le riscontrate. Per le
      altre due, io avvertivo con una nota la Commissione del modo con
      cui mi erano pervenute. Ed era questo: il Tanlongo mi aveva fatto
      chiedere se desideravo informazioni circa i rapporti di uomini
      politici con la sua Banca, e siccome anche tali informazioni
      avevano importanza per la conoscenza della situazione, io gli
      avevo fatto rispondere che le avrei accettate. Egli me le
      trasmise, a mezzo di due lettere, in piego chiuso, ed io
      richiamavo l'attenzione della Commissione che a quelle lettere si
      poteva dare fede in quanto trovassero conferma in altri atti,
      parendomi esse dettate in gran parte dal suo proposito di far
      temere scandali se il processo avesse luogo. E ricordavo al
      riguardo che infatti le accuse mosse in tali lettere ai miei
      colleghi Grimaldi e Lacava, furono poi smentite dal Tanlongo
      stesso nel suo interrogatorio davanti al Comitato dei Sette e
      nello stesso dibattito pubblico del processo, nel quale egli le
      dichiarò false e da lui stesso inventate per condotta di causa.
      Quelle due lettere, ad ogni modo, costituivano un elaborato
      rapporto sulle cause della crisi della Banca, sulle responsabilità
      di uomini politici e giornalisti in detta crisi, in relazione alle
      varie leggi sulle Banche d'emissione, e su altre molteplici
      responsabilità di vario genere.
      
      
      La  terza  busta  conteneva  una  
      lettera  direttami,
 in data 13 maggio '93 dal Direttore
      generale della Banca Nazionale, Comm. Grillo e copia di un
      telegramma di Stato, riservato e direttomi da una autorità
      governativa di Milano quando ero Presidente del Consiglio. 
      
      La busta quarta conteneva appunti consegnatimi durante l'ispezione
      delle Banche; e cioè per la Banca Romana una nota delle cambiali
      giacenti in sofferenza nella Banca stessa, dal 1889 in poi,
      consegnatami il 25 febbraio '93 dal Comm. Martuscelli; poi tre
      fogli, che furono così qualificati dalla Commissione: 1.° Cessione
      Chiara Pietro accettante a favore di Antonio Crispi; 2.°
      Accettazione Pietro e Nicolò Chiara; 3.° Intestazione a debito di
      Chiara Pietro e Nicolò, senza firma. 
      
      La busta quinta conteneva, in quarantatre fogli, copie di lettere
      e documenti relativi a trattative, intervenute dall'agosto
      all'ottobre '92 ad insaputa del Governo, per la fusione della
      Banca Romana con la Banca Nazionale; ciò che provava che la Banca
      Nazionale non conosceva le condizioni della Banca Romana. 
      
      Infine la sesta lettera conteneva otto lettere di Crispi, e
      centodue lettere di donna Lina Crispi, dirette a persone di
      servizio di casa Crispi. Queste ultime lettere erano state da me
      suggellate a parte, con sopra scrittovi che esse erano di
      carattere privato, e che io avevo creduto di doverle sottrarre
      alla circolazione; che le depositavo per mio completo discarico,
      ma non credevo dovessersi pubblicare; criterio a cui la
      Commissione aderì senza discussione. 
      
      La Commissione, riferendo nella sua relazione questo esame
      sommario dei documenti, avvertiva poi di essersi posti vari
      quesiti; e cioè se nelle risoluzioni che si avessero a proporre
      alla Camera per eventuali pubblicazioni si dovessero escludere i
      nomi di persone appartenenti al Senato ed i nomi di uomini
      politici defunti; se essa dovesse esprimere un avviso qualsiasi
      sul merito dei documenti contenuti nel piego e dichiarati
      suscettibili d'esame, e se si dovesse procedere ad interrogatori;
      e che aveva concluso per: tutti questi quesiti negativamente,
      ritenendo essere il proprio mandato limitato alla cernita dei
      documenti, e di non avere essa perciò veste di Commissione di
      inchiesta parlamentare, quale l'aveva avuta il Comitato dei Sette.
      Essa concludeva semplicemente con la proposta della pubblicazione
      di quei documenti di cui aveva fatta la cernita, e con le
      esclusioni contemplate nei quesiti sopraccennati. E la proposta,
      con quelle limitazioni, fu dalla Camera approvata. 
      
      La relazione e i documenti scelti furono infatti pubblicati e
      distribuiti due giorni dopo, il 15 dicembre. L'Imbriani ed il
      Cavallotti proposero che sulla relazione fosse aperta
      immediatamente la discussione; il Presidente Biancheri si oppose
      dichiarando che la discussione non era all'ordine del giorno, e
      ricordando che il regolamento prescrive che non si possa discutere
      una proposta che non è all'ordine del giorno, se la discussione
      non è decisa a scrutinio segreto con la maggioranza dei tre quarti
      dei votanti. Cavallotti insistè, appoggiato anche dal Di Rudinì,
      per la discussione immediata; Bonghi si oppose accanitamente;
      Crispi insorse violentemente contro la relazione. Si venne alla
      votazione; i tre quarti necessari per il passaggio alla
      discussione non furono ottenuti, ma la maggioranza risultò per
      nove voti favorevole alla discussione immediata; il che
      significava che il Ministero sarebbe stato battuto. Allora Crispi
      decise di prorogare la sessione.
      
      
      Ricordo che alle tre pomeridiane di quel giorno stesso, venne a
      casa mia un giornalista, corrispondente di giornali americani, ad
      avvertirmi di sapere che era stata decisa la chiusura della Camera
      per potere, fra l'altro, farmi arrestare, quando non fossi, per la
      proroga della sessione, più protetto dalla incolumità
      parlamentare. Io avevo già promesso a una delle mie figlie, che
      allora viveva a Berlino, di recarmi a passare le feste con lei; e
      siccome con la chiusura della Camera non avevo più alcuna ragione
      di trattenermi a Roma, partii la sera stessa per Berlino. Per
      strada, e durante tutto il viaggio in Italia, mi accorsi di essere
      pedinato e sorvegliato da vari agenti di Pubblica Sicurezza, che
      si scambiavano; ricordo che all'ultima tappa, da Bologna al
      confine, uno mi si presentò spacciandosi per amico di un mio
      collega politico, pure grande mio amico; ed a quell'agente chiesi
      a Verona quale fosse il migliore albergo di Trento, dove infatti
      andai, e fui da  lui seguito.  
      
      A  Berlino  fui  ospitato da  mia figlia, che
      con suo marito viveva nel sobborgo di Charlottenburg, mio genero
      essendovi occupato per studi in una grande fabbrica di materiale
      elettrico, la Siemens. Rimasi a Berlino circa un mese, tenendomi
      assolutamente in disparte, tanto che essendosi rivolti a me dei
      giornalisti francesi, per avere interviste presumibilmente contro
      Crispi, io mi rifiutai di riceverli. Mi occupai solo ad osservare
      il paese, e ne ebbi l'impressione di un paese molto operoso,
      tranquillo e disciplinato.
      
      
      Alla fine di gennaio ricevetti un mandato di comparizione da parte
      della sezione di accusa di Roma. Infatti, nella mia assenza era
      stato iniziato procedimento contro di me per ogni sorta di
      imputazioni, dipendenti dalla presentazione del plico. Il
      procedimento era parte di azione pubblica, parte a querele di
      privati. Ritornai immediatamente in Italia, e venuto a Roma, mi
      presentai alla sezione d'accusa alla quale era stato avocato il
      processo. Senza entrare in alcuna questione di merito io eccepii
      l'incompetenza dell'autorità giudiziaria; sia perchè si trattava
      di accuse fatte a me per presunti reati commessi durante
      l'esercizio delle mie funzioni di Ministro; sia sopratutto perchè
      la presentazione del plico era avvenuta alla Camera, e non poteva
      fare quindi oggetto di procedimento senza il consenso della Camera
      stessa. 
      
      Ricordo che i componenti la sezione d'accusa mi dichiararono che
      codesta questione di competenza l'avevano già esaminata e risolta,
      e non potevano cambiaiparere; io risposi di essere sicuro che le
      ragioni da me addotte avrebbero finito di persuaderli della
      incompetenza dell'autorità giudiziaria. Uno dei giudici, per
      combinare un tranello, forse col calcolo di fare decorrere i
      termini, mi disse: — Ella vuol dire che si riserva di ricorrere in
      Cassazione? — ma io replicai ancora che ero convinto che si
      sarebbero persuasi, e che probabilmente non avrei avuta occasione
      di ricorrere in Cassazione.
      
      
      Le ragioni che io presentai, in una breve memoria al giudice
      istruttore, sorpassavano la mia questione personale, e toccavano
      le più alte prerogative costituzionali, la minaccia contro le
      quali costituiva indubbiamente la cosa più grave di quel periodo
      di violenza e di arbitrio contro la legge. Io osservavo dunque che
      quantunque il mio desiderio, quale privato cittadino, potesse
      essere di provocare il più rapido giudizio, per dissipare colla
      evidenza dei fatti l'ombra degli addebiti che solo la violenza
      delle passioni politiche aveva potuto provocare, il mio dovere
      quale membro del Parlamento ed ex-ministro del Re in regime
      parlamentare mi imponeva di non venir meno all'obbligo di non
      lasciare pregiudicare, con una acquiescenza passiva, quelle
      prerogative parlamentari che esistono in virtù del Patto
      fondamentale del Regno, e che sono garanzie indispensabili di
      indipendenza della rappresentanza del paese di fronte all'autorità
      politica.
      
      Riguardo all'accusa di sottrazione di documenti osservavo che lo
      Statuto prescrivendo che la Camera dei Deputati ha il diritto di
      accusare i Ministri del Re e di tradurli davanti al Senato
      costituito in Alta Corte di giustizia, tale diritto si riferisce
      per consenso unanime degli scrittori di diritto pubblico, e per
      l'esempio di tutte le costituzioni europee, agli atti ed ai fatti
      compiuti da una persona, nelle sue qualità di Ministro, tanto se
      esso è in carica quanto se ha cessato di esserlo; e che tale
      disposizione statutaria, anche dai trattatisti più contrari 
      a qualunque forma di  privilegio  in  tutto ciò che
      tocca la pubblica giustizia, era riconosciuta con concorde
      giudizio indispensabile, come non informata  
      a   privilegio,   ma   a  
      necessità   intrinseche delle stesse istituzioni. 
      
      Per l'altro gruppo di addebiti, riferentisi  
      alla   presentazione  del  
      plico,   io   richiamavo l'articolo 30 della
      legge sulla stampa, che era una derivazione dell'articolo 51 dello
      Statuto, il quale dispone che non potranno dare luogo ad azione
      giudiziaria le  pubblicazioni dei  discorsi 
      tenuti  nel Senato o nella Camera dei Deputati, le relazioni
      o qualunque altro scritto stampato per ordine delle due
      Camere.  È  infatti evidente  che tali
      manifestazioni, quali emanazioni del Potere legislativo, sono
      necessariamente sottratte alla cognizione ed alla censura di un
      altro Potere, quale è il giudiziario, altrimenti sarebbe resa
      impossibile qualunque libera funzione parlamentare.
      
      
      Nel caso mio particolare poi, le carte che avevano dato luogo ad
      azione pubblica ed a querele private, erano state presentate alla
      Camera da parte mia, nell'esercizio della mia qualità di deputato
      e sotto la garanzia dell'articolo 51 dello Statuto, perchè
      richiesto di dare conto alla Camera di fatti compiuti in qualità
      di Ministro. Io avevo consegnati i documenti in plico chiuso alla
      Presidenza, ed era stata la Camera stessa, che respingendo la
      proposta che mi fossero restituiti, e l'altra proposta di
      trasmetterli all'autorità giudiziaria, aveva deliberato che il
      plico venisse aperto, e che le carte in esso contenute fossero
      esaminate da uno speciale Comitato parlamentare e parzialmente
      pubblicate. Si trattava dunque di atti, non miei personali, ma di
      essenziale giurisdizione della Camera, e che non potevano in alcun
      modo cadere sotto il controllo e la censura dell'autorità
      giudiziaria. La incompetenza della quale veniva anche riconfermata
      indirettamente dal fatto che essa non aveva potuto ottenere dalla
      Camera gli scritti sui quali le accuse e tutta l'azione
      giudiziaria doveva essere fondata. 
      
      Era dunque evidente, anzi incontrovertibile, che, avendo la Camera
      riservato a se stessa con formale deliberazione l'esame e la
      decisione dell'intera materia, e delle questioni e responsabilità
      tutte ad essa inerenti; qualunque giudizio l'autorità giudiziaria
      pronunciasse su quei documenti, sulla loro autenticità ed
      efficacia, sulla fede che potevano meritare, sulla legittimità
      della loro provenienza e dell'uso che ne era stato fatto, avrebbe
      pregiudicato il giudizio che la Camera si era riservato, come sola
      competente, di pronunciare sui Ministri in carica e su quelli
      cessati, e sarebbe riuscito ad una invasione del potere
      giudiziario sul potere legislativo, e ad un controllo
      costituzionalmente inammissibile di fatti politici svoltisi nella
      Camera dei Deputati. 
      
      Infine poi, dal punto di vista pratico, il processo per la
      presentazione di documenti alla Camera, avrebbe dovuto svolgersi
      intorno a documenti che la Camera aveva già deliberato di non
      pubblicare integralmente, anzi di tenere segreti; cosicché
      l'autorità giudiziaria avrebbe dovuto ragionare su documenti che
      non aveva Visti; la difesa avrebbe dovuto procedere senza sapere
      di che veramente si trattasse, ed i giudici giudicare senza avere
      sott'occhio i documenti che si pretendeva contenere diffamazioni.
      
      
      Ma la sezione d'accusa, non esitando a colpire ciecamente le più
      gelose prerogative legislative, ed altre prerogative statutarie
      senza le quali nessun governo responsabile sarebbe possibile,
      respinse le mie eccezioni di incompetenza. Allora io ricorsi alla
      Corte di Cassazione, presieduta allora dal Senatore Canonico, e
      detti l'incarico della mia difesa all'avvocato Cavaglià di Torino,
      agli on. Sacchi e Galimberti, ed all'avv. Leonida Busi di Bologna.
      La Corte di Cassazione annullò senza rinvio tutte indistintamente
      le decisioni pronunciate dalla sezione di accusa, dichiarando
      l'incompetenza dell' autorità giudiziaria, per giudicare, sia
      dell'opera di un Ministro, sia di atti compiuti nelle aule
      parlamentari. Ricordo che l'avvocato Busi, a cui io chiedevo quale
      fosse il mio dovere verso di lui per l'opera prestata, mi
      dichiarava: — Sono compensato abbastanza con l'avere constatato
      che vi è ancora giustizia in Italia. — E due anni dopo il Senatore
      Canonico mi diceva che durante quelle deliberazioni, Crispi si era
      recato personalmente a visitarlo a casa sua, per sollecitare le
      decisioni della Cassazione.
      
      
      Intanto si era continuato a mantenere la Camera prorogata; e la
      proroga durò, cosa senza precedenti, per oltre quattro mesi. Il
      disegno di Crispi e della gente che l'attorniava, era di riuscire
      a ottenere una condanna contro di me avanti di indire le elezioni
      generali, per avere il campo libero e per presentarsi agli
      elettori col prestigio di un tale successo, che nel loro pensiero
      doveva seppellire la questione morale, rimasta sempre viva, pure
      fra tanti contrasti e non ostante i diversivi della politica
      contro i socialisti e dell'inizio della impresa d'Abissinia, nella
      pubblica coscienza. Ma dopo il giudizio della Cassazione, che
      sventava questo disegno, si dovette venire alle elezioni; la
      Camera fu sciolta l' 8 maggio e le elezioni indette per il 26
      maggio e 2 giugno del '95.
      
      
      In queste elezioni il governo tentò in tutti i modi di suscitarmi
      contro dei concorrenti; ma tre del paese, interpellati perchè
      accettassero la candidatura, risposero, che non solo non si
      presenterebbero contro di me, ma mi avrebbero dato il loro voto. A
      Cuneo in quei giorni era stato mandato un nuovo prefetto perchè si
      occupasse in special modo delle elezioni; e dopo una quindicina di
      giorni che aveva preso possesso, si recò a Dronero, il capoluogo
      del mio  collegio.  Arrivando  trovò 
      alla  stazione il  Sindaco, l'intero Consiglio comunale
      e parecchi dei più ragguardevoli cittadini. Il Sindaco, a nome di
      tutti gli intervenuti, si rivolse al prefetto e gli tenne presso a
      poco questo discorso: — Se Ella viene come prefetto per visitare i
      nostri istituti, noi che siamo deferentissimi all' autorità,
      l'accompagneremo da per tutto; ma se Ella parla di elezioni noi la
      lasciamo sola, ed Ella non troverà in tutta Dronero né uno che le
      parli né uno che la saluti. — Il prefetto protestò che non
      intendeva immischiarsi nelle elezioni, ed allora fu festeggiato e
      condotto a visitare asili ed ospedali. 
      
      Il risultato della votazione fu che all'unanimità mi mancarono
      solo tre voti: due dati a Crispi ed uno a Barbato. Dei due voti a
      Crispi, si seppe poi che erano stati dati da due ricchi del
      collegio, padre e figlio, che si erano allarmati della idea
      dell'imposta progressiva, da me proposta. L'indignazione per la
      lotta violenta e senza scrupoli condotta dal governo contro di me,
      era così forte in tutto il collegio, che votarono per me anche
      coloro, pochi invero di numero, che nelle elezioni precedenti
      avevano votato per un socialista. Il governo tentò pure di agire
      presso dei miei amici: al Cefaly, Crispi aveva fatto dire che non
      l'avrebbe combattuto nel suo collegio a condizione s'impegnasse a
      non ritornare sulla questione morale; al che Cefaly aveva risposto
      : — Ma la questione morale è appunto l'unica ragione per cui mi
      ripresento! —
      
      
      Il Ministero ebbe però complessivamente la maggioranza, 
      specie  nell'Italia  centrale  e  meridionale,
      dove l'opinione pubblica era particolarmente infatuata
      dell'impresa africana e dei vantaggi nazionali che se ne
      riprometteva. L'opinione e il sentimento erano assai diversi
      nell'Italia settentrionale, dove la corrente, sia contro la
      guerra, sia per la questione morale era fortissima nelle classi
      popolari e nei partiti democratici. Fra gli stessi conservatori le
      opinioni erano divise; se vi erano alcuni che menavano tutto buono
      a Crispi per la sua politica interna a loro grata; altri, ed erano
      la maggioranza, erano assai perplessi riguardo l'impresa africana,
      per le sue ripercussioni sulle già difficili condizioni economiche
      e finanziarie dello Stato e del paese, né erano proclivi ad
      eccessive indulgenze per la questione morale, anche per non
      sfigurare di fronte ai loro avversari, i democratici, i quali, a
      Milano particolarmente, l'avevano posta come la questione allora
      capitale della vita politica italiana.
      
      
      La Camera fu aperta dopo le elezioni, il 10 giugno, per pochi
      giorni, ed il Governo ebbe la maggioranza. Alla riapertura in
      novembre, furono ripresentati gli atti che riguardavano i processi
      iniziati contro di me. La Commissione incaricata di esaminarli,
      composta in grande maggioranza di amici di Crispi, si rifiutò di
      sentirmi, proponendo l'autorizzazione a procedere; il relatore fu
      il Cambrai-Digny. Quando la proposta della Commissione venne in
      discussione io pronunciai un discorso, che fu dalla Camera
      ascoltato con grande attenzione ed equanimità, nel quale feci una
      completa esposizione dei fatti e delle cose, e sostenendo che dato
      il carattere assolutamente politico degli addebiti e delle accuse
      che mi si facevano, solo nei miei colleghi io potevo avere i miei
      giudici. E chiedevo che la Camera entrasse finalmente nell'esame
      di merito perchè, visto che l'autorità giudiziaria, a mezzo del
      suo organo massimo, la Corte di Cassazione, aveva già dichiarata
      la propria incompetenza, solamente il Parlamento, e cioè la Camera
      come accusatrice, e il Senato costituito in Alta Corte come
      giudice, potevano pronunciarsi. 
      
      La decisione della Commissione di raccomandare l'autorizzazione a
      procedere, ciò che equivaleva a rimandare la questione davanti
      alla giustizia ordinaria che si era già dichiarata incompetente,
      portava all'assurdo.
      
      
      Siccome nel mio discorso io avevo richiamata l'attenzione al fatto
      delle interferenze del Ministro della Giustizia d'allora Calenda
      dei Tavani, nei procedimenti promossi contro di me, fra l'altro
      cambiando tutti i giudici, il Ministro chiese la parola, e
      cominciò a parlare dicendo: — Naturalmente io avevo dovuto
      preparare l'ambiente. — La frase, che confermava involontariamente
      le mie accuse, sollevò un putiferio; il Calenda dei Tavani fu
      investito violentemente, specie dall'Estrema Sinistra, e il
      Presidente costretto a sospendere la seduta, e i Ministri, fra i
      quali Crispi non era presente, si ritirarono dall'aula. Quando fu
      ripresa la seduta, i Ministri rientrarono tutti, tranne quello di
      Grazia e Giustizia, il che provocò nuovi rumori. 
      
      Prese poi la parola il deputato Torraca, mio antico avversario, il
      quale propose un ordine del giorno inteso a dire che della
      questione non si dovesse parlare più, per non turbare il paese,
      che aveva bisogno di tutta la sua calma per affrontare tutte le
      altre questioni, fra le quali vi era la guerra d'Abissinia. I miei
      amici, fra i quali ricordo particolarmente il Guicciardini, si
      opposero, sostenendo che si dovesse andare a fondo, per constatare
      se vi erano dei colpevoli o dei calunniatori. Questo ordine del
      giorno fu appoggiato dal Ministero, ed ottenne la maggioranza, per
      parte mia astenendomi dal voto secondo l'impegno che avevo preso
      nel tmio stesso discorso, col quale mi ero rimesso completamente
      al giudizio dei miei colleghi. E così la questione fu
      definitivamente sepolta, senza che io potessi dimostrare, a mezzo
      di sentenza, che le accuse dirette contro di me erano pure
      calunnie, e che io ero stato vittima di una sleale persecuzione.
      
      
      L'episodio della Banca Romana, che tenne agitato per quasi due
      anni il Parlamento e l'opinione pubblica, per me ebbe una
      importanza di primo ordine perchè, rilevando le manchevolezze del
      nostro ordinamento delle Banche di emissione, e i gravissimi abusi
      che ne erano derivati, e che minacciavano il credito del paese
      alle sue stesse fonti, cioè nella sicurezza della moneta, dette
      modo di porvi rimedio. A ciò appunto io, appena le cose e i fatti
      vennero alla luce, indirizzai la mia opera politica in modo che
      riuscì permanentemente efficace. 
      
      Va ricordato in proposito che, rispondendo alle interrogazioni del
      Comitato dei Sette, Crispi ammise pienamente di avere conosciuta,
      quando era Presidente del Consiglio, la relazione Biagini e il
      marcio della Banca Romana, e che aveva ritenuto si dovesse uscirne
      al più presto possibile, ma senza chiasso, trattandosi del credito
      nazionale, che non solo era debole all'interno, ma combattuto
      all'estero acerbamente, così che ogni atto che lo pregiudicasse
      maggiormente sarebbe riuscito fatale all'economia nazionale, e che
      perciò si limitò di fare da sé lo studio della Banca unica. Ma
      effettivamente non risulta che il Crispi qualche cosa facesse di
      pratico per rimediare ad uno stato di cose così gravi e che egli
      dichiarava .essere stato a sua conoscenza.
      
      
      Per quanto riguarda quella che fu chiamata la questione morale,
      cioè la compromissione di uomini politici in questi tristi affari
      delle Banche, le cose andarono in modo assai poco soddisfacente;
      dalla scandalosa assoluzione degli .imputati del processo della
      Banca Romana, alle evasioni delle Commissioni parlamentari
      incaricate di constatare la responsabilità degli uomini politici;
      mentre poi, contro la verità e la legge, col pretesto di una
      sottrazione di documenti che poteva essere dimostrata
      assolutamente inesistente sino dal principio, se si fossero
      interrogati i testimoni citati dalla difesa, si condusse per odio
      politico una lunga persecuzione e si tentò di  colpire 
      chi,   per ragione  del  suo 
      ufficio,   aveva portato alla rivelazione di quello
      stato di cose ver
gognoso e pericoloso.    
      
      
      Per parte mia, per quanto riguardava la responsabilità degli
      uomini politici, m'ero rimesso pienamente alla Camera, cui
      competeva di giudicare sul da farsi, dando il mio consenso alla
      inchiesta proposta. Se poi dovetti intervenire direttamente, con
      la presentazione dei documenti e degli appunti in mio possesso, a
      ciò fui costretto dalle circostanze. In primo luogo perchè non
      potevo consentire che dei funzionari incolpevoli fossero fatti
      vittime di false accuse, ordite allo scopo di arrivare a colpirmi
      personalmente; e perchè era mio debito di coscienza fare conoscere
      in proposito la verità. Ciò feci nel modo più riguardoso, dando ad
      uno dei funzionari falsamente accusati, il Felzani, una
      dichiarazione scritta intesa semplicemente a richiamare
      l'attenzione del giudice istruttore sulla necessità di sentirmi
      quale testimone. Fu la pubblicazione abusiva di quella lettera,
      sottratta alla istruttoria segreta a cui apparteneva, che mettendo
      a rumore il Parlamento e la stampa, mi costrinse poi a consegnare
      i documenti che erano in mio possesso. Consegnandoli alla Camera,
      io intesi di liberarmene definitivamente, tanto che richiesto che
      cosa ne avrei fatto qualora, secondo le proposte di alcuni, mi
      fossero restituiti, dichiarai che li avrei bruciati. La Camera, a
      mezzo della Commissione da essa nominata per la cernita e la
      pubblicazione, adottò norme che ne limitarono l'uso, per ragioni
      rispettabili, come quella di nulla pubblicare che si riferisse a
      persone defunte; ed oggi io, narrando quegli avvenimenti di cui
      fui parte principale, mi sono attenuto al riserbo che mi ero già
      imposto, limitandomi ad esporre i fatti, di ragione pubblica la
      maggior parte, che Imi concernevano personalmente e nei quali ero
      stato direttamente implicato.
      
      
      
      La guerra d'Abissinia e la sua incerta condotta — Dissensi fra
        Crispi e Sonnino — La sconfitta d'Adua e la caduta di Crispi —
        La frettolosa liquidazione della guerra fatta dal Rudinì —
        Titubanze fra liberalismo e reazione — Gli avvenimenti del 1898
        — La fase liberale del governo Pelloux — Il passaggio alla
        reazione e i provTedimenti eccezionali — La lotta
        dell'ostruzionismo — Il colpo di mano per mutare il regolamento
        della Camera — Il trionfo dell' Estrema Sinistra nelle elezioni
        e la caduta di Pelloux — I concetti da me proclamati per la
        soluzione della crisi nazionale.
      
      
      Gli ultimi mesi del governo Crispi, fra il dicembre del 1895 e il
      marzo del 1896, furono interamente occupati, nelle cose e nella
      opinione pubblica, dagli avvenimenti di Abissinia. La loro storia
      non ha luogo fra queste memorie, se non per alcune connessioni
      indirette; e mi limito a ricordare solo alcuni punti1 per dare
      ragione della politica da me seguita nelle condizioni 
      generali  che  ne  erano  poi derivate.
      
      
      I fatti che ci avevano condotti nel Mar Rosso, sono noti. Alla
      vigilia del Congresso di Berlino l'Inghilterra ci aveva chiesto di
      metterci d'accordo con essa, offrendoci Tunisi. È noto il rifiuto
      di Cairoli, per la cosidetta politica delle «mani nette», rifiuto
      che portò l'Inghilterra ad accordarsi per Tunisi con la Francia,
      con la conseguenza che al Congresso noi ci trovammo poi isolati e
      non avemmo nulla. Una seconda occasione ci si presentò per entrare
      nella vita coloniale, quando l'Inghilterra, nel 1882, preparandosi
      ad occupare l'Egitto, ci offrì di partecipare all'occupazione. Noi
      rifiutammo ancora, ed a questo rifiuto concorse assai Magliani,
      pel timore che accettando l'invito noi avremmo irritata la
      Francia, mentre egli si illudeva di potere propiziarsi la
      benevolenza della finanza francese. E così finimmo di andare a
      Massaua, per fiche de consolation, d'accordo con le altre
      potenze, nessuna delle quali protestò, eccetto la Turchia che fece
      una semplice protesta proforma. Il Mancini, allora ministro degli
      Esteri, magnificò la cosa pronunciando la famosa frase, che le
      chiavi del Mediterraneo erano nel Mar Rosso, ma noi non ve le
      abbiamo mai trovate.
      
      
      Il Crispi, che aveva cercato di persuadere il governo ad accettare
      la proposta inglese per l'Egitto, si lasciò poi attrarre dal
      miraggio di conquiste verso l'Abissinia. Ho già ricordate le
      velleità che egli dimostrò durante il periodo in cui io
      appartenevo al suo Ministero quale ministro del Tesoro; ricordo
      pure un altro episodio. Un giorno, in Consiglio dei Ministri,
      Crispi disse testualmente: — Corre voce che Re Giovanni sia stato
      ucciso in una battaglia coi dervisci; e questa mi pare una buona
      occasione per occupare l'Asmara. — Io gli osservai che non ero
      contrario a quella occupazione; ma che non mi pareva si dovesse
      agire  su una semplice voce ma aspettare la conferma. Crispi
      acconsentì; la conferma venne e l'Asinara fu occupata. Quella
      precipitazione di Crispi, mostrata da questo episodio, era un
      segno delle sue inclinazioni, che io ritenevo pericolose.
      
      
      Quando, nel dicembre del 1893, Crispi assunse di nuovo il governo,
      queste sue inclinazioni trovarono nuove ragioni e nuove spinte.
      L'opinione pubblica era turbata dagli scandali bancari e le classi
      dirigenti impaurite dalle prime agitazioni socialiste; una impresa
      coloniale si presentava come un diversivo. Ma le imprese, a cui ci
      si accinge in tali condizioni, diventano delle vere e proprie
      avventure, e generalmente risultano sfortunate. Credo che di rado
      una guerra coloniale sia stata iniziata in meno favorevoli
      condizioni e con peggiori auspici. Grandissima parte dell'opinione
      pubblica vi era contraria; nella loro grande massa le classi
      popolari, e per tutta l'Italia settentrionale anche la maggioranza
      delle classi dirigenti non ne volevano sapere. Nello stesso
      Ministero i consigli erano divisi; e ne è una prova una lettera
      riprodotta poi nei documenti diplomatici, con la quale il Sonnino,
      nel principio del '95, consentiva a malincuore all'invio di due
      battaglioni, e concludeva che l'invio di altre truppe, allo stato
      delle cose, sarebbe stato una vera follia. Altri documenti
      dimostrano la resistenza di chi aveva la responsabilità delle
      finanze dello Stato, ed avventurarsi in una impresa, il cui costo
      superava le nostre potenzialità,  e non  poteva essere
      calcolato.
      
      Perfino nella mente del Crispi queste preoccupazioni dello stato
      dell'opinione pubblica e delle condizioni della finanza si
      facevano sentire; ed allora egli telegrafava a Baratieri che ogni
      ulteriore espansione in Abissinia trovava opposizioni nell'alta
      Italia anche fra gli amici del Ministero; che il suo collega del
      Tesoro se ne preoccupava per l'incertezza delle spese a cui si
      andava incontro, e che non permetteva che il bilancio dell'Eritrea
      superasse i nove milioni, concludendo con l'avvertire che non si
      voleva che la questione suscitasse imbarazzi nella Camera, la cui
      opera per la restaurazione delle finanze non doveva essere
      turbata. Ma poi queste esitazioni e preoccupazioni erano vinte in
      lui dall'allettamento di notizie di vittorie che mandava il
      Baratieri, e con le quali si cercava d'infiammare l'opinione
      pubblica. 
      
      Così si continuò per parecchi mesi, senza decidere né di fare la
      guerra sul serio, dando tutti i mezzi necessari, né di abbandonare
      l'impresa. A mostrare con quali criteri si procedeva rimane un
      telegramma di Crispi, datato pochi mesi prima del disastro, con
      cui egli chiedeva al Baratieri quale sarebbe stata l'economia del
      rimpatrio di due battaglioni, e concludeva con l'ammonirlo di fare
      la guerra come Napoleone, col danaro dei vinti, e di sciogliere il
      problema — cioè il problema fra le necessità della guerra e la
      mancanza dei mezzi per condurla — con le risorse della colonia
      Eritrea e dei territori occupati. Solo all'ultimo momento, quando
      cioè Menelick si avanzava con tutte le forze deli'Abissinia, si
      comprese la gravità della situazione ed il pericolo, e si volle
      correre ai ripari con tutti i mezzi ed inviando i rinforzi
      necessari, come pure sostituendo il Baratieri col Baldissera. Ma
      era troppo tardi, e non si seppe nemmeno nascondere l'invio del
      Baldissera. Baratieri avutane notizia attaccò, e la sconfitta
      d'Adua avvenne lo stesso giorno in cui il Re passava in rivista a
      Napoli i rinforzi pronti per l'imbarco.
      
      
      L'impressione del disastro fu gravissima per tutta Italia, e
      provocò una clamorosa sollevazione degli animi, nella quale pur
      troppo si mescolavano i risentimenti per la politica di reazione e
      di violenza usata dal governo specie contro le classi e i partiti
      popolari. Crispi si presentò alla Camera, che era stata appunto
      convocata per quei giorni, con le dimissioni. L'annunzio fu
      accolto da un tumulto : Rudinì chiese di parlare, ma il Presidente
      chiuse frettolosamente la seduta. Della costituzione del nuovo
      Ministero fu incaricato il generale Ricotti, il quale mise per
      condizione della sua accettazione di prendere accordi col Rudinì,
      cui cedette la Presidenza. Ricordo che io fui chiamato da Rudinì,
      in casa di Brin, nel palazzo Odescalchi, in cui si riunivano, per
      chiedere la mia opinione, e per sapere da me quale contegno
      avrebbero assunto i miei amici. Io gli dichiarai che avrei
      francamente appoggiato il Ministero, nel quale entrò anche,
      prendendo il dicastero della Pubblica Istruzione, il mio amico
      Gianturco. Agli Esteri fu chiamato il Caetani, che quantunque
      conservatore aveva mantenuto un atteggiamento di forte opposizione
      al Crispi, sia per la impresa di Abissinia, sia per la politica
      reazionaria.
      
      
      Il Di Rudinì, assunto il potere, si preoccupò an
zitutto di
      risolvere la situazione abissina, che teneva
in fermento tutto il
      paese, sia pel pericolo di complicazioni, sia per preoccupazioni
      sulla sorte dei soldati ed ufficiali rimasti prigionieri nella
      sfortunata
battaglia. Egli iniziò una politica di graduale
      ritirata, in corrispondenza ad una tendenza che si era
manifestata
      fortissima nel paese, e che arrivava sino
a desiderare e
      patrocinare l'abbandono totale e definitivo dell'Africa. Questo a
      me pareva eccessivo
e poco conveniente alla stessa dignità
      nazionale; e
trovai pure che fu esagerato l'abbandono di Cassala,
      che era la parte migliore della colonia, e dove
si erano potuti
      iniziare esperimenti promettenti di
cultura del cotone, e che fu
      retrocessa quasi per
forza all'Inghilterra. Se per queste
      decisioni affrettate
ed eccessive c'è una scusante nello stato
      dell'opinione pubblica, si può dire però che il Rudinì ebbe
il
      torto di abbandonarsi ad una corrente impetuosa
del momento, la
      quale rappresentava anche una rea
zione alla politica interna di
      violenza del Ministero
caduto.    |
      
      
      Quel periodo di governo Di Rudinì, fu un vero caleidoscopio, con
      continui mutamenti di ministri. Il primo Ministero durò dal 10
      marzo all'11 luglio, e fu in gran parte mutato con le dimissioni
      di Caetani, sostituito dal Visconti-Venosta; di Colombo sostituito
      dal Luzzatti; di Ricotti sostituito da Pelloux; di Perazzi
      sostituito da Prinetti, e di Carmine sostituito da Sineo. Queste
      sostituzioni non rappresentavano nuovi orientamenti o mutamenti di
      rotta; erano puri e semplici cambiamenti di persone per soddisfare
      a pretese parlamentari e tenersi in piedi. 
      
      Questo secondo Ministero tirò avanti per un anno e mezzo, sino al
      dicembre del '97, quando si ebbe il notevole fatto della entrata
      nel Ministero di Zanardelli che era intesa a dare al governo un
      indirizzo più liberale. Altre notevoli variazioni di persone ci
      furono e Pelloux fu sostituito da San Marzano; Gianturco da Gallo;
      Prinetti da Pavoncelli; Guicciardini da CoccoOrtu. Questo
      Ministero che, sopratutto per l'entrata di Zanardelli,
      rappresentava una mossa decisa verso Sinistra, durò sino al 12
      giugno del '98. Un terzo Ministero, sempre con lo stesso metodo,
      fu messo ancora insieme da Rudinì, ma non durò che ventinove
      giorni. 
      
      Quella fu proprio l'epoca dei cosidetti rimpasti ministeriali,
      metodo al quale io non ho mai creduto e mai ricorso. L'esperienza
      infatti insegna che quando si fa un rimpasto, col proposito di
      rafforzare un Ministero, si ottiene l'effetto opposto di
      indebolirlo sempre più, e di farlo vivacchiare senza nessuna
      capacità di azione.
      
      Durante questo periodo, che fu di due anni e tre mesi, di continui
      cambiamenti di uomini con ondeggiamenti ora a destra ora a
      sinistra, io mi trovai molto d'accordo con Cavallotti per
      combattere il   Ministero   quando  
      esso   prendeva  degli   atteggiamenti
      reazionari. Ricordo che Cavallotti ed io avevamo cercato di
      dissuadere in tutti i modi lo Zanardelli dall'entrarvi, essendo
      convinti che avrebbe potuto formarne uno egli stesso sulla base
      della Sinistra. Anzi ci recammo insieme a casa dello Zanardelli lo
      stesso giorno in cui egli accettò le offerte del Di Rudinì; e dopo
      una nostra lunga conversazione con lo Zanardelli, uscendo
      Cavallotti mi disse: — Credo che siamo riusciti a dissuaderlo — ma
      io gli risposi: — Temo invece che siamo arrivati troppo tardi — ed
      infatti l'ingresso di Zanardelli nel Ministero fu annunciato
      l'indomani.
      
      
      Per questi nostri contatti ebbi allora campo di conoscere bene il
      Cavallotti. Egli era uomo di molto e vivo ingegno; impetuoso di
      carattere ma sinceramente interessato al bene del paese. Le mie
      relazioni con lui furono varie. Quando ero stato alla Presidenza
      del Consiglio, egli mi aveva combattuto; ma più tardi ci trovammo
      in pieno accordo nel combattere la reazione di Crispi, come pure
      nel combattere il Di Rudinì quando prese un atteggiamento troppo
      conservatore, che lo portò poi alla proclamazione degli stati
      d'assedio. Non ho mai avuto a lagnarmi di lui, anche quando mi ha
      combattuto; anche quando aggrediva violentemente e alle volte
      passava i limiti era sempre animato da passione politica e la sua
      condotta non era mai obliqua e sleale. Se fosse vissuto sarebbe
      certo pervenuto al governo: lo stesso Re Umberto, negli ultimi
      tempi prima che morisse gli  aveva mandato  a dire che
      pel caso di una combinazione ministeriale egli non faceva alcuna
      esclusione. 
      
      Ricordo che il giorno in cui si battè nel duello dove trovò la
      morte, io mi trovavo alla Camera, e Giampietro, suo grande amico,
      e che molte volte era stato suo padrino, venne a parlarmi
      dimostrandosi inquietissimo, perchè conosceva il pericolo al quale
      il Cavallotti con la sua impetuosità si esponeva di fronte ad un
      avversario di sangue freddo. E mentre eravamo in questi discorsi
      giunse alla Camera la notizia della sua morte.
      
      
      I fatti del '98 furono occasionati nel loro inizio dalla miseria
      in cui si trovava il paese, al colmo di una lunga crisi che aveva
      colpito l'economia mondiale, e da un improvviso, grave rincaro del
      costo del pane, dovuto a cattivi raccolti; al quale rincaro il
      governo non aveva provvisto nemmeno con una abolizione temporanea
      del dazio sul grano. A mio parere fu allora un errore il credere
      che si trattasse di un grande movimento politico e sovversivo,
      mentre si trattava di una esplosione di malcontento. Ma perdurava
      ancora nelle classi dirigenti uno stato d'animo paurosissimo di
      qualunque agitazione popolare e delle sue manifestazioni, e il
      governo, rispecchiando tale sentimento, si lasciò andare a
      provvedimenti eccessivi. Così fu proclamato, o proposto
      all'autorità locale la proclamazione dello stato d'assedio in
      provincie e luoghi dove non c'era nessun pericolo. 
      
      Ricordo che si trovava a Torino Re Umberto, con alcuni ministri e
      numerosi senatori e deputati per la celebrazione del cinquantesimo
      anniversario dello Statuto, e proprio in quei giorni vi giunse
      l'ordine di proclamare lo stato d'assedio, ordine provocato
      indubbiamente da informazioni false o per lo meno esagerate. Fra
      l'altro era stato riferito a Roma, non so da chi, che gli operai
      della fabbrica Leumann, sita nelle vicinanze della città, si erano
      messi in marcia su Torino; ora quella fabbrica impiegava quasi
      esclusivamente donne le quali, essendo in isciopero, furono
      trovate sedute tranquillamente nei prati contigui alla fabbrica.
      Era a Torino, insieme al Re, anche lo Zanardelli, ministro di
      Grazia e Giustizia; e il generale Resozzi, che comandava quel
      corpo d'armata, fece osservare che mancava qualunque motivo per
      proclamare lo stato d'assedio; e così l'ordine fu revocato. Un
      altro generale che pure rilevò non essere necessario lo stato
      d'assedio, fu il Pelloux, che teneva il comando del corpo d'armata
      di Bari. 
      
      I provvedimenti eccessivi a cui si era lasciato andare il governo
      per codesti avvenimenti ebbero il loro contraccolpo sulla
      situazione parlamentare e sullo stesso Ministero, da cui uscirono
      gli elementi di Sinistra: Zanardelli, Cocco-Ortu, Gallo, Sineo e
      Visconti-Venosta. Il Di Rudinì volle tentare un'altra
      ricomposizione, e fra gli altri invitò il Pelloux, offrendogli il
      portafogli degli Esteri. Il Pelloux venne da me, per avere in
      proposito il mio parere, ed io lo dissuasi dall'accettare, sia
      perchè a me pareva che, dopo la caduta del Rudinì, sarebbe stato
      molto opportuno offrire l'incarico a lui, che fra i generali,
      astenendosi dal proclamare lo stato d'assedio a Bari, si era
      mostrato il più liberale, sia perchè d'altra parte nella sua
      qualità di generale offriva particolari garanzie pel mantenimento
      dell'ordine, allora sempre turbato. Egli accettò il mio parere e
      rifiutò. 
      
      Il Di Rudinì mise assieme un Ministero alla meglio; ma non potendo
      più contare su un appoggio a Sinistra ed avendo così perduta la
      maggioranza, dopo ventinove giorni dovette ritirarsi
      definitivamente.
      
      
      Dopo la caduta del Di Rudinì, il Re chiamò Visconti-Venosta il
      quale, dopo i primi assaggi si persuase di non potere formare un
      ministero capace di reggersi, e quindi declinò l'incarico. Fu
      chiamato un altro senatore, il Finali, che venne da me
      dichiarandomi che riteneva suo dovere di esaminare quali
      possibilità vi fossero, pure non facendosi nessuna illusione di
      potere riuscire, e infatti due giorni dopo si ritirò. Allora il Re
      chiamò Pelloux. Questi volle ancora vedermi, e in una
      conversazione che avemmo mi osservò che per comporre un Ministero,
      considerata la situazione parlamentare, gli occorreva l'appoggio
      tanto di Zanardelli che degli amici di Crispi. Io mi impegnai con
      lui di tastare il terreno per quanto riguardava gli elementi di
      Sinistra, e mi recai subito dallo Zanardelli, insieme al suo
      intimo amico, il deputato  Picardi; e lo  Zanardelli
      convenne con noi che, considerate le condizioni dello spirito
      pubblico in quel momento, la migliore soluzione che si presentasse
      con probabilità di buon successo, era appunto di dare l'incarico a
      Pelloux, che pei suoi precedenti dava serii affidamenti ai partiti
      liberali. Mi recai pure da Guido Baccelli, amico di Crispi, che
      pure convenne della opportunità di tale soluzione. E così Pelloux
      potè formare il suo primo Ministero, interamente su base di
      Sinistra, prendendo seco il Fortis, il Lacava, il
      Finocchiaro-Aprile, ecc. ed avendo come sottosegretario agli
      Interni un mio amico, il deputato MarsengoBastia.
      
      
      Giunto così al governo, il generale Pelloux abbandonò i disegni di
      legge restrittivi della libertà della stampa e del diritto di
      associazione presentati dal suo predecessore; accennò al proposito
      di governare con le leggi ordinarie rigidamente applicate; e pose
      a base del suo programma una riforma tributaria in senso
      democratico; tenne insomma, per circa sette mesi, una condotta
      politica liberale, cercando anche di attenuare negli effetti le
      condanne degli uomini politici, radicali e socialisti, colpiti dai
      tribunali militari, quali il Turati, il Romussi ed altri. Ricordo
      che per un caso speciale toccato al Romussi, intervenni io
      personalmente, ottenendo che fosse revocato un assurdo
      provvedimento pel quale, avendo il Romussi scritta nella sua
      detenzione una vita di Silvio Pellico, la si voleva considerare
      come lavoro carcerario, ed attribuirne la proprietà allo
      Stato.  Ed  il  Pelloux  in tutto 
      questo  periodo  ebbe l'illimitato  e
      disinteressato  appoggio del  Partito liberale.
      
      
      Poi improvvisamente egli mutò rotta; e il 4 febbraio del 1899,
      cedendo alle intimazioni della parte più intransigente del partito
      conservatore; e forse anche impressionato pel fatto che, non
      ostante la repressione del '98, il movimento operaio e socialista
      si propagava per tutta l'alta Italia, con grande spavento dei
      conservatori, il Pelloux presentò alla Camera le cosidette leggi
      eccezionali, che miravano a restringere i diritti statutari di
      riunione, di associazione e di libertà di stampa. Di fronte a tale
      atto del Ministero, il Partito liberale momentaneamente si divise;
      una parte, ritenendolo definitivamente avviato a reazione, lo
      abbandonò, rifiutandogli il voto pel passaggio alla seconda
      lettura del disegno di legge presentato; altri, fra i quali io
      ero, vollero tentare ancora di ricondurre il Ministero al
      programma con cui era sorto. A me, e a quelli fra i miei amici che
      allora consentirono meco, repugnava di credere che il Pelloux,
      andato al governo con programma liberale, volesse volgersi a una
      politica reazionaria. Noi consideravamo d'altra parte che il
      disegno di legge ministeriale con alcuni emendamenti poteva essere
      reso accettabile; in quanto la parte relativa al diritto di
      riunione riguardava solamente quelle tenute all'aperto, lo
      scioglimento delle associazioni si deferiva all'autorità
      giudiziaria, e si avevano affidamenti per la modificazione della
      parte più grave, quella che concerneva la libertà di stampa.
      
      Io e Zanardelli esaminammo quindi se fosse il caso di passare
      immediatamente all'opposizione o se convenisse attendere la
      discussione. E finimmo per trovarci d'accordo che si potesse
      accettare il passaggio alla discussione degli articoli; e questo
      tanto più che il Pelloux, a mezzo del Lacava, ci aveva date
      assicurazioni, promettendoci fra l'altro che la Commissione per
      l'esame del progetto sarebbe stata nominata di pieno accordo col
      Partito liberale, così che le leggi proposte avrebbero potuto
      essere modificate in guisa che non riuscissero ad alcuna
      restrizione o menomazione dei diritti statutari, mentre io e
      Zanardelli eravamo poi disposti ad accettarne quella parte che
      mirava ad assicurare la continuità dei pubblici servizi.
      
      
      Se non che ogni tentativo di ritrarre il governo dal suo nuovo
      indirizzo politico apparve presto vano, e gli affidamenti dati
      fallaci. Infatti, appena ottenuto il voto per il passaggio alla
      seconda lettura, il Pelloux mostrò apertamente il fermo suo
      intendimento di non attenuare in alcun modo il carattere
      reazionario dei suoi provvedimenti; fra l'altro, quando si fu a
      comporre la Commissione che doveva riferire alla Camera, egli,
      mancando alle dichiarazioni che a suo nome aveva fatto Lacava,
      propose una serie di nomi scelti appunto fra coloro che si erano
      mostrati favorevoli alla restrizione dei diritti statutari, e
      specie del diritto di riunione. Nello stesso tempo, ripetendo
      l'esempio di Crispi, per quella legge fatale per la quale ad ogni
      movimento, reazionario all'interno corrisponde un tentativo di
      diversione all'estero, egli iniziò in Cina una nuova impresa che
      la maggioranza della Camera disapprovava, perchè non consigliata
      da alcun evidente interesse del Paese e rivolta a luogo che
      escludeva ogni possibilità di colonizzazione, e perchè intrapresa
      senza scopo preciso, senza conoscenza del luogo che si voleva
      occupare e senza alcun serio calcolo delle sue difficoltà e delle
      spese che avrebbe importate. E quella impresa infatti, non ebbe
      altro risultato che lo sperpero di parecchi milioni ed una
      umiliazione nazionale; e malamente iniziata fu poi abbandonata in
      modo così poco dignitoso, che più tardi io, quando si discusse il
      bilancio degli esteri, mi sentii in dovere di raccomandare al
      Ministro che per carità di patria non ne pubblicasse i documenti;
      raccomandazione che il Ministro accolse.
      
      
      Venuta in discussione quella sciagurata impresa,
il Pelloux,
      prevedendo una sicura sconfitta, si dimise senza attendere il voto
      del Parlamento e formò
un nuovo Ministero con la sua base
      principale negli
elementi più conservatori della Camera :
      Finocchiaro-Aprile fu sostituito da Bonasi, Carcano da
      Carmine,
Fortis da Salandra, Vacchelli da Boselli, Nasi da
San
      Giuliano; sostituzioni tutte che portavano alla
trasformazione
      totale del Ministero da Sinistra a Destra, da liberale a
      conservatore. Per inevitabile conseguenza, e per assicurarsi
      l'appoggio dei conservatori più intransigenti, il Pelloux dovette
      modificare
i suoi progetti di legge in senso anche più
      reazionario,
arrivando a sopprimere addirittura, contro lo stesso
      voto della Commissione parlamentare, il diritto di riunione
      garantito dallo Statuto, ed a togliere ogni garanzia di intervento
      dell'autorità giudiziaria nello scioglimento delle associazioni.
      Nello stesso tempo, e per logica conseguenza del nuovo indirizzo
      politico, il Pelloux abbandonò pure quei propositi di riforma
      tributaria a favore delle classi popolari, coi quali aveva da
      prima assunto il governo.
      
      
      Con questo atteggiamento assunto dal governo, la vita parlamentare
      fu travolta in una lotta senza limitazioni. L'Estrema Sinistra,
      che riteneva i provvedimenti antistatutari del Pelloux contrari
      agli interessi politici delle classi che essa rappresentava,
      rispose alla sfida ricorrendo ad un'arma che sino allora non era
      mai stata usata nel parlamento italiano: l'arma
      dell'ostruzionismo. Né io, né Zanardelli, né gli altri
      dell'opposizione costituzionale partecipammo alla lotta
      dell'ostruzionismo, e lo dimostrammo votando contro tutte le
      proposte che a scopo di ostruzionismo venivano avanzate; io anzi
      un giorno, in un mio discorso ebbi a dichiarare che noi ci
      trovavamo presi fra due violenze: quella del governo che
      presentava leggi contro i diritti statutari, e quella degli
      estremi che rendevano impossibile il funzionamento del Parlamento,
      ciò che non poteva essere approvato dal partito liberale. Non
      sarebbe, del resto, stata cosa difficile vincere l'ostruzionismo,
      se il Ministero avesse avuta autorità per dirigere i lavori
      parlamentari e se fosse stato sorretto da una maggioranza sicura;
      ma codeste condizioni mancavano, ed il Ministero
non riuscì
      neppure a tenere presente alla Camera la
sua maggioranza, cosicché
      parecchie volte, sebbene
l'opposizione costituzionale non avesse
      mai abbando
nata l'aula,  mancò il numero 
      legale.    
      
      
      L'aiuto più efficace all'ostruzionismo fu pure dato
dalla
      incertezza dello stesso Ministero nei suoi propositi. Infatti esso
      abbandonò il primo suo disegno
di legge; ne abbandonò un secondo
      dopo averlo trasmesso alla Commissione parlamentare; non
      accettò
un progetto elaborato dalla Commissione stessa, e
lasciò
      che la Camera discutesse per quindici giorni
senza sapere
      precisamente quale fosse il disegno di
legge voluto dal Ministero,
      la cui incertezza giunse
al punto che il 15 giugno del 1899 il
      Ministro di
Grazia e Giustizia sostenne una disposizione
      relativa
al diritto di riunione che poteva essere accettata
      dal
Partito liberale, ed all'indomani il Presidente del
Consiglio
      ne propose un'altra sostanzialmente di
versa ed equivalente
      all'assoluta abolizione di quel
diritto.  
      
      
      Dopo tutti questi errori il Pelloux, trovatosi impotente a
      dominare la situazione, non seppe escogitare altro che un atto da
      lui stesso dichiarato illegale; e con semplice decreto, contro la
      esplicita disposizione dello Statuto fondamentale dello Stato,
      senza il voto della Camera, senza il voto del Senato, modificò le
      leggi esistenti sulla stampa e sui diritti di riunione e di
      associazione; cosa che non era stata mai tentata dal 1848 in poi.
      
      
      E devo qui ricordare, ad onore del Parlamento, che tale aperta
      violazione dello Statuto, ebbe aperti rimproveri, non solo dalla
      opposizione costituzionale, ma dai più autorevoli capi della
      stessa maggioranza ministeriale. Tale decreto fu poi dichiarato
      incostituzionale dalla Corte dei Conti ed annullato dalla Corte di
      Cassazione.
      
      
      Ma ormai il governo di Pelloux doveva giungere sino al fondo della
      china pericolosa in cui si era messo incautamente. Per debellare
      l'ostruzionismo e renderlo impossibile nell'avvenire, d'accordo
      con la Presidenza, pensò di modificare il regolamento della
      Camera; ma anche queste modificazioni dovevano essere discusse ed
      approvate, e si trovavano quindi e non meno dei provvedimenti
      eccezionali, di fronte all'ostacolo dell'ostruzionismo. Per girare
      questo ostacolo si ricorse, da parte del governo, con la
      connivenza della Presidenza, tenuta allora dal conservatore
      Colombo, ad uno stratagemma. Era stato già preparato il progetto
      di regolamento, che fu subito pubblicato, ma non iscritto
      all'ordine del giorno. Il Colombo, all'inizio di una seduta,
      dichiarò improvvisamente — I deputati hanno già visto il nuovo
      progetto di regolamento: lo metto ai voti: chi lo approva alzi la
      mano. — Naturalmente in tal modo il progetto fu lapprovato, ma
      senza che fosse passiate traverso ad alcuna discussione. L'Estrema
      Sinistra si sollevò in tumulto; e noi pure dichiarammo di non
      potere riconoscere quel regolamento, perchè non approvato nelle
      debite forme. Per dare maggiore importanza a questo 
      rifiuto,  Zanardelli  fu  incaricato  da tutte
      le Sinistre di fare una solenne dichiarazione di non riconoscerlo;
      dopo di che uscimmo in massa dall'aula. Il governo, col mettersi
      nell'illegalità, altro non aveva ottenuto che di riunire in un
      blocco compatto tutte le opposizioni; e l'ostruzionismo non potè
      essere vinto. 
      
      Ci fu qualche tentativo di riconciliazione ma senza risultato.
      Ricordo che un giorno io avevo incontrato il Colombo nell'auletta
      della Camera, che si stava riassettando, ed in una conversazione
      che ne era seguita il Colombo aveva assentito ad una mia proposta
      conciliativa, riservandosi però di darmi la risposta. E il giorno
      dopo mi portò la risposta, negativa, dicendomi: — Sonnino non
      vuole. — 
      
      L'on. Sonnino aveva in quel tempo tenuta la posizione di capo
      della maggioranza, ed in un suo famoso scritto, col titolo
      «Torniamo allo Statuto» aveva patrocinata la tesi conservatrice
      sino alle sue ultime conseguenze, di tornare cioè alla forma del
      governo cosidetto costituzionale, in opposizione al governo
      parlamentare, con la responsabilità cioè dei ministri invece che
      verso il Parlamento, verso la Corona. Quella tesi, e la lotta
      sostenuta da Pelloux per l'approvazione delle leggi
      antistatutarie, rappresentarono l'ultimo sforzo dei conservatori
      per dominare i destini del Paese; sforzo condannato all'insuccesso
      perchè in contrasto con le tendenze sempre più democratiche dei
      tempi e in quasi tutti i paesi. Più tardi poi il Sonnino, dopo il
      mio secondo Ministero, ebbe a dichiarare francamente che l'Italia
      poteva essere governata solo coi metodi miei, ed in tutta la sua
      opera ulteriore ritornò e si tenne lealmente alle norme del
      governo parlamentare.
      
      
      Al governo, battuto con l'ostruzionismo, non rimaneva che un
      ultimo espediente: l'appello al Paese, che s'imponeva anche per
      tranquillare gli animi ad uscire dalla situazione mediante un
      verdetto della pubblica opinione. Le elezioni furono indette il 18
      maggio 1900 per il 3 ed il 10 giugno, e riuscirono ad un trionfo
      dell'Estrema Sinistra, che ritornò alla Camera notevolmente
      rafforzata.
      
      In una lettera indirizzata ai miei elettori, io avevo osservato
      che, pel modo con cui erano condotte le elezioni, risultava
      evidente che il Ministero considerava come nemici suoi coloro che
      invocavano la integrità dello Statuto fondamentale dello Stato; ed
      aggiungevo che, la violenza non essendo mai durevole, noi potevamo
      considerare con piena sicurezza il Ministero Pelloux come
      destinato a scomparire di fronte alla nuova rappresentanza del
      Paese, lasciando dietro di sé tristi ricordi e rendendo più gravi
      e difiìcili nella nuova legislatura i doveri dei sinceri amici
      delle istituzioni. Quel mio pronostico, che irritò assai il
      Pelloux, fu pienamente adempiuto. 
      
      Alla convocazione della Camera vi fu lotta per l'elezione del
      Presidente, il Governo portando il Gallo e l'opposizione lo
      Zanardelli. Il Gallo riuscì solo per pochi voti; ed a me che gli
      presentavo i miei rallegramenti personali, pure non avendogli dato
      il voto, e gli chiedevo se ora egli farebbe le parti di forza,
      come il Colombo, egli rispose: — Mi pare che sarebbe perfettamente
      inutile. — Ed egli stesso consigliò poi il Pelloux a dare le
      dimissioni, che furono presentate il 24 giugno.
      
      
      Con questo il Pelloux chiuse la sua carriera politica, scontando
      l'errore di essersi lasciato trascinare ad una politica
      ultraconservatrice, dopo aver assunto il governo grazie ai suoi
      precedenti liberali e con l'appoggio, da lui stesso chiesto, della
      Sinistra. Personalmente egli era un uomo altamente stimabile;
      gentiluomo cortese ed onestissimo; uomo d'ingegno pronto e vario,
      ma deficiente nella cultura politica. I nostri rapporti erano
      sempre stati assai amichevoli; ma poi egli si alienò da me per un
      episodio svoltosi più tardi al Senato. Egli sostenne che la
      militarizzazione dei ferrovieri, da me applicata, non era legale.
      Allora io gli ricordai che egli era generale in attività di
      servizio, e come tale avrebbe avuto l'obbligo di pubblicare gli
      ordini del governo con la sua stessa firma; sotto la quale i
      ferrovieri avrebbero potuto stampare le parole contrarie a quegli
      ordini che egli pronunciava come senatore. Egli ne rimase turbato,
      e d'allora in poi i nostri rapporti furono rotti.
      
      
      Con la caduta di Pelloux si chiuse definitivamente un periodo
      assai torbido della nostra vita nazionale; periodo che, iniziato
      col Ministero Crispi, succeduto al mio primo Ministero, e passando
      per i varii Ministeri Di Rudinì e Pelloux, rappresentò nel suo
      complesso, non ostante momentanei proponimenti ed affidamenti, un
      continuo tentativo di risolvere in senso conservatore e
      reazionario la grande crisi, materiale e morale, che travagliava
      il paese. Gli intendimenti reazionari, con l'uso dei mezzi più
      violenti, furono più espliciti e diretti nella politica del
      Crispi; mentre col Di Rudinì e il Pelloux le cose andarono
      diversamente, perchè il primo, venuto al potere contro appunto il
      reazionarismo del Crispi, si lasciò trascinare egli stesso ad una
      politica di reazione; e il Pelloux, chiamato, con la fiducia del
      partito liberale contro all'ultimo periodo reazionario del Rudinì,
      finì per riassumere tutta la politica reazionaria nel tentativo di
      mutare le leggi statutarie liberali.
      
      Il Di Rudinì e il Pelloux parvero insomma essere spinti nella
      corrente della politica conservatrice e reazionaria piuttosto
      contro la loro volontà, dalla forza dei fatti e delle cose; e
      sarebbe ingiusto non riconoscere le difficoltà delle condizioni a
      cui si trovarono ripetutamente di fronte. Il malessere economico
      che gravava sul paese, col conseguente sorgere e diffondersi del
      malcontento e delle agitazioni nelle classi popolari e nella
      piccola borghesia, che ne erano particolarmente colpite;
      l'affacciarsi di nuove dottrine politiche, quale il socialismo,
      che facevano presa sulle folle tanto nelle città che nelle
      campagne, creavano indubbiamente nuovi e gravi problemi, sia
      economici che politici di non facile soluzione, e che
      preoccupavano le classi dirigenti ed il Parlamento. La principale
      questione che, in tali condizioni, si poneva alle classi politiche
      ed agli uomini di governo, era se questi problemi potevano
      risolversi col regime di libertà, o se essi richiedevano e
      imponevano un restringimento di freni e l'adozione di
      provvedimenti eccezionali.
      
      
      Per conto mio non dubitai un solo momento che la loro retta
      soluzione non potesse ottenersi che col mantenimento dei principii
      liberali, e che qualunque provvedimento di reazione, per soffocare
      il malcontento e per impedire la manifestazione delle nuove
      aspirazioni popolari, avrebbe avuto il solo effetto di peggiorare
      le cose e minacciare le stesse istituzioni. Cotale criterio io
      cercai di applicare nel mio primo Ministero, e lo mantenni
      fermamente nella lotta contro la politica di Crispi, e poi contro
      il Di Rudinì e Pelloux quando, venendo meno agli impegni presi ed
      agli affidamenti dati al partito liberale, passarono alla
      reazione. E tali principii ribadii costantemente in lettere
      indirizzate ai miei elettori, per rendere conto del mandato
      politico da essi affidatomi, e in discorsi pronunciati dal 1897 al
      1899 in varie sedi del mio collegio e specialmente a Busca e
      Coraglio.
      
      Non credo fuori di luogo, tralasciando le questioni più
      particolari del momento, di riassumere qui brevemente la parte
      generale dei concetti politici allora da me proclamati, nel vivo
      della lotta fra conservatorismo e liberalismo; tanto più che essi
      rappresentano i principii fondamentali della mia condotta
      politica, a cui mi sono, e prima e dopo, costantemente attenuto.
      
      
      Dunque, in quei miei discorsi, dopo avere rilevato come, in
      seguito alla persistente politica di reazione, in contrasto con
      gli affidamenti dati, il paese non prestasse più fede al governo
      ed ai partiti costituzionali, e che solamente con una energica
      azione ed un radicale mutamento di indirizzo, si poteva
      riacquistare la fiducia delle popolazioni, io domandavo: — Quale
      deve essere il nuovo indirizzo?
      
      
      Ed osservavo che due sistemi politici stavano di fronte: l'uno,
      quello del partito reazionario, che consisteva nel rifiutare
      qualunque concessione e nell'opporre ai malcontenti la forza,
      diminuendo le pubbliche libertà ed accrescendo i mezzi di
      repressione; l'altro, quello del partito liberale, che consisteva
      nel dare soddisfazione ai giusti desideri della grande maggioranza
      del paese, e così togliere o almeno attenuare, per quanto può
      dipendere dalle leggi e dai metodi di governo, le cause del
      pubblico malcontento.
      
      
      Notavo quindi che la via della reazione era consigliata da alcuni
      uomini politici, i quali si presentavano come continuatori
      dell'antico partito moderato, e della politica del Conte di
      Cavour. Giammai era stata fatta a quel partito ed a quella
      gloriosa politica più grave ingiuria; la storia c'insegnava che i
      legittimi rappresentanti dell'antico partito moderato, Lamarmora,
      Ricasoli, Farmi, Menabrea, Lanza, Sella, Minghetti avevano saputo,
      nei momenti più difficili, come dopo Novara, Villafranca,
      Aspromonte, Mentana, rendere la pace al paese senza togliergli la
      libertà; e invocare il nome di Cavour per sostenere una politica
      reazionaria e violatrice della libertà equivaleva a tentare una
      delle più audaci falsificazioni della storia. E facevo notare che
      i reazionari di quel tempo non appartenevano alla scuola politica
      del Conte di Cavour, ma a quella dei governi che quella politica
      aveva abbattuti nel 1859 e nel 1860.
      
      
      Esaminavo poi quali sarebbero state le conseguenze di una politica
      reazionaria.
      Evidentemente tale politica sarebbe stata diretta contro la
      piccola borghesia e contro le grandi masse popolari, e perciò
      avrebbe potuto contare solamente sulla forza delle classi nella
      reazione interessate, vale a dire di quelle classi che temevano le
      riforme necessarie ad attenuare il pubblico malcontento. Ora, era
      mai possibile che reggesse a lungo un governo che avesse contro di
      sé la maggioranza dell'opinione pubblica, specie in un paese,
      quale era l'Italia, dove il governo non avrebbe avuto neppure
      l'aiuto incondizionato  del  partito  clericale?
      
      
      Una tale politica reazionaria avrebbe dovuto contare
      principalmente sulla forza armata; e poteva essere ammissibile che
      l'esercito italiano, che esce dalle fila del popolo e ne è la più
      schietta rappresentanza, diventasse strumento di oppressione della
      libertà del paese? A ciò si doveva aggiungere che una tale
      condizione di cose non avrebbe potuto non avere un triste riflesso
      sulle condizioni dell'Italia all'estero, perchè un paese che deve
      mettere ogni tanto una parte dell'esercito sul piede di guerra per
      mantenere l'ordine all'interno, non può avere all'estero seria
      influenza.   Alla  forza della  pubblica 
      opinione   non
      avevano potuto resistere le monarchie reazionarie che governarono
      l'Italia prima del 1860, le quali avevano per sé l'appoggio della
      chiesa, la tradizione secolare ed i pregiudizi allora prevalenti
      nel popolo. Come avrebbe potuto poi reggersi un governo sorto
      dalla rivoluzione, dopo che cinquanta anni di vita libera, di
      discussione e di libera stampa avevano fatto penetrare in tutti la
      coscienza dei propri diritti? 
      
      Il movimento reazionario, secondo i propositi di quelli che lo
      caldeggiavano, avrebbe dovuto cominciare da una restrizione del
      suffragio elettorale. Tale restrizione, se fatta in misura molto
      limitata, mentre sarebbe stata un atto odioso a carico di alcuni
      cittadini, non avrebbe prodotto effetto sensibile, perchè il
      malcontento più pericoloso non si manifestava tanto nelle ultime
      classi sociali, che ne sarebbero state colpite, quanto nelle
      classi operaie più colte e nella piccola borghesia. Se poi si
      avesse voluto togliere il diritto di voto a numerose classi di
      cittadini, si avrebbe avuto l'effetto di gettare codeste classi
      sociali fuori delle istituzioni, e di creare una vera situazione
      rivoluzionaria. Togliere il voto ai malcontenti, io osservavo,
      poteva avere l'effetto di evitare momentaneamente la
      manifestazione del male, senza però curarlo, anzi aggravandolo. Si
      temeva che i voti delle classi popolari si rivolgessero tutti ai
      socialisti, ma in realtà, più che a socialisti noi ci trovavamo di
      fronte a malcontenti; la forza del socialismo, assai più che dalle
      sue dottrine in gran parte contrarie all'indole ed alle tradizioni
      del popolo italiano, che ha saldo il sentimento
      della famiglia e della proprietà individuale, derivando in parte
      dall'essersi presentato come difensore delle classi più numerose,
      che i partiti costituzionali avevano avuto il torto di trascurare,
      e più ancora dal generale malcontento diffuso per il paese. 
      
      Era mai pensabile che un paese così poco soddisfatto del suo
      governo, consentisse ad abdicare nelle mani di esso le proprie
      libertà, conquistate con tanti sacrifizi? E poi che cosa si
      sarebbe offerto al paese in compenso della libertà perduta? Quando
      le ristrette consorterie che spingevano il governo verso la
      reazione, avessero raggiunto il principale loro scopo, che era
      appunto di non dividere il potere coi rappresentanti delle classi
      popolari, per esercitarlo solo nel proprio egoistico interesse,
      chi si sarebbe illuso che proprio allora sarebbe sorto in esse
      l'affetto per le classi popolari, e che avrebbero cominciato
      allora a sacrificare gli interessi propri a quelli generali del
      paese? Ed io concludevo che la politica della reazione sarebbe
      stata fatale alle nostre istituzioni, appunto perchè le avrebbe
      poste a servizio di una esigua minoranza, ed avrebbe rivolto
      contro di esse le forze più vive e irresistibili della società
      moderna, cioè l'interesse delle classi più numerose e il
      sentimento degli uomini più colti.
      
      
      Esclusa così la convenienza, anzi la possibilità stessa di un
      programma reazionario, io osservavo che restava come unica via,
      per scongiurare i pericoli della situazione a cui il malessere
      generale e i conati reazionari avevano portato il paese, quel
      programma liberale che si proponeva di togliere, per quanto
      possibile, le cause del malcontento, con un profondo e radicale
      mutamento di indirizzo, tanto nei metodi di governo, quanto nella
      legislazione. Ma un programma di tal fatta, di cui parte non
      piccola doveva essere la riforma tributaria a favore delle classi
      più numerose e meno favorite dalla fortuna, non avrebbe potuto
      essere proclamato ed eseguito che da un governo il quale avesse
      solida base nella maggioranza del paese, e non fosse quindi
      costretto a cedere ad interessi illegittimi. 
      
      Nel campo politico sovratutto vi era un punto essenziale, nel
      quale i metodi del governo dovevano essere immediatamente mutati.
      Negli anni corsi dal 1895 al 1899, nell'azione reazionaria del
      Crispi prima, poi del Rudinì e del Pelloux, si era a poco a poco
      giunti a confondere la forza del governo con la violenza,
      considerando forte quel governo che al primo stormire di fronda
      proclamava lo stato d'assedio, sospendeva la giustizia ordinaria,
      istituiva i tribunali militari e calpestava tutte le franchigie
      costituzionali. Quella invece non era forza, ma debolezza e della
      peggiore specie; debolezza giunta a tal punto da fare perdere la
      visione esatta delle cose. Primo dovere del governo è e sarà
      sempre di mantenere l'ordine a qualunque costo; ma la vera
      dimostrazione di forza si fa quando l'ordine è mantenuto con la
      rigida e costante applicazione della legge; quando il governo sa
      resistere alle pressioni degli interessi illegittimi, e quando ha
      un programma preciso e lo attua con fermezza e costanza, senza
      consumare né subire alcuna violenza. E per riuscire a possedere
      questa forza fatta sopratutto di autorità, è necessario che il
      governo lasci pieno agio a tutte le classi, ed in special modo a
      quelle più numerose, di fare conoscere e fare valere le proprie
      aspirazioni e di difendere, nell'ambito delle leggi, i propri
      legittimi interessi. Accogliendo così nel loro ambito la
      rappresentanza dei più larghi interessi nazionali, le istituzioni
      potevano acquistare quella solidità che i metodi della reazione e
      della violenza, non che assicurare loro, avevano gravemente
      compromessa.
    
      Il ritorno alla costituzione — Il ministero di transizione
        Saracco — Il ministero Zanardelli — Il completo esperimento
        liberale — La mia opera al ministero degli interni — La lotta
        fra capitale e lavoro — Le leghe e gli scioperi agrari — La
        duplice lotta, contro gli estremisti alla Camera e contro i
        reazionari al Senato — Perchè mi dimisi dal ministero
        Zanardelli,
      
      
      La caduta di Pelloux avvenuta, più che in seguito
ad un voto
      parlamentare, alla solenne manifestazione
che il paese, a mezzo
      delle elezioni, aveva fatta contro
la politica reazionaria, apriva
      finalmente, dopo i torbidi esperimenti reazionari, la strada al
      ritorno alle
tradizioni liberali. Se non che, dopo un così
      lungo
conflitto di interessi e di passioni, appariva opportuno
un
      periodo di transizione durante il quale le passioni
sbollissero e
      si ritornasse gradatamente allo stato
normale della vita politica;
      e la Corona non fu male
consigliata a chiamare per allora al
      potere, in luogo
di qualcuno dei capi partito della Camera, che
      si
erano trovati involti nella lotta, un Senatore; e la
scelta
      cadde sul Senatore Saracco, il quale fu infatti
accettato da tutti
      i gruppi del partito liberale nella
persuasione che con lui si
      sarebbe rientrati nell'orbita costituzionale. 
      
      Come ho già ricordato, l'opposizione liberale costituzionale, dopo
      avere assistito con
spirito imparziale alla lotta
      dell'ostruzionismo, aveva
dovuto, all'ultimo, sollevarsi contro il
      tentativo, compiuto con la connivenza del Presidente della Camera
      di modificare il regolamento con violazione delle norme statutarie
      e parlamentari che garantiscono le istituzioni parlamentari,
      dichiarando illegale, violento e nullo il procedimento che era
      stato seguito. Era quindi necessario anzitutto, per potere
      riprendere le discussioni alla Camera, ristabilire per questo
      verso il rispetto della legge; ed a ciò si provvide con la nomina
      di una Commissione, composta di sei membri da una parte e di sei
      dall'altra, con l'incarico di formulare di comune accordo un nuovo
      regolamento che fosse da tutti accettato; e così fu fatto e la
      spinosa questione finalmente e pacificamente risoluta. Era questa
      precisamente la transazione che io avevo proposta, prima delle
      elezioni generali, al Presidente della Camera Colombo, e che
      questi mi aveva detto essere stata dal Pelloux respinta per
      consiglio di Sonnino.
      
      
      Il Saracco aveva preso Visconti-Venosta come ministro degli
      Esteri; Gianturco alla Giustizia; Carcano all'Agricoltura; Rubini
      al Tesoro; Branca ai Lavori pubblici e Gallo all'Istruzione; in
      complesso il nuovo Ministero era liberale, con qualche elemento
      temperato di Destra, quale il Chimirri; e durò dal 24 giugno del
      1900 al 15 febbraio dell'anno dopo. La sua breve vita fu funestata
      da un orribile delitto : l'assassinio di Re Umberto, consumato a
      Monza nel luglio del 1900. Io ne ebbi la notizia a Valdieri, dove
      mi trovavo ai bagni, e dove era pure in quei giorni l'Alfazio,
      prefetto di Milano. Il doloroso evento non ebbe alcuna influenza a
      modificare la politica liberale del Ministero, non ispirò nessuna
      idea o proposito di reazione; anzi da molti era riconosciuto come
      un effetto sur un cervello squilibrato della politica reazionaria
      seguita negli anni antecedenti. 
      
      Il regicidio colpì, in Re Umberto, un sovrano che aveva avuto vivo
      ed alto il sentimento del proprio dovere e che si era dedicato con
      spirito equanime, alle cose dello Stato, ed un uomo che era stato
      costante, esempio di bontà e di cortesia. Indubbiamente egli, che
      quando io l'avevo conosciuto prima come Ministro del Tesoro, poi
      come Presidente del Consiglio, si era sempre mostrato di spirito
      molto liberale ed ossequiente alla Costituzione, durante il
      periodo reazionario risentì l'influenza dei personaggi e dei
      partiti conservatori, seguendone i consigli; ma bisogna
      riconoscere che l'impressione di spavento e la preoccupazione per
      la agitazione delle masse popolari e per la propaganda e il
      movimento socialista erano allora comuni in tutte le classi
      dirigenti. 
      
      Ho ancora vivo il ricordo del mio primo e del mio ultimo incontro
      con lui. La prima volta venni a contatto seco alla sua assunzione
      al trono, quando la Corte dei Conti si recò a presentargli in
      corpo gli omaggi. Io ero allora segretario generale della Corte ed
      avevo trentasette anni, ma ne dimostravo molto meno, ed il Re si
      rallegrò meco della mia giovinezza, al che io risposi: — Così
      spero di potere servire Vostra Maestà per molti anni. — Più tardi,
      dopo che ero stato Ministro del Tesoro, mi nominò membro del
      consiglio dell'Ordine Mauriziano, dove fra gli altri consiglieri,
      tranne il Villa, il più giovane aveva ottant'anni. 
      
      L'ultima volta l'avevo visto dopo gli insuccessi della politica
      reazionaria, a Savigliano, nell'occasione dell'inaugurazione di un
      monumento nel suo paese nativo al generale Arimondi, morto in
      Africa; ed egli si era mostrato meco molto cordiale, trattenendomi
      a lungo a conversare seco. Rammento che le ultime parole in quella
      occasione furono queste: — Si ricordi che le sono amico. — 
      
      Il Ministero Saracco poco fece, del resto, in qualunque campo,
      causa anche la sua breve durata; e cadde per avere prima sciolto
      la Camera del lavoro di Genova, col quale provvedimento si attirò
      l'opposizione della parte liberale e della Estrema; poi, per aver
      permesso, allarmato di quella opposizione, che fosse ricostituita,
      il che gli tirò addosso i conservatori. Nella mia opinione, come
      io pensavo che l'esperimento liberale dovesse compiersi sino in
      fondo, e senza tentennamenti e riserve, la cosa era assai grave, e
      toccava, come osservai in un discorso pronunciato durante la
      grande discussione che seguì a quell'avvenimento, le più alte
      questioni di diritto e di politica interna, sopratutto nel
      rispetto dei rapporti fra le classi lavoratrici ed il Governo nei
      conflitti fra capitale e lavoro; ed a mio parere la pace sociale
      dipendeva in massima parte dalla retta soluzione di tali quesiti.
      Quantunque infatti i metodi della violenza reazionaria fossero
      stati condannati dai fatti ed ormai in gran parte abbandonati,
      persisteva ancora nel Governo, ed in molti dei suoi rappresentanti
      nelle Provincie, la tendenza a considerare come pericolose tutte
      le associazioni di lavoratori; tendenza che era l'effetto di
      scarsa conoscenza delle nuove correnti economiche e politiche che
      da tempo si erano formate nel nostro come in tutti i paesi civili,
      e che rivelava come non si fosse ancora compreso che la
      organizzazione degli operai camminava di pari passo col progresso
      generale della civiltà. 
      
      Osteggiare questo movimento non avrebbe potuto avere altro effetto
      che di rendere nemiche dello Stato le classi lavoratrici, che si
      vedevano costantemente guardate con occhio diffidente anziché
      benevolo da parte del Governo, il cui compito invece avrebbe
      dovuto essere di tutore imparziale di tutte le classi di
      cittadini. Un Governo, che non interveniva mai, e non doveva di
      fatto intervenire, quando i salari erano bassissimi; non aveva
      alcuna ragione di intervenire, come qualche volta faceva, quando
      la misura del salario, per la legge economica della domanda e
      dell'offerta, avesse pure raggiunto una cifra che ai proprietari
      paresse eccessiva. Questa non era funzione legittima del Governo.
      
      
      La ragione principale per cui si osteggiavano le Camere del
      lavoro, era appunto questa: che l'opera loro tendeva a fare
      aumentare i salari. Ma se tenere i salari bassi poteva essere un
      interesse degli industriali, nessun interesse poteva avervi lo
      Stato. Ciò a prescindere dal fatto che è un errore ed un
      pregiudizio credere che il basso salario giovi ai progressi
      dell'industria; salari bassi significano cattiva nutrizione, e
      l'operaio mal nutrito è debole fisicamente ed intellettualmente, e
      i paesi ad alti salari sono alla testa del progresso industriale.
      Si lodava allora come una virtù la frugalità eccessiva dei nostri
      contadini: anche quella lode è un pregiudizio: chi non consuma non
      produce. 
      
      Ad ogni modo però, a mio avviso, quando il Governo, come allora
      usava, interveniva per tenere bassi i salari, commetteva una
      ingiustizia, e più ancora un errore economico ed un errore
      politico. Una ingiustizia, perchè mancava al suo dovere di
      assoluta imparzialità fra i cittadini, prendendo parte alla lotta
      contro una classe in favore di un'altra. Un errore economico,
      perchè turbava il funzionamento della legge economica della
      domanda e dell'offerta, la quale è la sola legittima regolatrice
      della misura dei salari come del prezzo di qualsiasi altra merce.
      Ed infine un errore politico, perchè rendeva nemiche dello Stato
      quelle classi che costituiscono la grande maggioranza del paese.
      Il solo ufficio equo ed utile dello Stato in queste lotte fra
      capitale e lavoro è di esercitare un'azione pacificatrice, e
      talora anche conciliatrice; ed in caso di sciopero esso ha il
      dovere di intervenire in un solo caso: a tutela cioè della libertà
      di lavoro, non meno sacra della libertà di sciopero, quando gli
      scioperanti volessero impedire ad altri operai di lavorare.
      
      
      Ora a me pareva che a questi concetti liberali la condotta del
      Governo venisse meno osteggiando l'azione delle Camere del lavoro.
      Le Camere del lavoro non avevano per se stesse nulla di
      illegittimo; esse erano le rappresentanti degli interessi delle
      classi operaie, con la legittima funzione di cercare il
      miglioramento di quelle classi, sia nella limitazione ragionevole
      delle ore di lavoro, sia nell'aumento dei salari, sia
      nell'insegnamento che giovasse ad accrescere sempre più il valore
      della loro opera; ed io consideravo che se bene adoperate dal
      Governo, esse avrebbero potuto essere intermediarie utilissime fra
      capitale e lavoro. E come c'erano le Camere di Commercio regolate
      per legge, io non vedevo alcuna ragione perchè lo Stato non
      potesse, anzi non dovesse disciplinare legislativamente le Camere
      del lavoro, mettendo così allo stesso livello, di fronte alla
      legge, tanto il capitalista che il lavoratore, ognuna delle due
      parti con la sua legittima rappresentanza riconosciuta dallo
      Stato. Si era per molto tempo tentato di impedire le
      organizzazioni dei lavoratori, temendone l'azione e l'influenza.
      Per conto mio io credevo assai meno temibili le forze organizzate
      che non quelle inorganiche, perchè sulle prime l'azione del
      Governo si può esercitare efficacemente ed utilmente, mentre
      contro i moti disorganici non vi può essere che l'uso della forza.
      
      
      Ma ormai, a chi conosceva le condizioni del nostro paese, come
      pure le tendenze generali del mondo civile, era evidente che
      ostacolare l'organizzazione dei lavoratori era un compito inane.
      L'unico effetto di una resistenza inconsulta da parte dello Stato
      sarebbe stato quello di dare sempre più un fine politico a quelle
      organizzazioni le quali non dovrebbero avere che un fine economico
      nell'interesse delle classi lavoratrici. 
      
      Per il caso speciale di Genova, i conservatori portavano appunto
      avanti, come uno scandalo, il fatto che esso avesse assunto anche
      carattere politico. E questo era una ingenuità, perchè chi
      conosceva il movimento operaio, quale si era andato svolgendo in.
      quegli anni specialmente nell'Alta Italia, sapeva perfettamente
      che gli operai avevano compreso il nesso intimo, indissolubile,
      che esiste fra le questioni economiche e le questioni politiche;
      ed a farlo loro comprendere, più che la propaganda dei loro
      organizzatori, aveva giovato l'azione dei Governi reazionari,
      dimostratasi costantemente alleata agli interessi delle classi
      capitaliste contro quelli delle classi popolari, sia nelle lotte
      fra capitale e lavoro, sia nella legislazione tributaria.
      
      
      Io consideravo insomma che, dopo il fallimento della politica
      reazionaria, noi ci trovavamo all'inizio di un nuovo periodo
      storico, e che ognuno che non fosse cieco doveva ormai vederlo.
      Nuove correnti popolari entravano ormai nella nostra vita
      politica, nuovi problemi si affacciavano ogni giorno, nuove forze
      sorgevano con le quali il Governo doveva fare i conti. Il moto
      ascendente delle classi operaie si accelerava sempre più, ed era
      moto invincibile, perchè comune a tutti i paesi civili e perchè
      poggiava sui principi dell'eguaglianza fra gli uomini. Nessuno
      poteva ormai illudersi di potere impedire che le classi popolari
      conquistassero la loro parte di influenza, sia economica che
      politica; ed il dovere degli amici delle istituzioni era di
      persuadere quelle classi, e persuaderle non colle chiacchiere, ma
      coi fatti, che dalle istituzioni attuali esse potevano sperare
      assai più che dai sogni avvenire, e che ogni loro legittimo
      interesse avrebbe trovato tutela efficace negli attuali
      ordinamenti politici e sociali. Solo con un tale atteggiamento ed
      una tale condotta da parte dei partiti costituzionali verso le
      classi popolari, si sarebbe ottenuto che l'avvento di queste
      classi, invece di essere come un turbine distruttore, riuscisse a
      introdurre nelle istituzioni una nuova forza conservatrice, e ad
      aumentare grandezza e prosperità alla nazione.
      
      
      Il Ministero Saracco aveva avuto il merito di chiudere la fase
      della reazione, di uscire dalla strada perigliosa in cui i Governi
      precedenti da alcuni anni si erano smarriti. Ma esso pareva ormai
      giunto ad un punto morto, ed episodi come quello dello
      scioglimento della Camera del lavoro di Genova, mostravano che lo
      spirito reazionario non era del tutto vinto, e che non era del
      tutto passato il pericolo che su quella strada noi fossimo ancora
      respinti; mentre a mio avviso, era ormai giunto il momento di
      avviarsi risolutamente sulla strada opposta. E la commozione che
      quei fatti produssero alla Camera, come pure lo svolgimento della
      susseguente discussione ed il suo esito, confermarono pienamente
      la giustezza dei miei giudizi, e mostrarono che i concetti da me
      proclamati  entravano  ormai nella coscienza generale.
      
      Appena il Parlamento si riunì furono infatti presentate numerose
      interpellanze; e l'on. Sonnino e i suoi amici, che pure avevano
      sostenuto con tanto accanimento la politica dell'on. Pelloux,
      presentarono pure una mozione. Secondo il regolamento alla mozione
      spettava la preoeidenza. Ma siccome quella mozione, pure essendo
      nettamente contro il Governo, non era esplicita nei suoi termini,
      e perchè a me premeva, secondo i criteri sovra spiegati, che la
      votazione si facesse sul punto preciso di non approvare lo
      scioglimento della Camera del lavoro, io feci presentare dal mio
      amico, deputato Nicola Fulci, un emendamento alla mozione stessa,
      il quale emendamento, sempre per ragione di regolamento, doveva
      essere votato avanti la mozione. Il presidente della Camera, on.
      Villa, molto legato al Sonnino, insisteva nel volere dare la
      precedenza alla mozione, ed allora noi gli facemmo sapere che,
      qualora egli fosse così mancato ai doveri della imparzialità
      presidenziale, avremmo promosso contro di lui un voto di biasimo.
      Egli allora si piegò, e dopo un mio discorso l'emendamento fu
      votato, e il Governo ebbe una minoranza di circa duecento voti. 
      
      Seguì una curiosa commedia: il Sonnino, comprendendo che dopo quel
      voto la opposizione avrebbe votato contro alla sua mozione, e
      avrebbero pure votato contro i ministeriali, lasciandolo isolato
      con appena una trentina di amici, dichiarò di ritirarla. Ma
      l'Estrema Sinistra, d'accordo con l'opposizione costituzionale, e
      ad impedire ambigue interpretazioni del voto, si oppose al ritiro;
      le mozioni non potendo essere ritirate quando dieci deputati si
      oppongano. Tutti i partiti liberali dichiararono allora che
      avrebbero votato contro, e lo stesso fecero i ministeriali; e
      l'on. Sonnino e i suoi amici, ad evitare un clamoroso insuccesso,
      dichiararono che essi pure avrebbero votato contro la mozione da
      essi stessi presentata, giustificando la loro condotta con
      l'argomento che non ve n'era più bisogno perchè il Ministero era
      stato già battuto. Seguì tuttavia la votazione, per appello
      nominale, con grandi dimostrazioni di ilarità ogni volta che
      votava contro la mozione uno dei suoi firmatari. Codesta manovra
      parlamentare, non ostante questa sua conseguenza alquanto comica,
      aveva però avuta grande importanza, in quanto aveva pienamente
      chiarita la situazione, dando una indicazione precisa ed assoluta.
      La chiamata al Governo dei liberali diventava infatti in tal modo
      inevitabile; e siccome la persona più in vista dei partiti
      liberali era lo Zanardelli, egli fu unanimemente indicato.
      
      
      Il Saracco, attribuendo a me la sua caduta, ne ebbe sempre
      risentimento. Del resto i nostri rapporti erano rimasti freddi fin
      dal tempo del mio primo Ministero. Il Saracco tenne allora in
      Senato un discorso, durato due ore, in cui attaccò la finanza del
      Governo, criticandone ogni provvedimento. Io gli risposi subito,
      punto per punto, confutando le sue critiche, tranne su due o tre
      punti, nei quali mi dichiarai d'accordo con lui nel ritenere che
      si trattava di provvedimenti non utili; soggiungendo però che
      dovevo fargli notare che quei provvedimenti erano proprio opera
      sua, di quando egli era ai Lavori Pubblici. Di questa mia risposta
      egli fu dolente e dopo d'allora i nostri rapporti furono piuttosto
      freddi. Egli era del resto un uomo di molto ingegno, ma
      essenzialmente critico, e critico abilissimo; ma che, come gli
      spiriti essenzialmente critici, poco produceva per conto suo.
      
      
      Appena ricevuto l'incarico, Zanardelli mi chiamò offrendomi subito
      di andare seco col portafogli dell'Interno, e chiedendomi di
      aiutarlo nella formazione del Ministero. Ricordo che Zanardelli
      abitava in un alloggetto di un suo parente, che non si prestava
      bene per le necessarie visite e consultazioni, ed io pregai il suo
      amico Picardi di mettere a sua disposizione un suo appartamento,
      ciò che egli fece. Le ostilità contro il Ministero in formazione
      non erano poche, e Zanardelli dopo tre giorni di lavoro era ormai
      scoraggiato, mancandogli ancora i Ministeri degli Esteri, del
      Tesoro e dei Lavori Pubblici, ed era in procinto di rinunciare al
      mandato. Io gli osservai che, avendo già rinunciato una volta, si
      sarebbe politicamente rovinato del tutto se si mostrava incapace
      di riuscire una seconda; gli dissi che con nove uomini di buona
      volontà doveva presentarsi al Parlamento per provocare un voto che
      mettesse in chiaro la situazione. Il Ministero fu alla fine
      composto con Prinetti agli Esteri, Giusso ai Lavori Pubblici e Di
      Broglio al Tesoro, ed ebbe vita abbastanza lunga, durando dal 15
      febbraio 1901 al 29 ottobre del 1903.
      
      
      Quando ci presentammo, in realtà eravamo in minoranza; la parte
      più conservatrice della Camera non ci vedeva di buon occhio e i
      sonniniani consideravano che noi avessimo preso il posto loro
      dovuto. Un primo accenno di modificazione di tale situazione lo si
      ebbe con l'annullamento dell'elezione di un collegio di Napoli
      risultata contraria al mio amico Rosano, che fu annullata per
      brogli. Il voto per quell'annullamento prese un carattere
      politico, tanto che si fece la votazione a scrutinio segreto, che
      dette al Ministero una maggioranza di quaranta voti. Fu poi
      presentata, secondo antiche convinzioni di Zanardelli, la legge
      sul divorzio, che provocò le dimissioni di Giusso, che non
      l'approvava, e che fu sostituito da Balenzano; poi il Wollemborg,
      ministro delle Finanze, presentò alcuni progetti di legge per
      modificazione dell'ordinamento tributario, ed il Consiglio dei
      Ministri non avendoli approvati, si dimise egli pure, sostituito
      da Carcano. Infine si dimise Picardi per motivi di salute ed il
      suo posto fu preso da Guido Baccelli.
      
      
      La situazione più delicata per questo primo Ministero, interamente
      e francamente liberale, dopo un così lungo periodo di politica
      reazionaria e di politica indecisa, stava appunto nei metodi della
      politica interna. Noi tutti come partito, ed in particolar modo io
      personalmente, avevamo combattuta la politica di restrizione delle
      libertà, sostenendo la necessità che il paese fosse governato coi
      metodi liberali; ed a noi ora, venuti al potere, incombeva di fare
      l'applicazione integrale dei principi che avevamo propugnati. Le
      difficoltà in cui il Governo, e sopratutto io, come Ministro degli
      Interni, ci trovavamo, erano di duplice origine; perchè da una
      parte i conservatori, alla Camera in parte, ma più specialmente
      nel Senato, mantenevano ostinatamente le loro posizioni e le loro
      tesi, e cercavano in ogni muover di fronda la conferma delle loro
      apprensioni e dei loro vaticini pessimisti; mentre d'altra parte i
      partiti più avanzati non si mostravano soddisfatti delle larghe
      concessioni ottenute ed accusavano il Governo di fare dei passi
      indietro, o per lo meno di non camminare abbastanza arditamente
      sulla via della libertà. 
      
      Avendo noi, ad esempio, riconosciuto pienamente ii diritto di
      riunione, i socialisti e gli altri estremi ci rimproveravano
      quando il Governo interveniva contro riunioni convocate da
      scioperanti con lo scopo confessato di impedire con la violenza
      che lavorassero gli operai volonterosi di lavorare. Noi insomma
      attraversavamo allora un periodo difficilissimo per il sistema
      liberale, che si attuava allora in tutta la sua pienezza per la
      prima volta; e che da una parte urtava contro alcuni interessi
      delle classi più agiate, mentre dall'altra le classi lavoratrici
      si erano lasciate andare a speranze molto al di là di ciò che
      fosse possibile realizzare; e non riconoscevano i limiti dei
      propri diritti e della propria azione, ricorrendo  ad 
      intimidazioni e  ad atti  assolutamente illegali. 
      
      Noi ci trovavamo insomma nella condizione di essere da una parte
      accusati di lasciare troppo lento il freno e di interpretare
      troppo largamente le pubbliche libertà, dall'altra di essere
      considerati come troppo tepidi amici dei principi liberali. Io
      dovetti così alla Camera pronunciare discorsi in contradittorio
      con gli onorevoli Mazza, Mirabelli, Turati, osservando loro che,
      quando si trattava di passare da un sistema restrittivo, quale era
      stato usato fino ad allora in Italia, ad un sistema di uso
      larghissimo delle pubbliche libertà, era necessario procedere con
      grande prudenza, e che ciò che talvolta veniva a noi rimproverato
      come tiepida amicizia per i principi liberali, era invece una
      amicizia illuminata e sincera, per cui noi ci sobbarcavamo a
      prenderci certe odiosità, allo scopo di impedire che l'abuso delle
      libertà potesse comprometterle, e credevamo di rendere un grande
      servizio al paese con l'abituarlo all'uso pacifico e tranquillo di
      queste libertà, impedendo quelle violenze che le avrebbero
      compromesse. 
      
      Lo spirito della reazione certo non aveva ancora disarmato, e
      sarebbe stato fare ingenuamente il suo gioco e preparare per
      contraccolpo il ritorno alle misure restrittive, se avessimo
      tollerato che la libertà degenerasse in licenza, fornendo ai
      reazionari argomenti impressionanti per le loro tesi. Se non si
      voleva andare incontro al pericolo di dovere fare dei passi
      indietro, era indispensabile tenere il debito conto del grado di
      educazione politica a cui erano giunte le varie regioni del nostro
      paese; educazione che non si può compiere che con un lunghissimo
      esercizio delle pubbliche libertà. Il progresso compiuto in Italia
      in questo campo era evidente, ed io potevo augurarmi che esso
      continuasse così rapido che l'azione di chiunque dovesse poi
      assumersi la carica di Ministro degli Interni potesse restringersi
      a qualche circolare per raccomandare l'esecuzione della legge,
      senza la necessità di prendere ogni giorno delle grandi
      precauzioni, e senza essere spesso obbligato, come capitava a me,
      di assumere delle responsabilità che non erano certo piacevoli. 
      
      Ma nel frattempo io avevo ragione di ritenere necessaria, a tal
      fine, una grandissima prudenza nella stessa condotta del Governo,
      per giungere a tale scopo senza scosse, senza violenze, e senza
      passi indietro. E tanto più ciò era necessario in quel momento,
      dopo che alle questioni puramente politiche che prima occupavano
      l'opinione pubblica, si erano sovrapposte le questioni economiche
      e sociali, le quali, toccando interessi diretti, vivi, quotidiani,
      eccitavano le masse popolari assai più che le questioni politiche,
      con l'evidente pericolo che esse trasmodassero nel fare valere
      quelli che consideravano i loro diritti. In codeste discussioni i
      socialisti più intelligenti finivano spesso per riconoscere la
      validità delle mie ragioni; e ricordo che il Turati ammetteva che
      il nostro popolo per molti rispetti era ancora bambino, e che egli
      e i suoi amici erano i più interessati al mantenimento
      dell'ordine, allo scopo appunto  di fare salvi i
      principi  essenziali delle liberta. I repubblicani che.
      invece avevano scopi più politici, spesso si mostravano
      malcontenti dei miei metodi; ed una volta il deputato repubblicano
      Carlo Del Balzo, incominciando un suo discorso, dichiarò che il
      suo partito temeva più la politica liberale nostra, che quella di
      un Governo che tendesse a reazione. Ed io colsi l'occasione per
      rispondergli, sincerità per sincerità, che uno dei fini principali
      che io mi proponevo con la mia politica interna liberale, era
      appunto di dimostrare che il partito repubblicano non aveva
      ragione di essere in Italia.
      
      
      Al Senato, data la sua composizione e perchè la
grande maggioranza
      dei suoi elementi rispecchiavano
necessariamente le idee e i
      sentimenti di una generazione anteriore, io dovevo fare la parte
      opposta,
e difendere ad ogni momento il Governo dalla critica
dei
      conservatori, che l'accusavano di cedere alla
piazza e di non
      difendere con la dovuta energia i
diritti stabiliti. La verità era
      che certi gruppi di
conservatori confondevano troppo facilmente
      tali diritti coi particolari interessi delle loro classi, e
      volevano piegare la interpretazione della legge e la
politica del
      Governo alla difesa ad oltranza di quegli interessi. 
      
      Ricordo particolarmente una lunga di
scussione che io dovetti
      sostenervi, coi senatori Arrivabene, Vitelleschi, Cadenazzi,
      Guarmeri, Faina ed
altri, che per la loro posizione sociale e la
      loro educazione mentale rappresentavano nettamente lo spirito dei
      grandi proprietari delle campagne contro il
movimento delle leghe
      dei contadini. L'applicazione
di una politica liberale ed
      imparziale, nei conflitti fra gli interessi delle varie classi,
      venendo dopo un lungo periodo di compressione, aveva
      inevitabilmente dato un grande impulso alle agitazioni popolari;
      era lo sfogo naturale di istinti, passioni ed interessi che per un
      lungo tempo non avevano potuto avere voce. Queste agitazioni
      qualche volta passavano i limiti imposti dalla legge e dal diritto
      degli altri; mentre i propagandisti socialisti cercavano di
      sfruttare politicamente le rivendicazioni economiche. Si erano
      avuti, in pochi mesi, in quaranta provincie oltre centocinquanta
      scioperi agrari in cui erano stati involti oltre duecentomila
      contadini; e in quella ampiezza e diffusione del movimento i
      conservatori volevano vedere sopratutto un disegno ed una
      organizzazione di carattere politico. Contro queste supposizioni
      stavano parecchi fatti; e in primissimo luogo la massima parte di
      questi scioperi, non solo non avevano dato luogo al menomo
      disordine, ma si erano composti con degli aumenti di pochi
      centesimi di salario e la diminuzione di qualche mezz'ora
      nell'orario di lavoro. 
      
      Le statistiche poi, con le cifre che io raccolsi e portai nella
      discussione, dimostravano che i salari dei lavoratori agricoli,
      specie degli obbligati e dei braccianti, nelle regioni dove gli
      scioperi erano scoppiati e le leghe di resistenza organizzate,
      erano di gran lunga inferiori a quelli di altre regioni dove
      nessuna agitazione si era manifestata; e che in molti casi, non
      ostante il notevole rincaro della vita, essi presentavano
      diminuzioni in confronto ai salari oltre vent'anni prima
      constatati dalla inchiesta Jacini, e già deplorati in quella
      inchiesta come assolutamente insufficienti agli elementari bisogni
      della vita. E si era anche potuto constatare che, negli stessi
      luoghi dove l'agitazione era più grave, e particolarmente nella
      provincia di Mantova, nella quale le leghe avevano organizzati
      oltra ventimila contadini;. dove il contadino si trovava in
      diretto rapporto col proprietario le cose si erano potute
      aggiustare più facilmente, perchè il proprietario si mostrava
      generalmente assai più arrendevole; mentre le difficoltà e i
      conflitti si erario inaspriti dove il contadino si trovava a
      servizio dell'affittuario, il quale, nella sua qualità di
      speculatore temporaneo, non dubitava di cercare di fare un maggior
      guadagno abbassando di qualche soldo la mercede. 
      
      Anche un conservatore di vera intelligenza e cultura economica,
      quale era il senatore Boccardo, riconosceva che il ribassare il
      salario oltre misura non costituiva nemmeno una buona speculazione
      per chi adopera il lavoro del contadino, perchè se questi non ha
      ciò che è necessario alla propria esistenza, non può dare nemmeno
      un lavoro utile; ma gli affittuari speculatori del Mantovano e di
      altre Provincie a salari agrari bassissimi, non erano degli
      economisti che sapessero e volessero tener conto di 
      queste  verità  generali  e superiori.
      
      
      E non erano né economisti né saggi uomini politici quei
      conservatori del Senato che insistevano perchè il Governo
      risolvesse in loro favore ad ogni modo e con qualunque mezzo quei
      conflitti economici, e che presentavano particolarmente due
      domande; cioè che le leghe dei contadini venissero sciolte e in
      caso di bisogno si usasse l'esercito per fare i raccolti, quando i
      lavoratori persistessero nello sciopero. 
      
      Per la prima io ricordai nei miei discorsi al Senato, che
      l'esperimento della forza aveva già dati pessimi risultati; e che
      lo Stato la sua forza doveva dimostrarla essenzialmente tenendosi
      entro i limiti della legge, senza offendere le libertà garantite
      dallo Statuto egualmente a tutti i cittadini. L'organizzazione
      delle leghe di resistenza era legittima; nulla contro la legge
      potevasi accusare nei loro programmi e nella loro lotta pacifica
      pei miglioramenti economici; le loro domande erano pure entro i
      limiti della equità, perchè le misure di salario richieste erano
      così discrete, che con tali salari in molte parti d'Italia non si
      sarebbero trovati lavoratori; e se in tali condizioni il Governo
      fosse intervenuto contro le leghe, ciò avrebbe avuto per solo
      effetto di condurre le masse dei lavoratori a considerare il
      Governo come loro nemico, in quanto avrebbe violata la legge a
      beneficio di una parte contro l'altra, ed arrecando a questa danni
      economici gravi. Il Governo non aveva che due doveri, quello di
      mantenere l'ordine pubblico ad ogni costo, e di garantire nel modo
      più assoluto la libertà del lavoro; e a questi doveri esso aveva
      pienamente adempiuto. 
      
      E in quanto alla domanda, che mi faceva  il 
      senatore  Faina,  se il  Governo 
      sarebbe  intervenuto con l'esercito per sostituire gli
      scioperanti, se questi si rifiutassero di compiere i raccolti, io
      dichiarai nettamente che non ero disposto a seguire quella via per
      tre ordini di ragioni: perchè la credevo non legale; perchè la
      consideravo non politica, ed infine perchè non si trattava di un
      servizio pubblico, nessuno potendo sostenere che mietere del grano
      per conto di privati fosse un pubblico servizio. C'è sempre,
      veramente, un interesse generale a che i raccolti non siano
      perduti, al modo che è d'interesse generale che gli affari si
      svolgano proficuamente, che le industrie procedano regolarmente e
      che i commerci risultino vantaggiosi, tutto questo contribuendo a
      formare la ricchezza nazionale. Ma si tratta però sempre di un
      interesse privato, tanto che se un proprietario dichiarasse di non
      volere mietere il suo grano o vendemmiare la sua uva, nessuno
      potrebbe costringerlo. Impolitico, perchè adottando il sistema di
      sostituire il lavoratore libero con l'esercito, il Governo
      prenderebbe ingiustamente parte nella lotta fra capitale e lavoro,
      parteggiando pel capitalista, e la moltitudine dei lavoratori ne
      riceverebbe l'impressione che l'esercito, che rappresenta l'intera
      nazione, fosse un loro nemico. Impossibile infine nell'attuazione,
      perchè se era stato agevole trovare nell'esercito tanti mietitori
      che potessero compiere quei lavori quando si era trattato dei
      raccolti di due o tre comuni, sarebbe invece impossibile che
      l'esercito fornisse tutte le braccia necessarie quando i conflitti
      agrari si erano estesi per molte provincie.
      
      Inoltre dare ai proprietari l'illusione che all'ultimo momento
      essi potrebbero avere a loro disposizione l'esercito, avrebbe
      avuto l'effetto di farli ancora più restii a concessioni eque e
      ragionevoli, con l'ultima conseguenza di rendere più difficile la
      soluzione dei conflitti.
      
      
      Codesti argomenti, la cui validità cominciava ormai ad essere
      generalmente riconosciuta nel mondo politico, trovavano ancora
      molti spiriti chiusi fra gli elementi conservatori che formavano
      molta parte del Senato. Tale resistenza a riconoscere le nuove
      necessità dei tempi, si dimostrò nell'atteggiamento preso da
      questi conservatori per la votazione del bilancio degli Interni.
      Quando la votazione avvenne io mi trovavo alla Camera, dove fui
      avvicinato dal mio collega Di Broglio, che ritornava dal Senato e
      che mi disse: — Devo darti una non buona notizia; il tuo bilancio
      è passato al Senato con soli tre voti di maggioranza. — Io gli
      risposi: — Ce ne sono due più del bisogno, — e questo non era un
      semplice motto di spirito, perchè in realtà le difficoltà che io
      avevo a fare accettare la mia politica al Senato, servivano a
      mostriare a quegli elementi della Camera che andavano all'eccesso
      opposto, l'esistenza di limiti che non potevano essere impunemente
      sorpassati.
      
      
      A parte la linea di politica liberale adottata e lealmente
      mantenuta, senza restrizioni e concessioni ai 
      reazionari  e  senza  dedizioni  e 
      debolezze  verso gli estremisti, il Ministero Zanardelli non
      potè far molto nel campo della legislazione e in quello
      dell'amministrazione, forse anche per ragione della ormai
      declinante salute del suo Capo. Alcune riforme furono però
      condotte in porto; furono così approvate la legge per lo sgravio
      del dazio sulle farine; quella su gli infortuni sul lavoro e
      l'altra sul lavoro delle donne e dei fanciulli; fu istituito
      l'Ufficio del lavoro e presentata una legge per i probiviri
      nell'agricoltura; si provvide alla cura dei poveri colpiti di
      malaria o di pellagra, e si rese giustizia ad alcune eque domande
      dei ferrovieri. 
      
      Ma le grosse questioni rimanevano sospese: quella dell'esercizio
      delle ferrovie, perchè le Convenzioni ferroviarie scadevano il 30
      giugno del 1905, ed era necessaria una lunga preparazione sia che
      si volesse rinnovare le Convenzioni, sia che si preferisse
      addivenire all'esercizio di Stato; e quella dei trattati di
      commercio, che scadevano al 31 dicembre del 1903. Vedendo che in
      tali materie nulla si faceva non ostante le mie sollecitazioni io
      colsi un'occasione che si presentò nelle discussioni della Camera
      per dare le dimissioni, il 21 giugno del 1903. 
      
      Vi era stata alla Camera un appassionato dibattito per una
      inchiesta su la marina militare, a cui il Ministero si opponeva.
      La votazione diede una scarsissima maggioranza ed ottenuta anche
      col concorso di deputati di opposizione della Destra, che erano
      pure contrari all'inchiesta, ma che dichiararono di dare il loro
      voto senza significato di fiducia.  Io ritenni che dopo tale
      votazione il Ministero non avesse più l'autorità necessaria per
      affrontare i gravi problemi d'ordine amministrativo che si
      dovevano risolvere, e allo Zanardelli dichiarai il mio avviso
      della convenienza, in tali condizioni, che il Governo si
      dimettesse. Il mio consiglio non essendo stato seguito, io detti
      le dimissioni per conto mio. L'occasione era costituzionalmente
      corretta. Tornato al mio banco di deputato, non volendo fare nulla
      contrario ai miei antichi colleghi, votai sempre in favore del
      Governo.
      
      
      Più tardi doveva venire in Italia lo Czar, per una visita al Re;
      ma i socialisti sollevarono una agitazione, proponendosi di fargli
      delle accoglienze ostili. Da Pietroburgo furono mandati in Italia
      degli agenti speciali, i quali riferirono che la sicurezza dello
      Czar non era abbastanza garantita, e la visita fu rimandata.
      Intanto le condizioni di salute dello Zanardelli si erano fatte
      sempre più gravi, ed egli nell'ottobre si dimise, ritirandosi
      nella sua villa sul lago di Garda, dove morì pochi mesi dopo.
      
      La formazione del Ministero: uomini nuovi — Una campagna di
        calunnie e la tragica fine di Rosano — L'invito a Turati e il
        rifiuta dei  socialisti — Inizio di riforme  sociali,
        economiche e finanziarie
        —La rinnovazione dei Trattati di commercio — Perchè si addivenne
        all'esercizio ferroviario di Stato — Lo sciopero dei ferrovieri
        e la loro militarizzazione — Vasta opera di legislazione e
        riforme — Epidemia di scioperi; sua ragione ed effetti economici
        — Lo sciopero generale, come fu affrontato e suo fallimento — Le
        elezioni e il loro risultato conservatore — L'istituto
        internazionale d'agricoltura
        —La visita a Roma di Loubet — Mia visita a Bülow ad Homburg —
        Una malattia mi obbliga alle dimissioni.
      
      
      Dopo le dimissioni dello Zanardelli, e in seguito alle ordinarie
      consultazioni, io fui chiamato dal Re, che mi offerse l'incarico
      della formazione del nuovo Ministero, dicendomi che le indicazioni
      da parte degli uomini parlamentari erano state presso a che
      unanimi sul mio nome.
      
      
      Non ostante questa quasi unanimità di designazione, io incontrai
      non poche difficoltà a compiere l'opera che mi era stata affidata.
      Anzitutto io dovetti pormi questo problema: — Avevo fatto parte,.
      sino a tre mesi addietro, del gabinetto Zanardelli nel quale avevo
      degli amici carissimi; ma v'erano pure dei ministri che non mi
      parevano assolutamente adatti alla giusta trattazione dei problemi
      grossi ed urgenti che il nuovo governo era chiamato a risolvere;
      primissimi fra i quali quelli dell'esercizio ferroviario e della
      rinnovazione dei trattati di commercio. Non parendomi conveniente
      scegliere fra coloro che sino a poco tempo prima erano stati miei
      colleghi, decisi di non prendere alcuno degli uomini che avevano
      appartenuto al Ministero precedente. Questa decisione, dettatami
      dallo scrupolo di evitare qualunque apparenza di giudizio su
      antichi miei colleghi, suscitò invece non pochi malumori,
      moltiplicandomi intorno difficoltà, ostilità e guai; i quali pur
      troppo culminarono in uno degli episodi più tristi che ricordi la
      vita politica italiana.
      
      
      Avevo chiamato alle Finanze un mio antico amico, il deputato
      Rosano, che era già stato sottosegretario agli Interni nel mio
      primo Ministero; e che avevo avuto ragione di apprezzare
      grandemente, per la sua vivissima intelligenza e la sua grande
      onestà e delicatezza morale. Appena egli fu nominato, cominciò una
      campagna di attacchi furibondi da parte di alcuni giornali, specie
      socialisti e radicali, diretti contro di lui personalmente; ma con
      l'evidente scopo di combattere il nuovo Ministero alla sua stessa
      formazione. A pretesto di questi attacchi fu preso il seguente
      fatto : un certo Bergamaschi, suddito russo che viveva in Italia,
      era stato denunciato, al tempo delle persecuzioni di Crispi contro
      il movimento socialista, come rivoluzionario e proposto pel
      domicilio coatto. Costui si era rivolto al Rosano, come avvocato,
      per essere difeso; ed il Rosano aveva compilata a sua difesa una
      lunga memoria legale, estesa su carta bollata, e recante la sua
      firma; memoria che si trovava ancora negli archivi del Ministero
      degli Interni. 
      
      I motivi addotti dal Rosano in favore del suo patrocinato, avevano
      persuaso il governo, ed il provvedimento minacciato contro il
      Bergamaschi non era stato eseguito. L'ufficio legale del Rosano
      aveva, in seguito a questo risultato dell'opera prestata da lui
      come avvocato, inviata al Bergamaschi una parcella di lire
      quattromila; e da questo fatto assolutamente legittimo si era
      preso pretesto alla campagna, accusando il Rosano di essersi fatto
      pagare, non come avvocato ma come deputato. Il Rosano, che era di
      una estrema sensibilità, si accorò talmente di questa indegna
      accusa, reiterata in modo violento da parte della stampa, che in
      un momento di sconforto si uccise. Prima di uccidersi mi indirizzò
      la seguente lettera:
      «Caro Giolitti. — Ho avuto, devi convenirne, un coraggio superiore
      sinora, ma ora non resisto più. Cedo, e sono innocente: ho
      ignorato la lettera, non conosco il telegramma; è falso il fatto
      della grazia.
      «Cedo e muoio, col tuo nome nel cuore, riboccante di gratitudine
      come di affetto per te!
      «Bacio la mano alla tua Signora, sempre per me tanto buona; mi
      ricordo  ai tuoi tutti,  e ti stringo per l'ultima volta
      al cuore con affetto fraterno.
      «Dai tu per me un saluto ai colleghi tutti di otto  
      giorni.   —  Tuo   Pietro  
      Rosano».
      
      
      Questa dolorosa lettera trovata sul tavolo nella stanza della sua
      casa a Napoli, dove il Rosano si era ucciso, mi fu mandata dal
      Golosimo dopo che mi era già arrivata la notizia della sua morte.
      Il triste avvenimento fece una penosissima impressione non solo su
      coloro che avevano conosciuto il Rosano e ne avevano apprezzato
      sempre l'ingegno e la rettitudine, ma anche sul pubblico generale,
      provocando una universale indignazione sul malcostume di metodi di
      lotta politica che furono giustamente qualificati da molta parte
      della stampa come equivalenti all'assassinio.
      
      
      Al Ministero degli Esteri io avevo preso il Tittoni, allora
      prefetto a Napoli. Anche codesta nomina dette luogo a grandi
      attacchi, perchè pareva strano che si affidasse il Ministero degli
      Esteri a chi fino al momento di assumerlo non aveva avuto pratica
      di cose diplomatiche. Ma il fatto era che la carriera diplomatica
      non presentava allora alcuno che, oltre le particolari esperienze
      della diplomazia, possedesse le qualità necessarie per adempiere
      le funzioni di ministro e sostenere le discussioni richieste dal
      regime parlamentare, alle quali il Tittoni si era allenato nella
      sua carriera di deputato. Anche contro  il Tittoni 
      furono  sferrati  attacchi  furibondi, in base ad
      accuse delle quali egli, appena il Ministero si presentò alla
      Camera, seppe difendersi validamente. 
      
      Che poi non fosse un concetto errato chiamare alle responsabilità
      della politica estera uomini nuovi alla diplomazia, ma che
      avessero giù dato prova di intelligenza e capacità nel campo
      politico generale, lo dimostrò il Tittoni stesso, che nelle sue
      funzioni diplomatiche, sia come ministro sia come ambasciatore,
      riuscì certamente uno dei più stimati, ed anche l'esperienza
      susseguente ha dimostrato che, a parte qualche eccezione, riesce
      meglio ad un uomo parlamentare di valore di diventare un buon
      diplomatico, che ad un buon diplomatico di acquistare le qualità
      necessarie nel Parlamento. 
      
      Al Tesoro avevo chiamato il Luzzatti, in considerazione sia della
      sua grande competenza in materia finanziaria, sia della sua
      preparazione veramente eccezionale in tutto ciò che concerneva i
      trattati di commercio. E siccome poi la questione delle questioni,
      che il governo era chiamato a risolvere, era quella dell'esercizio
      delle ferrovie, in quanto le Convenzioni con le società private
      scadevano il 30 giugno del 1905, e c'era appena il tempo
      necessario per la necessaria preparazione, sia che si addivenisse
      all'esercizio di Stato, come poi accadde, sia che si concordassero
      Convenzioni nuove; io mi occupai di cercare una persona che avesse
      nella materia speciale competenza. E così chiamai ai Lavori
      Pubblici il deputato Francesco Tedesco, che in quel Ministero
      aveva compiuta la sua carriera, e che fra l'altro era stato anche
      segretario della Commissione d'inchiesta sulle condizioni del
      personale ferroviario, della quale era Presidente il deputato
      Gagliardo. 
      
      Al Ministero della Istruzione chiamai l'onorevole Orlando, che
      pure non era stato mai ministro. Anzi l'intero Ministero, con
      l'eccezione mia e dell'onorevole Luzzatti, riuscì composto di
      uomini che diventavano allora ministri per la prima volta; —
      ricordo oltre i nominati, Ronchetti alla Giustizia; Angelo
      Majorana, che dopo un breve interim del Luzzatti, in seguito al
      suicidio del povero Rosano, prese la Finanze; Pedotti alla Guerra;
      Rava all'Agricoltura; Stelluti-Scala alle Poste, e l'ammiraglio
      Mirabello alla Marina. 
      
      Del resto io ho sempre cercato di mettere alla prova del governo
      uomini nuovi; l'avevo già fatto nel mio primo Ministero e lo feci
      in tutti i miei Ministeri susseguenti; ubbidendo in ciò al
      criterio di allargare il più possibile il personale politico atto
      alla pratica degli affari e sperimentato nella realtà delle cose.
      Gli uomini che si danno alla carriera politica entrano nel
      parlamento con un certo bagaglio di idee e di dottrine derivate
      dai loro studi, e con l'abitudine e la capacità alla discussione
      critica e polemica; quello che generalmente manca loro, a parte le
      attitudini naturali, è la pratica del trattamento delle questioni
      concrete, con la conseguenza di scarsa consapevolezza dei limiti
      entro i quali quelle idee e quelle dottrine possono avere una
      ragionevole e benefica applicazione. Agli uomini politici che
      passano dalla critica  all'azione,  assumendo  le
      responsabilità del governo, si muove spesso l'accusa di mutare le
      loro idee; ma in verità ciò che accade, non è che essi le mutino,
      ma le limitino adattandole alla realtà e alle possibilità
      dell'azione nelle condizioni in cui si deve svolgere
      necessariamente. Questa educazione degli uomini parlamentari alla
      pratica del governo, ha inoltre un benefico effetto sulle stesse
      discussioni parlamentari; ed io ho potuto sempre constatare che
      una assemblea politica, più contiene uomini pratici e più ha
      attitudine a trattare sul serio, con criteri positivi, gli affari
      del paese, evitando   le vuote divagazioni dottrinarie.
      
      
      Questo stesso concetto, di richiamare gli uomini ed i partiti alla
      realtà ed all'operosità pratica, mi determinò anche ad invitare
      l'onorevole Turati ad entrare nel mio Ministero. Io pensavo, che
      siccome il mio intendimento ed il programma del Governo era di
      continuare, senza riserve e senza deviamenti, in quella politica
      di libertà a cui il Partito socialista aveva sempre data la sua
      approvazione, fosse logico che questo Partito partecipasse al
      Ministero che io stavo formando. Quindi, a mezzo del Prefetto di
      Milano, senatore Alfazio, invitai l'onorevole Turati a venire a
      Roma a conferire meco. L'onorevole Turati mi rispose che una sua
      venuta a Roma in tempo di crisi ministeriale avrebbe provocato una
      quantità di chiacchiere, e che credeva più conveniente che io
      parlassi col Bissolati, che si trovava a Roma, e che era in tutto
      d'accordo con lui. Il Bissolati venne infatti da me, ed avemmo
      insieme una lunga conversazione nella quale io gli spiegai le mie
      idee e
gli dissi le ragioni per le quali, a mio avviso, il
Partito
      socialista avrebbe ben fatto a collaborare
in un Ministero il
      quale, oltre mantenere l'indirizzo
liberale già dato alla condotta
      del governo, avrebbe
fatta anche nel campo economico una politica
      di
aiuto alle classi popolari. 
      
      Alle mie ragioni il Bissolati, pure mostrando di apprezzarle per
      sé stesse,
obbiettò che una partecipazione dei socialisti al
      potere gli pareva prematura, sopratutto perchè essa
non sarebbe
      stata compresa dalle masse, ancora imperfettamente educate alla
      vita politica; e questa
sua obbiezione egli mantenne contro le mie
      insistenze,
così che io dovetti rinunciare all'idea di fare
      entrare
i socialisti nell'orbita delle istituzioni e
      dell'azione
positiva di governo.    
      
      
      Io non credo che l'impressione ed il giudizio del Turati e del
      Bissolati sulla immaturità delle masse popolari alla
      partecipazione al governo, corrispondesse alla reale condizione
      delle cose, perchè la mia esperienza è che nelle masse il buon
      senso domina più che generalmente non si creda. Era però vero che
      anche in quel momento, come poi, una grossa parte degli agitatori,
      propagandisti ed organizzatori socialisti, molti dei quali di
      origine borghese e di cultura dottrinaria, insistevano
      particolarmente sui giornali e nei comizi, sulle formule
      rivoluzionarie e sui dogmi estremi del socialismo, ostacolando in
      ogni modo l'azione di coloro che sentivano l'opportunità di
      rivolgere le forze del partito e delle masse che ad esso facevano
      capo, a criteri più moderati e positivi. 
      
      E ne ebbi una prova anche in quella occasione, in quanto gli
      agitatori più scalmanati, non solo del partito socialista, ma
      anche fra i repubblicani e i radicali, si proponevano di iniziare
      un periodo di violenza all'aprirsi della Camera. Di questa cosa io
      mi preoccupai, sopratutto perchè una tale condotta da parte di
      elementi di Estrema Sinistra avrebbe avuto il solo effetto di
      giovare ai reazionari, confermando le loro accuse sui pericoli
      della politica liberale. Io feci quindi avvicinare alcuni degli
      uomini più autorevoli di quei partiti, quali il Turati, il Marcora
      e il Romussi, per fare loro presente questo pericolo, invitandoli
      a procurare che ai propositi di violenza si sostituisse un'azione
      seria di pensiero e di programma, fosse pure con netta opposizione
      al mio Ministero; ed ebbi da loro a questo riguardo le più ampie
      assicurazioni. Vero è che lo spirito di violenza che era diffuso
      in questi partiti, o per meglio dire, in una parte dei loro capi,
      si manifestò più tardi, conducendo all'esperimento dello sciopero
      generale, che fallì del tutto, e provocò anzi una reazione
      generale che dette pienamente ragione ai miei ammonimenti.
      
      
      Presentandomi al Parlamento io riaffermai il proposito di
      continuare quella politica della più ampia
libertà, 
      nei  limiti  della  legge,  la 
      cui   applicazione
in un periodo di tre anni aveva dati
      i migliori frutti, conducendo ad una larga pacificazione sociale
      ed apportando nello stesso tempo notevoli benefici ai lavoratori
      dei campi e delle officine. Ma la libertà, se è indispensabile al
      progresso di un popolo civile, non è fine a sé stessa; ed io
      insistevo particolarmente, ora che il consenso della grande
      maggioranza degli italiani al regime liberale era assicurato, su
      la necessità di iniziare un periodo di riforme sociali, economiche
      e finanziarie; poiché le classi meno agiate della nazione
      attendevano il miglioramento della loro vita da un aumento nella
      prosperità economica del paese. 
      
      Ho già osservato come i due problemi che in quel momento
      incombevano con maggior urgenza sulla vita del paese, fossero
      quello delle ferrovie e quello dei trattati di commercio; a questi
      si dovevano aggiungere l'alleviamento dell'onere del debito
      pubblico e la cura pel miglioramento delle condizioni economiche
      delle provincie meridionali, che più ancora che una necessità
      politica, dopo tante promesse fatte da successivi governi e
      scarsamente mantenute, doveva considerarsi come un vero dovere
      nazionale. La riduzione dell'onere del debito pubblico non doveva,
      nel mio pensiero e nel mio programma, considerarsi come una
      semplice questione di bilancio. Il vantaggio di circa sessanta
      milioni che ne sarebbe derivato al bilancio dello Stato avrebbe
      dovuto darci il modo di affrontare una seria riforma tributaria,
      già dichiarata necessaria da ogni governo, allo scopo di sollevare
      le condizioni delle  classi  meno  agiate, 
      sia  sgravando
      Il Ministero del 1903  certe tasse sui consumi, sia
      introducendo nel sistema tributario un ragionevole criterio di
      progressività a favore dei piccoli proprietari. 
      
      Questi concetti ottennero una larga approvazione nel Parlamento e
      nel Paese; e non ostante l'opposizione formalistica dei socialisti
      e degli altri elementi di Estrema Sinistra che pure pretendevano
      di rappresentare quelle masse nel cui interesse erano proposti,
      poterono subito essere parzialmente tradotti in leggi, con la
      cordiale collaborazione dei partiti liberali, che veramente
      seppero rappresentare in quel periodo gli interessi generali e
      superiori del paese.
      
      
      Nell'opera più specialmente concreta di governo, la prima
      questione che dovemmo affrontare fu quella dei trattati di
      commercio i quali, come ho già detto, scadevano fra due mesi, al
      31 dicembre 1903. Non trovammo in proposito la menoma
      preparazione; ricordo anzi che quando ne parlai la prima volta con
      l'ambasciatore d'Austria, questi mi dichiarò che già dal mese di
      maggio egli aveva presentato al Ministero degli Esteri, da parte
      del suo governo, un progetto di trattato; e che solo alla fine di
      settembre ne aveva avuto notifica di ricevuta, senza alcuna
      comunicazione in merito. E con tutti gli altri paesi si era nelle
      medesime condizioni. Di fronte ad un tale stato di cose non ci fu
      altro da fare che concludere con grandissima fretta degli accordi
      provvisori, per preparare poi per l'anno dopo la negoziazione e la
      conclusione dei trattati permanenti. Il lavoro per i negoziati
      definitivi fu poi preparato; ed i negoziati stessi condotti in
      modo veramente ammirevole dal Ministro del Tesoro, onorevole
      Luzzatti, che in tale opera potè fare valere tutta la sua dottrina
      e la sua esperienza. 
      
      Noi ci eravamo proposti, secondo criteri che erano stati
      largamente discussi ed approvati dal Parlamento, di favorire in
      questo nuovo assetto commerciale, gli interessi più larghi
      dell'agricoltura, pure preoccupandoci di mantenere all'industria
      italiana, ancora giovane, quella ragionevole protezione che
      valesse ad assicurarne la consolidazione e l'incremento: e questi
      nostri propositi, grazie all'abilità dei nostri negoziatori furono
      pienamente adempiuti, procurando al paese un complesso di benefizi
      superiori anche a quanto il governo stesso potesse sperare di
      ottenere nelle condizioni in cui allora si trovavano quasi tutti i
      paesi civili, dominati da irresistibili correnti protezioniste. In
      meno di un anno noi riuscimmo a stipulare i trattati definitivi
      con la Germania, l'Austria-Ungheria, la Svizzera e il Brasile, e
      ad avviare alla conclusione quelli con la Russia e gli altri paesi
      per noi commercialmente più importanti.
      
      
      Per il problema dell'esercizio ferroviario, io, pure non
      pronunciandomi ancora definitivamente in favore dell'esercizio di
      Stato, mi resi conto sino dal principio che quale potesse essere
      la decisione definitiva, incombeva al governo il dovere assoluto
      di studiare in tutte le sue parti il sistema dell'esercizio
      statale, di tracciarne tutte le linee e prepararne i quadri come
      se ad esso si dovesse in ogni modo addivenire; essendo evidente
      che senza una tale minuta e precisa preparazione lo Stato, non
      avendo questa alternativa dell'esercizio diretto, si sarebbe
      trovato in condizione di assoluta inferiorità nel trattare con le
      Società e ne avrebbe dovuto subire le condizioni. E mi preoccupai
      anche di trovare l'uomo adatto ad assumere la responsabilità
      dell'esercizio statale; anzi ebbi ripetutamente a dichiarare in
      Consiglio dei ministri che non mi sarei mai assunta la
      responsabilità dell'esercizio di Stato, se quest'uomo non si fosse
      trovato. 
      
      Fra i candidati presi in considerazione, l'uomo che mi parve
      subito il meglio indicato, sia per capacità tecnica, sia pel suo
      giudizio equilibrato e sicuro, fu il Comm. Riccardo Bianchi, che
      teneva allora la Direzione delle ferrovie sicule. E l'opera del
      Bianchi corrispose in tutto alla mia aspettazione; e sotto la sua
      sapiente direzione le ferrovie italiane, consegnate dalle Società
      allo Stato in condizioni di deteriorazione gravissima, furono, in
      volgere di tempo relativamente breve, condotte ad una efficienza
      tale da non temere il paragone con quelle meglio organizzate degli
      altri paesi. Devo anche ricordare ad onore del Bianchi, che noi,
      per ottenere la sua opera, eravamo disposti a fargli condizioni
      specialissime; ma egli, interrogato in proposito dal Ministro
      Tedesco, dichiarò di non richiedere emolumenti superiori a quelli
      che ricavava dal posto che allora occupava, posto che certamente
      implicava minore lavoro e minore responsabilità che non la
      direzione delle Ferrovie dello Stato.
      
      Contro l'attuazione dell'esercizio ferroviario di Stato sono state
      levate molte ed aspre critiche, specie in questi ultimi tempi,
      forse per le condizioni in cui questo servizio, sia nell'aspetto
      tecnico e finanziario, che in quello morale del personale, è
      caduto dopo la guerra. Ma non è giusto fare risalire al principio
      ed all'attuazione, per lungo tempo esperimentata ottima,
      dell'esercizio di Stato, le conseguenze finanziarie e morali che
      sono derivate dalla guerra non solo in questo, ma presso che in
      ogni altro campo della vita sociale e nazionale. E bisogna pur
      ricordare che l'esercizio di Stato delle ferrovie durante la
      guerra funzionò in modo ammirevole. Né si può dare un equo
      giudizio di una deliberazione, prescindendo dalle condizioni
      speciali in cui essa fu presa. Il ponderoso problema
      dell'esercizio delle strade ferrate fu allora studiato dal
      governo, con la collaborazione di una Commissione parlamentare
      ottimamente scelta, senza alcun preconcetto, e tenendo conto di
      tutti i complessi elementi, materiali e morali, di cui era
      composto. E di due punti particolarmente dovemmo tener conto:
      delle condizioni tecniche in cui le ferrovie si trovavano, e delle
      condizioni morali del personale. 
      
      Pel rispetto tecnico le ferrovie erano ormai state ridotte a
      condizioni deplorevoli; le Società esercenti avevano seguita
      quella pratica che nelle campagne toscane si chiama del
      «lasciapodere», sfruttando le reti e il materiale ferroviario sino
      agli estremi, e lesinando sino all'inverosimile nelle
      manutenzioni. Tale condotta aveva anche essa le sue ragioni,
      nell'incertezza in cui le Società si trovavano riguardo al
      rinnovamento o meno delle Convenzioni ferroviarie ed alle
      condizioni in cui avrebbe potuto avere luogo; ma pertanto
      l'effetto di tale politica di aspettazione era questo, che nei
      calcoli più modesti non sarebbe occorso meno di un miliardo per
      rimettere le ferrovie in assetto tale da corrispondere al
      crescente sviluppo della vita economica del paese. Questa enorme
      somma avrebbe dovuto essere spesa dallo Stato; e nessuno può non
      rendersi conto delle complicazioni e difficoltà che sarebbero
      risultate dalla coincidenza di questa grossa spesa patrimoniale,
      spettante allo Stato, con l'esercizio privato delle ferrovie. 
      
      Né meno gravi si presentavano le difficoltà e complicazioni che
      risultavano dallo stato d'animo del personale, ormai
      irreparabilmente straniato dalle Società; straniamento del quale
      la maggiore responsabilità risaliva alle Società stesse, che non
      avevano trattato con equità i loro dipendenti, come il governo
      stesso ed il Parlamento avevano già potuto constatare. Conviene
      fra l'altro ricordare che le Società, non ostante le replicate
      istanze del personale, si erano sempre rifiutate di stabilire
      delle norme generali e precise per le nomine e le promozioni; e la
      questione aveva dato luogo a conflitti così minacciosi che già i
      governi precedenti avevano dovuto nominare una Commissione
      d'inchiesta sulle condizioni fatte dalle Società al loro
      personale. Questa Commissione presieduta, come ho detto, da un
      uomo di grande equità e moderazione, quale era il deputato
      Gagliardo, e di cui era segretario l'on. Tedesco, dovette
      constatare che in realtà il trattamento fatto al personale delle
      ferrovie non rispondeva alle elementari norme di equità, e propose
      una serie di provvedimenti che correggessero le ingiustizie più
      palesi e stridenti. 
      
      Ma nulla fu realmente fatto, e i conflitti fra personale e società
      continuarono inasprendosi sempre più; tanto che io stesso, quando
      ero Ministro degli Interni nel Gabinetto Zanardelli, proposi di
      chiamare a Roma i rappresentanti del personale, che aveva allora
      costituito il Fascio ferroviario, per sentire le loro ragioni. Una
      Commissione di ferrovieri venne e fu ricevuta da me insieme con lo
      Zanardelli; e dopo un lungo colloquio ne ricevemmo entrambi la
      chiara impressione che molte delle loro lagnanze fossero
      pienamente giustificate e che per considerazioni di equità qualche
      provvedimento fosse richiesto. Ma le Società resistevano a
      qualunque concessione, adducendo sempre che il loro contratto
      stava per scadere, e che esse non potevano assumere impegni se non
      quando sapessero se le Convenzioni sarebbero state rinnovate, ed a
      quali condizioni. I conflitti in seguito a questa resistenza si
      moltiplicarono; ed infine i ferrovieri, lasciandosi trascinare
      dagli estremisti, a cui la resistenza delle Società faceva buon
      gioco, minacciarono lo sciopero generale. 
      
      Pure non disconoscendo che i ferrovieri avevano giuste ragioni di
      lagnanze, il Governo non poteva permettere che le conseguenze di
      un conflitto di una particolare categoria si ripercuotessero in un
      danno generale del paese, quale sarebbe derivato dallo sciopero
      dei grandi mezzi di trosporto. Io allora escogitai, per evitarlo,
      un mezzo che si dimostrò efficacissimo. Considerando che una
      fortissima percentuale del personale ferroviario aveva ancora
      l'obbligo militare, io proposi precisamente la militarizzazione
      dei ferrovieri, la quale assoggettando alla disciplina militare
      tutti coloro che erano iscritti ai quadri dell'esercito, rendeva
      lo sciopero impraticabile, ed assicurava il servizio. Di questa
      mia idea io non parlai che col Presidente del Consiglio, essendo
      evidente che perchè la cosa potesse riuscire senza provocare
      disordini, bisogna procedere con la massima segretezza, in modo
      che il provvedimento giungesse affatto improvviso e inaspettato.
      Messomi d'accordo con lo Zanardelli, scrissi io stesso i dispacci
      con cui l'ordine della militarizzazione era comunicato ai
      Prefetti, facendoli poi cifrare da persona di mia assoluta
      fiducia, premendomi di ottenere che in tutta Italia, e
      simultaneamente fosse fatta l'intimazione personale della
      militarizzazione a tutti i ferrovieri, applicando loro le
      stellette, simbolo della appartenenza all'esercito. 
      
      La cosa riuscì benissimo, tanto che il mio capo di gabinetto e lo
      stesso Sottosegretario al mio Ministero non ne seppero nulla sino
      a quando non lessero, affìsso alle cantonate, l'ordine della
      militarizzazione. Prova questa che un segreto è bene mantenuto
      quando ad averne conoscenza non sono che in due; poiché altrimenti
      non è più possibile stabilire la responsabilità della
      divulgazione. Non ostante la novità del provvedimento non si
      ebbero resistenze e conflitti, tutto procedendo nel modo più
      tranquillo ed ordinato; ma un provvedimento simile aveva un
      carattere eccezionale, tale da non doversene abusare. Così, pure
      essendo sempre mantenuto in riserva, esso non fu più applicato;
      nemmeno quando, appunto nel 1904, i ferrovieri scioperarono, non
      trattandosi però di uno sciopero proprio, ma della loro adesione
      ad uno sciopero generale, al quale io credetti conveniente, per
      ragioni che dirò più avanti, di lasciare libero sfogo.
      
      
      Di queste condizioni del momento, tecniche e morali, bisognava
      tenere conto per la soluzione del problema ferroviario; ed esse
      tutte concorrevano a rendere assai diffìcile e forse impossibile
      la rinnovazione di Convenzioni per l'esercizio privato. Conviene
      poi aggiungere che quel problema veniva a coincidere con un
      momento decisivo della vita economica nazionale, la quale, a
      sicuri segni, si avviava verso un grande incremento. Ora di questo
      incremento i grandi mezzi di comunicazione erano uno degli
      strumenti ad un tempo più necessari ed efficaci; ed il Governo
      sarebbe incorso in una vera responsabilità storica trascurando di
      considerare il problema ferroviario sotto questo aspetto e in
      connessione con l'intera economia nazionale. E la nostra
      principale preoccupazione, adottando il principio dell'esercizio
      di Stato, fu appunto di dare alle ferrovie un assetto che
      corrispondesse alle nuove ed aumentate esigenze dell'economia del
      paese.
      
      
      L'anno di lavoro  parlamentare e legislativo,  che
      intercorse fra la formazione del mio Ministero e lo scioglimento
      della Camera, fu assai operoso e fecondo. Il programma con cui il
      mio governo si era presentato, era stato da molti criticato come
      troppo vasto e contenente troppi impegni e promesse; ma si potè
      poi constatare che, in meno di un anno, tutti gli impegni e le
      promesse che dipendevano dall'azione del Governo, furono adempiuti
      e mantenute, e che anzi per certe parti l'opera legislativa ebbe
      uno sviluppo ancora più ampio che in quel programma non fosse
      indicato. In circa sei mesi di lavoro parlamentare, oltre alla
      regolare approvazione di tutti i bilanci, e di un gran numero di
      leggi di secondaria importanza, si approvarono le leggi che
      provvedevano alla trasformazione economica della Basilicata, al
      risorgimento industriale di Napoli, alla trasformazione dei
      prestiti del Mezzogiorno continentale ed a rendere possibile la
      pronta costruzione dell'acquedotto delle Puglie; si approvò la
      radicale modificazione della legge sulle Opere Pie, intesa ad
      assicurare una efficace tutela di quel vero patrimonio dei poveri
      e la sua destinazione ad usi più conformi alle mutate esigenze dei
      tempi; si rinnovò la legislazione sulla Sanità pubblica,
      intensificando la cura della malaria e della pellagra ed
      affermando per la prima volta il dovere dei proprietari di
      provvedere di sane abitazioni i lavoratori della terra; si
      provvide alla Scuola primaria ed ai maestri elementari con
      larghezza ignota a tutte le leggi precedenti, facendovi concorrere
      lo Stato con otto milioni all'anno; si estese a favore delle
      Società cooperative, operaie ed agricole il diritto di concorrere
      agli appalti dei lavori pubblici; si tolse al potere esecutivo,
      riservandolo al potere legislativo, il diritto di modificare i
      ruoli organici delle pubbliche amministrazioni, si migliorarono
      grandemente, con la spesa di molti milioni, gli organici delle
      amministrazioni Postali e Telegrafiche, e di quelle delle Finanze
      e del Tesoro, dei Lavori Pubblici, della Magistratura, del
      Ministero degli Affari Esteri, degli ufficiali inferiori
      dell'esercito, delle biblioteche e della amministrazione
      carceraria. 
      
      Si provvide inoltre a migliorare le condizioni della cassa per la
      invalidità e vecchiaia degli operai; si istituì quella per gli
      impiegati dei Comuni; si stabilirono le pensioni per gli operai
      della manifattura dei tabacchi, e si provvide pure ai veterani
      della guerra dell'indipendenza. Si fissò per un quadriennio un
      razionale piano di lavori pubblici, s'introdusse nella nostra
      legislazione penale il principio salutare della condanna
      condizionale, e si iniziò una radicale riforma del sistema
      carcerario con l'ammettere i condannati al lavoro all'aperto e con
      la trasformazione dei riformatori pei minorenni da luoghi di pena
      ad istituti di educazione ed istruzione; oltre a molte cose
      minori, come il riordinamento della finanza di Roma; i
      provvedimenti a favore dell'industria enologica ed agrumaria,
      reprimendo nello stesso tempo e in relazione ai trattati di
      commercio, la frode nella produzione e nel commercio dei vini; il
      disciplinamento della navigazione di cabotaggio, il
      perfezionamento dei sistemi di pesca marittima, con salutare
      miglioramento delle condizioni dei pescatori; la concessione di
      notevoli agevolezze alle industrie che usano il sale e lo spirito,
      e così via.
      
      
      Questa seria e feconda operosità legislativa, veniva però
      continuamente turbata da agitazioni nel paese, e da retoriche
      declamazioni nel Parlamento, provocate dagli estremisti, che
      comprendevano non solo i socialisti, ma anche elementi radicali.
      Ma per bene comprendere tale situazione e le sue ripercussioni e
      conseguenze politiche, è necessario fare anzitutto una
      distinzione.
      
      
      La comune e primaria forma di queste agitazioni, erano gli
      scioperi, i quali, a parte che per se stessi non uscivano affatto
      dall'ambito della legge, avevano anche, nell'aspetto economico,
      ragionevoli giustificazioni. Il periodo della politica
      reazionaria, prolungatosi circa sette o otto anni, con la
      compressione che esercitava sulle masse operaie ostacolandole
      nell'esercizio dei diritti di riunione e di associazione, aveva
      avuto fra l'altro la conseguenza assai grave di turbare il libero
      gioco delle forze economiche, nella domanda ed offerta di lavoro e
      di salari. Questo turbamento si era prodotto necessariamente a
      danno delle classi popolari; ed era quindi naturale e legittimo
      che queste classi, ricuperando nel regime di libertà il pieno
      esercizio di quei loro diritti, ne profittassero per ristabilire
      un più equo equilibrio nei salari. L'arma, per se stessa legittima
      assolutamente, a  cui  queste  classi 
      ricorrevano   per  migliorare  le proprie
      condizioni, era quella dello sciopero. 
      
      Ma siccome, sia nel campo industriale sia in quello agricolo, vi
      era una infinita varietà nelle condizioni dei salari, da industria
      ad industria, e da regione a regione; si produceva, per così dire
      una specie di rotazione degli scioperi; gli operai mettendosi in
      sciopero da provincia a provincia, da comune a comune, da
      industria ad industria e infine da azienda ad azienda, per
      ottenere i vantaggi e le concessioni già ottenute dai loro
      compagni in altre aziende, industrie e provincie, in forza della
      legge economica per cui il tenore di vita e la misura dei salari
      tende a perequarsi. Gli scioperi erano dunque continui; ricordo un
      momento in cui ce n'erano oltre ottocento ad un tempo. E fin qui
      nulla vi era di male e di anormale; per quanto queste agitazioni e
      queste lotte economiche potessero deplorarsi per il danno generale
      che arrecavano alla produzione, esse rappresentavano una
      condizione inerente allo stesso sistema economico, ed avrebbero
      finito per sedarsi, o almeno diminuire assai d'intensità e di
      frequenza, quando un nuovo assestamento nel regime generale dei
      salari fosse stato raggiunto. 
      
      Sfortunatamente su questo fenomeno economico, legittimo e
      naturale, si era innestato, per opera di una minoranza esigua ma
      facinorosa, un fenomeno di agitazioni politiche, artificiale e per
      nulla giustificato. Gli estremisti del partito socialista, insieme
      ad altri elementi anarchici e rivoluzionari, lavoravano
      costantemente a spingere gli scioperanti alla violenza, provocando
      così continuamente l'intervento della forza pubblica, in
      corrispondenza ai criteri ripetutamente affermati dal Governo; il
      quale si sentiva egualmente impegnato a riconoscere la libertà di
      sciopero e la libertà di lavoro, contro la quale specialmente le
      minaccie e le violenze erano dirette. 
      
      Assolutamente fermo nel concetto che fosse dovere del Governo di
      assicurare, nelle lotte pei salari, il libero gioco delle forze
      economiche, il quale solo può determinarne la misura giusta e
      compatibile con le condizioni generali dell'economia del paese; io
      non potevo né usare della forza pubblica in favore dei padroni
      contro gli scioperanti, né permettere che questi ostacolassero e
      impedissero, con le minaccie e le violenze, la libertà del lavoro,
      perchè l'uno o l'altro abuso avrebbero avuto l'eguale effetto di
      creare condizioni artificiali, che riuscendo insostenibili
      avrebbero portato inevitabilmente a nuovi conflitti. Per cui,
      mentre non ascoltavo i reazionari, i quali, spaventati dalla
      moltiplicazione degli scioperi avrebbero preteso di ritornare al
      regime di provvedimenti eccezionali, dall'altra parte usavo delle
      forze dello Stato per proteggere quei lavoratori che non volevano
      partecipare agli scioperi, e assicurare i proprietari nei loro
      diritti contro le violenze degli scioperanti.
      
      
      Contro codesto intervento regolatore dello Stato insorgevano gli
      estremisti, i quali avrebbero preteso che la forza pubblica fosse
      affatto assente nei conflitti fra capitale e lavoro; il che
      equivaleva a richiedere che fosse lasciato libero corso alla
      violenza da parte degli scioperanti, quando questi avessero
      creduto opportuno di usarla; e colla quale, come avviene sempre in
      tali casi, si sarebbe mescolata quella dei delinquenti comuni.
      L'assurdità di queste pretese, che confondevano il regime di
      libertà, a cui il Governo si manteneva fedele senza titubanze e
      senza riserve, con la pura e semplice anarchia, era evidente a
      tutti; ma ciò non toglieva che, ogni qual volta l'intervento
      necessario della forza pubblica, o per meglio dire la violenza
      degli scioperanti eccitati dagli estremisti, portava a qualche
      doloroso episodio, sia pure secondario, i deputati socialisti,
      disconoscendo tutta l'opera compiuta dal Governo per la libertà ed
      a favore delle classi popolari, recassero in Parlamento continue
      proteste, sostenendo le pretese degli estremisti contro l'uso
      della forza pubblica per la protezione dei diritti di ogni parte.
      
      
      Cosa ancora più curiosa, alle proteste dei socialisti si
      accodavano anche parecchi deputati radicali, di un partito cioè
      che poco tempo dopo doveva pure assumersi tutte le responsabilità
      di governo. Vero è che non erano sinceri in questo loro
      atteggiamento, né gli uni né gli altri. I deputati socialisti, che
      per il loro formalismo d'opposizione votavano in Parlamento anche
      contro le leggi presentate a favore delle classi popolari, si
      lasciavano così rimorchiare dagli agitatori rivoluzionari per
      timore che questi prendessero il loro posto nell'animo delle
      folle; mentre poi quei radicali, qualcuno dei quali era mio amico
      personale e fu poi dopo ministro, nell'assumere tali atteggiamenti
      ubbidivano sopratutto a preoccupazioni elettorali e rispecchiavano
      le condizioni di alcune provincie nelle quali il radicalismo aveva
      ormai fatto il suo tempo, così che essi vedevano le loro posizioni
      minate dalla concorrenza dei socialisti, e cercavano di
      ammansarli.
      
      
      Questi conflitti economici per se stessi inevitabili e non
      illegittimi né pericolosi, per ragione dello sfruttamento politico
      che cercavano di farne i partiti estremi, mantenevano il paese, e
      sopratutto le masse popolari, in un perenne stato di
      irrequietezza. Il governo da una parte non poteva cedere alle
      intimazioni degli agitatori e dei rivoluzionari e venir meno in
      qualunque modo al suo dovere di difesa dell'ordine pubblico e dei
      diritti di ogni categoria di cittadini; dall'altra gli agitatori,
      non riuscendo nei loro intenti di intimidazione e temendo di
      perdere il proprio prestigio sulle masse, erano spinti ad
      esagerare le loro minacele. Le masse, che pure dal regime di
      libertà avevano tratto, tanto nelle officine che nei campi,
      larghissimi benefici materiali e morali, non erano però ancora
      educate a tale regime tanto da rendersi pienamente conto dei
      limiti che il diritto di ognuno trova nel diritto degli altri, ed
      a resistere con reale consapevolezza dei loro migliori interessi
      alle nuove tirannie che sorgevano dal basso; né alla libertà erano
      sufficientemente educate le stesse classi agiate, le quali non
      avevano ancora abbastanza compreso che in un regime di libertà non
      si può e non si deve attendere ogni cosa dal Governo, ma occorre
      pure una vigorosa azione di resistenza da parte di tutti i
      cittadini per la tutela dei legittimi loro interessi. 
      
      In tali condizioni di incertezza morale, era evidente che prima o
      dopo si doveva venire ad un qualche episodio risolutivo; e che,
      pure senza augurarsene l'avvento, si poteva e doveva attenderlo
      con calma e fermezza nella fiducia che avrebbe servito di
      ammaestramento all'una e all'altra parte. Per cui io non mi
      preoccupai affatto quando gli estremisti si decisero a cogliere un
      pretesto per provocare quello sciopero generale, la cui minaccia
      incombeva, con una paurosità per me non giustificata, da parecchi
      mesi sulla vita del paese. Il pretesto fu trovato in un piccolo
      conflitto scoppiato fra scioperanti minatori e la forza pubblica
      in Sardegna. 
      
      Gli scioperanti avendo aggredito la forza che proteggeva i pozzi
      delle miniere, questa dovette fare uso delle armi, e ci fu un
      morto. Come protesta per questo secondario incidente fu proclamato
      lo sciopero generale. E lo sciopero quella volta fu veramente
      generale, avendovi aderito anche i ferrovieri; tanto che essendo
      in quei giorni nato a Racconigi il Principe ereditario, e dovendo
      io andarvi per l'atto di nascita quale notaio della Corona, fui
      costretto a viaggiare su un treno speciale, composto di una
      macchina e di un vagone, e a fare un lungo giro per evitare i
      punti in cui i ferrovieri, come ad Alessandria ed in altri centri
      più spiccatamente socialisti e sovversivi, avevano interrotto il
      passaggio. Con tutto questo era fermissima in me la persuasione
      che quel movimento fosse di carattere effìmero, e mancasse di
      base;  e in questo senso telegrafai ai prefetti, osservando
      che trattandosi di una agitazione che non aveva alcuna ragione né
      in una grande questione economica né in una grande questione
      nazionale, non poteva avere che una brevissima durata, e che
      quindi lo considerassero con calma e senza soverchie
      preoccupazioni. Tale mio convincimento reiterai nei dispacci con
      cui informavo il Re giorno per giorno dello svolgersi degli
      avvenimenti. 
      
      Si ebbero qua e la episodi di violenza, ma di carattere
      secondario, specialmente a Genova, dove io passai la direzione
      della sicurezza pubblica nelle mani del generale Del Magno,
      comandante della piazza, mandandovi anche tre navi da guerra; ed a
      Napoli, dove inviai pure due navi da guerra e due reggimenti di
      cavalleria. Il Consiglio dei Ministri deliberò pure la chiamata di
      due classi e la militarizzazione dei ferrovieri, pel caso che la
      situazione si aggravasse, ed io preparai i due decreti relativi,
      tenendoli però in riserva. 
      
      La mia linea di condotta fu, insomma, che lo Stato fosse preparato
      a qualunque evento, senza però ostentare prematuramente la sua
      forza,, che doveva essere usata solamente quando apparisse
      veramente necessario, il che non avvenne. Le mie previsioni
      ottimiste infatti si avverarono totalmente, perchè lo sciopero non
      potè durare che pochissimi giorni. Esso si esaurì per stanchezza,
      e i primi a stancarsene furono gli scioperanti stessi, i quali,
      rendendosi a poco a poco conto della mancanza di vere ragioni che
      giustificassero e i loro sacrifizi e il turbamento recato alla
      vita generale del paese, cominciarono un po' da per tutto a
      ritornare al lavoro. 
      
      Le classi borghesi, che da principio si erano assai spaventate,
      come avviene pur troppo frequentemente per qualunque minaccia,
      quando ebbero visto finalmente in faccia questo spauracchio dello
      sciopero generale, di cui si era parlato con tanto allarme prima
      di conoscerne i reali effetti, ed ebbero constatato che non
      produceva i guai temuti, si rinfrancarono. Gli stessi elementi
      rivoluzionari finirono per comprendere che questo strumento, che
      poteva parere così terribile sino a quando si limitavano a
      parlarne ed a minacciarne l'uso, alla prova dei fatti si era
      rivelato presso a che innocuo, e tale da mettere forse in maggiori
      imbarazzi chi lo usava che quelli contro i quali era diretto.
      L'impressione del fallimento fu generale; anche quelli che erano
      stati più spauriti ed avevano domandato mezzi straordinari per
      fare fronte alla minaccia, si persuasero dopo, ad esperimento
      compiuto, che l'averla affrontata con tanta tranquillità era stata
      una delle principali ragioni del suo fallimento. 
      
      La sincera e logica pratica della politica di libertà acquistava
      così un nuovo merito con la distruzione dello spauracchio e del
      mito dello sciopero generale, la cui minaccia aveva per così lungo
      tempo conturbato lo spirito del paese.
      
      
      I deputati socialisti, e gli altri della Estrema Sinistra che si
      erano uniti a loro per provocare e proclamare lo sciopero, quando
      si accorsero che cessava di per se stesso, si affrettarono a
      proclamarne la fine. Poi  indissero   e 
      tennero  una  riunione  nella  quale
      deliberarono di chiedere la immediata convocazione del Parlamento.
      Siccome la Camera era già prossima a compiere i suoi cinque anni
      di vita, ed avrebbe dovuto essere sciolta in tempo non lontano, io
      risposi che, invece di convocare i deputati ritenevo più opportuno
      convocare gli elettori, per dare loro modo di esprimere il loro
      giudizio sulla politica del Governo, ed anche perchè giudicassero
      quei partiti e quegli uomini che avevano provocata quella inutile
      e dannosa interruzione nella vita normale del paese. Così io
      proposi alla Corona lo scioglimento della Camera e la Camera fu
      sciolta.
      
      
      Ad evitare qualunque falsa impressione, nella relazione per lo
      scioglimento della Camera io riaffermai chiaramente la volontà
      liberale del Governo, dichiarando che il Ministero non avrebbe
      mutata una linea al programma seguito dal febbraio 1901 in poi,
      cioè della più ampia libertà per tutti nei limiti della legge. La
      fede nella politica liberale non poteva, nel mio pensiero, essere
      scossa dalle violenze di una esigua minoranza che tutto il paese
      aveva disapprovate. Quelle violenze anzi avevano dimostrato che la
      libertà era sopra tutto temuta dagli elementi rivoluzionari, i
      quali in un regime libero perdono ogni ragione di essere, e perciò
      ogni prestigio. Ricorrendo infatti allo sciopero generale, che fra
      l'altro impediva alla voce della opinione pubblica di farsi
      sentire, costoro avevano dimostrato coi fatti che per acquistare
      l'ambito predominio, erano costretti a sopprimere ogni libertà,
      compresa quella della stampa, per la impotenza in cui erano di
      sostenere col ragionamento le loro assurde pretese. Il Governo
      manteneva quindi intatto il suo programma di libertà, che trovava
      vivaci oppositori appunto nei due partiti estremi, di destra e di
      sinistra; avendo illimitata fiducia nel senno del popolo italiano
      a cui la storia ha insegnato essere suoi nemici egualmente
      pericolosi la  demagogia  e  la reazione.
      
      
      Le elezioni si svolsero poi infatti sopra tutto come un giudizio
      sulle responsabilità dei partiti e degli uomini che avevano
      provocato il perturbamento dello sciopero generale; e per logica
      retribuzione quel giudizio colpì più particolarmente quegli uomini
      e partiti radicali, che solo per calcoli e preoccupazioni
      elettorali, che poi apparvero sbagliate, si erano lasciati
      rimorchiare dietro i socialisti ed i rivoluzionari. E nello stesso
      modo che la politica reazionaria del Pelloux, nelle elezioni del
      1901, si era risolta contro i partiti e gli uomini della reazione;
      così le esagerazioni rivoluzionarie ed egualmente perturbatrici
      della vita normale del paese, dei socialisti e degli altri
      estremisti, si rivolsero contro di loro. La Camera eletta coi
      comizi del novembre 1904, apparve subito assai più conservatrice
      della Camera sciolta. Né questo era per me ragione di rammarico e
      di preoccupazione, perchè se io ho sempre egualmente avversato il
      rivoluzionarismo e la reazione, ho sempre apprezzato tanto le
      forze del progresso che del conservatorismo quando agiscono
      entrambe in modo legittimo entro i limiti della legge. Nel caso
      attuale poi, l'affermazione conservatrice, ma per nulla
      reazionaria, uscita dalle elezioni, aveva il particolare merito di
      servire di lezione al socialismo ed al rivoluzionarismo, mostrando
      che il popolo italiano, nella sua educazione civile, non intendeva
      permettere che certi limiti fossero violati da qualsiasi parte.
      
      
      Alla riapertura del Parlamento, il discorso della Corona riaffermò
      la piena fiducia nel regime della più ampia libertà entro i limiti
      della legge fortemente difesa; riaffermazione che corrispondeva
      pienamente al verdetto dato dal paese nei comizi elettorali,
      risultati egualmente contrari ai campioni della reazione ed a
      quelli del sovversivismo. Il discorso preannunciò pure
      l'intenzione di invitare il Parlamento ad elaborare una saggia
      legislazione sociale, che ad un tempo mirasse ad elevare
      progressivamente il tenore di vita delle classi lavoratrici e
      fornisse, mediante l'arbitrato e il probivirato, nuovi strumenti
      per la pacifica soluzione dei conflitti fra capitale e lavoro,
      allo scopo di evitare le lotte combattute con le armi dello
      sciopero e delle serrate, nelle quali il danno è comune e la
      vittoria rimane a chi abbia non le migliori ragioni, ma la
      maggiore forza dalla sua parte.
      
      
      Credetti poi opportuno di apportare un mutamento alla Presidenza
      della Camera, la quale ormai per parecchi anni era stata tenuta
      con grande dignità e imparzialità e tatto dall'on. Biancheri, col
      quale ero
      legato da sentimenti di comune stima ed amicizia, e da cui mi
      dolse di dovermi distaccare. Le ragioni di questa mia decisione,
      di carattere essenzialmente politico, le comunicai al Biancheri
      stesso, con piena franchezza, in una mia lettera. Ed erano
      duplici; per un lato, con la costituzione di una Camera in cui lo
      spirito conservatore, sia pure nelle forme più moderate,
      predominava, a me pareva opportuno, per ragioni di equilibrio ed a
      garanzia delle parti più liberali, che la Presidenza fosse tenuta
      da un uomo di tendenze spiccatamente avanzate; per l'altro,
      considerando la nuova situazione generale uscita dalle elezioni,
      mi ero convinto della opportunità di profittarne per accentuare al
      possibile la separazione dei radicali dai repubblicani e dai
      socialisti. La nomina di Marcora a Presidente della Camera, dati i
      precedenti dell'uomo e l'autorità di cui godeva fra gli elementi
      avanzati ma costituzionali, rispondeva a questa duplice
      convenienza. 
      
      Il Biancheri, che pure parecchi mesi prima mi aveva accennato
      spontaneamente all'opportunità di tale nomina, mi rispose con
      franchezza pari alla cordialità, dichiarandomi il suo parere che
      la composizione della Camera indicasse come più opportuna la
      scelta di una persona di meno spiccata personalità politica e che
      rappresentasse piuttosto uno spirito di conciliazione.
      
      
      Le ragioni espostemi dal Biancheri non mi persuasero a rinunciare
      a quella che io credevo una alta convenienza politica per fare
      gradatamente entrare nell'orbita delle istituzioni il partito
      radicale, che per il suo programma positivo e misurato non aveva
      alcuna ragione di rimanere confuso fra gli estremisti sia
      repubblicani che socialisti. L'elezione del Marcora alla
      Presidenza rispose perfettamente alle mie aspettazioni, in quanto
      egli per lunghi anni esercitò la sua delicata funzione con
      generale soddisfazione e perchè quella nomina fu il primo passo
      decisivo che avviò il partito radicale ad assumersi la
      responsabilità del governo.
      
      
      Mi compiaccio pure di ricordare la creazione, avvenuta in quel
      torno di tempo, di una nuova istituzione internazionale, con sede
      in Italia, dovuta ad una nobile e geniale iniziativa del Re. Sua
      Maestà, il 24 gennaio 1905 mi indirizzò una lettera che qui
      riproduco:
      «Caro Presidente. — Un cittadino degli Stati Uniti d'America, il
      signor Davide Lubin, mi esponeva, con quel calore che viene dai
      sicuri convincimenti, una idea che a me parve provvida e buona, e
      che perciò raccomando  all'attenzione del mio  governo.
      «Le classi agricole, benché siano le più numerose, vivendo
      disgregate e disperse, non possono da sole provvedere abbastanza,
      né a migliorare e distribuire secondo le ragioni del consumo le
      varie culture, né a tutelare i propri interessi sul mercato, che,
      per i maggiori prodotti del suolo, si va sempre più facendo
      mondiale.
      «Di grande giovamento potrebbe quindi riuscire un istituto
      internazionale, che si proponesse di studiare le condizioni
      della  agricoltura nei vari paesi del mondo; di segnalare
      periodicamente l'entità e la qualità dei raccolti, cosichè ne
      fosse agevolato il commercio e la determinazione giusta dei
      prezzi; di fornire notizie precise sulle condizioni della mano
      d'opera agricola nei vari luoghi, in modo che gli emigranti ne
      avessero una guida utile e sicura; di procedere d'intesa per la
      tutela degli stessi emigranti coi vari istituti nazionali già
      sorti a tal fine; di procurare opportuni accordi per la difesa
      contro quelle malattie delle piante e del bestiame, per le quali
      riesce meno efficace la difesa parziale; di esercitare finalmente
      un'azione prudente e opportuna sui congegni delle assicurazioni e
      del credito agrario.
      «Di un istituto siffatto, capace di ulteriori e benefici
      svolgimenti, e a cui Roma sarebbe degna sede augurale, dovrebbero
      fare parte le rappresentanze degli Stati aderenti e delle maggiori
      associazioni interessate, per modo che vi procedessero concordi
      l'autorità dei Governi e le libere energie dei coltivatori della
      terra.
      «Ho fede che l'altezza del fine farà superare le difficoltà
      dell'impresa.
      «E in questa fede mi piace di confermarmi. — Suo aff.mo Cugino
      Vittorio Emanuele.»
      
      
      L'iniziativa del Sovrano, accolta rispettosamente dal Governo,
      ottenne il plauso dell'opinione pubblica italiana ed
      internazionale, ed ebbe la cordiale adesione di tutti gli Stati
      civili. L'Istituto fu fondato; e da allora in poi ha sempre ed
      utilmente funzionato.
      
      L'anno 1904 ebbe pure un avvenimento di alta importanza
      internazionale, e fu la visita a Roma del Presidente della
      Repubblica francese, il Loubet.
      
      
      Il Re, dopo la sua ascensione al trono, aveva compiuto un giro di
      visite presso i capi dei principali Stati europei; era stato a
      Pietroburgo, a Londra, a Berlino ed a Parigi. Queste visite furono
      restituite. Il Re d'Inghilterra, Edoardo VII, e l'Imperatore di
      Germania, Guglielmo II, avevano fatto queste restituzioni di
      visite durante il Ministero Zanardeslli; io ero allora Ministro
      degli Interni e non ebbi occasione di avvicinare particolarmente i
      due sovrani, a parte i ricevimenti generali a cui interveniva
      l'intero corpo dei ministri. Ricordo tuttavia che Re Edoardo
      insisteva particolarmente col nostro Sovrano perchè si mettesse in
      rapporto col Re di Spagna, col quale da poco la Corte
      d'Inghilterra si era imparentata; ma il governo italiano gli
      dovette richiamare le difficoltà di una tale relazione, in quanto
      che non si poteva ammettere una visita del Re di Spagna che a
      Roma. Con l'Imperatore Guglielmo io avevo già avuti rapporti
      abbastanza intimi, durante il mio primo Ministero, cioè dieci anni
      prima, nell'occasione di una sua visita fatta a Re Umberto. Io
      l'avevo allora accompagnato a Napoli, dove si era trattenuto tre
      giorni, alloggiando nel Palazzo Reale, ed alla Spezia, di cui
      voleva visitare l'arsenale, interessandosi assai a tutto ciò che
      concerneva la marina militare), come mostrò poi col grandiosa
      sviluppo che dette appunto alla marina da guerra del suo Impero. 
      
      Quando restituì nel 1903 la visita a Vittorio Emanuele III, in un
      ricevimento di Corte a cui erano presenti i ministri egli mi
      riconobbe di lontano, ed avvicinandomisi mi complimentò dicendomi
      che era lieto di constatare che in quei dieci anni non ero
      invecchiato. — Mentre, aggiungeva, io sono invecchiato assai. — 
      
      L'impressione che l'Imperatore Guglielmo II dava nei rapporti
      personali, col suo fare aperto e cordiale, era indubbiamente assai
      simpatica; e trattenendosi a parlare con lui, nelle conversazioni
      a cui egli si abbandonava con molta semplicità e calore, si
      ritraeva l'ulteriore impressione di una intelligenza molto viva e
      pronta, che amava di espandersi sui soggetti più vari. La
      cordialità personale dei suoi modi non diminuiva però mai la
      dignità della sua posizione, e si sentiva che egli era convinto di
      avere una missione, che rimaneva però un po' generica, senza che
      apparissero, o che egli volesse lasciare apparire, propositi
      precisi e concreti. Come era naturale, nell'occasione di quelle
      sue visite in Italia egli parlava molto delle cose nostre,
      mostrando d'interessarsene assai, ma io ebbi a notare che la sua
      conversazione si rivolgeva piuttosto a raccogliere informazioni,
      senza che esprimesse mai sulle cose nostre giudizii suoi
      personali.
      
      
      La venuta di Loubet a Roma, quantunque rappresentasse anch'essa
      una restituzione  di visita, ebbe
      una assai maggiore importanza politica,  e per parecchi
      rispetti, particolari e generali. Era mia fondamentale concezione,
      per la politica estera, che l'Italia, pure mantenendo lealmente la
      sua alleanza con le Potenze centrali, dovesse considerarla come
      essenzialmente pacifica, e indirizzata ad assicurare la pace
      dell'Europa. La Triplice Alleanza, concepita in tal modo, in piena
      conformità con lo spirito e la lettera del Trattato, non solo non
      ostacolava il mantenimento di relazioni cordiali con le altre
      Potenze, e specie con l'Inghilterra e la Francia, ma le
      incoraggiava. Personalmente poi io avevo sempre desiderato di
      migliorare i rapporti con la Francia, che sotto i governi di
      Crispi erano stati se non messi in serio pericolo, certo
      raffreddati dall'interpretazione meno conciliante e pacifica che
      Crispi dava al trattato. Così, sino dal mio primo Ministero, io
      avevo lavorato al miglioramento dei rapporti fra l'Italia e la
      Francia; e, come ho già detto, ero riuscito ad ottenerne una
      pubblica manifestazione con la partecipazione ufficiale della
      flotta francese alle feste Colombiane nell'estate del 1892. 
      
      La venuta di Loubet a Roma aveva pure un alto significato
      politico, in quanto essa rappresentava la prima visita ufficiale
      di un Capo del Governo francese alla capitale d'Italia. Infine
      essa servì a confermare e condurre a termine gli accordi speciali
      già intervenuti fra i due paesi, quando  era al governo
      Pelloux  con  Visconti-Venosta quale 
      ministro   degli Esteri, continuati poi ad Algesiras,
      sulla connessione fra le due questioni del Marocco  e della
      Libia, e secondo i quali l'Italia si disinteressava del Marocco, e
      la Francia riconosceva all'Italia assoluta priorità d'interessi
      riguardo la Libia. 
      
      Il Presidente Loubet, a dare maggiore rilievo all'importanza ed al
      significato della visita, aveva condotto seco il Ministro degli
      Esteri, che era allora il Delcassé; e nelle conversazioni che
      intervennero fra loro due, me, il Tittoni, e per la parte
      economica e finanziaria, il Luzzatti, io ebbi campo di farmi una
      adeguata impressione dei due uomini di Stato francesi. Il Loubet
      mi apparve un uomo molto equilibrato e di buon senso, ed animato
      di sincera e cordiale amicizia verso l'Italia; nel Delcassé
      rilevai sopra tutto la finezza ed abilità, come pure l'insistenza
      con la quale tentava di sciogliere o per lo meno indebolire i
      nostri vincoli con la Germania, senza però che sia stata avanzata
      in proposito alcuna proposta concreta. Si trattò insomma solo di
      conversazioni generiche, delle quali non si può disconoscere
      l'utilità allo scopo e col successo di migliorare grandemente i
      rapporti fra i due paesi, dopo un lungo periodo di ostilità sia
      pure superficiale.
      
      
      Un ultimo evento diplomatico di quell'annata, fu la visita che io
      feci sulla fine di settembre al principe di Bülow, ad Homburg,
      presso Francoforte. Erano pervenute a me sicure informazioni che
      l'allora ambasciatore di. Germania a Roma, Conte De Monts, mandava
      al suo governo dei rapporti poco favorevoli all'Italia, e tali da
      potere indurre in sospetto sulla lealtà del Governo italiano
      nell'alleanza. Io credetti allora opportuno venire a diretto
      contatto col principe Bülow, allora Cancelliere, da me già
      conosciuto durante il mio Ministero del 189293, epoca nella quale
      egli era ambasciatore di Germania a Roma. Non volli d'altra parte
      che la visita assumesse un carattere di troppa solennità, e
      procurai, a mezzo di comuni amici, che essa fosse preparata in
      modo semplice e senza notizia pubblica. Ed infatti nulla ne fu
      saputo se non dopo il mio ritorno.
      
      
      Arrivai ad Homburg la mattina del 27 settembre, ed alle undici
      ebbi col von Bülow una conversazione che si protrasse per oltre
      un'ora e mezza e della quale presi subito degli appunti, che ancor
      conservo. Egli cominciò a parlare con grande fervore e
      compiacimento dei progressi compiuti dall'Italia in ogni campo, e
      specie nel campo economico, negli ultimi anni; e mi espresse la
      sua piena approvazione per la politica interna che io avevo
      applicata, dichiarandomi che aveva particolarmente apprezzato il
      modo con cui mi ero condotto di fronte allo sciopero generale.
      Passando poi un po' alla volta nel campo della politica estera,
      egli mi disse che alcuni in Germania avevano avuta l'impressione
      che noi ci fossimo avvicinati troppo alla Francia nell'occasione
      della visita del Presidente Loubet a Roma. Io gli osservai che le
      accoglienze fatte al Loubet rispondevano ai doveri della
      ospitalità; ma che d'altronde consideravo come un interesse comune
      togliere di mezzo le ostilità che avevano perdurato per lungo
      tempo fra Italia e Francia. Gli osservai ancora che noi avevamo
      conseguito il risultato di escludere d'ora in avanti che il
      governo francese potesse in alcun modo essere o parere il
      sostenitore del papa nel campo politico, togliendo così di mezzo
      le ultime velleità dei fautori del potere temporale. E su tutto
      questo egli conveniva cordialmente. 
      
      Discorremmo anche del papa d'allora convenendo essere bene che
      l'influenza del papato non fosse più a servizio della Francia
      contro l'Austria. 
      
      Si passò poi a parlare dei nostri rapporti con l'Austria, Il Bülow
      lodò il nostro contegno, e mi assicurò formalmente che l'Austria
      non aveva alcuna mira di espansione nei Balcani; dichiarando
      ancora che occorreva mantenervi lo statu quo col dominio della
      Turchia, e se tale dominio non potesse in seguito reggersi, la
      retta soluzione sarebbe stata di costituirvi stati autonomi
      nell'Albania e in Macedonia. Io gli osservai che l'Italia non
      potrebbe mai consentire che altra potenza, ed in ispecie
      l'Austria, occupasse l'Albania in qualunque punto, perchè una tale
      occupazione avrebbe l'effetto di chiudere ad essa l'Adriatico; ed
      egli ne convenne interamente, aggiungendo che tale nostra esigenza
      corrispondeva pure alle direttive dell'Austria e della Germania,
      
      
      Io richiamai poi la sua attenzione alle difficoltà che creava al
      governo italiano il trattamento, spesso e in molta parte non equo,
      che il governo austriaco faceva agli italiani dell'Istria e del
      Trentino; osservando che se quel governo si mostrasse più largo
      verso gli italiani suoi sudditi, concedendo ad esempio
      l'università italiana a Trieste, le agitazioni ed i conflitti
      nazionalisti ne sarebbero assai attenuati. Il Bülow consentì
      pienamente, assicurandomi che la Germania farebbe del suo
      possibile per indurre l'alleata ad un trattamento più generoso dei
      suoi sudditi italiani. Mi aggiunse che la Germania aveva ogni
      interesse a mantenere lo statu quo austriaco; che le dottrine dei
      pangermanisti erano fantasia senza base di realtà, la Germania non
      avendo alcun interesse ad assorbire nel suo organismo alcuna parte
      dell'Austria. E mi citò in proposito anche l'opinione di Bismarck.
      
      
      Passando a parlare della guerra russo-giapponese, mi espresse
      l'opinione che la Russia non potrebbe dettare la pace se non
      quando avesse conseguito un successo militare.
      
      
      Io rimasi ad Homburg due giorni, durante i quali ebbi col Principe
      Bülow altre lunghe conversazioni, specialmente in passeggiate che
      facemmo insieme nei bellissimi boschi che circondano la elegante
      città. Il mio scopo, che era di franche spiegazioni e di
      affiatamento, fu pienamente raggiunto. Io ho del resto sempre
      avuta ed ho ancora la convinzione che il Principe di Bülow sia
      stato costante e sincerissimo amico dell' Italia, pure mettendo
      sempre, come è naturale, in primissima linea gli interessi del suo
      paese. Nelle conversazioni che avemmo in quei giorni egli mostrò
      apertamente di tenere moltissimo all'amicizia dell'Italia, e di
      giudicare la sua appartenenza alla Triplice come una garanzia per
      l'equilibrio e la pace europea. 
      
      L'impressione personale mia di lui è sempre stata di uomo
      intelligentissimo, che conosceva profondamente le situazioni ed i
      problemi della politica europea, e la cui mente era rivolta a
      mantenere la pace d'Europa, e non a spingere alla guerra.
      
      Il Ministero Fortis — Il Ministero Sonnino e la sua caduta — II
        mio nuovo Ministero: programma di riforme concrete — Dal
        problema politico al problema economico — La lotta contro il
        malessere eco,nomico nel Mezzogiorno e nelle Isole —
        Alleviamento delle imposte sui consumi — Impulso alla istruzione
        popolare ed alla istruzione tecnica — La conversione della
        rendita — L'incremento della economia nazionale e il florido
        bilancio della Stato — La visita dello Czar a Racconigi e gli
        accordi russoitaliani per Tripoli, i Balcani e l'Oriente — L'
        Università di Trieste e l'Arciduca Ferdinando — La ferrovia
        AdriaticoMar Nero — La crisi dei servizii marittimi — La mia
        proposta di imposta progressiva e la caduta del Ministero —
        Nuovo insuccesso dell'on. Sonnino, e le sue ragioni.
      
      
      Lasciando nel marzo del 1905 il Ministero, considerando che non si
      trattava di una crisi, in quanto che il mio ritiro era una cosa
      affatto, personale e dovuto a ragioni di salute, io proposi che si
      nominasse alla Presidenza ed al Ministero degli Interni
      l'onorevole Fortis, mantenendo pel resto il Gabinetto quale era.
      Dal 16 al 27 marzo prese la reggenza il Tittoni, poi il Fortis
      assunse la Presidenza facendo qualche cambiamento. Rimasero con
      lui Tittoni agli Esteri, Majorana alle Finanze, Pedotti alla
      Guerra, Mirabello alla Marina e Rava all'Agricoltura: furono
      sostituiti il Ministro di Grazia e Giustizia, al Ronchetti
      succedendo il Finocchiaro-Aprile; quello del Tesoro con Carcano al
      posto del Luzzatti; quello dei Lavori Pubblici con Carlo Ferraris
      al posto di Tedesco, e infine quello della Pubblica Istruzione,
      dove Orlando cede il posto a Leonardo Bianchi.
      
      
      Il nuovo Ministero nel riguardo delle cose più importanti aveva
      già la sua via tracciata. Così esso, applicando alle Ferrovie
      l'esercizio di Stato, che cominciò col primo luglio di quell'anno,
      non fece che effettuare ciò che era già stato deciso e preparato
      in tutti i suoi particolari. Va però rilevato un provvedimento
      legislativo di notevole importanza che fu preso quasi subito dopo
      che il nuovo Ministero era entrato in funzione. Quando io lasciai
      nel marzo il governo, era ormai al suo termine uno sciopero
      ferroviario, che era un altro segno del malcontento del personale
      e della disgregazione della amministrazione privata, che i
      ferrovieri male tolleravano, desiderando di passare allo Stato. Il
      Fortis fronteggiò quella agitazione che causava inconvenienti e
      danni al pubblico ed alla vita economica del paese, stabilendo il
      principio che l'abbandono del servizio importava le dimissioni.
      Quel principio fu poi da me accolto ed esteso a tutte le classi
      dei funzionari dello Stato, mediante la Legge sullo stato
      giuridico degli impiegati, che fu presentata al Parlamento ed
      approvata durante il mio nuovo Ministero nel 1908.
      
      
      Per alcun tempo io non venni più a Roma, soggiornando un po' a
      Cavour e un po' a Bardonecchia per rimettermi, ed astenendomi,
      secondo mi avevano ordinato i medici, da qualunque lavoro; e fu
      solo dopo due o tre mesi, fra il maggio e il giugno, che cominciai
      a sentirmi assai migliorato in salute. Nel luglio andai a Fiuggi.
      
      
      Nel dicembre successivo si ebbe una prima crisi del Ministero; e
      ricordo che il Fortis venne allora da me per dirmi che io dovevo
      riprendere il governo; al che io mi rifiutai, adducendo che non
      ero ancora del tutto ristabilito, e che del resto la crisi, per il
      modo con cui si era svolta, non lo colpiva direttamente, e quindi
      competeva a lui di formare un nuovo Ministero. Ed alla Camera io
      avevo appunto agito per impedire che il voto avverso colpisse
      personalmente il Fortis, ed ero riuscito nel mio intento. Fortis
      si persuase, ed il 24 dicembre si ripresentò con un nuovo
      Ministero, nel quale San. Giuliano, diventando per la prima volta
      Ministro degli Esteri, sostituiva il Tittoni; Mainoni sostituiva
      alla Guerra il Pedotti; Tedesco ritornava ai Lavori Pubblici al
      posto di Carlo Ferraris; Viacchelli sostituiva il Majorana alle
      Finanze; Marsengo Bastia il Morelli Gualtierotti alle Poste, ed
      infine il De Marinis, uno dei primi socialisti che passasse al
      riformismo, prendeva il Ministero dell' Istruzione, sostituendo
      Leonardo Bianchi. 
      
      Ma il nuovo Ministero ebbe vita brevissima, arrivando solo agli 8
      di febbraio dell'anno successivo. La sua caduta fu provocata
      dall'accordo che si era stipulato con la Spagna, per
      l'importazione dei vini spagnuoli, in compenso di altre
      concessioni, che in materia doganale la Spagna aveva fatte
      all'Italia. Numerosi. deputati dei paesi vinicoli, particolarmente
      delle Puglie, si ribellarono contro questa concessione, quantunque
      il dazio per l'importazione dei vini spagnuoli rimanesse sempre
      assai elevato, e sufficiente ad una ragionevole protezione.
      Siccome io avevo difeso ed appoggiato il Ministero in questa
      questione, rimasi nella minoranza, ed ero assolutamente fuori di
      discussione; ed allora venne indicato l'onorevole Sonnino, il
      quale formò così il primo suo Ministero.
      
      
      È stato un peccato che il Fortis, morto in età ancora giovane, non
      abbia potuto dedicare più lungamente, e con più matura esperienza,
      il suo fortissimo e fertile ingegno al paese. La qualità in cui
      sopratutto eccelleva era la sua eccezionale facoltà di
      assimilazione, che spesse volte compensava o sostituiva la
      capacità e persistenza del lavoro, la cui deficienza era il suo
      punto debole, perchè egli non fu mai un lavoratore. Per un esempio
      del modo con cui egli riusciva a cavarsela, ricordo un curioso
      episodio. Nel tempo in cui egli era Ministro d'Agricoltura nel
      primo gabinetto Pelloux, in una seduta antimeridiana della Camera
      si stava discutendo un disegno di legge inteso ad impedire
      l'adulteramento dei vini. Avevano parlato il relatore della legge,
      e alcuni deputati, pro e contro; poi il Fortis si alzò e
      pronunciò, in difesa del progetto di legge, un bellissimo
      discorso, che in chi l'ascoltava dava l'impressione di uno studio
      profondo e minuto e di una vera competenza nella materia. Alla
      fine della seduta io l'avvicinai per richiamare la sua attenzione
      ad un articolo della legge, che non poteva assolutamente essere
      mantenuto; ed egli, dopo avermi ascoltato, mi rispose col suo
      bonario sorriso: — A dirti la verità, io il progetto di legge non
      l'ho nemmeno letto. — Gli era bastato l'esposizione del relatore e
      la discussione degli oratori e favorevoli e contrari, per farsi
      una idea precisa e sicura dell'argomento, e dargli la materia alla
      sua risposta ed' alla sua difesa. 
      
      Egli si abbandonava forse un po' troppo alla sua facilità di
      avvocato; ma aveva un intuito politico finissimo ed un criterio
      rettissimo; il suo vero posto in un governo sarebbe stato la
      Presidenza senza portafogli; un posto cioè in cui valga la
      genialità naturale, e non sia richiesto lo studio e l'assiduità,
      da cui l'indole del suo ingegno era affatto aliena. Personalmente
      poi egli riscuoteva simpatie generali, sia per la sua bonaria
      cordialità, sia per la sua lealtà a tutta prova: ognuno sentiva di
      potersi fidare in lui. Da giovane, quando era all'Università,
      aveva fatto molto rumore come repubblicano; poi era venuto alla
      Camera come radicale, e la prima volta entrò al governo nel 1887
      come sottosegretario di Crispi, del quale rimase sempre amico,
      pure essendo anche amicissimo mio; e quando fra me e il Crispi
      scoppiò il conflitto, egli cercò del suo meglio di fare opera di
      pacificazione.
      
      
      Il Ministero costituito dall'onorevole Sonnino l'8 febbraio del
      1906, raccolse parecchi dei parlamentari più considerati, riunendo
      elementi conservatori quali il Guicciardini, il Salandra, il
      Carmine e il Luzzatti, con elementi radicali, quali il Sacchi e il
      Pantano; anzi fu quella la prima partecipazione aperta e diretta
      del partito radicale al governo con suoi uomini rappresentativi.
      Ciò non ostante ebbe vita brevissima, durando cento giorni
      precisi, sino al 22 del maggio seguente. 
      
      Ciò che fu più caratteristico nella sua breve vita, fu la causa ed
      il modo della sua caduta. Il Ministero aveva stipulato la
      convenzione pel riscatto delle Ferrovie Meridionali; la
      stipulazione era stata fatta dall'onorevole Carmine, ministro dei
      Lavori Pubblici. La Convenzione importava a debito del governo una
      annualità di trenta milioni e mezzo per sessantanni. La
      Commissione parlamentare nominata per l'esame del relativo
      progetto di legge si era manifestata in grandissima maggioranza
      favorevole; vi erano solo due suoi membri che ne discutevano e
      chiedevano modificazioni per alcune clausole secondarie. In questa
      condizione di cose l'onorevole Sonnino venne un giorno alla Camera
      e chiese che s'imponesse alla Commissione di riferire entro otto
      giorni. La proposta non fece buona impressione inquantochè pareva
      intesa a forzare la mano; cosa di che, considerando
      l'atteggiamento favorevole della Commissione, non c'era affatto
      bisogno. Io presi la parola per osservare che, trattandosi di un
      contratto di tanta importanza, mi pareva eccessivo stabilire un
      termine così breve alla Commissione. Sonnino insistette nella sua
      richiesta, ed allora l'onorevole Rubini propose di rimandare la
      questione a tre giorni, per dare alla Camera tempo di riflettere.
      
      
      Nelle conversazioni che seguirono dopo la seduta, io dissi ai miei
      amici di essere persuaso che l'onorevole Sonnino non avrebbe
      receduto dalla sua proposta e che la Camera l'avrebbe battuto, e
      che, non volendo assistere ad un infanticidio sarei partito la
      sera stessa per Cavour. Le mie previsioni si avverarono, e due
      giorni dopo io ricevevo a Cavour un telegramma che a nome di Sua
      Maestà mi chiamava a Roma. Quando il telegramma mi pervenne, io
      non avevo ancora letta nei giornali la notizia, ma arguii subito
      che il Ministero aveva provocato il voto ed era stato battuto.
      
      
      Giungendo a Roma ebbi da Sua Maestà l'incarico di formare il nuovo
      Ministero, il quale entrò in funzione il 27 maggio del 1906, ed
      ebbe lunga durata, rimanendo in carica sino al 9 dicembre del
      1909. Esso fu dolorosamente funestato dalla morte di alcuni dei
      principali uomini che lo componevano, e che erano fra le più
      promettenti personalità del mondo politico e parlamentare
      italiano.
      
      
      Agli Esteri io avevo richiamato il Tittoni; ed alla Grazia e
      Giustizia il Gallo, che morì nel 1909 e fu sostituito
      dall'Orlando. Alle Finanze avevo chiamato Fon. Massimini,
      fedelissimo amico dello Zanardelli, tantoché avendogli io nel
      1903, quando succedetti a Zanardelli, offerto il posto di
      sottosegretario al Ministero dell'Interno, egli mi disse che
      sarebbe stato lietissimo di accettare tale posto, ma che essendo
      Zanardelli malato egli voleva accompagnarlo a Brescia e restare là
      con lui. Il Massimini fu colpito da un attacco di apoplessia nel
      marzo del 1907, e sostituito da Lacava. Il colpo lo aveva
      paralizzato della parte destra del corpo, ed egli aveva dichiarato
      che entro un anno non guarendo si sarebbe ucciso. Ed infatti
      passato l'anno, egli mi scrisse con la mano sinistra una
      affettuosissima lettera di addio e si uccise. 
      
      Al Tesoro avevo chiamato Angelo Majorana, deputato di Catania,
      ancora assai giovane, uomo di forte ingegno e che pareva destinato
      a fare una grande carriera politica. Ma pur troppo, nel maggio del
      1907 fu colpito da una malattia di esaurimento nervoso, ribelle ad
      ogni cura, che si andò sempre più aggravando e lo condusse
      precocemente alla tomba. Egli fu sostituito nel Ministero dal
      Carcano. Il Ministero dei Lavori Pubblici era stato assunto da un
      mio antico amico, il Gianturco, uomo pure di grandissimo ingegno,
      come mostrò anche in quell'occasione, impadronendosi in modo
      mirabile, in due o tre mesi, di tutto il complesso meccanismo
      tecnico del suo dicastero e dei problemi che ad esso facevano
      capo. Anche egli era uomo di avvenire sicuro ed era ormai
      considerato da tutti come una delle migliori speranze della
      politica italiana; ma sfortunatamente egli pure fu tolto
      precocemente alla vita pubblica da una grave malattia di cancro,
      per la quale fu costretto a ritirarsi nel novembre del 1907,
      morendo poi poco tempo dopo. 
      
      Il dicastero della Guerra fu preso dal generale Vigano, a cui poi
      successe, nel dicembre del 1907, il Senatore Casana, che fu il
      primo ministro borghese della guerra in Italia. All'Istruzione
      avevo chiamato l'on. Fusinato, uomo di vivo ingegno, ma che solo
      pochi mesi dopo, nell'agosto dello stesso anno, dovette pure
      ritirarsi per esaurimento nervoso. Gli altri dicasteri furono
      assunti: dallo Schanzer quello delle Poste e Telegrafi; dal
      CoccoOrtu l'Agricoltura, ed alla Marina rimase l'onorevole
      Mirabello, che io avevo già preso nel mio Ministero del 1903, e
      che era rimasto traverso i due Ministeri del Fortis e quello del
      Sonnino, svolgendovi una mirabile ed organica opera di riforma,
      che fu condotta a compimento appunto durante il mio nuovo
      Ministero.
      
      
      Il Ministero si presentò alla Camera con dichiarazioni assai brevi
      e di carattere sopratutto concreto e speciale. Ormai le tendenze
      politiche generali di un Ministero da me presieduto erano ovvie:
      la lotta per la democrazia ed il liberalismo, combattuta con
      diversa fortuna dal 1892 in poi, si era ormai conclusa con una
      così completa vittoria, da non lasciare più luogo ad alcuna seria
      discussione. Il fatto che uomini i quali avevano combattuto dalla
      parte opposta, come l'on. Sonnino e i suoi aderenti, avessero
      ormai accettato senza riserve il nuovo indirizzo democratico e
      liberale della politica nazionale, era il miglior segno che tale
      problema fondamentale era risolto definitivamente e che nessuno
      poteva pensare ormai alla convenienza e nemmeno alla possibilità
      di ritornare addietro. Ma i problemi politica, risolvendosi ne
      generano dei nuovi, inesauribilmente; e la vittoria della dottrina
      democratica e liberale, per il fatto stesso che chiamava a
      partecipare al governo classi sempre più vaste, creava nuovi
      grandi interessi, e poneva sopra tutto la questione
      dell'elevamento materiale e morale di queste classi, senza il
      quale la loro partecipazione alla vita dello Stato sarebbe stata
      una finzione, e non avrebbe condotto a quella pacificazione delle
      classi a cui quella politica appunto intendeva. 
      
      Assumendo dunque il governo io dovetti richiamare l'attenzione del
      Parlamento e della pubblica opinione sul fatto che negli ultimi
      tempi l'Italia era stata funestata da disordini che avevano avuto
      le più deplorevoli conseguenze, specialmente nelle Provincie
      meridionali e nella Sardegna. Coloro che avevano studiate le cause
      prime di quei disordini avevano dovuto riconoscere che essi
      avevano la loro prima origine in un malessere economico dovuto a
      cause diversissime da luogo a luogo, e al quale non sarebbe stato
      possibile portare rimedio se non se ne accertassero da prima la
      vera entità e le sue. ultime ragioni. Occorreva a questo scopo
      compiere uno studio ampio e profondo, ed io proponevo, affinchè
      esso avesse la maggiore autorità ed efficacia, di affidarlo a due
      Commissioni d'inchiesta parlamentare; all'una delle quali fosse
      dato il compito di indagare sulle condizioni dei lavoratori della
      terra nelle provincie meridionali e nella Sicilia, specialmente in
      rapporto coi patti agrari; ed all'altra quello di studiare le
      condizioni dei lavoratori della Sardegna, e specie quelle degli
      operai addetti alle miniere, dove appunto si erano prodotti i più
      gravi conflitti. 
      
      Mettere in contatto diretto la rappresentanza nazionale con le
      classi più sofferenti, pareva a me il mezzo più efficace per dare
      impulso ad una seria opera di legislazione sociale, e la
      dimostrazione più evidente della solidarietà che deve unire, in un
      paese civile e progressivo, tutte le classi.
      
      
      Il miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici, nella
      mia opinione costituiva il problema dominante di quel momento, che
      seguiva immediatamente a quella conquista delle pubbliche libertà,
      mediante le quali queste classi potevano fare conoscere i loro
      bisogni e manifestare le loro aspirazioni. Dopo un aspro periodo
      di lotta, l'avvenire della nostra civiltà e la prosperità e
      grandezza del nostro paese, dipendevano direttamente, a mio
      avviso, dal miglioramento morale e materiale, ma ordinato,
      costante e pacifico delle più numerose classi sociali.
      
      
      La possibilità però di un tale miglioramento era evidentemente
      connessa con la prosperità dell'agricoltura, dell'industria, del
      commercio; cioè con l'incremento generale della ricchezza
      nazionale, perchè solo dove il capitale ed il lavoro abbondano vi
      possono essere alti salari e buone condizioni di lavoro. Quello
      che negli anni precedenti era stato essenzialmente problema
      politico, diventava dunque oggi problema essenzialmente economico,
      che non poteva trovare la soluzione sua che nella soluzione di
      numerosi e svariati problemi tecnici, a cui dovevano appunto
      mirare e l'azione costante del governo e l'opera di
      riforma legislativa. 
      
      Dal punto di vista materiale bisognava  agevolare 
      le  comunicazioni,  completando  la rete stradale,
      assai povera nelle provincie meridionali e nelle isole, dando un
      efficace impulso ad un buon ordinamento ferroviario, ed
      organizzando bene i servizi marittimi, per facilitare gli scambi
      commerciali all'interno  ed il movimento  delle
      esportazioni ed importazioni con l'estero.  Nello 
      stesso  tempo  a rendere più efficace l'elevamento dei
      salari era necessario procurare con tutti i mezzi di rendere meno
      costosa la vita; ciò che si sarebbe ottenuto riducendo, a mano a
      mano che le condizioni della finanza lo
      permettessero,  le imposte   sui  
      consumi,   e  trasformando le imposte locali in
      modo che non colpissero le classi meno agiate. 
      
      Dal punto di vista morale io consideravo necessario per una parte
      dare una maggior  diffusione  sia  alla 
      istruzione  popolare,  sia  a quella
      istruzione  tecnica  superiore  che 
      negli  ordinamenti vigenti appariva affatto inadeguata al
      continuo progresso industriale; e dall'altra perfezionare nello
      spirito  e nella pratica la legislazione sociale, creando
      varie leggi sul contratto di lavoro, sul lavoro notturno e su
      quello delle risaie ed in genere delle industrie più pericolose, e
      sul lavoro festivo.
      
      
      Come uno dei primi passi, e forse il più importante, per avviare
      la finanza italiana a tendenze più democratiche si presentava la
      conversione della Rendita del cinque per cento lordo al tre e
      mezzo per cento; sia per il significato intrinseco di una tale
      riforma, sia perchè la conversione avrebbe offerto al governo i
      primi margini per uno sgravio delle tasse eccessive 
      sui  consumi.
      
      
      Il problema della conversione della rendita si era affacciato sino
      da quando questo titolo aveva superato e si era mantenuto fermo
      sopra le pari, e il corso dei cambi aveva, cessato dal
      rappresentare il disagio della circolazione legale di fronte
      all'oro, segnando pure un miglioramento notevolissimo nelle
      condizioni di addebitamento ed accreditamento dell'Italia di
      fronte all'estero per il movimento generale delle transazioni
      internazionali, che oltre l'importazione ed esportazione
      comprendevano le rimesse degli emigranti e le spese dei forestieri
      che visitavano l'Italia. Il buon esperimento della emissione di un
      titolo al tre e mezzo per cento, iniziata dal Ministero Zanardelli
      essendo ministro del Tesoro il Di Broglio, e il successo della
      conversione del quattro e mezzo per cento interno nel tre e mezzo
      internazionale; altre minori conversioni come pure l'agevole
      collocamento dei Certificati ferroviari fruttanti il tre e
      sessantacinque per cento, quantunque tutte operazioni di modesta
      mole, avevano ormai dimostrato che il mercato italiano era
      preparato ad accogliere la maggiore conversione.
      
      
      Al 30 giugno del 1906 la situazione delle due rendite da
      convertire, cioè del cinque per cento lordo a cui si aggiungevano
      circa duecento milioni di quattro  per 
      cento   netto,  era  di otto  
      miliardi e cento
      milioni circa; rappresentata per un po' più della metà da titoli
      nominativi e per un po' meno della metà da titoli al portatore!.
      Fra le rendite nominative circa novecento milioni erano inscritti
      alla Cassa Depositi e Prestiti o altre Amministrazioni statali;
      per cui le operazioni e i rischi della conversione riguardavano
      all'ingrosso, sei miliardi e mezzo che si trovavano nel Regno, e
      da 650 a 700 milioni che si trovavano all'estero, e dei quali
      circa 400 erano collocati in Francia.
      
      La conversione poteva essere eseguita con l'uno o l'altro dei
      seguenti criteri: o portare subito l'interesse al tre e cinquanta
      per cento, o compierla in due tempi, concedendo un periodo di
      transazione di alcuni anni, durante il quale l'interesse fosse del
      3,75 per cento, secondo era stato fatto nella conversione dei
      consolidati inglesi. Tenersi a questo secondo metodo apparve, se
      non assolutamente necessario, certo opportuno; in considerazione
      della mole dell'operazione e delle possibili non favorevoli
      ripercussioni, sia di carattere finanziario immediato, sia di
      carattere economico e più permanenti, che tanto all'interno quanto
      all'estero avrebbe avuto l'adozione del metodo più radicale della
      totale conversione immediata; e quel criterio graduale appariva
      tanto più saggio in quanto che il maggiore benefizio della
      conversione radicale immediata sarebbe stato con ogni probabilità
      in graji parte assorbito dalle maggiori spese di una conversione
      più difficile e rischiosa. E già alcuni minori esperimenti, come
      la conversione del prestito in oro
      della città di Roma, e quello delle cartelle fondiarie a tipo
      internazionale della Banca d'Italia, avevano dimostrato che il
      decurtamento immediato di un mezzo per cento negli interessi
      provocava larghe domande di rimborso.
      
      
      Già nel mio precedente Ministero io avevo fatto iniziare una
      preparazione di studio per una possibile conversione. Il mio
      successore Fortis aveva ripreso la pratica; aveva fatti passi a
      Parigi ed a Berlino ottenendo affidamenti di buone disposizioni da
      parte della Casa Rothschild, la quale per l'innanzi si era
      mostrata sempre assai riservata; ed aveva abbozzato in proposito
      un primo progetto; ma il suo Ministero cadde prima di essersi
      assicurati i necessari consensi. Il Sonnino, che successe al
      Fortis, aveva ripreso, segnatamente per opera del suo Ministro del
      Tesoro, on. Luzzatti, i negoziati; e il Comm. Bonaldo Stringher
      per desiderio del Ministero e del Luzzatti, ebbe a Mentone una
      prima intervista col Barone Edmondo de Rothschild, al quale espose
      i progetti del governo italiano ed il piano per attuarli, con la
      cooperazione della sua Casa. Anche allora il Rothschild riaffermò
      le sue buone intenzioni, ma dichiarò pure che la conversione
      italiana doveva attendere che fosse prima varato il prestito russo
      già concordato. 
      
      Si seppe poi che un'altra ragione dei temporeggiamenti della Casa
      Rothschild era che essa non aveva considerati abbastanza stabili i
      due precedenti ministeri, mentre riteneva necessario per il buon
      successo della conversione che il governo italiano fosse in
      condizione di prendere impegno di non fare nuove emissioni per un
      certo periodo di tempo.
      
      
      Ad ogni modo un utile lavoro preliminare era già stato compiuto;
      ed assumendo il potere io interpellai subito la Casa Rothschild se
      fosse disposta ad entrare in trattative per la conversione; e il
      Rothschild rispose che considerava il mio governo abbastanza
      stabile perchè trattative potessero essere senz'altro avviate. A
      queste trattative io associai l'on. Luzzatti, quantunque non fosse
      più al governo, per la sua grande competenza in materia, e per i
      negoziati diretti mandai a Parigi l'11 giugno seguente,
      rappresentante del Governo italiano, il Comm. Stringher che iniziò
      il 14 giugno le trattative con la Casa Rothschild, la quale
      essendosi associati i maggiori Istituti di Berlino, e Banche e
      banchieri di Londra, rappresentava l'alta finanza internazionale.
      
      
      Le trattative furono laboriose, per il diverso punto di vista
      delle parti contraenti; perchè da una parte il Governo italiano
      era interessato a non protrarre troppo a lungo il periodo
      d'applicazione del saggio intermedio del 3,75 per cento;
      dall'altra l'alta Banca francese, era ferma nel proposito di non
      concedere la garanzia dell'operazione, sìe tale periodo non fosse
      stato di almeno otto anni. Presi in considerazione tutti gli
      elementi del problema, e constatando che la garanzia offerta
      sarebbe costata troppo cara al Tesoro italiano ed avrebbe imposti
      vincoli incompatibili, parve a noi miglior consiglio di confidare
      nella resistenza del paese, e mantenere al Tesoro una maggiore
      libertà d'azione rinunciando a quella garanzia, ed avviando le
      trattative per altro cammino. 
      
      Così il 26 giugno, il Comm. Stringher firmava un contratto,, che
      due giorni dopo veniva ratificato dal Governo italiano, con la
      casa Rothschild e i rappresentanti della banca tedesca e di quella
      inglese; con esso noi ci garantivamo il concorso materiale e
      morale dell'alta Banca europea per sostenere la conversione della
      nostra rendita fuori d'Italia e per eliminare i pericoli di
      perturbazioni nel corso dei cambi sull'estero, senza sottometterci
      a condizioni non desiderabili nò finanziariamente né
      politicamente. Questo presidio della Banca internazionale prese la
      forma di un Consorzio, formato da un gruppo francese, da un gruppo
      tedesco e da un gruppo inglese, il quale s'impegnava di tenere a
      disposizione del Tesoro italiano la somma di 400 milioni di lire,
      divisi in 250 milioni di franchi a Parigi, due milioni e 400 mila
      sterline a Londra ed ottanta milioni di marchi a Berlino, per
      corrispondere fuori d'ltalia a tutte le domande di rimborso delle
      rendite da convertire, e per provvedere inoltre a tutti gli
      acquisti di titoli di rendita, che si fossero resi necessari a
      tutela dei prezzi, quindi a presidio della conversione, dal giorno
      del contratto a quello fissato per la chiusura del tempo utile
      alle domande di rimborso. 
      
      Come correspettivo a tale cooperazione, e dell'impegno di
      accettare la conversione e di fare opera per il suo esito
      favorevole, nel contratto era attribuito al Consorzio
      internazionale la provvigione dell'uno per cento  sulla somma
      impegnata; di modo che più largo sarebbe stato per esso il
      benefizio quanto minore fosse stata la somma dei rimborsi e degli
      acquisti sul mercato, vale a dire quanto più brillante fosse stato
      l'esito dell'operazione. 
      
      Erano poi considerati i casi della cessione e del ritiro dei
      titoli rimborsati e di quelli acquistati sul mercato; e la grande
      operazione era circondata della più prudenti cautele, per modo che
      essa potesse essere condotta a buon fine anche se avvenimenti
      gravi ed improvvisi avessero turbato transitoriamente il mercato
      monetario internazionale deprimendo per qualche tempo il corso
      generale dei valori di Stato. Nello stesso modo si costituiva un
      Consorzio italiano per la conversione della massima mole dei
      titoli, che si trovavano in Italia, ed al quale oltre gli Istituti
      di emissione parteciparono presso che tutte le forze finanziarie
      italiane, comprese le Casse di Risparmio, e le Banche cooperative.
      I patti sottoscritti dal Consorzio italiano erano sostanzialmente
      simili a quelli fatti al Consorzio internazionale, ma con le
      commissioni e gli altri corrispettivi a carico del Tesoro, ridotti
      alla metà anche in considerazione del fatto che il Consorzio
      nostrano partecipava ad una percentuale assai maggiore
      dell'operazione totale.
      
      
      Il 26 di giugno il Coram. Stringher aveva firmato il contratto a
      Parigi; il 28 giugno il Governo l'aveva ratificato; il 29 giugno
      la legge per la conversione veniva presentata alla Camera.
      L'approvazione di questa legge costituisce un record di rapidità,
      credo non mai sorpassato. Il disegno di legge fu presentato
      alla Camera alle tre pomeridiane; la Camera, nelle forme volute
      dal regolamento, e cioè a scrutinio segreto, deliberò di
      discuterlo immediatamente; l'onorevole Luzzatti, nominato
      relatore, presentò la relazione mezz'ora dopo, e la legge fu
      votata alle ore cinque. Alle cinque e mezzo fu presentata al
      Senato che la votò alle sei; alle ore otto era già firmata dal Re
      e  la  sera  stessa pubblicata  nella 
      Gazzetta  Ufficiale. Tale rapidità nella emanazione della
      legge era necessaria per impedire qualunque manovra di Borsa. 
      
      Il risultato della operazione fu eccezionalmente felice. Le
      domande di rimborsi furono minime; le rendite rimborsate 
      all'estero  dal  Consorzio  presieduto dalla Casa
      Rothschild e fuori del Consorzio furono in tutto di poco più di
      tre milioni; quelle rimborsate in Italia ammontarono  ajd un
      milione e  661 mila lire, delle quali un milione circa
      appartenenti a stranieri, e trasmesse in Italia per le operazioni
      relative trattandosi di titoli vincolati. Il totale dei rimborsi
      fu di poco più di quattro milioni e mezzo. Le compere eseguite sul
      mercato per sostenere la quotazione durante la conversione
      ammontarono a circa sedici milioni e mezzo all'estero, e trentadue
      in Italia, la più gran parte dei quali concernevano titoli rimessi
      in Italia da Istituti e banchieri esteri, specie tedeschi; così
      che l'azione dei due Consorzi non dovè esercitarsi che sur un
      capitale complessivo di circa cinquantatre milioni e mezzo per gli
      acquisti e i rimborsi, rispetto ad un valore totale di otto
      miliardi e cento milioni di rendite. 
      
      Fu un risultato massimo con uno sforzo minimo. Si aggiunga che,
      visto l'esito felicissimo, tanto il Consorzio estero che quello
      nazionale ritennero per sé i titoli rimborsati ed acquistati; così
      che il Tesoro non ebbe né ad usare le disponibilità della
      Tesoreria, né a ricorrere a provvedimenti di carattere
      straordinario per raggiungere la meta. Anche la spesa per la
      conversione riuscì minima; sommando assieme tutte le commissioni
      fissate e le partecipazioni; gli oneri d'ogni genere inerenti al
      cambio dei titoli vecchi coi nuovi; gli assegni e le somme a
      forfait convenuti coi Consorzi e con le Banche, si raggiunse la
      somma di poco più di nove milioni e mezzo, equivalenti a dodici
      centesimi per ogni cento lire di capitale convertito. Conversioni
      per somme simili, anche recentemente in altri paesi erano costate
      dieci volte tanto. 
      
      Ricordo che poco dopo venne da me un ex-ministro delle finanze
      spagnuolo, appunto per conoscere come l'operazione fosse proceduta
      e quale ne fosse stato il costo; e quando io gli comunicai la
      cifra del costo, egli mi mostrò tanta incredulità che dovetti
      dargli una copia della relazione già stampata per persuaderlo che
      la somma era proprio quella. Oltre ai vantaggi permanenti per le
      finanze dello Stato, il magnifico successo di quella operazione
      giovò indirettamente assai al nostro paese, rialzandone il
      credito; tanto che non ostante la riduzione dell'interesse la
      nostra rendita continuò a mantenersi sovra la pari, mentre la
      nostra carta moneta arrivava  a  fare  aggio 
      sull'oro.
      
      Un notevolissimo miglioramento si era prodotto in quegli ultimi
      anni nelle condizioni generali dell'economia nazionale; ed il
      bilancio dello Stato, che riflette fedelmente la economia del
      paese, si trovava nelle più floride condizioni, le entrate
      superando sensibilmente le spese, e ciò per effetto di un costante
      e rapido aumento nel gettito delle imposte.
      
      
      Per misurare l'importanza di questo generale incremento basta il
      confronto del conto consuntivo dell'anno 1907-08, con quello
      dell'anno 1900-01. In quei sette anni vi era stato un aumento di
      entrate di 214 milioni; quantunque al bilancio 1907-08 non
      figurassero più gli 88 milioni di ritenute per imposta di
      ricchezza mobile sul debito pubblico, né 28 milioni di prodotti
      delle ferrovie; e quantunque fosse stato abolito il dazio consumo
      sulle farine, sul pane e la pasta, si fosse ridotta a metà la
      tassa sul petrolio, e coi trattati di commercio si fossero ridotte
      molte delle tariffe doganali, e per effetto della legge sul
      mezzogiorno e della applicazione del nuovo catasto in alcune
      provincie fosse diminuita di venti milioni l'imposta sui terreni.
      
      
      A così rapido aumento di entrate avevano contribuito le privative
      per 83 milioni, le tasse di fabbricazione per 57, le tasse sugli
      affari per 47, l'imposta sulla ricchezza mobile riscossa coi ruoli
      per 33, le poste e telegrafi per 32, le dogane per 12, le tasse
      sul movimento ferroviario per 9, le altre imposte per somme
      minori.
      
      
      Gli incrementi delle entrate permisero aumento di spese: il
      bilancio della pubblica istruzione fu portato da 49 a 85 milioni
      con aumento di 36 milioni, 15 dei quali furono dati alla
      istruzione elementare; il bilanco dell'agricoltura fu portato da
      13 a 27 milioni; quello dei lavori pubblici salì da 79 a 117
      milioni; quello delle poste e telegrafi crebbe da 69 a  123
      milioni.
      
      
      Ma la cifra più grossa degli aumenti di spesa fu quella occorsa
      per accrescere gli stipendi degli impiegati affinchè meglio
      corrispondessero all'accresciuto costo della vita. La somma di
      tali aumenti di stipendi dal bilancio 1900-01 a quello del 1907-08
      ascese a 103 milioni, senza contare gli aumenti concessi ai
      ferrovieri che non figurano nel bilancio dello Stato, ma in quello
      speciale della gestione ferroviaria.
      
      
      Il progresso economico che si rifletteva così potentemente sul
      bilancio dello Stato, presentava indizi egualmente favorevoli in
      tutte le altre manifestazioni della attività economica del paese.
      Così la importazione del carbon fossile che era nel 1900 di 4 947
      180 tonnellate salì nel 1907 a tonnellate 8 300 439, mentre nello
      stesso periodo di tempo furono fatte concessioni di derivazioni dì
      acque pubbliche corrispondenti a 489 mila cavalli dinamici, e
      furono attuati impianti elettrici per la forza di cavalli dinamici
      244 mila. Nello stesso periodo di tempo dal 1900 al 1907, il
      prodotto lordo di quelle ferrovie che erano
      nel 1900 esercitate da società private e ora sono esercitate
      dallo Stato, salì da 297 a 434 milioni con un aumento del prodotto
      annuo di 137 milioni.
      
      
      Pure dal 1900 al 1908 i depositi delle casse di risparmio
      ordinarie salirono da 1507 a 2109 milioni con un aumento di
      milioni 602; i depositi in conto corrente e a risparmio delle
      società ordinarie di credito salirono da 305 a 735 milioni con un
      aumento di milioni 430; i depositi delle banche popolari salirono
      da 463 a 908 milioni con aumento di milioni 445; i depositi delle
      casse di risparmio postali da 682 milioni salirono a 1487 milioni
      con un aumento di milioni 805. Adunque nel periodo decorso dal
      1900 al 1908 i depositi agli istituti di credito, alle banche
      popolari e alle casse di risparmio ordinarie e postali salirono da
      2957 a 5237 milioni con un aumento di milioni 2280. Nello stesso
      periodo di tempo le riserve metalliche dei tre nostri istituti di
      emissione salirono da 575 a 1450 milioni, dei quali 1177 in oro,
      con un aumento di milioni 875 sul totale delle riserve, e di 774
      sulla riserva in oro.
      
      
      Un altro importante indizio della cresciuta prosperità economica
      del paese era dato dal fatto che nell'esercizio 1900-01 il tesoro
      pagava all'estero, al netto da imposta, milioni 76 di interessi
      del debito pubblico, corrispondenti a un valore capitale in titoli
      di milioni 1900, mentre nell'esercizio 1907-08 i pagamenti
      all'estero per interessi del debito pubblico si ridussero a
      milioni 27 corrispondenti al valore capitale di 720 milioni. Ciò
      dimostrava che in sette anni il risparmio nazionale aveva
      riscattato dall'estero tanti titoli del nostro debito pubblico per
      un valore di 1180 milioni.
      
      
      Una cifra forse ancora più impressionante sarebbe stata quella che
      rappresentasse l'aumento nell'ammontare dei salari annualmente
      riscossi in Italia dalle classi lavoratrici. Una statistica dei
      salari non esisteva ma chiunque avesse consideralo la grande
      differenza nella misura dei salari dal 1900 al 1908, differenza
      che in molte parti d'Italia, specialmente per i lavoratori della
      terra, costituiva un raddoppiamento, fe avesse moltiplicato tale
      differenza per le giornate di lavoro e per il numero di lavoratori
      di tutte le industrie e dei coltivatori della terra, sarebbe
      giunto ad una cifra quale nessuno aveva preveduto potersi
      raggiungere in  così breve volgere di  anni.
      
      
      Un avvenimento di carattere e di grande importanza internazionale,
      che si compiè nell'ottobre del 1907, fu la visita che l'Imperatore
      di Russia fece al nostro sovrano a Racconigi, e che fu la prima
      visita ufficiale di  uno  Czar nel  Regno 
      d'Italia.
      
      
      Quando Vittorio Emanuele III salì al trono, egli aveva iniziato il
      ciclo di visite ufficiali presso i Capi di Stato esteri, con un
      viaggio alla Corte dello Czar; avvenimento questo che aveva
      attratta molta attenzione nel campo internazionale, come un nuovo
      segno della tendenza già dimostrata dall'Italia di volere
      stringere cordiali relazioni con tutte le Potenze europee, pure
      mantenendo la sua ferma adesione alla Triplice Alleanza; tendenza
      che concorreva a riaffermare la volontà, già dimostrata in altri
      modi ed occasioni dall'Italia, d'imprimere sempre più a questa
      alleanza un carattere pacifico. La Corte imperiale di Russia aveva
      assai gradita la visita del nostro Sovrano, e sino dal tempo del
      Ministero Zanardelli aveva manifestato il proposito di restituirla
      solennemente. Ma in quella prima occasione le agitazioni
      anticzariste del partito socialista e la minaccia di cogliere
      l'occasione della venuta dello Czar per dimostrazioni ostili
      contro la politica interna djel governo russo, avevano adombrata
      la polizia russa a tal punto, che la visita fu sospesa. 
      
      Ricordo che quando io lasciai il Ministero Zanardelli, essendomi
      recato ad una udienza di commiato presso sua Maestà, questi mi
      disse scherzosamente: — Ma sa che Lei ha la virtù di cambiare la
      testa alla gente? — E seguitò raccontandomi che l'ambasciatore
      russo a Roma, signor Nelidoff, che era conosciuto come un
      conservatore e reazionario, e che quindi aveva sempre disapprovata
      la mia politica liberale, aveva manifestato il timore che il mio
      allontanamento dal Ministero dell'interno creasse difficoltà per
      la venuta dello Czar. Anche in questa nuova occasione, quando la
      probabile venuta dello Czar in Italia divenne di dominio pubblico,
      i socialisti si agitarono alquanto, e minacciarono dimostrazioni
      per protesta contro la politica di reazione con cui in Russia si
      erano schiacciate le agitazioni rivoluzionarie seguite alla
      disgraziata guerra col Giappone. 
      
      Per tanto si convenne che la visita non avrebbe avuto un ostentato
      carattere pubblico e si scelse il castello di Racconigi dove il Re
      soggiornava abitualmente nella stagione autunnale, come il luogo
      del ritrovo. A Racconigi Sua Maestà, oltre che me e il Ministro
      degli Esteri on. Tittoni, invitò pure il Nathan, allora Sindaco di
      Roma, perchè portasse allo Czar l'omaggio della Capitale. Il
      Nathan, che aveva fine senso politico, e comprendeva che la
      valutazione della importanza internazionale della visita doveva
      stare al di sopra di qualunque altra considerazione, accolse
      subito l'invito; e questo atteggiamento di un uomo rappresentativo
      delle tendenze democratiche valse assai a spegnere le velleità
      degli agitatori. 
      
      Si presero naturalmente eccezionali precauzioni per mettere
      assolutamente fuori di dubbio la sicurezza dello Czar e del suo
      seguito; alcune di queste misure, certamente le più efficaci, non
      apparivano; altre, ossia un grande sfoggio di truppe, rispondeva
      al costume vigente in Russia per tutti i viaggi e le visite dello
      Czar, a cui anche per cortesia noi dovevamo attenerci. E la visita
      infatti ebbe luogo senza che si producesse il benché menomo
      incidente; e ciò, oltre alle misure prese, era certo dovuto, anche
      in maggior parte, al buon senso ed alla cortesia innata del popolo
      italiano, che riconosceva l'importanza politica della visita, e
      sentiva altamente i doveri della ospitalità, come sempre.
      
      Lo Czar era accompagnato dal suo ministro degli Esteri, Isvolsky e
      fra lui e me e Tittoni si conclusero a Racconigi alcuni importanti
      negoziati di cui già parecchi mesi addietro si erano occupate le
      due Cancellerie. Per parte nostra ci assumemmo l'impegno di dare
      la nostra adesione e collaborazione ad ottenere l'apertura dei
      Dardanelli, e per lo meno a stabilirne la neutralizzazione. Noi ci
      impegnammo per questo rispetto, qualora aderissero anche le altre
      grandi Potenze; e la nostra adesione si fondava pure sulla
      considerazione che se l'apertura, dei Dardanelli era sopratutto un
      grande interesse russo, non cessava per questo di essere anche
      interesse nostro. Per compenso la Russia s'impegnò, quando il caso
      si presentasse, di riconoscere i diritti preminenti dell'Italia su
      Tripoli. 
      
      Un altro argomento trattato a fondo, fu quello della comunità
      d'interessi nostri e della Russia in molteplici questioni del
      vicino Oriente. E furono stabiliti i seguenti punti. 1.° che
      l'Italia e la Russia si sarebbero adoperate, in primissima lignea,
      a mantenere l'integrità dell'Impero Ottomano; 2.° che per
      qualunque eventualità che si producesse nei Balcani, le due
      Potenze avrebbero sostenuta l'applicazione e lo sviluppo del
      principio di nazionalità; 3.° che se l'AustriaUngheria avesse
      proposto all'Italia o alla Russia la conclusione di un nuovo
      accordo speciale riferentesi alle questioni orientali, quella
      delle due Potenze che avesse ricevuto l'invito ad un tale accordo
      l'avrebbe accettato solo nel caso che fosse egualmente assicurata
      la partecipazione dell'altra.
      
      Durante il mio soggiorno a Racconigi ebbi occasione di avvicinare
      lo Czar in lunghe conversazioni; ed ebbi di lui l'impressione di
      un uomo di indole molto buona e mite, ed anche di non comune
      intelligenza e cultura; fra l'altro egli si mostrava molto
      informato delle cose nostre e se ne interessava con sincerità
      evidente; ma ebbi pure l'impressione che egli non fosse dotato di
      una chiara volontà e di ferma energia. L'ambiente che lo
      circondava esercitava manifestamente una decisiva influenza su di
      lui; e per dare una idea che cosa fosse questo ambiente ricorderò
      un piccolo episodio personale. Quando lo Czar era in partenza, io
      mi trovavo, per andare alla stazione, nella stessa carrozza col
      Ministro della Casa Imperiale, Friedrish, il quale mi complimentò
      lungamente sul modo con cui era stato organizzato il servizio per
      la sicurezza dello Czar. Ed alla fine per farmi quasi un
      complimento supremo, egli uscì fuori in questa frase: — C'est
        dommage que vous ne soyez pas militaire! —
      
      
      Un altro avvenimento di grande importanza, sia per le sue
      ripercussioni internazionali immediate, che per quelle che si
      dovevano poi manifestare nell'avvenire, fu la rivoluzione
      giovane-turca. Come è noto essa condusse il governo
      Austro-Ungarico all'annessione della Bosnia-Erzegovina; fatto
      questo che costituendo una gravissima violazione del Trattato di
      Berlino, e invelenendo la questione serbo-austriaca, e quella più
      vasta austro-russa, suscitò una gravisisima commozione in Europa,
      tanto da fare per qualche momento temere lo scoppio della guerra.
      L'Europa allora evitò la guerra solamente subendo la volontà
      dell'AustriaUngheria, appoggiata apertamente dalla Germania, ed
      accettando il fatto compiuto. Il Governo Imperiale di Vienna, nei
      negoziati che allora corsero anche con l'Italia, fece però mia
      concessione che apparve poi di notevole importanza, rinunciando
      all'occupazione del Sangiaccato di Novi Bazar e ritirandone le sue
      guarnigioni; rinuncia e ritiro le cui conseguenze apparvero poi
      nella guerra balcanica, in quanto permisero la cooperazione degli
      eserciti bulgari e serbi contro la Turchia, senza che si generasse
      il pericolo di un intervento austroungarico, che avrebbe condotto
      alcuni anni prima alla guerra generale europea.
      
      
      Nello scambio di vedute che intercorsero in quel tempo fra il
      nostro Ministro degli Esteri, on. Tittoni, e il Ministro degli
      esteri austriaco Aehrenthal, noi avevamo ottenuto la formale
      promessa della costituzione di una Università italiana a Trieste,
      per quella difesa della italianità triestina che anche nell'ambito
      dell'alleanza era stata sempre apertamente e giustificatamente nel
      nostro programma, in quanto non c'era ragione che il Governo
      austriaco facesse alla nazionalità italiana trattamento diverso
      dalle altre. Ma quando nel principio del 1909 si doveva venire
      all'attuazione, il progetto elaborato dal governo austriaco non
      apparve menomamente conforme ai nostri desideri ed alle
      assicurazioni date; — invece di una Università a Trieste si
      pensava di istituire una facoltà giuridica italiana nella
      Università di Vienna. 
      
      Il Tittoni, il quale fondandosi sulle assicurazioni date dallo
      Aehrenthal, e col suo consenso, aveva alla sua volta dato
      assicurazioni al Senato ed alla Camera dei Deputati, s'indignò per
      questo mancamento d'impegno, protestò energicamente a Vienna,
      chiedendo, a mezzo dell'ambasciatore nostro, Duca d'Avarna, che
      piuttosto non si facesse niente, e che intanto si sospendesse
      qualunque decisione, perchè la creazione della facoltà giuridica a
      Vienna, obbligando gli studenti triestini a recarsi a vivere in un
      centro essenzialmente teder sco, pareva piuttosto diretta contro
      che a favore dell'italianità di Trieste. 
      
      L'Aehrenthal rispose di non poterne far nulla, pure scusandosi
      privatamente, e dichiarando che questa soluzione della questione
      era voluta dall'Arciduca Ferdinando, il quale, partigiano del
      trialismo e dello slavismo, della italianità era stato sempre e
      particolarmente nemico.
      
      
      Allora il Tittoni mi scrisse proponendomi di rassegnare quale
      Ministro degli Esteri, le sue dimissioni per protesta contro la
      sleale condotta austriaca. Benché io partecipassi ai suoi giusti
      sentimenti, non potei approvare una tale decisione. Mi trovavo a
      Cavour, e fra me e Tittoni avvenne in proposito mio scambio di
      telegrammi. Il Tittoni insisteva nella idea di presentare le
      dimissioni, sia per dare una soddisfazione  all'opinione
      pubblica italiana, che traverso  i giornali cominciava ad
      agitarsi, sia per un monito all'Austria ed alla Germania della
      difficoltà che l'Italia avrebbe a mantenersi nella alleanza,
      quando fosse esposta a tale trattamento da parte di uno degli
      alleati. Io gli risposi che, per quanto considerassi da ogni lato
      la questione non riuscivo a persuadermi che le sue dimissioni
      potessero recare giovamento sia all'estero che all'interno; e che
      d'altra parte non pensavo che la questione potesse produrre vera e
      profonda agitazione nel paese; pochissimi essendo stati quelli che
      avevano veramente creduto alla istituzione di una Università
      italiana a Trieste; io, fra gli altri, dovevo confessare di non
      averci creduto. 
      
      Ora, rilevare la mancata istituzione come un'offesa così grave da
      provocare le dimissioni del Ministro degli Esteri, e poi
      continuare nella stessa politica di adesione alla Triplice
      Alleanza, non mi pareva decoroso, e forse non sarebbe stato
      nemmeno possibile. Le dimissioni, come dimostrazione di ira
      impotente non avrebbero poi certamente giovato al nostro
      prestigio; mentre all'interno esse dimostrerebbero che anche il
      Governo considerava l'atto dell'Austria come offesa all'Italia, e
      provocherebbero gravi manifestazioni. Aggiungevo che, poiché egli
      stesso riconosceva l'impossibilità di mutare allora la nostra
      politica estera, era evidente come non convenisse rilevare in modo
      così solenne l'accaduto, tanto più che la prossimità delle
      elezioni avrebbe potuto complicare maggiormente la situazione, con
      conseguenze gravi, non paragonabili alla piccola pacificazione
      degli animi che le dimissioni potrebberò momentaneamente produrre.
      
      
      E concludendo osservavo di non ammettere assolutamente che il
      contegno di un ministro austriaco potesse produrre una crisi di
      governo in Italia. Ciò avrebbe potuto essere solo nel caso in cui
      l'Italia volesse mutare radicalmente politica, denunciando
      senz'altro la Triplice Alleanza; nel qual caso però io per primo
      avrei date le dimissioni, non intendendo di assumermi la
      responsabilità di esporre in quel momento il paese ad una guerra.
      Esclusa la eventualità di un mutamento decisivo e sostanziale
      nella nostra politica estera, le dimissioni motivate con un tale
      episodio produrrebbero all'estero una pessima impressione,
      mettendoci, per le nostre relazioni con l'Austria, al livello
      della Serbia. E l'Italia non aveva che due vie: o non rilevare la
      mancanza di riguardo dell'Austria, o andare alle ultime
      conseguenze. La responsabilità di questa seconda soluzione io non
      l'avrei assunta, sia perchè una guerra, qualunque ne fosse stato
      l'esito militare, sarebbe riuscita allora per l'Italia un
      disastro, sia perchè ci saremmo trovati affatto isoiati.
      
      
      Le mie ragioni finirono per persuadere il Tittoni. e le dimissioni
      non furono presentate. La condotta dell'Austria e le sue mancate
      promesse produssero grande irritazione a Trieste, e raggiunsero
      l'effetto opposto a quello che il Governo di Vienna si proponeva,
      provocando una ripresa dell'agitazione nazionale. E siccome in
      quel tempo vi erano a Trieste le elezioni municipali, nelle quali
      il governo austriaco sosteneva apertamente l'elemento slavo, io, a
      mezzo di Ernesto Nathan, aiutai con fondi gli italiani nella
      lotta, che risultò in una loro grande vittoria.
      
      
      Un ultimo l'atto di carattere internazionale, pure concernente i
      Balcani, che si compiè durante quel mio Ministero, fu l'accordo
      con gruppi francesi, russi e serbi per una ferrovia Adriatico-Mar
      Nero, che veniva a contrapporsi a quella di iniziativa
      austrotedesca per Salonicco.
      
      
      Sino dalla metà del mese di marzo 1908, in seguito a concerti
      intervenuti col Governo serbo, il quale già aveva avviati
      opportuni negoziati, la Compagnia Ottomana della ferrovia che
      congiunge Salonicco a Costantinopoli, appoggiata dalla Banca
      Imperiale Ottomana di cui era una filiazione, aveva presentato al
      Ministro dei lavori Pubblici dell'Impero Ottomano, domanda di
      concessione per una linea di strada ferrata DanubioAdriatico. Tale
      domanda faceva appunto seguito alla concessione accordata dalla
      Sublime Porta a un gruppo di altri cospicui interessi collegati a
      un tronco di strada ferrata inteso a congiungere Uvacz con
      Mitrovitza, e quindi a rendere più. brevi e più rapide le
      comunicazioni della Monarchia austriaca e dell'Impero germanico
      col Mare Egeo, guardando  a Suez e all'Oriente.
      
      
      Data l'importanza economica e politica di un'altra linea destinata
      invece a congiungere ferroviariamente il Danubio  con
      l'Adriatico, attraverso la Serbia, il Vilajet di Kossovo e
      l'Albania, partendo da Turn-Severin e mettendo capo su quel mare
      di fronte a Bari, noi vedemmo la necessità che l'Italia non
      rimanesse estranea all'impresa per la quale il gruppo francese
      della Banca Imperiale Ottomana aveva già chiesta la concessione, e
      che anzi l'Italia vi prendesse parte efficacemente, ed operammo
      con ogni energia in tal senso.
      
      
      Stabilito tale criterio l'on. Tittoni invitò il Direttore della
      Banca d'Italia a considerare sollecitamente, nell'interesse del
      paese, la possibilità di raccogliere fra noi i capitali
      occorrenti,a una partecipazione notevole nella accennata impresa,
      e la convenienza di avviare, frattanto, trattative — appoggiate
      diplomaticamente; — per giungere a un sollecito accordo col gruppo
      francese della Banca Imperiale Ottomana, allo scopo di assicurare
      all'Italia la partecipazione medesima.
      
      
      L'intervento della Banca d'Italia essendo stato gradito dal
      Governo francese e dalla detta Banca Imperiale Ottomana, furono
      spinti alacremente a Parigi i negoziati, i quali condussero poi
      non solamente ad un'intesa fra i due Istituti, ma ad un atto di
      carattere internazionale, colla data del 5 giugno, al quale
      parteciparono, oltre i francesi, i rappresentanti di un gruppo
      serbo e di un gruppo russo, per la costituzione di un'impresa di
      nazionalità ottomana, avente per iscopo: la costruzione e
      l'esercizio di una strada ferrata dal confine serbo occidentale a
      San Giovanni di Medua sull'Adriatico o in un punto più a nord su
      territorio ottomano; e la costruzione e l'esercizio di un porto
      alla testa della linea ferroviaria sull'Adriatico.
      
      
      Per le intelligenze passate a Roma e a Parigi, il gruppo italiano
      si doveva formare e costituire sotto gli auspici della Banca
      d'Italia, che ne doveva prendere la direzione e rappresentarlo con
      gli opportuni poteri, allo scopo di dare una impronta di
      nazionalità al gruppo medesimo e di conservarne l'unità di
      indirizzo e d'azione.
      
      
      Secondo gli accordi sottoscritti a Parigi il giorno 5 giugno 1908,
      l'impresa complessiva doveva essere distinta in due rami, con due
      Società diversamente composte, sebbene formate coi medesimi
      elementi: l'una per la strada ferrata e l'altra per il porto,
      avvertendo che, secondo i tecnici della Banca Imperiale Ottomana,
      la somma complessiva di costruzione non dovrebbe presumibilmente
      eccedere i ses>santa milioni, ma che, col porto, si sarebbe
      potuta calcolare in una cifra non superiore a 65 milioni.
      Per quanto concerne la strada ferrata, le partecipazioni furono
      così fissate: gruppo francese 45 per cento; italiano 35 per cento;
      russo 15 per cento; serbo 5 per cento.
      
      
      Il Consiglio d'Amministrazione della Società ferroviaria si doveva
      comporre di dodici membri, dei quali, cinque in rappresentanza
      idei .gruppo francese, quattro dell'italiano, due del russo ed uno
      del gruppo serbo.
      
      
      Per quanto concerne il porto, non si era fissata la distribuzione
      delle parti, ma si era già formalmente stabilito che l'Italia
      doveva avere non meno del 50 per cento così nella partecipazione
      al capitale come nella composizione del Consiglio
      d'Amministrazione. La Banca d'Italia, con accordo riservato, si
      era poi assicurata che la parte italiana arrivasse al 55 %.
      
      
      Con atto riservato, fra la Banca Imperiale Ottomana e la Banca
      d'Italia si era poi convenuto che il presidente della Società
      ferroviaria fosse un francese e presidente della Società del porto
      un italiano, e che i vice presidenti fossero reciprocamente,
      italiano e francese.
      
      
      La costruzione della linea di strada ferrata rimaneva assegnata al
      gruppo francese, il quale si era obbligato di far aegua parte
      nella costruzione medesima al solo gruppo italiano; la costruzione
      del porto era riservata al gruppo italiano che, per reciprocità,
      doveva fare aequa parte al gruppo francese.
      
      
      La Società Ottomana Jonction Salonique-Constantinople, che aveva
      già chiesta la concessione della nuova linea di strada ferrata, si
      assumeva di chiedere anche la concessione del porto da costruire
      sul mare Adriatico, ed essa continuava i negoziati presso il
      Governo ottomano, sotto gli auspici della Banca Imperiale
      Ottomana, e con l'appoggio dei gruppi che col protocollo del 5
      giugno 1908 si erano assunti l'impresa, vale a dire, con l'ausilio
      dell'azione diplomatica dei quattro Governi. La Banca Imperiale
      Ottomana si era pure impegnata a consultare i gruppi associati su
      tutte le questioni importanti riguardanti sia la strada ferrata,
      sia il porto, in relazione ai negoziati a Costantinopoli, sino
      alla determinazione delle condizioni essenziali della concessione
      e al suo conseguimento.
      
      
      Prima fra le accennate condizioni essenziali, senza della quale
      non si sarebbe costituita la Società Danubio-Adriatico e non
      avrebbe avuto seguito l'impresa, era quella della garanzia dei
      capitali che dovevano essere impegnati nell'impresa stessa.
      L'ammontare la natura e la formula delle necessarie guarentigie
      dovevano essere determinate d'accordo con la Banca Imperiale
      Ottomana. A tale riguardò, nei convegni di Parigi, furono
      scambiate talune idee circa il fond'amento finanziario di siffatte
      guarentigie sulla base di informazioni attinte dagli uomini
      competenti della Banca Imperiale Ottomana; ma era evidente che il
      conseguimento di una garanzia valida e ferma, quale era necessaria
      per affrontare le spese delle costruzioni e dell'esercizio delle
      due imprese, dipendeva, oltre che dal buon volere della Turchia,
      dal consenso delle grandi Potenze.
      
      
      I dirigenti della Banca Imperiale Ottomana si erano impegnati a
      fare in modo che il delegato italiano nel Consiglio del debito
      pubblico ottomano fosse tenuto al corrente di tutte le questioni
      importanti relative ai negoziati che fossero condotti a
      Costantinopoli per assicurare il buon successo della concessione.
      Così il nostro gruppo era in condizione di seguire i negoziati e
      misurarne le conseguenze.
      
      
      Secondo le idee scambiate a Parigi il capitale occorrente alla
      costruzione della strada ferrata e del porto doveva essere
      raccolto mediante la emissione di azioni e di obbligazioni,
      serbando la proporzione di un quarto, o anche meno, per le azioni
      e il resto per le obbligazioni opportunamente garantite.
      
      
      Le azioni dovevano essere sindacate per un periodo di cinque anni,
      salvo il rinnovo della sindacazione, se le parti contraenti lo
      ritenevano necessario. Il Governo italiano, per suo conto,
      riteneva conveniente che non si limitasse a cinque anni l'impegno
      per le azioni del gruppo italiano, essendosi dichiarato disposto
      ad agevolare il gruppo assuntore degli impegni con opportuni
      accordi da stabilirsi fra il gruppo medesimo e gli Istituti di
      emissione, segnatamente per quanto concerneva operazioni di
      anticipazione sulle obbligazioni da (emettersi, le quali avrebbero
      potuto eventualmente essere considerate come titoli di Stato
      forestieri.
      
      
      Nel principio del 1909 il governo dovette prendere in esame la
      questione delle elezioni politiche, che dovevano essere tenute
      entro l'anno, perchè la Camera aveva avuto lunga vita e col 13
      dicembre di quell'anno scadeva il suo termine normale. Si trattava
      di considerare quale fosse, nei mesi che ancora ci separavano da
      quella scadenza, l'epoca più opportuna per convocare i comizi
      elettorali. Due considerazioni s'imponevano immediatamente: la
      prima era che la lotta elettorale, nell'approssimarsi di quel
      termine, era di già cominciata di per se stessa in parecchie
      provincie, e che tale lotta, protraendosi troppo a lungo avrebbe
      recato danno alla vita normale del paese; la seconda era che lo
      stato attuale dei lavori parlamentari non lasciava spierare che si
      potesse ultimare la discussione dei bilanci nei due rami del
      Parlamento prima delle ferie pasquali, con la conseguenza che lo
      scioglimento della Camera dei Deputati dopo tale periodo avrebbe
      condotto di necessità all'esercizio provvisorio dei bilanci; ciò
      che io ritengo si debba cercare sempre di evitare. Se invece si
      convocavano i comizi elettorali entro il mese di marzo, si poteva
      avere la regolare costituzione della Camera prima delle ferie
      pasquali, con tempo sufficiente nei mesi seguenti per un'ampia
      discussione dei bilanci, che avrebbe acquistata maggiore
      importanza, perchè fatta da una Camera appena eletta dai suffragi
      del paese, e che si doveva ritenere ne rispecchiasse più
      direttamente la volontà e le inclinazioni.
      Per queste considerazioni il Ministero propose lo scioglimento
      della Camera dei Deputati, e la convocazione dei Comizi elettorali
      pel 7 e pel 14 marzo.
      
      
      La legislatura che così si chiudeva aveva corrisposto pienamente
      al programma con cui era stata convocata, ed in quasi tutte le
      parti della nostra legislazione aveva condotto a termine riforme
      di importanza notevolissima.
      
      
      In esecuzione del programma esposto dal Governo prima delle ultime
      elezioni generali, si era avocato allo Stato l'esercizio delle
      principali reti delle strade ferrate, comprendenti tredicimila
      duecento chilometri che erano esercitati da Società private,
      rendendo lo Stato proprietario di tutte quelle reti mediante il
      riscatto delle Ferrovie meridionali, e votando poi con due leggi
      successive una spesa di 910 milioni per dare assetto regolare alle
      ferrovie delle quali lo Stato aveva assunto l'esercizio.
      
      
      Del migliore assetto derivante da quei provvedimenti si erano
      quasi subito veduti i benefici effetti, essendosi riusciti a far
      fronte ad un aumento di traffico  che superò tutte le
      previsioni.
      
      
      Nel campo finanziario oltre la conversione della rendita, altri
      importanti provvedimenti furono: la riduzione a metà della tassa
      sul petrolio e una ulteriore riduzione della stessa tassa già
      assicurata a breve scadenza per effetto del trattato di commercio
      con la Russia; la riduzione della tariffa postale; l'avocazione
      allo Stato di molte spese che gravavano le provincie ed i comuni;
      il riscatto delle linee telefoniche prima esercitate dalla
      industria privata; le leggi sugli Istituti di emissione con la
      riduzione delle tasse di bollo sulle cambiali e della tassa sulle
      anticipazioni.
      
      
      Le opere pubbliche, le quali così potentemente aiutano lo sviluppo
      della ricchezza pubblica ebbero un grande impulso: con la legge 12
      luglio 1906 che ordinò la costruzione delle ferrovie complementari
      della Sicilia; con le leggi che ordinarono la costruzione di
      ferrovie e di molte altre opere pubbliche nella Basilicata e nella
      Calabria; con la legge 14 luglio 1907 per nuove opere portuali,
      che fu la più completa legge votata dal  Parlamento 
      italiano  in  tale  argomento; con la legge 12
      luglio 1908 che ordinò la costruzione di nuove ferrovie per la
      spesa prevista di 600 milioni.
      
      
      Le riforme organiche nei pubblici servizi avevano avuta pure larga
      parte nell'opera legislativa: basti ricordare le modificazioni
      all'ordinamento giudiziario; la legge sulle guarentigie e sulla
      disciplina della magistratura; quella che riordinò le cancellerie
      e segreterie giudiziarie; il riordinamento della giustizia
      amministrativa; la legge sullo stato giuridico degli impiegati
      civili; la legge per l'incremento dell'insegnamento elementare; il
      disegno di legge sui professori universitari presentato alla
      Camera; la legge che riordinò i servizi delle belle arti; il
      disegno di legge sulla tutela del patrimonio artistico; le
      numerose leggi che provvidero al riordinamento dei vari seivizi
      della marina militare, in parte precedendo in parte secondando le
      proposte della Commissione parlamentarfe d'inchiesta; la nuova
      legge sul reclutamento dell'esercito, e quella che stanziò i fondi
      per spese straordinarie militari per la difesa dello Stato.
      
      
      Per quanto riguarda l'ordinamento dell'esercito era stata, con
      legge proposta dal Governo, ordinata una inchiesta la quale,
      affidata ad autorevolissima Commissione, aveva già compiuto un
      primo periodo di lavori e fatte delle proposte che in parte erano
      state già approvate pfer legge e in altra parte dovevano dare
      luogo a nuove proposte legislative.
      
      
      Più intensa ancora era stata l'opera di questa legislatura nel
      campo delle riforme sociali. Con importanti leggi organiche si era
      assicurato a tutti i lavoratori il riposo domenicale; si era
      provvisto a rendere più sicura e feconda la cassa per la vecchiaia
      e l'invalidità degli op'erai; si era abolito il lavoro notturno
      nella fabbricazione del pane; si erano migliorate le leggi sul
      lavoro delle donne e dei fanciulli; si erana concesse con due
      leggi successive grandi facilitazioni e sussidi per la costruzione
      delle case popolari; si era provveduto a rendere più pronta e più
      facile la riabilitazione dei condannati che ne fossero degni: si
      era facilitata la concessione di mutui di favore della Cassa
      depositi e prestiti ai Comuni per acquedotti ed altre opere
      igieniche; si era presentato un disegno di legge per risolvere la
      gravissima questione dell'infanzia  abbandonata.
      
      
      Infine nel corso di quella legislatura si era votata tutta una
      serie di leggi dirette a provvedere a speciali necessità di alcune
      parti del Regno. Meritano particolare ricordo la legge 15 luglio
      1906 di provvedimenti per le provincie meridionali, la Sicilia e
      la Sardegna; la legge per la Calabria del 25 giugno 1906; la legge
      9 luglio 1908 per la Basilicata e la Calabria; la legge per Roma
      dell'11 luglio 1907; la legge portante l'esenzione da imposta
      delle case dei contadini nelle provincie meridionali, in Sicilia e
      in Sardegna; i provvedimenti per l'industria zolfifera e per il
      commèrcio degli agrumi e loro derivati; la legge per i danneggiati
      dalle eruzioni del Vesuvio; e finalmente quella votata con
      mirabile e unanime slancio di fratellanza dalla Camera e dal
      Senato per i primi provvedimenti a favore dei danneggiati dal
      terremoto del 28 dicembre 1908.
      
      
      Il complesso di quei provvedimenti, rispondeva ad una politica di
      pace, di libertà, di lavoro, di giustizia sociale, che io ritenevo
      dovesse continuare con sempre crescente fermezza ed energia, se si
      voleva che il nostro paese si avvicinasse rapidamente a quell'alta
      mèta che fu ed è l'ideale di quanti amano l'Italia. Che questo
      ideale si potesse raggiungere perseverando nella via seguita lo
      dimostrava in modo evidente il grande progresso compiuto
      dall'Italia in quegli ultimi  anni.
      
      
      Il programma col quale il governo convocava ora i comizi
      elettorali perchè giudicassero l'opera sua, e ad un tempo
      indicassero le vie da seguirsi nell'avvenire, era, ed altro non
      poteva essere, che la continuazione del programma già esplicato.
      Nel mio pensiero si doveva continuare nell'opera di costruzione
      economica, collegata a giustizia sociale, che già tanti frutti
      aveva dati, e per la quale soltanto l'Italia poteva sperare di
      compiere tutto il ciclo di progresso materiale e morale a cui era
      destinata per le mirabili qualità del suo popolo, intelligente e
      laborioso. Quindi nella relazione con cui avevo proposto al Re la
      convocazione dei Comizi elettorali, io richiamava fra l'altro e
      particolarmente l'attenzione alla necessità di intensificare in
      tutte le classi sociali l'istruzione tecnica, dalla quale dipende
      in gran parte il progresso delle industrie e della cultura
      artistica applicata alle industrie, nella quale l'Italia, 
      con le sue tradizioni e con le squisite attitudini dei suoi
      lavoratori, avrebbe dovuto conquistarsi un vero primato. 
      
      Un altro punto su cui richiamavo l'attenzione era il problema
      della sapiente utilizzazione delle forze idrauliche, di cui il
      nostro paese è così riccamente dotato, quasi a compenso della sua
      povertà di carbone. A tale proposito io avevo già presentato ,al
      Senato un disegno di legge, che avrebbe dovuto essere discusso
      dalla nuova legislatura, ricollegando anche alla soluzione di quel
      problema quello del rimboschimento dei nostri monti e della
      sistemazione idraulica dei nostri fiumi. L'Italia ormai, superate
      le lotte per le pubbliche libertà, e superate pure le difficoltà
      finanziarie che per lungo tempo ne avevano inceppato lo sviluppo,
      si avviava rapidamente a raggiungere il livello di civiltà di
      paesi più ricchi e fortunati, cancellando le ultime traccie di
      quella inferiorità di cui aveva sofferto non per deficienze
      intrinseche del suo popolo, ma per eredità di avvenimenti
      sfortunati. Il rapido progresso compiuto negli ultimi anni
      dimostrava che eravamo sulla buona via e che sarebbe stato errore
      gravissimo l'abbandonarla per mettersi in una politica di
      avventure e di precipitate riforme nella parte vitale dei nostri
      ordinamenti. 
      
      E che tale fosse il pensiero ed il sentimento profondo del nostro
      popolo, lo mostrarono nuovamente i risultati di quelle elezioni,
      riconfermando la fiducia nel programma da parecchi anni già
      esplicato.
      
      La nuova legislatura dovette subito affrontare un problema di
      grande importanza, e cioè quello dei servizi marittimi, che erano
      esercitati in modo da non corrispondere più agli aumentati bisogni
      ed alla capacità di espansione del paese; nello stesso modo che
      non aveva più corrisposto a questi bisogni, nei trasporti di
      terra, il regime ferroviario delle società concessionarie. Questi
      servizi erano allora in buona parte esercitati dalla Navigazione
      Generale, la quale preferendo di mantenere la navigazione libera,
      rifiutò di intervenire ad accordi per il nuovo progetto di
      convenzioni marittime e di assumere i servizi. Il rifiuto della
      Navigazione Generale, che aveva un quasi monopolio dei mezzi e
      delle competenze, ci creò gravi difficoltà, ed io pensai di
      rispondere a questa specie di boicottaggio organizzando un'altra
      società abbastanza potente, che potesse dare un impulso molto
      energico alla nostra marina mercantile. Per raggiungere tale scopo
      era necessario mettere alla testa di questo servizio una persona
      di competenza eccezionale e che godesse inoltre di largo credito.
      Da prima io rivolsi la mia attenzione alla Società Adriatica, che
      aveva appunto cessato dall'esercizio delle ferrovie, e che aveva
      molto capitale e godeva di molto credito nel mondo finanziario,
      per persuaderla a trasformarsi in una grande società di trasporti
      marittimi; ma il suo direttore, il Borgnini, che era uomo di molto
      valore,  non  si sentì,  essendo 
      avanzato  negli anni, di mettersi in una impresa per lui
      affatto nuova; e così questo proposito venne a mancare. 
      
      Allora il Governo si rivolse al Senatore Piaggio, conosciuto come
      una delle persone più competenti in materia marinara, e che godeva
      pure di largo credito finanziario. Il Piaggio accettò la proposta,
      e dopo lunghe discussioni col Ministro competente, ono1revole
      Schanzer, si addivenne alla conclusione di una convenzione che fu
      subito presentata alla Camera per l'approvazione. Il progetto, che
      pure dopo il suo abbandono fu riconosciuto dai competenti come
      tecnicamente ottimo, e il più completo e il più utile al commercio
      marittimo fra quanti se ne erano escogitati e prima e dopo,
      provocò una violentissima opr posizione che ebbe pure una forte
      ripercussione nel Parlamento. Questa opposizione tentò di
      sollevare contro il progetto la deputazione meridionale e
      sopratuttó siciliana, avanzando l'argomento che esso non tenesse
      abbastanza conto degli interessi dei porti meridionali, mentre in
      realtà esso provvedeva pure alla costituzione di una sede a
      Palermo. E siccome si muoveva al Governo l'accusa di avere fatte
      troppe larghe condizioni alla società concessionaria, il Senatore
      Piaggio, con lettera a me diretta, dichiarò di rinunciare al
      contratto già concluso, consentendo che si addivenisse ad un'asta
      pubblica. Tale offerta, che metteva fuori dubbio l'assoluta
      coi*rettezza delle parti impegnate, fu accettata, e si stabilì di
      fare le aste, rimandando all'autunno la ripresa della discussione.
      
      Io però ormai mi ero persuaso che l'opposizione al progetto era
      talmente forte, che difficilmente si sarebbe riusciti ad una
      conclusione. E non trovando ragionevole che la condotta del
      governo dovesse essere giudicata in un problema di carattere
      essenzialmente tecnico e nella quale l'opposizione nasceva da
      interessi speciali, pensai di spostare la questione su un campo
      essenzialmente politico. E così, alla riapertura della Camera,
      seguendo un mio indirizzo ripetutamente affermato, presentai un
      disegno di legge, il quale per una parte, in rispondenza allo
      spirito del programma con cui il Governo si era presentato alle
      elezioni, diminuiva l'imposta sullo zucchero allo scopo di
      aumentare il consumo di un alimento di carattere popolare e di
      giovare nello stesso tempo alle finanze; per l'altra conteneva un
      progetto d'imposta progressiva globale sui redditi di ricchezza
      mobile, terreni e fabbricati. Il progetto sollevò l'opposizione di
      tutto il conservatorismo italiano, il quale, se nel campo politico
      aveva ormai battuto in definitiva ritirata, difendeva ancora
      energicamente le sue posizioni economiche. La discussione agli
      Uffici si dimostrò subito poco favorevole, e la Commissione che ne
      fu eletta risultò in grande maggioranza ostile. Allora — era il
      dicembre del 1909 — il Governo da me presieduto rassegnò le sue
      dimissioni.
      
      Siccome l'opposizione si era manifestata alla Camera in senso
      conservatore, fu indicato per la formazione del nuovo Ministero
      l'on. Sonnino, il quale assunse il Governo l'11 dicembre,
      prendendo seco agli Esteri il Guicciardini; alla Grazia e
      Giustizia il Senatore Scialoja; al Tesoro l'on. Salandra; alla
      Istruzione il Daneo; ai Lavori Pubblici il Rubini e l'on. Luzzatti
      all'Agricoltura. Il Ministero così formato, per gli uomini che vi
      partecipavano, rispondeva alla crisi da cui era originato; era
      insomma il Ministero più conservatore che si potesse mettere
      assieme nel Parlamento italiano, pure considerando che le tendenze
      conservatrici dei suoi componenti avevano subito negli ultimi anni
      profonde modificazioni, attenuandosi, sopra tutto dal punto di
      vista politico e per le direttive generali, assai notevolmente.
      
      
      Il Ministero Sonnino dovette subito affrontare esso pure il
      problema delle Convenzioni marittime; e propose una Convenzione in
      forma assai ridotta, allo scopo evidente di evitare molte delle
      opposizioni che il progetto da me presentato aveva suscitate. Ma
      tale scopo non fu raggiunto che in parte; l'opposizione,
      quantunque in alcuni punti attenuata, si manifestò tuttavia anche
      questa volta forte assai. Io arrivai a Roma prima che fosse
      iniziata la discussione parlamentare; ed esaminando la situazione
      mi persuasi che le persistenti opposizioni si sarebbero
      potute  vincere  con  alcune 
      modificazioni.   Pertanto a mezzo del Bertolini, pregai
      il Sonnino di rinviare la discussione dopo Pasqua, per guadagnare
      tempo ed escogitare i modi per disarmare almeno parte degli
      oppositori. Il Sonnino non accettò questo consiglio, credendo
      necessario di affrontare la discussione immediatamente; ma
      l'opposizione si manifestò subito così vivace ed energica che egli
      non insistè nemmeno per la votazione, ed il 31 marzo presentò le
      dimissioni.
      
      Così per la seconda volta l'on. Sonnino aveva presa la direzione
      del Governo, senza riuscire a superare le prime difficoltà che si
      parano avanti inesorabilmente a chiunque si assuma questa suprema
      responsabilità della vita politica; e questo non ostante il grande
      rispetto e l'estimazione di cui godeva nel mondo politico e
      parlamentare per le qualità del suo carattere, del suo ingegno e
      della sua cultura, e per la sua lunga preparazione. 
      
      Questo suo insuccesso, che non fu mai scompagnato dalla più
      rispettabile dignità, può servire a dimostrare quanto varie e
      complesse sieno le qualità che si richiedono per l'esercizio del
      governo, e come la mancanza di una sola possa infirmare tutte le
      altre. 
      
      L'on. Sonnino, datosi tutto sino dalla gioventù alla vita
      politica, ed entrato ancora giovanissimo nel Parlamento, e dotato
      pure di grande volontà e serissima capacità di lavoro, si era
      fatta una preparazione di dottrina e di cultura nei diversi rami
      della amministrazione dello Stato, quale non hanno neppure
      lontanamente avuta altri più fortunati di lui. Ma se egli
      conosceva i problemi, non ha mai conosciuto in modo sufficiente
      gli uomini, la cui cooperazione, volontaria o renitente, diretta o
      indiretta, alla soluzione di questi problemi è indispensabile nei
      regimi democratici e rappresentativi. Sempre un po' isolato ed
      appartato anche in mezzo ai suoi amici, si è tanto più trovato a
      disagio nelle assemblee, che vogliono essere dominate, ma a mezzo
      di una sagace persuasione che tenga conto di tutti i loro umori, e
      che sappia volgerli ai propri fini. E gli è mancato pure il
      sentimento che i problemi politici, pure rimanendo sempre gli
      stessi nel loro nocciolo, sono essenzialmente mutevoli nei loro
      rapporti con le condizioni e le circostanze fra le quali vengono
      affrontati. Ad ogni modo le sue migliori qualità egli le spiegò
      quando ebbe dei compiti di carattere strettamente tecnico e nei
      quali la sostanza prevale necessariamente sulla forma, specie come
      ministro del Tesoro; nel quale compito, in un momento difficile
      delle nostre finanze, quella sua stessa rigidezza e inflessibilità
      che in altre materie e circostanze poteva apparire irragionevole,
      servì a proteggere il bilancio dello Stato.
      
      FINE DEL VOLUME PRIMO.
    
 
    
Il Ministero Luzzati; perchè cadde—La necessità di un più ampio suffragio — Il mio programma e il nuovo invito ai socialisti — Manovre contro il monopolio e il suffragio universale — L'opposizione diplomatica al monopolio — La guerra di Libia — Perchè avevo anteposto il progresso economico a quello politico delle classi popolari — La partecipazione delle classi popolari alla vita politica, ed il rafforzamento politico e l'incremento economico dello Stato — Come fu congegnato il mio progetto di riforma — La lotta mascherata contro di esso — I risultati del primo esperimento.
      Per la formazione del nuovo Ministero le indicazioni parlamentari
      furono largamente favorevoli all'on. Luzzatti, il quale già da
      lunghi anni si era
guadagnata meritatamente un'alta fama per la
      sua
grande e geniale cultura, e per la sua eccezionale
competenza
      in materia economica e finanziaria; competenza esperimentata
      ripetutamente nei vari dicasteri
tecnici ed alle Finanze e al
      Tesoro particolarmente.
Quantunque egli traesse le sue origini
      dall'antica Destra, il suo ingegno agile e pieghevole aveva
      seguito
il movimento dei tempi; ed egli potè benissimo presiedere
      un Ministero di spiccato carattere di Sinistra, al quale
      parteciparono San Giuliano agli Esteri;
 Fani alla Giustizia;
      Facta alle Finanze; Tedesco al
 Tesoro; Spingardi alla Guerra, e
      due radicali, Sacchi e Credaro, ai Lavori Pubblici ed alla
      Istruzione. 
      
      Il suo Ministero ebbe la durata di circa un anno, dal marzo del
      1910 al marzo del 1911. Per prima cosa risolse la questione dei
      servizi marittimi, che si era trascinata ormai troppo a lungo per
      le opposizioni incontrate dal progetto mio e da quello
      dell'onorevole Sonnino; opposizioni che furono, piuttosto che
      vinte, girate ed evitate mediante un progetto assai più modesto e
      la costituzione di una piccola Società che non dava troppa ombra
      ai concorrenti della marina libera. 
      
      Le incertezze della condotta dell'onorevole Luzzatti si
      manifestarono nel campo politico, e propriamente a proposito del
      progetto dell'allargamento del suffragio, che era contenuto nei
      suo programma. Si trattava di una riforma mantenuta in modesti
      limiti, che tuttavia allarmò certi elementi conservatori i quali,
      pure non combattendola direttamente, chiedevano che l'allargamento
      del suffragio fosse accompagnato dal principio della
      obbligatorietà del voto. Codesta richiesta dei conservatori, per
      l'introduzione nella legislazione elettorale del nostro paese di
      una norma che non è stata sperimentata ed adottata che in qualche
      piccolo Stato, era un curioso segno delle condizioni politiche
      delle classi che pretendevano di mantenere la posizione di classi
      dirigenti, e per le quali i loro stessi capi eran costretti,
      appunto con quella richiesta del voto obbligatorio, a riconoscere
      la necessità che il loro diritto di voto fosse trasmutato in un
      dovere, per assicurarne l'esercizio. 
      
      La richiesta era una vera confessione di debolezza; e non fu
      quindi meraviglia che i socialisti, i radicali e gli altri
      avversari del conservatorismo, si opponessero risolutamente
      all'introduzione del voto obbligatorio nella riforma elettorale
      annunciata nel programma del governo. Questo contrasto generò una
      certa agitazione parlamentare, tanto più che il capo del governo,
      nei contatti che aveva coi rappresentanti delle sue tendenze, non
      si risolveva a dichiarare apertamente le proprie intenzioni, tanto
      che sia i fautori che gli avversari del voto obbligatorio,
      credevano egualmente di potere contare che il governo avrebbe
      accettato il loro punto di vista. Era stata nominata una
      commissione parlamentare per studiare il progetto di legge; ed
      essa pure, riflettendo codeste incertezze, conduceva le cose per
      le lunghe. 
      
      Si venne ad una discussione, allo scopo di stabilire la procedura
      per l'approvazione della legge; ed io, prendendo in quella
      discussione la parola, sostenni la tesi che, poiché si entrava
      nella questione della riforma elettorale, tante volte agitata,
      fosse conveniente, data la grande importanza della cosa, di
      prendere in considerazione una riforma più ampia e radicale.
      Osservai che, dopo vent'anni dall'ultima riforma elettorale, una
      grande rivoluzione sociale si era compiuta pacificamente in
      Italia, che aveva condotto ad un notevole progresso delle
      condizioni economiche, intellettuali e morali delle classi
      popolari; progresso al quale corrispondeva indubbiamente il
      diritto ad una più diretta partecipazione alla vita politica del
      paese.
      
      Non era, a mio avviso, il caso di decidere se si dovesse o no dare
      facoltà agli ispettori scolastici di creare qualche nuovo
      elettore; il problema, quale era ormai posto davanti alla Camera
      ed al paese, doveva essere risolto con criteri molto più larghi.
      L'esame sulla capacità di maneggiare le ventiquattro lettere
      dell'alfabeto quanto fosse necessario per scrivere il nome di un
      candidato sulla scheda, non poteva ormai più essere il criterio
      per stabilire se un uomo avesse le attitudini per giudicare delle
      grandi questioni che interessano le masse popolari; bisognava
      vedere di trovare altri criteri molto più larghi. 
      
      Passando poi dal merito della questione alla procedura, osservai
      che in fatto di leggi elettorali non si poteva procedere per
      acconti. Quando si affronta il più grave dei problemi che il
      Parlamento possa affrontare, si ha il dovere di risolverlo a
      fondo. Una soluzione incerta e parziale del problema elettorale
      non avrebbe soddisfatti i partiti popolari, lasciando il campo
      aperto a nuove e continue agitazioni. Osservai inoltre che la
      questione non era tutta contenuta nel semplice allargamento del
      suffragio e che si dovevano pure considerare numerosi problemi
      collaterali. E siccome la discussione era stata provocata da una
      mossa fatta da alcuni deputati contro la Commissione incaricata di
      studiare e riferire sulla riforma, e che veniva accusata di
      dilazioni e tergiversazioni, io conclusi richiamando l'attenzione
      al fatto che un voto che avesse provocato le dimissioni della
      Commissione sarebbe stato causa di nuovi ritardi, e dichiarai che
      avrei votato qualunque ordine del giorno, il quale, senza suonare
      sfiducia verso la Commissione, incitasse ad uno studio più largo e
      più rapido ad un tempo, per presentare al Parlamento proposte
      concrete per la soluzione del problema.
      
      Il mio discorso, che ottenne presso a che generali approvazioni
      anche da parte dei banchi socialisti, non aveva alcuna intenzione
      di opposizione; esso mirava semplicemente ad avviare praticamente
      questa discussione sulla riforma della legge elettorale, che fino
      allora era rimasta sospesa e che non pochi speravano di soffocare
      tacitamente. Anche il voto a cui si venne non toccava il merito
      della questione, e tanto meno colpiva il Ministero, così che io
      lasciando l'aula non pensavo affatto che si potesse venire ad una
      crisi. 
      
      Il Ministero invece la sera stessa decideva di presentare le
      dimissioni; non tanto per effetto diretto del voto parlamentare,
      quanto per la sua ripercussione in quei gruppi i quali si erano
      illusi che il Ministero favorisse segretamente i loro disegni nel
      contenere la riforma elettorale entro limiti ristretti e
      nell'attenuarla con l'adozione del voto obbligatorio, inteso nel
      loro pensiero a controbilanciare il modesto allargamento del
      suffragio con l'obbligare gli elettori borghesi pigri ad uscire
      dal loro astensionismo con la minaccia di multe e pene più noiose
      che il semplice sforzo di recarsi alle urne il giorno delle
      elezioni.
      
      L'on. Luzzatti, reggendo per un anno la Presidenza dal Consiglio e
      il Ministero degli Interni, dette nuova
      prova delle sue capacità e competenze tecniche già ben
      conosciute; e se dal lato politico la sua condotta non riuscì
      ugualmente e interamente soddisfacente, ciò fu dovuto sopratutto
      alla sua cordialità naturale, per la quale non opponeva sempre la
      necessaria resistenza alle domande e pressioni da cui il governo è
      sempre inevitabilmente circondato. Se l'on. Sonnino, come capo del
      governo, peccava piuttosto nel non tenere sufficiente conto degli
      uomini e delle loro passioni ed interessi, che non vanno
      trascurati mai, non per ubbidire ad essi ma per sorvegliarli e
      dominarli volgendoli ai propri fini: l'onorevole Luzzatti peccò
      forse dal lato opposto, preoccupandosi troppo degli uomini, delle
      loro ostilità e dei loro possibili intrighi. Certo il ragionevole
      ed opportuno maneggio degli uomini, che è naturalmente un problema
      perpetuo in qualunque regime, presenta le maggiori complicazioni e
      difficoltà nei regimi parlamentari e democratici, per la loro
      stessa indole; ed ha spesso costituito lo scoglio contro cui si
      sono andate a infrangere capacità politiche e parlamentari per
      ogni altro rispetto assai promettenti. La mia esperienza però mi
      ha persuaso che anche in queste situazioni pubbliche, ciò che
      serve meglio ed involve in minori compromissioni e difficoltà, è
      sempre, come nella vita privata, la piena franchezza. 
      
      Un pericolo da evitarsi particolarmente, è quello delle troppe
      promesse, quando non si abbia la sicurezza di mantenerle. Per
      conto mio me ne sono sempre astenuto,  limitandomi  per
      qualunque richiesta che
      ricevessi, di impegnarmi semplicemente ad esaminarla; e siccome
      quelli che hanno ricevuto o si immaginano di avere ricevuto
      promesse da un governo, tentano specialmente di farne la
      riscossione presso i successori, così io, ogni volta che ho
      lasciato il governo, mi sono sempre dato cura di avvertire il mio
      successore che, se qualcuno si presentava esigendo l'adempimento
      di una promessa da me fatta, egli era autorizzato di smentirla
      senz'altro a mio nome. 
      
      Certo molti ritengono che in regime democratico sia difficile non
      fare promesse; ma costoro dovrebbero tenere presente che anche più
      diffìcile è mantenerle. Quelli poi che pensano che fare una
      promessa non significa mantenerla, mentre con questo si credono i
      più furbi, in realtà sono i più ingenui; perchè alla conclusione,
      colui che semina promesse in tale modo e con tale intenzione, non
      si accorge che con quel sistema fa un assai magro affare, e cioè
      di guadagnare gli amici al minuto per poi perderli all'ingrosso.
      
      Un avvenimento notevole del Ministero Luzzatti fu la celebrazione
      del cinquantenario della proclamazione di Roma a capitale
      d'Italia; avvenimento che fu celebrato con molta solennità,
      specialmente con le due grandi esposizioni di Roma e di Torino. Il
      merito dell'ordinamento di queste cerimonie e delle due
      esposizioni fu interamente del suo Ministero; e l'onorevole
      Luzzatti potè presiedere ancora come Presidente del Consiglio,
      all'inaugurazione di quella di Roma alla quale io assistetti come
      semplice deputato, avendo avuto solo il giorno precedente
      l'incarico di costituire il nuovo Ministero. Inaugurai poi io
      quella di Torino.
      
      Non  è fuori di luogo, in  connessione  a 
      questa cerimonia,  ricordare ciò  che dai Ministeri da
      me presieduti era già stato  fatto a favore della capitale.
      Già nel 1890, essendo Ministro del Tesoro, io avevo insieme con
      Crispi proposta la legge che pose a carico dello Stato l'onere che
      sarebbe spettato al Comune per gli ospedali e per l'assistenza dei
      malati poveri. Anche di quel tempo fu una legge, da! me proposta,
      per l'erezione in Roma del monumento a Mazzini di cui è stata
      posta la prima pietra in questi giorni. Nel 1904 feci approvare la
      legge che approvava l'acquisto di Villa Borghese, e la donava alla
      città di Roma con l'obbligo di riunirla al Pincio; e fra il 1907 e
      il 1908 feci approvare la legge per le aree fabbricabili, intesa
      a  mettere fine ad una esosa speculazione che ostacolava
      l'incremento edilizio della città, reso necessario dall'aumento
      continuo  della popolazione;  quella per la costruzione
      di un grande viale da Roma ad Ostia, per soddisfare un antico voto
      di congiungere Roma al mare nel suo punto più vicino; quella per
      la passeggiata archeologica e per le Terme di Diocleziano, che
      dovevano rimettere alla luce tanti antichi monumenti e memorie
      dell'antica Roma, ed aumentare l'interesse della città come centro
      archeologico, ed infine quella che riuniva a Villa Borghese la
      Vigna Cartoni. 
      
      E tutte queste leggi, le quali contenevano anche grandi
      provvedimenti finanziari per assestare le finanze della capitale,
      concorsero indubbiamente all'incremento che la città ha avuto
      nell'ultimo ventennio, ed all'elevamento della sua dignità come
      capitale d'Italia. In attestato di riconoscenza per questa mia
      opera in favore di Roma, il Sindaco Nathan, a nome del Consiglio
      Comunale, mi portò una copia in argento, in piccole proporzioni,
      della lupa romana.
      
      Assumendo nuovamente la responsabilità del governo e la Presidenza
      del Consiglio, io mantenni la maggior parte dei Ministri che
      avevano fatto parte del Ministero Luzzatti e i quali, oltre essere
      miei amici personali, rappresentavano con larghezza e competenza
      la maggioranza liberale della Camera.
      
      Il mio programma conteneva tre punti fondamentali. Il primo punto
      era una riforma elettorale che si avvicinasse, per quanto era
      possibile nelle particolari condizioni della vita italiana di
      allora e specialmente delle classi popolari, al principio del
      suffragio universale, con alcune limitazioni e cautele che mi
      parevano opportune. Il secondo punto era la istituzione del
      monopolio delle assicurazioni sulla vita, i cui utili fossero
      devoluti alle casse di previdenza per le pensioni operaie. Questi
      furono però i soli due punti enunciati nel programma e discussi
      per la formazione del Ministero; il terzo, cioè la soluzione della
      questione della Libia, già da tempo presente alla mia mente, con
      la ferma intenzione di cogliere la prima occasione per condurla in
      porto, fu tenuto segretissimo, essendo di natura tale che nessuna
      enunciazione pubblica, anzi nemmeno il menomo accenno doveva
      esserne fatto.
      
      Della riforma del sistema elettorale e del proposito di istituire
      il monopolio delle assicurazioni sulla vita, io dunque trattai
      ampiamente con gli uomini a cui mi rivolsi per la formazione del
      Mistero; la maggior parte, come ho detto, già appartenenti al
      Ministero precedente, e che trovai tutti cordialmente assenzienti.
      A me pareva però che, considerata l'indole del nuovo Ministero,
      che comprendeva uomini della più larga e avanzata opinione
      liberale, fra i quali due rappresentanti di quel partito radicale
      che sino a poco prima si era mantenuto nei ranghi di opposizione
      dell'Estrema Sinistra; e tenuto conto del programma, politicamente
      ed economicamente favorevole alle classi popolari che io mi
      proponevo di condurre in porto, si presentasse nettamente
      l'occasione per la partecipazione al governo di uomini di quel
      partito che si riteneva il più diretto rappresentante delle classi
      popolari, e cioè del partito socialista. Mi rivolsi quindi a
      Leonida Bissolati, col quale ebbi una lunga conversazione in casa
      di Camillo Peano, che era già stato e fu poi ancora mio
      capo-gabinetto. 
      
      Il Bissolati, parlando non solo personalmente, ma anche a nome dei
      suoi colleghi, dichiarò la sua piena approvazione del mio
      programma; ma mi ripetè ancora quello che mi aveva già dichiarato
      alcuni anni fa, quando io avevo richiesta la collaborazione dei
      socialisti per l'inaugurazione della politica di piena libertà
      contro le tendenze reazionarie; e cioè che egli non credeva che il
      partito socialista fosse già maturo per partecipare al governo.
      Pareva infatti che nel partito socialista potessero maturare pel
      governo e le sue responsabilità gli individui; ma non il partito
      stesso. Il Bissolati però mi soggiunse che egli opinava di potere
      meglio aiutare il governo alla realizzazione del suo programma,
      rimanendo al di fuori; ciò che gli avrebbe reso in buona parte
      possibile di ottenere pel governo l'appoggio positivo, o almeno
      negativo, dell'intero suo gruppo parlamentare; mentre la sua
      accettazione di un portafoglio avrebbe provocato, nell'ambito
      stesso del partito, polemiche conducenti a dissensi ed a
      scissioni. 
      
      Io chiesi allora al Bissolati se, qualora egli fosse chiamato dal
      Sovrano per esporgli il suo parere sulla situazione politica e sul
      programma del governo, egli avrebbe accettato l'invito. II
      Bissolati rispose affermativamente, ed il giorno dopo fu infatti
      ricevuto in udienza dal Re. Era la prima volta che un deputato
      socialista varcava la soglia del Quirinale per essere interrogato
      dal Sovrano sulla situazione politica; ed il fatto naturalmente
      suscitò grandi commenti, apparendo d'accordo nel deplorarlo gli
      estremisti da una parte e dall'altra; cioè i conservatori
      reazionari ed i socialisti rivoluzionari. 
      
      Il Bissolati mantenne poi con grande lealtà e fervore l'impegno
      assunto di appoggiare il governo nella dura lotta che dovè
      sostenere per convertire in leggi quei punti capitali del suo
      programma; e quando venne l'impresa di Libia, e la grande
      maggioranza dei socialisti si voltò contro, si staccò dal partito
      facendosi un fervente apostolo di quella impresa, le cui ragioni
      politiche egli aveva perfettamente comprese. 
      
      Il Bissolati si trovò contro di me nell'apprezzamento della
      situazione in cui per la conflagrazione europea si venne poi a
      trovare l'Italia, e nel giudizio dei doveri e delle convenienze
      nazionali in quella grandissima crisi della politica mondiale; ma
      anche allora, non ostante la violenza dei dissensi e dei conflitti
      scoppiati, egli si condusse sempre al mio riguardo con cordiale
      correttezza di gentiluomo. 
      
      La mia impressione del Bissolati è stata ed è sempre rimasta di un
      uomo di ingegno molto acuto e logico, e di carattere semplice e
      diritto; il suo difetto come uomo politico e giudice delle
      situazioni politiche era forse in certi momenti un soverchio
      entusiasmo idealistico, che per se stesso è cosa buona, ma che
      deve essere raffinato e corretto da una più calma visione delle
      cose. Egli era dotato anche di molto equilibrio intellettuale,
      come mostrò negli anni più maturi sapendo fare la giusta parte
      agli interessi ed alle ragioni nazionali, pure non venendo meno
      alle sue convinzioni socialiste. E siccome era anche uomo energico
      e di coraggio, probabilmente, se non fosse mancato immaturamente,
      avrebbe avuta una parte importante nella politica del dopo guerra.
      
      Mancata anche questa volta la collaborazione diretta del partito
      socialista e di qualche suo uomo di governo, io invitai ad
      assumlere il Ministero d'Agricoltura, al quale competeva
      tecnicamente di elaborare e difendere alla Camera il progetto del
      monopolio delle assicurazioni su la vita, l'onorevole Nitti, che
      apparteneva allora al partito radicale, e che per i suoi studi e
      la sua vivacità polemica mi pareva particolarmente indicato.
      L'onorevole Nitti si mostrò da prima incerto e titubante, e
      ricordo che egli mi accennò alla difficoltà, in cui si trovava per
      sostenere quella legge, avendo egli nei suoi scritti e nelle sue
      lezioni criticata sempre la pratica dei monopoli. Ma avendogli io
      dichiarato che quello era un punto del programma mio che non
      poteva essere toccato, egli finì per accettare, considerando il
      monopolio delle assicurazioni della vita come un caso particolare,
      e che poteva essere sostenuto anche da chi  ai monopoli
      non  fosse favorevole  in generale.
      
      Tale programma del governo fu esposto subito al Parlamento, con la
      maggiore chiarezza e precisione, e fu favorevolmente accolto dalla
      grande maggioranza. Ma le opposizioni, sia da parte degli
      interessati nelle assicurazioni della vita, sia per parte dei
      conservatori, avversi generalmente, quantunque non osassero
      dichiararlo apertamente, alla riforma elettorale, erano violente e
      tenaci, e si manifestarono ben presto, quantunque più nella stampa
      che nel Parlamento. E in poche settimane si era riprodotta la
      stessa situazione in cui io mi ero trovato nel 1901 e nel 1902,
      quando, per avere iniziato e proseguito con fermezza il sistema
      della più ampia libertà nella lotta fra capitale e lavoro, ero
      stato dipinto come nemico del capitale, come demolitore del
      diritto di proprietà, e come ministro che preparava la rovina
      delle istituzioni. 
      
      Anche nel 1901 il Ministero, nella sua politica di libertà, aveva
      avuto l'appoggio dei socialisti, e il rinnovarsi di questo
      appoggio pel programma da me presentato mi veniva rimproverato da
      alcuni come un nuovo tradimento verso il partito liberale.
      Evidentemente coloro che pronunziavano questa accusa, più che dei
      veri e propri liberali erano dei conservatori più o meno
      mascherati di liberalismo, o dei puri dottrinari i quali, volendo
      cristallizzare il partito liberale in poche formule immutabili, e
      tenere chiuse le sue porte ad ogni nuova corrente di idee, e ad
      ogni concorso degli uomini che le rappresentavano, non
      riflettevano che i partiti chiusi sono destinati fatalmente a
      decadere e scomparire; e non ricordavano che una delle maggiori
      forze della nostra dinastia, che pure rappresenta la tradizione,
      era stata di avere sempre accettato il concorso di tutti gli
      uomini disposti a lavorare lealmente per il bene della nazione, da
      qualunque partito essi provenissero e qualunque fosse il loro
      passato politico. 
      
      Ed era poi particolarmente strano, che in questa occasione, come
      nelle precedenti in cui il governo si era avvicinato agli
uomini
      dei partiti popolari ed estremi, per ottenerne
la collaborazione e
      farli così rientrare nell'orbita
della istituzione, quelli che
      manifestavano il più sacro
orrore per tali metodi di governo
      fossero appunto
coloro che si pretendevano e si professavano
      seguaci del Conte di Cavour; dimenticando che egli
fece il
      connubio del suo partito con la parte più
avanzata della Camera;
      che prese accordi politici
con gli uomini dei partiti più estremi,
      mandandoli
a governare il paese nei momenti più diffìcili.
      Supporre che il Conte di Cavour sarebbe rimasto fermo
alla
      situazione politica di cinquantanni fa, e non
avrebbe più fatto un
      passo avanti, sarebbe fare ingiuria al più grande e più ardito dei
      nostri uomini
di Stato. 
      
      Ad ogni modo, contro questi attacchi e
queste critiche io mi
      limitai ad' osservare che a chi
vuole andare avanti vi è una sola
      compagnia che
non è possibile, ed è quella di chi vuole andare
      indietro, o di chi vuole stare fermo, che in pratica
è poi la
      stessa cosa. E poiché notavo che contro il
mio programma e la mia
      azione politica e parlamentare si ripetevano allora le stesse
      accuse di dieci
anni prima, io consigliai ai miei avversari, per
      loro
risparmio di fatica intellettuale, di rileggere i
      discorsi
dell'opposizione di allora, e valersene nelle
      future
discussioni.  
        
      Siccome la riforma elettorale importava una vasta preparazione di
      studi da parte del governo, non solo per dimostrarne, con
      raffronti statistici con l'uso d'egli altri paesi, la convenienza
      politica, ma anche per congegnarla, nel suo funzionamento pratico,
      in modo da evitare sorprese ed ostacoli nell'applicazione, e
      richiedeva pure un ampio ed accurato esame da parte della
      Commissione parlamentare, la sua presentazione alla Camera fu
      necessariamente rimandata. Difficoltà di tal genere non esistevano
      per la questione del monopolio delle assicurazioni sulla vita, il
      cui progetto potè essere preparato rapidamente e presentato al
      Parlamento.
      
      La idea di creare questo monopolio non fu affatto, come dissero
      allora gli oppositori, una improvvisazione per ragioni e
      convenienze politiche. Era una mia idea antica, che m'era in
      principio venuta per la considerazione del fallimento di non poche
      società che non avevano adempiuto ai loro obblighi dopo avere
      intascati i premi. L'assicurazione sulla vita non è che una forma
      di risparmio, con questo carattere speciale, che gli impegni verso
      l'assicurato non vengono a scadenza che dopo una lunga serie di
      anni, da venti almeno a quaranta e più; per cui si richiede la
      certezza che, quando venga il giorno in cui gli impegni debbono
      essere mantenuti, l'assicuratore sia in grado di farlo. Senza
      questa certezza, che deve essere assoluta, l'assicurazione è un
      inganno alla fede pubblica. 
      
      Ora, l'esperienza
di molti anni aveva dimostrato che, a canto a
      Società bene amministrate, altre ve ne erano le quali,
facendo
      cattivi investimenti, o abbandonandosi a speculazioni aleatorie o
      peggio, erano andate a finire
male, defraudando gli assicurati del
      loro avere; ciò
che era la peggiore delle frodi, perchè ai
      risparmi
così collocati gli assicurati affidavano le sorti
      della
loro vecchiaia e in caso di morte, della loro famiglia. Né
      le società andate a male si contavano solo
fra quelle secondarie;
      non solo da noi, ma in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove pure
      l'assicurazione sulla vita aveva raggiunto sviluppi
      ingentissimi,
c'erano stati casi di fallimento di grandi società,
      con
l'effetto di veri disastri sociali e la rovina di migliaia
di
      famiglie che ad esse avevano affidati i loro risparmi. 
      
      Né era il caso di dire che si poteva distinguere fra istituti
      solidi e bene amministrati, e
istituti male amministrati e
      pericolanti; la buona
amministrazione non è una qualità inerente
      agli istituti, ma agli uomini che li amministrano; e ad
      amministratori capaci ed onesti possono in qualunque
società
      succedere amministratori incapaci e senza
scrupoli. E le
      conseguenze di tale stato di cose, almeno presso di noi, erano di
      carattere generale e sociale,
inquantochè la diffidenza suscitata
      dai fallimenti, e
la mancanza di una sicurezza assoluta, impediva
      che
questo ottimo sistema di previdenza avesse quella
più larga
      diffusione che era desiderabile per ogni
verso. 
      
      Io avevo pensato che questi inconvenienti sarebbero 
      superati,  e l'istituto della previdenza incoraggiato, quando
      si potesse dare vita ad un istituto d'assicurazione che
      presentasse la massima garanzia di  durabilità e di 
      sicurezza pel  mantenimento dei suoi 
      impegni.   Ora  l'Ente che  presenta 
      appunto  le maggiori garanzie in tale senso, è lo Stato, il
      quale nel  mio  progetto  garantiva le 
      operazioni   dell'Istituto. 
      
      Ad evitare poi il sospetto che l'Istituto potesse avere carattere
      e scopo fiscale, e che il, danaro degli assicurati potesse essere
      esposto per questo verso a diminuzioni e falcidie, io provvedevo a
      che i suoi utili   fossero  
      devoluti   alla  Cassa  per  la 
      vecchiaia ed   invalidità  degli 
      operai;  parendomi  una   nobile prova
      di  solidarietà  sociale che  gli  utili
      derivanti dalla previdenza dei cittadini in qualche misura più
      favoriti dalla fortuna, concorressero ad alleviare le condizioni
      della vecchiaia dei cittadini meno favoriti. Un'altra
      considerazione favorevole all'Istituto statale delle assicurazioni
      sulla vita, era connessa con le  condizioni e le 
      convenienze generali  della pubblica economia. Le statistiche
      dimostravano che gli istituti  assicuratori cumulavano nelle
      loro mani ingenti capitali,  e siccome in Italia oltre i tre
      quinti delle assicurazioni erano fatti da società straniere, ne
      derivava che molti dei capitali raccolti emigravano all'estero;
      costituendo così una vera organizzazione per la esportazione del
      risparmio nazionale. Creare un  monopolio  statale 
      significava porre  fine  anche a codesto inconveniente,
      e accentrare nelle mani dello Stato una potenza finanziaria di
      primo ordine, rappresentata appunto dagli ingenti capitali che si
      cumulano coi versamenti degli assicurati.
      
      Questi concetti furono da me esposti con la presentazione del
      progetto di legge. Alla Camera essi riscossero l'approvazione
      della grande maggioranza, dai liberali ai socialisti. Ma, come ho
      già detto, gli oppositori furono assai tenaci. Fra essi ve n'erano
      certo parecchi, la cui opposizione aveva ragioni dottrinarie;
      costoro invocavano i principi del liberismo economico, che non
      sempre si accordano col liberalismo politico, a cui compete di
      tener conto di elementi assai più vari e complessi; altri
      sfogavano una istintiva antipatia contro i monopoli di qualunque
      genere, quando invece gli ottimi risultati del monopolio nostro
      dei tabacchi dimostrava la capacità dello Stato per tali generi
      d'imprese. Non mancavano coloro che combattevano il mio progetto
      in rispondenza agli interessi particolari che ne erano offesi. 
      
      Ma la campagna più violenta era condotta in parte dalla stampa,
      specialmente conservatrice; la quale, forse più che a sostenere
      gli interessi degli assicuratori, era mossa da ragioni più larghe
      se non apertamente dichiarate; questi organi del conservatorismo
      combattevano il monopolio delle assicurazioni non tanto per sé
      stesso, quanto per colpire traverso ad esso il governo che aveva
      messo nel suo programma, come capo fondamentale, la riforma della
      legge elettorale col suffragio quasi universale. Soltanto la
      speranza di allontanare, se non di impedire assolutamente la
      riforma elettorale, poteva spiegare la eccezionale vivacità della
      battaglia contro il monopolio delle assicurazioni, assolutamente
      sproporzionata all'importanza del problema; e i mezzi ai quali si
      ricorse per ritardarne o rimandarne l'approvazione, e l'assurdità
      delle argomentazioni e delle invenzioni messe innanzi contro di
      esso.
      
      Si cercò anzitutto di eccitare una vera sollevazione di tutti gli
      interessi borghesi, capitalistici, industriali e commerciali. Si
      cominciò col proclamare che la legge sul monopolio era nientemeno
      che un attentato alla proprietà, e l'inizio o l'avviamento di un
      sistema tendente alla istituzione del collettivismo per mezzo
      della monopolizzazione di grande parte delle industrie.
      L'artificio di tale argomentazione consisteva in questa tentata
      confusione fra l'attività industriale e l'assicurazione della
      vita, che con quella nulla aveva a che fare, essendo essa una pura
      e semplice speculazione su una forma speciale di risparmio. Lo
      scopo delle industrie è la produzione della ricchezza; mentre la
      speculazione assicuratrice altro scopo non ha, anche quando
      rettamente esercitata, che di fare passare una percentuale della
      ricchezza degli assicurati nelle tasche degli assicuratori. E
      questa speculazione infatti era esercitata in modo così sfrenato,
      che in alcuni casi aveva portato al fallimento, ed in altri alla
      realizzazione di guadagni addirittura scandalosi. Rispondendo agli
      oppositori io ebbi in questo buon gioco, limitandomi a citare
      esempi di utili conseguiti in un solo anno, e appunto nell'anno
      precedente.  
      
      Mostrai che una società, i cui azionisti avevano versate 882 lire
      per azione, avevano ricevuto un dividendo di 336 lire, pari al
      quaranta per cento, ripartendo inoltre fra gli amministratori 240
      mila lire. Un'altra, su azioni di lire 250, aveva distribuito 307
      lire di dividendo, pari al 122 per cento del capitale versato; una
      terza su azioni di 882 lire aveva distribuito 980 lire, pari al
      111 per cento, e attribuito agli amministratori quasi un milione.
      E poiché le operazioni di assicurazione sulla vita sono per la
      massima parte per piccole somme e fatte da gente non agiata, a
      coloro che gridavano che il monopolio violava il diritto io
      rispondevo che il diritto che si diceva violato poteva definirsi
      come il diritto di esercitare l'usura sul risparmio della povera
      gente. Tutto questo, ad ogni modo, nulla aveva a che fare con
      l'industria; ed è strano che certi gruppi di industriali si
      lasciassero trascinare ad una agitazione che coi loro reali
      interessi nulla aveva a che fare, perchè anzi l'industria, quando
      sanamente esercitata, non deve avere alcuna amicizia con la
      speculazione.
      
      Un'altra argomentazione a cui si ricorreva, consisteva nel gettare
      il dubbio sulla capacità dello Stato a fare l'assicuratore e ad
      impiegare i capitali che col monopolio si sarebbero raccolti.
      Codesto dubbio era però già preventivamente sfatato, perchè tale
      attitudine da parte dello Stato era già stata provata dal modo
      mirabile col quale era stata amministrata la Cassa Depositi e
      Prestiti, la quale dalle sole Casse postali di risparmio aveva
      raccolti milleottocento milioni, e che mentre aveva resi servizi
      inestimabili allo Stato, alle Provincie ed ai Comuni, non aveva
      mai subito alcuna perdita. Alcuni, osservando che alle casse
      postali non si era dato il monopolio del risparmio, proponevano
      che si creasse bensì un Istituto di Stato per le assicurazioni
      della vita, ma senza monopolio ed in concorrenza con gli istituti
      privati. 
      
      La risposta a codesta obiezione era assai facile. Le casse di
      risparmio, che fanno concorrenza alle casse postali, non sono
      società di speculazione, ma istituti, tutti italiani, non aventi
      scopo di lucro, e i quali destinano i loro utili, in parte ad
      accrescere le riserve per sicurezza dei depositanti, e per il
      resto a scopo di beneficenza, che esse esercitano largamente. Se
      alle Società di assicurazione della vita si fosse proposto di
      continuare il loro esercizio con la condizione di destinare i loro
      utili alla beneficenza, nessuno poteva illudersi che avrebbero
      accettato.
      
      La battaglia parlamentare, a cui faceva ala quella che si
      combatteva nella stampa e nei comizi degli interessati e dei loro
      dipendenti, si prolungò per parecchie settimane, assorbendo
      l'intera attività della Camera. Vi parteciparono anche i
      socialisti, in favore del governo, con un ottimo discorso tecnico
      per parte dell'onorevole Bonomi, e discorsi politici di Bissolati
      e di altri, mentre l'onorevole Sonnino, l'onorevole Salandra ed
      altri, della Destra specialmente, parlarono contro. La discussione
      fu riassunta poi, pel lato tecnico, dall'on. Nitti, il quale, pure
      consentendo, d'accordo meco, a modificazioni  parziali 
      che  non intaccassero però menomamente il principio, difese
      il progetto egregiamente, essendosi bene impadronito della
      materia; e pel lato politico con un mio discorso, che a certi
      momenti suscitò una tempesta nei radi banchi dei conservatori. 
      
      Si passò quindi al voto, e la Camera dette largamente la sua
      approvazione di massima al principio fondamentale della legge. Si
      doveva quindi venire alla discussione degli articoli. Eravamo alla
      fine di giugno, ed io proposi che quella discussione fosse
      rimandata alla ripresa dei lavori parlamentari, nel prossimo
      autunno. E ciò feci perchè avevo capito che gli avversari della
      legge, pure dandosi aria di disarmare davanti al principio
      generale, si proponevano di riprendere la battaglia nella
      discussione particolare, presentando una grande quantità di
      emendamenti. Ora in regimi di tale genere, quale è un monopolio,
      basta alle volte un emendamento che ne turbi il principio per
      farlo fallire nell'esecuzione. Non vi era, d'altra parte, la
      menoma ragione di urgenza, ed io preferivo che la discussione
      fosse ripresa dopo che la Camera si fosse riposata, per evitare
      che qualche emendamento pericoloso potesse passare in una Camera
      già stanca ed impaziente di prendersi le vacanze.
      
      Insieme a quella parlamentare, il governo dovette, pel progetto
      del monopolio, sostenere pure una battaglia di carattere
      diplomatico ed internazionale.
      
      Ho già rilevato che per oltre i tre quinti le
      assicurazioni   sulla   vita  erano 
      raccolte  in   Italia   da istituti
      stranieri, e più particolarmente austro-ungarici, inglesi,
      americani, tedeschi e francesi. Questi istituti, alcuni dei quali
      di mole gigantesca, non si preoccupavano forse tanto della perdita
      del mercato italiano, assai limitato in paragone alla grandiosità
      dei loro interessi, quanto del fatto che la creazione di un
      monopolio statale potesse essere un esempio che altri Stati prima
      o dopo avrebbero imitato. La preoccupazione e l'irritazione ad'
      ogni modo deve essere stata assai viva, ed accordi devono essere
      passati fra questi istituti legati da comuni interessi, perchè noi
      assistemmo ad un movimento diplomatico di protesta quasi generale.
      Tali proteste si basavano sulla supposizione che l'Italia violasse
      gli accordi e gli usi internazionali, inibendo a cittadini
      stranieri di esercitare in Italia la loro industria ed il loro
      commercio. Noi però rispondemmo respingendo assolutamente tale
      accusa, la quale avrebbe avuto ragione d'essere solo in un caso; e
      cioè quando noi avessimo inibito la pratica delle assicurazioni
      sulla vita alle Società straniere, permettendola invece alle
      italiane. Ma così non era; l'Italia, creando il monopolio statale
      delle assicurazioni sulla vita, era pienamente nei suoi diritti di
      sovranità, e il trattamento che essa faceva agli stranieri era
      eguale a quello fatto ai suoi cittadini, e gli stranieri più non
      potevano pretendere. Questo nostro argomento, dopo qualche
      ulteriore opposizione e discussione, fu alla fine riconosciuto
      valido quasi universalmente dagli altri Stati.  
      
      Ricordo  che una più particolare ed ostinata resistenza fu
      fatta dall'Austria, la quale aveva tanto meno diritto di
      protestare ed insistere nella protesta, in quanto che nel trattato
      di commercio che pochi anni prima aveva concluso con noi, era
      stata riservata, e per desiderio dell'Austria stessa, ai due paesi
      contrattanti la facoltà di istituire dei monopoli. La insistenza,
      ingiustificata ed insostenibile del governo austriaco, non era
      attenuata o raddolcita dal contegno del suo ambasciatore Conte
      Merey, uomo che si compiaceva di ostentare una certa bruschezza di
      modi. Ricordo che, venuto da me per protestare contro la
      istituzione del monopolio, essendosi nell'anticamera incontrato
      con un grosso assicuratore, che era venuto per la stessa cosa, e
      col quale egli aveva forse ragioni di malumore, esclamò nel
      vedermi: — Vous recevez ce cochon là?...
      
      Al che io risposi: — Ce cochon est venu ici pour la mème
        raison que Vòtre Excéllence. — Il Merey fece allora una
      requisitoria contro il progetto con le parole più aspre che gli
      venivano sulla bocca; ma siccome io mi contentavo di rispondergli:
      — Je ne suis pas de votre avis — egli finì col mettersi a
      ridere e lasciar cadere la cosa. 
      
      L'Austria però cercò ancora di insistere, per vie indirette, e
      mandò qui a Roma alcuni banchieri francesi con l'incarico di
      tentare una intimidazione finanziaria. Io li ricevetti, e siccome
      uno di essi ad un certo punto della discussione esclamò: — Noi
      combatteremo la finanza italiana e faremo ribassare la vostra
      rendita — io gli risposi che, lungi dall'allarmarmi, glie ne sarei
      stato riconoscente. E poiché quei finanzieri si meravigliarono a
      questa mia uscita, io osservai loro che, siccome l'Italia stava
      allora ricomprandosi la sua rendita collocata all'estero, io sarei
      stato loro grato se ci avessero dato così il modo di acquistarla a
      miglior mercato.
      
      La discussione della legge del monopolio fu poi ripresa, come era
      stato stabilito, dopo le vacanze e condotta a porto nel 1912. Era
      nel frattempo intervenuta la guerra di Libia, che occupava
      grandemente l'attenzione pubblica, e l'opposizione alla legge si
      attenuò notevolmente, gli avversari avendo ormai compreso che
      qualunque maneggio per ferire a morte la nuova istituzione con
      emendamenti che ne ostacolassero l'applicazione, sarebbe riuscito
      vano. Il governo poi fece alcune concessioni, principale fra le
      quali fu quella di autorizzare le Società che già esercivano in
      Italia, a continuare il loro esercizio per dieci anni,
      limitatamente però alle somme assicurate superiori alle ventimila
      lire, e di cedere una quota delle altre all'istituto di Stato. Era
      una concessione di interesse reciproco, perchè mentre permetteva
      alle Società di liquidare il passato, dava al nuovo istituto il
      tempo necessario per ordinarsi. 
      
      Si stabilì pure che il monopolio statale potesse riscattare il
      portafoglio che le Società private, italiane o estere, avevano in
      Italia; e la maggior parte delle società ne profittarono
      immediatamente, venendo ad equi concordati e liquidando così
      senz'altro la loro posizione.
      
      Il monopolio, dopo i primi tempi di avviamento, ha potuto
      funzionare egregiamente, smentendo tutte le previsioni
      pessimistiche, e rendendo eccellenti servizi allo Stato durante la
      guerra. L'esperimento fatto finora è di ottimo augurio per un
      maggior sviluppo nell'avvenire, essendosi anche.in questo campo
      dimostrato che, dopo tutto, il cittadino italiano ha la maggiore
      fiducia nello Stato. Come vi erano stati gli avversari accaniti,
      così per questa questione del monopolio ci furono pure i fautori
      eccessivi i quali avrebbero voluto estenderlo ad altre forme
      assicurative, come gli incendi, la grandine, gli infortuni e così
      via. A cotali estensioni io sono stato sino dal principio
      contrario. Io scelsi per il monopolio il ramo vita, per la grande
      semplicità e sicurezza degli elementi che lo costituiscono, non
      essendo facile né presumibile che si possa fare apparire morto chi
      è vivo. Ma io penso che lo Stato si involverebbe in gravi
      difficoltà, e si esporrebbe ad abusi di ogni genere, quando si
      assumesse l'assicurazione di danni che diano luogo a
      contestazioni, pei quali è meglio lasciare libero il campo alla
      iniziativa privata.
      
      Avanti che la Camera si convocasse nuovamente, era intervenuta
      nell'ottobre 1911, la guerra con la Turchia. Ma prima di narrare
      di questa, delle ragioni che l'avevano determinata, e della sua
      preparazione politica e diplomatica, ritengo opportuno, con una
      breve infrazione dell'ordine cronologico seguito in queste
      memorie, di esporre la questione della riforma elettorale e della
      conversione in legge del progetto che, assumendo la responsabilità
      del governo, io avevo presentato.
      
      Quando io misi nel mio programma, come punto fondamentale, la
      riforma elettorale, con un allargamento del suffragio che arrivava
      quasi al suffragio universale, vi fu chi mi ricordò con rimprovero
      che io altre volte mi ero dichiarato contrario a tale estensione
      del diritto politico fondamentale. E la cosa era vera per sé
      stessa; ma era viceversa assurdo richiamarsi a tali dichiarazioni
      da me fatte in altri momenti come prova che io fossi stato avverso
      al suffragio popolare per ragioni di principio. Tutta la condotta
      politica da me seguita nel passato, intesa alla elevazione delle
      classi popolari, ed all'allargamento della influenza dei loro
      interessi nella vita pubblica, smentiva nettamente quell'accusa.
      La verità era che, proponendomi come programma capitale della mia
      azione politica l'elevazione delle classi popolari, io avevo
      dovuto anzitutto considerare le loro condizioni materiali, e
      restituendo loro quel pieno esercizio delle libertà statutarie,
      che era stato posto in forse da quasi dieci anni di politica
      reazionaria, rimetterle nelle condizioni necessarie per lottare
      pel proprio miglioramento economico. Questo mio primo concetto era
      stato pienamente giustificato dall'esperienza, e dieci anni di
      regime di libertà nei conflitti fra capitale e lavoro, rispettato
      da tutti i governi che si erano succeduti, aveva da per tutto
      accresciuto, e in molte parti d'Italia più che raddoppiata la
      misura dei salari degli operai delle officine e dei campi,
      contribuendo anche potentemente alla loro educazione. 
      
      Le associazioni di ogni genere, economiche e politiche, che si
      erano formate dovunque fra le masse lavoratrici, il maggiore
      interessamento che esse erano andate prendendo nella vita della
      nazione, avevano indubbiamente avuto una grande influenza
      educativa, dando ad esse una consapevolezza della vita politica,
      fino allora quasi totalmente ignorata. Di fronte a tali mutate
      condizioni non era più ammissibile che in uno Stato sorto dalla
      rivoluzione e costituito dai plebisciti, dopo cinquant'anni dalla
      sua formazione si continuasse ad escludere dalla vita politica la
      classe più numerosa della società, la quale dava i suoi figli per
      la difesa del paese, e sotto la forma delle imposte indirette
      concorreva in misura larghissima a sostenere le spese dello Stato.
      
      La questione della elevazione del quarto Stato alla dignità della
      totale cittadinanza politica, nella quale ai diritti corrispondono
      i doveri, era pure imposta, oltre che da superiori considerazioni
      di giustizia,, da altre ragioni di convenienza nell'interesse
      stesso delle classi dirigenti. L'elevazione del quarto Stato ad un
      più alto grado di civiltà, era per noi ormai il problema più
      urgente, e per molti punti di vista. Anzitutto per la stessa
      sicurezza sociale, in quanto che l'esclusione delle masse dei
      lavoratori, non solo dalla vita politica, ma anche da quella
      amministrativa del paese, togliendo loro ogni influenza legale, ha
      sempre per effetto di esporle alle suggestioni dei partiti
      rivoluzionari e delle idee sovvertitrici, in quanto gli apostoli
      di queste idee hanno a loro disposizione un argomento formidabile,
      quando osservano che, per ragione di codesta esclusione, alle
      classi popolari non resta altra difesa, contro le possibili
      ingiustizie, generali e particolari, delle classi dominanti, che
      l'uso della violenza. 
      
      Dove le masse sanno di non potere col loro voto e con la legale
      azione politica modificare le leggi che siano proposte ed
      elaborate a loro danno, è ovvio che esse si lascino persuadere che
      i soli mezzi per mutare un tale stato di cose, sono i mezzi
      rivoluzionari. Partecipando invece alla vita politica, le masse,
      nelle quali il buon senso finisce sempre alla lunga col prevalere,
      possono, non solo rendersi conto delle difficoltà che lo Stato
      deve superare per aiutare il loro incremento, ma anche dei limiti
      che le condizioni generali del paese e del tempo pongono alla
      soddisfazione delle loro aspirazioni e delle loro richieste; e
      così esse vengono ad essere interessate al mantenimento dello
      Stato. 
      
      È troppo facile oggi opporre a questi concetti l'esempio delle
      manifestazioni in senso contrario ad essi, avutesi dopo la guerra;
      ma gli episodi di momenti eccezionali non fanno regola; e del
      resto la rapidità con cui le agitazioni e le pretese soverchie ed
      irragionevoli determinatesi nelle masse dopo la guerra sotto la
      influenza dei partiti estremi, si sono attenuate, è una riprova
      della fondamentale giustezza
      di questo mio modo di vedere. In secondo luogo tale elevamento è
      desiderabile, anzi necessario per un altro aspetto, e cioè quello
      della convenienza economica, perchè la partecipazione attiva ad
      ogni forma di progresso, da parte di tutto il popolo, è
      strettamente connessa con l'incremento della ricchezza di un
      paese. Le condizioni generali della civiltà in quel momento
      dimostravano infatti che soltanto le nazioni al cui progresso
      concorrevano attivamente le masse popolari, quali l'Inghilterra,
      la Germania, la Francia, gli Stati Uniti d'America, erano
      economicamente potenti; gli Stati anche grandi, anche militarmente
      fortissimi, quale la Russia, nei quali però le classi popolari
      avevano un grado di civiltà inferiore, soffrivano economicamente
      di grave debolezza. 
      
      E questo si comprende, quando si pensa quali forze di
      intelligenza, di volontà, di operosità si trovano latenti nelle
      masse popolari delle città e delle campagne; e quale contributo al
      progresso di un paese esse potrebbero dare se, istruite ed
      educate, fossero in condizioni tali che ognuno potesse prendere
      nella società un posto corrispondente alle sue naturali
      attitudini, alla sua intelligenza ed alla sua forza morale. 
      
      La sicurezza sociale e la ricchezza economica del paese a me erano
      sempre parse strettamente collegate col benessere e con
      l'elevazione materiale e morale delle classi popolari; aiutando
      questa elevazione le classi dirigenti compivano dunque una opera
      in cui il dovere morale della solidarietà umana era in pieno
      accordo col loro stesso bene inteso interesse. Se esse si fossero
      opposte al movimento di ascensione delle classi più numerose della
      società, sarebbero state, prima o dopo, inesorabilmente travolte;
      se invece, adempiendo al dovere della solidarietà umana, avessero
      assunto la tutela dei diritti e degli interessi del proletariato;
      se con sapienti leggi avessero provveduto al suo benessere
      materiale e morale; se lo avessero spontaneamente chiamato a
      prendere il suo posto nell'esercizio della sovranità nazionale,
      esse avrebbero conseguito il vanto di sostituire alla lotta delle
      classi, proclamata dagli estremisti, la loro collaborazione,
      assicurando nello stesso tempo un progresso regolare e benefico
      alla intera società, ed un incremento della potenza e della
      dignità dell'Italia fra le altre nazioni. 
      
      Per cui, quando nella discussione della Camera, e nelle polemiche
      dei giornali, vi fu chi mi rimproverò di essere andato
      spontaneamente incontro ai partiti estremi; di avere offerto in
      regalo ai socialisti più di quanto essi osassero domandare e si
      aspettassero di potere ottenere, invece di lasciare che essi
      conquistassero la riforma combattendo passo a passo; io ritorsi
      questa accusa, facendone un vanto, non personale mio, ma del
      partito e del governo liberale, il quale, invece di resistere ad
      esigenze giuste, le soddisfaceva spontaneamente, mostrandosi
      superiore agli interessi particolari, e quindi veramente degno di
      regolare i destini della nazione.
      
      Quando io presentai la mia proposta di riforma
elettorale, erano
      trascorsi trent'anni dalla riforma
anteriore, a cui aveva lavorato
      sopratutto l'onorevole Zanardelli. La legge del 1882 aveva
      rappresentato un notevolissimo progresso su quella prima vigente,
      e nel senso veramente democratico, in quanto
aveva abolito tutti i
      privilegi basati sul censo, ed
aveva istituito teoricamente il
      principio del suffragio
universale, dando il diritto di voto ad
      ogni cittadino
che avesse compiuto il primo corso
      elementare.
Quando quella riforma era stata adottata, si calcolava
      che l'analfabetismo sarebbe stato rapidamente
debellato, e che la
      legge avrebbe automaticamente
portato all'esercizio del diritto
      politico da parte della
grandissima maggioranza dei cittadini. A
      tali speranze non aveva però corrisposto il successo, e per
varie
      ragioni; sia cioè per l'inefficacia del nostro
sistema di
      educazione elementare, sia anche, e forse
sopratutto, perchè la
      semplicità della nostra vita agricola non rendendo necessario
      l'uso del saper leggere e scrivere, non spingeva le classi
      popolari a
procurarselo. D'altra parte, tutti sanno che nelle
      nostre campagne vi sono contadini che, pure non sapendo firmare
      che con la croce, spiegano facoltà di
primo ordine nel maneggio
      dei loro affari, e conducono mirabilmente floride aziende
      agricole; mentre
vi sono dei cittadini, a cui la vita della città
      ha reso
necessario il saper leggere e scrivere, e che tuttavia non
      ne fanno certo il migliore degli usi. S'aggiunga ancora che tale
      sistema, in cui il diritto elettorale era basato sul certificato
      scolastico, creava grandi disparità, da regione a regione e da
      provincie a Provincie, in relazione alla maggiore o minore
      diffusione e comodità di accesso alle scuole e della conseguente
      diversa opportunità per parte dei ragazzi di frequentarle.
      
      Il mio predecessore, onorevole Luzzatti, come ho già riferito,
      aveva già presentato un suo progetto di allargamento dei suffragi,
      che a mio parere era insufficiente. Esso infatti manteneva ancora
      il criterio dell'alfabetismo come base del diritto elettorale,
      limitandosi a facilitarne la constatazione ed a rendere più
      agevole l'ammissione. Si trattava, insomma, di aggiungere agli
      elettori alfabeti quelli che si trovavano in una specie di limbo
      fra l'alfabetismo e l'analfabetismo; con la quale aggiunta si
      attendeva un incremento graduale, da un milione ad un milione e
      mezzo di elettori. A me, ed alla Commissione parlamentare che poi
      esaminò il progetto mio, questo calcolo pareva esagerato,
      apparendo assai difficile che gli uomini già maturi, non ben
      sicuri della materia, si sarebbero molto volontieri presentati
      all'esame necessario davanti al pretore; mentre poi, valorizzando
      sino all'estremo una qualunque capacità di leggere e scrivere,
      esso riusciva ad aggravare gli squilibri e le incongruenze del
      sistema vigente, nel non tenere conto di qualunque altro genere di
      capacità individuale e sociale. 
      
      Ma, come ho già accennato, la più forte obbiezione contro le
      proposte dell'onorevole Luzzatti, stava in questo: che invece di
      affrontare nel suo complesso la questione, ne proponeva una
      soluzione parziale. Ed a mio parere, poiché esigenze superiori di
      varia indole imponevano oramai la riforma elettorale, doveva
      essere cura del legislatore che cotali esigenze fossero al più
      possibile soddisfatte, per evitare il pericolo di dover tornare
      sopra al problema a breve scadenza.
      
      Era quindi d'uopo trovare altri criteri; non volendo io d'altra
      parte, con l'adozione del suffragio universale puro e semplice,
      esteso a tutti i cittadini, anche illetterati, sembrare di non
      fare alcuna distinzione fra chi è istruito e chi non è; fra chi
      adempie alla legge della istruzione obbligatoria e chi la viola; e
      togliere una spinta alla istruzione pubblica, e ciò appunto nel
      momento quando, col progresso delle industrie e del tecnicismo,
      nella stessa agricoltura; il problema della istruzione primaria si
      affermava sempre più come un problema di primissimo ordine ed una
      vera necessità per l'incremento economico e civile del paese. E
      conclusi col risolvere il complesso problema rinunciando al
      semplicismo del principio unico, ed adottando principi diversi,
      corrispondenti appunto alle diversità delle condizioni a cui ci
      dovevamo adattare. 
      
      E così presentai il mio progetto, che conteneva, riguardo
      all'estensione del suffragio, i punti seguenti:
      
      Primo: era mantenuto il diritto elettorale a
ventun anni per tutti
      coloro che sapessero leggere e
scrivere;  
      Secondo: era concesso il diritto elettorale a tutti coloro che
      avessero adempiuto agli obblighi del servizio militare;
      Terzo: diventavano elettori anche coloro che mancassero dei
      requisiti necessari dell'istruzione, quando compissero il
      trentesimo anno. 
      
      Il primo punto corrispondeva alla legge vigente. Il secondo punto,
      oltre la presunzione che chi abbia fatto il servizio militare ha
      già ricevuta una certa istruzione e non appartiene più alla
      categoria degli analfabeti, aveva per sé una elementare ragione di
      giustizia, essendo evidente che non si può negare il diritto della
      partecipazione alla vita politica del paese, a colui a cui si
      domanda di sottostare per la sicurezza comune al servizio militare
      e di essere disposto a dare la sua vita. Quanto al terzo punto, a
      parte la giusta differenziazione fra i diritti politici di chi
      adempia agli obblighi dell'istruzione e chi non li adempia, mi
      pareva che esistessero ragioni di carattere generale per le quali
      si poteva concedere il voto all'illetterato che abbia compiuto i
      trentanni, negandolo in età più giovanile. Le persone infatti che
      manchino di qualunque più elementare cultura, e non abbiano
      nemmeno compiuto lo sforzo per apprenderne i rudimenti, sforzo che
      è già ragione di una certa disciplina, sono indubbiamente più
      soggette alle suggestioni di idee estreme, tanto rivoluzionarie
      come reazionarie. 
      
      Nove anni di esperienza nella vita, quanti sono quelli che corrono
      fra il ventunesimo e il trentesimo anno, sono una buona scuola,
      che può, e per certi rispetti con vantaggio, sostituire
      l'istruzione elementare, specie nelle classi popolari dove gli
      individui devono presto assumersi la responsabilità della loro
      condotta e guadagnarsi il pane. L'uomo del popolo, che
      generalmente a trent'anni ha già famiglia e figli, diventa
      riflessivo e sedato, e non si lascia troppo agevolmente fuorviare
      dalle propagande di idee e propositi eccessivi. Del resto, il
      numero d' questi analfabeti che diventavano elettori a trent'anni,
      non era così grosso come si presumeva generalmente; i calcoli
      degli uffici da me incaricati di studiare il lato tecnico della
      legge, li portavano circa a ottocentomila; mentre il numero
      complessivo degli elettori era più che raddoppiato, salendo dai
      tre milioni e mezzo degli iscritti secondo la legge vigente, a
      circa otto milioni. 
      
      Si doveva d'altra parte attendersi ad una diminuzione notevole
      nella percentuale dei votanti, come poi fu confermato
      dall'esperienza; e ciò perchè solo gradatamente i nuovi iscritti
      avrebbero usato del loro diritto, e perchè una parte notevole dei
      nuovi elettori appartenenti alle classi popolari, era allontanata
      dalle correnti di emigrazione.
      
      L'introduzione degli illetterati nel suffragio importava
      necessariamente considerevoli modificazioni tee-
      niche, dovendosi conciliare l'esercizio del voto con l'eventuale
      incapacità a scrivere il nome del candidato, e con la necessità di
      mantenere il segreto dell'urna. Queste difficoltà furono
      genialmente superate con l'adozione di un sistema speciale di
      buste e di controllo, escogitato e proposto dal relatore della
      legge, on. Bertolini.
      
      Presentando il disegno di legge io lo corredai con un completo
      quadro delle legislazioni elettorali straniere, dalle quali
      risultava che il suffragio universale era già adottato in Europa,
      non solo dagli Stati più liberali ed avanzati in civiltà, ma anche
      da Stati di carattere conservatore e da altri di civiltà meno
      avanzata; — e cioè dalla Francia, dalla Germania, dall'Austria,
      dalla Spagna, dalla Svizzera, dal Belgio, dalla Norvegia, dalla
      Grecia, dalla Serbia, dalla Bulgaria, ed era nello stesso momento
      proposto per l'Ungheria; e che quanto a numero di elettori, in
      Italia ogni cento individui aventi l'età richiesta non erano
      elettori, col sistema ancora vigente, che trentadue, rimanendo
      così esclusi dalla vita politica il sessantotto per cento; mentre
      in tutti gli altri paesi di Europa, compresi quelli che non
      avevano ancora adottato il suffragio universale, la proporzione
      andava dal sessanta al novantotto per cento. Noi dunque, quanto ad
      estensione di suffragio, eravamo gli ultimi in Europa.
      
      Esponendo la battaglia combattuta contro il Monopolio delle
      Assicurazioni sulla vita, ho già accennato al fatto che
      l'accanimento di quella lotta, più che per quella legge stessa, si
      spiegava per quella del suffragio, mirandosi a colpire
      indirettamente il governo che l'aveva proposta.
      
      L'opposizione diretta alla legge per l'allargamento del suffragio
      non era facile; gli uomini politici, i deputati che vi si fossero
      impegnati dovevano sentire di esporsi, quando la legge fosse
      approvata, alla rappresaglia elettorale di coloro a cui essi
      avessero tentato di sbarrare la strada al conseguimento dei
      diritti politici,- e questa preoccupazione era per me un tacito
      omaggio al progetto stesso, ed un riconoscimento, sia pure
      dissimulato, che le condizioni per la sua adozione erano già
      mature nella coscienza politica del paese. Più tardi, nella
      discussione della legge, non vi furono che due deputati, l'on.
      Gaetano Mosca e l'on. Vincenzo Riccio, che lo combatterono
      direttamente, con argomenti che io non potevo accettare, ma che
      erano logici e rispettabili dal punto di vista conservatore. E si
      ebbe allora un singolare fenomeno; che mentre, di fronte a quella
      mia proposta, la più democratica che in cinquant'anni di vita
      nazionale fosse stata presentata da qualunque governo, la stampa
      conservatrice si manifestava assolutamente contraria, molti degli
      uomini politici appartenenti ai partiti più decisamente
      conservatori dichiaravano invece di accettarla. 
      
      Non c'era il menomo dubbio sulla sincerità di uomini, quali
      l'onorevole Sonnino, il quale pure essendo avversario del
      Ministero si dichiarava apertamente fautore della estensione del
      suffragio; ma c'era ragione di ritenere che in quel suo
      atteggiamento egli fosse seguito da pochi. Per chi ha l'abitudine
      di indagare le inclinazioni e seguire le manovre dei partiti,
      intese al conseguimento dei propri fini anche quando non credono
      opportuno confessarli, e che in questo caso era di fare naufragare
      la riforma elettorale, era evidente che si erano scelte, per
      combatterla, le vie indirette e traverse. Una delle manovre più
      interessanti per l'osservatore in questa battaglia consisteva, non
      solo nel non avversare la riforma, ma nel cercare anzi di
      svalutarla dichiarandola insufficiente; e non è ormai scienza
      occulta, dopo tanto scaltrimento parlamentare, che uno dei modi
      più efficaci per combattere una proposta, consiste
      nell'esagerarla. 
      
      E ricordo che vi fu allora chi propose di allargare il suffragio
      al di là dei miei intendimenti, con togliere quel limite dei
      trentanni che io aveva fissato per gli illetterati; altri che
      propose di dare senz'altro anche il voto alle donne; mentre altri
      ancora proponevano l'adozione dello scrutinio di lista, o
      l'applicazione del sistema proporzionale, tutti mezzi sicuri per
      raddoppiare gli ostacoli e rendere più difficile al governo di
      condurre la legge in porto; mentre altri proponeva che si
      approvasse la riforma, ma la sua applicazione fosse rimandata,
      tenendosi le prossime elezioni con le liste attuali.
      
      Altri ancora qualificavano la legge come un suffragio universale
      deformato per quelle limitazioni che vi avevo introdotte. Ora io
      ammetto che nelle leggi la massima semplicità sia l'ideale; ma
      esso non è sempre raggiungibile, perchè le leggi devono tenere
      conto anche dei difetti e delle manchevolezze di un paese, come
      nel nostro caso era l'analfabetismo, ed adattarsi ad essi. Un
      sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba
      anche all'abito.
      
      Non dirò che l'intenzione di ostruzionismo fosse in tutti coloro
      che avanzavano queste proposte atte a complicare le cose; ma era
      assai istruttivo il fatto che esse fossero sempre accolte e
      contrapposte al progetto del governo da quegli organi della
      pubblica opinione nei quali era evidente l'interesse e
      l'intenzione di fare naufragare la riforma, o di mutilarla o
      almeno di ritardarla. Quando fra l'aprile ed il maggio del 1912,
      la Commissione presieduta dall'onorevole Bertolini presentò la sua
      relazione e la legge venne in discussione, questi maneggi si erano
      assai attenuati, come era avvenuto per la legge del monopolio. Ed
      a tanto maggiore ragione. Era infatti intervenuta la guerra; e
      come si sarebbe potuto negare il pieno diritto alla cittadinanza
      politica ed alla partecipazione alLa vita dello Stato a quelle
      stesse classi a cui si domandava di dare la vita dei loro figli
      per l'incremento e per i più alti interessi politici del paese?
      
      La discussione fu pertanto assai blanda e la legge fu approvata in
      poche settimane. Rispondendo ai diversi oratori, ed esaminando
      alcune loro proposte dal governo non accettate, io dovetti toccare
      di alcune questioni che voglio ricordare.
      
      C'era la questione del voto alle donne, questione, io osservai,
      degna di ogni studio e di ogni ponderazione, poiché si trattava
      nientemeno che di una metà del genere umano. Ma, riguardo alla
      situazione delle donne, vi erano altre questioni da risolvere, che
      le concernevano, prima di addivenire alla considerazione della
      loro capacità politica. Anzitutto bisognava cominciare col
      modificare quelle leggi che restringono la indipendenza e la
      capacità della donna nel campo puramente civile, creando ad essa
      una speciale situazione di sottomissione. Poi prima del voto
      politico era il caso di provvedere per essa al voto
      amministrativo, come quello che poteva servirle da tirocinio per
      la comprensione dei suoi doveri e diritti politici. Ricordai poi
      che in proposito io avevo nominato una Commissione, affidandole il
      compito di studiare a fondo il problema; Commissione a cui avevano
      appartenuto persone assai autorevoli; fra gli altri i senatori
      Finali, Bodio, Brusa, Villari e i deputati Boselli, Bertolini,
      Nitti, Finocchiaro Aprile, Luigi Rossi ed altri. La Commissione
      aveva studiato lungamente ed ampiamente il problema; ed i
      risultati dei suoi studi erano stati raccolti in una lettera
      comunicatami il 5 luglio del 1911, dal suo Presidente, senatore
      Finali, nella quale lettera si dichiarava che nella sua ultima
      seduta la Commissione, a maggioranza, aveva approvato un ordine
      del giorno esprimente l'avviso che non fosse opportuno, per
      allora, concedere alle donne nemmeno il voto amministrativo. La
      Commissione però aveva ad unanimità approvato il concetto che si
      dovesse modificare il Codice Civile in quella parte che riguardava
      le donne, e più specialmente le donne maritate.
      
      Non ostante tale autorevole parere contrario, io non credevo che
      la questione del voto amministrativo alla donna si dovesse
      ritenere così negativamente risolta, e pensavo che potesse essere
      riproposta e ripresa in esame; ma ritenevo assolutamente prematura
      qualunque concessione di voto politico. E niente mostrava meglio
      tale inopportunità e immaturità, che il modo stesso con cui alla
      Camera si era condotta la discussione su quel punto. Si era, in
      conclusione, fatta piuttosto una questione accademica., di
      simpatia; ma nessuno c'era stato che avesse sostenuto con
      profondità di argomenti convincenti l'opportunità e l'utilità di
      creare altri sei milioni di elettori politici, quando il Codice
      civile manteneva ancora per le donne una condizione giuridica
      diversa ed inferiore. Il paese non avrebbe né compresa né
      approvata una simile riforma. Quanto poi alla opportunità,
      accennata da alcuni, di concedere il voto alle sole donne in
      condizione finanziaria, intellettuale e morale più elevata, quale
      si fosse la forza degli argomenti portati a sostenere tale
      proposta, essa non avrebbe potuto essere accettata; il valore di
      tali argomenti essendo annullato dall'inconveniente gravissimo di
      creare, con tale attuazione, dei privilegi che oltre che
      individuali, sarebbero stati necessariamente anche privilegi di
      classe.
      
      Si era pure avanzata la proposta di abbassare il limite di
      eleggibilità, indietreggiandolo dai trenta ai' venticinque anni.
      Era una proposta oziosa, perchè era già rarissimo il caso di
      deputati di trent'anni. Ad ogni modo se si voleva che la legge
      trovasse una maggioranza favorevole era bene non introdurvi troppe
      novità. Terminai con uno scherzo consigliando di lasciare questo
      desiderio di deputati più giovani per quando le donne avessero il
      voto.
      
      Si pose avanti nuovamente la questione del voto obbligatorio. Ma
      quando si estendeva il voto ad otto milioni di cittadini,
      l'obbligatorietà sarebbe stata un principio non liberale, e di
      difficilissima applicazione pratica. Il cittadino deve sentire il
      dovere di partecipare alla vita politica del suo paese. Se non lo
      sente, è meglio considerarlo come una quantità trascurabile. Se un
      cittadino di tal fatta non vota, è un bene.
      Fu allora in quella discussione, nominato per la prima volta il
      sistema proporzionale. Lo sostenne l'on. Cornaggia, del partito
      clericale, e ne parlò favorevolmente anche l'on. Sonnino nel suo
      discorso; mentre l'on. Caetani presentò un vero e proprio
      progetto, sostenendo che una tale riforma sarebbe stata l'unico
      rimedio per avere un Parlamento che corrispondesse perfettamente
      alle condizioni politiche del Paese. 
      
      Il progetto presentato dal Caetani era male congegnato anche
      tecnicamente e si sarebbe prestato alle più singolari manovre e
      sorprese; per cui, ad esempio, io sarei potuto diventare il
      rappresentante di un gruppetto di anarchici, o una mia elezione
      plebiscitaria a Cuneo, sarebbe stata annullata se qualcuno mi
      avesse fatto lo scherzo di iscrivermi prima in una lista di
      Girgenti. Ma, a parte questi scherzi, io ero avverso al sistema
      proporzionale, in primo luogo perchè lo ritenevo non conforme agli
      interessi generali del paese, dato che solo i partiti di minoranza
      erano organizzati in modo da potersene giovare; come del resto era
      dimostrato dall'esempio dei paesi in cui era stato esperimentato.
      A me pareva poi che quel sistema dovesse inevitabilmente produrre
      la difficoltà di creare maggioranze omogenee e compatte, capaci di
      costituire e sostenere un governo forte e duraturo.
      
      La riforma elettorale diventò legge nella prima metà del 1912, ma
      il prolungarsi della guerra di Libia rese necessario rimandare
      ancora per un anno e parecchi mesi le nuove elezioni, che in
      condizioni normali avrebbero dovuto essere tenute al più presto
      dopo l'approvazione di una legge che recando un mutamento così
      vasto e profondo nelle basi stesse della vita politica, toglieva
      inevitabilmente autorità ad una rappresentanza nazionale, alla cui
      scelta era concorso appena un terzo del nuovo elettorato. 
      
      I risultati delle prime elezioni col suffragio quasi universale,
      tenute nell'ottobre del  1913, smentirono le
      previsioni di una rivoluzione parlamentare, che era stato uno
      degli argomenti con cui gli organi conservatori nemici della
      riforma, l'avevano combattuta. Il numero dei deputati socialisti
      aumentò certo notevolmente, arrivando ad una cinquantina; e gli
      elementi che facevano capo al partito clericale, allora non ancora
      trasformato, esercitarono una maggiore influenza in numerosi
      collegi; ma nel complesso i partiti liberali mantennero le loro
      posizioni più anche che non fosse necessario per un esercizio
      efficace del potere.
      
      Quando dopo la guerra, essendo passati oltre sei anni dal primo
      esperimento della riforma elettorale, gli elettori mandarono al
      Parlamento oltre centocinquanta deputati socialisti ed un
      centinaio di popolari, mutando così profondamente la situazione
      parlamentare, e rendendo assai diffìcile e precario l'esercizio
      del governo liberale, ci fu chi volle disseppellire quelle antiche
      previsioni pessimiste, facendo ricadere sulla riforma del
      suffragio del 1912 la responsabilità di quei mutamenti e delle
      loro conseguenze. Ma, per ragione della guerra, nuove, ampie
      estensioni del suffragio si erano prodotte; i quattro milioni e
      mezzo di nuovi elettori creati dalla mia riforma essendosi più che
      raddoppiati in seguito a nuovi provvedimenti; mentre poi sarebbe
      assurdo non tenere conto del concorso dei fattori morali della
      guerra nel produrre quella nuova situazione. 
      
      Ma a parte questo, si può domandare se con una guerra, la quale
      aveva chiamati a portare le armi e ad arrischiare la loro vita
      oltre cinque milioni di italiani, in molta parte usciti dalle
      classi popolari, e in cui si era avuto un mezzo milione di morti e
      un milione e mezzo di feriti; si può domandare, dico, se vi sia
      alcuno, anche fra i più tenaci conservatori, che si illuda che si
      potesse richiedere ad un popolo un così immane sacrifizio,
      negandogli nello stesso tempo il diritto a partecipare, alla vita
      pubblica del paese. Ed io ritengo che fu cosa provvida che il
      popolo italiano in tutte le sue classi fosse stato investito del
      diritto di partecipare alla sovranità dello Stato, prima che egli
      fosse chiamato  ai sacrifizi gravissimi della guerra.
      
    
Gli antecedenti della guerra libica — Gli accordi con la
        Francia, Inghilterra e Russia e un memorandum aggiunto al
        Trattato della Triplice — Quali furono le ragioni che mi
        determinarono all'impresa —La scelta del momento — La politica
        antitaliana della Porta: minacce e agitazioni — Nostri moniti al
        governo turco — La preparazione diplomatica — Cordiale
        atteggiamento dell' Inghilterra, Francia e Russia — Difficile
        situazione dei nostri alleati: l'atteggiamento di Aehrenthal —
        Tentata intromissione conciliatrice del barone Marshall —
        Kiderlen-Wachter sconsiglia l'azione — Una campagna
        internazionale di stampa contro l'Italia — La preparazione
        militare —Perchè non cercammo d'attaccare la flotta turca —
        L'episodio del « Derna » — Il nostro ultimatun — La
        risposta  evasiva turca e la dichiarazione di
        guerra.
      
      Un terzo punto del programma con cui avevo assunto il governo,
      come già ho accennato, era la soluzione del problema della Libia;
      problema che trovavasi davanti all'Italia ormai da parecchi anni,
      dopo che gli accordi intervenuti fra la Francia e l'Inghilterra,
      fra la Francia e la Germania, e fra la Francia e la Spagna, con
      l'assenso nostro e delle altre Potenze, avevano risolto con le due
      questioni dell'Egitto e del Marocco, il problema generale
      dell'Africa mediterranea, riconoscendo all'Italia interessi e
      diritti predominanti sulla Tripolitania e la Cirenaica.
      
      Naturalmente, come ho già osservato, questo punto del mio
      programma di governo doveva rimanere segreto; la segretezza
      essendo un elemento essenziale per la migliore soluzione del
      problema. Tale reticenza fu considerata da taluni critici prima
      dell'evento come una rinuncia; mentre altri, quando entrammo in
      azione, giudicarono che l'impresa fosse stata improvvisata e
      precipitata, e ciò come un mezzo per fiaccare le opposizioni
      conservatrici alle due leggi della riforma elettorale e del
      monopolio. Ora è vero che l'essere l'Italia impegnata nella
      impresa di Libia ebbe l'effetto di disarmare certi intrighi che si
      ordivano contro quelle leggi, e si comprende che quando un paese
      si trova in guerra, i conflitti degli interessi e delle opinioni
      rimangono notevolmente attenuati. Ma ciò era una semplice
      conseguenza, cosa ben diversa da un proposito e da una manovra
      intenzionale, che sarebbero state contrarie alla avversione che io
      ho sempre avuta, di cercare diversivi all'estero per i conflitti
      della politica interna. D'altronde sarebbe stato assurdo pensare a
      diversivi mentre i dissensi sulla politica interna erano tenui e
      secondari, e la soluzione della questione libica invece
      interessava veramente e largamente la pubblica opinione.
      
      Che io mi rendessi conto dell'importanza del problema dell'Africa
      mediterranea, e della necessità che l'Italia non fosse esclusa
      dalla sua soluzione, l'avevo già dimostrato sino da quando ero
      entrato nel Parlamento, dando la mia adesione ad un gruppo, che si
      differenziava dal resto della Sinistra, appunto perchè
      rimproverava al suo capo, Cairoli, la faccenda di Tunisi; ed avevo
      pure disapprovato il governo che non aveva accolto l'invito
      dell'Inghilterra di partecipare alla sua azione in Egitto. Dopo
      conclusi poi gli accordi con la Francia e con l'Inghilterra, col
      riconoscimento del nostro primario interesse nella Libia a
      compenso del nostro disinteressamento nel Marocco e nell'Egitto,
      io non avevo mai perduto di vista la questione nel suo aspetto
      diplomatico; ed avevo ottenuto, al tempo della visita dello Czar a
      Racconigi, il riconoscimento dei nostri diritti su quella zona da
      parte della Russia; mentre poi all'articolo nove della Triplice,
      che parlava già di una nostra eventuale occupazione della
      Tripolitania, «a titolo di legittimo compenso», in un posteriore
      promemoria, relativo al rinnovamento dell'Alleanza, datato del
      maggio 1902, era stata aggiunta, per nostra richiesta, una
      dichiarazione pura e semplice di disinteressamento della Germania
      e dell'Austria-Ungheria per la questione della Libia, senza
      nessuna loro riserva di compensi.
      
      Durante poi il mio precedente governo io mi ero direttamente
      occupato della eventualità che l'Italia dovesse affrontare
      l'impresa di Libia; e col criterio di compiere una preparazione
      locale, per profittare dei conflitti e dissensi e malumori
      politici dei capi locali con le autorità turche, avevo fatto agire
      in Cirenaica e in Tripolitania certi miei agenti, fra cui ricordo
      Mohamed Ali Elui Bey, un egiziano che aveva già reso altre volte
      servizi all'Italia, e che si mise in relazione col capo dei
      Senussi; ed altre persone,  che  non  conviene
      nominare  perchè  essendo ancora  vive 
      potrebbero  essere  esposte  a vendette, le quali
      pure si erano  affiatate con l'elemento  senussita 
      della  università  islamica  del 
      Cairo.   
      
      Se   la soluzione del problema libico non appariva
      necessariamente militare mentre durava il regime di Abdul Hamid,
      dal quale pareva che si potessero ottenere concessioni, di
      carattere economico e giuridico, tali da assicurare gli interessi
      italiani contro qualunque altra mira o appetito, le cose avevano
      mutato assai con l'avvento del regime dei Giovani Turchi. Costoro
      avevano eccitato dovunque il sentimento politico e fanatico delle
      popolazioni, indirizzandolo particolarmente contro 
      quella  potenza da  cui credevano  di avere
      sopratutto  da temere in  una data zona del loro 
      impero:  e per la Libia la potenza tenuta in sospetto era
      naturalmente l'Italia. 
      
      Il Banco di Roma aveva in quegli ultimi anni stabiliti in
      Tripolilania e Cirenaica interessi notevoli, che il Governo
      italiano aveva il dovere di tutelare; e se la Turchia avesse avuta
      una chiara visione della situazione, si sarebbe ben guardata dal
      creare a quegli interessi difficoltà, imbarazzi e minaccie di
      rivalità, che dovevano prima o dopo avere l'effetto di costringere
      l'Italia a intervenire. Ricordo che quando noi richiamavamo
      l'attenzione della Porta su queste cose e sulla necessità di non
      ostacolare, anzi favorire gli interessi italiani  in 
      Libia,  essa  ci  rispondeva evasivamente  e
      facendoci delle offerte che a prima vista parevano assurde; così
      una volta, mentre ce le negava in Tripolitania, ci offerse delle
      concessioni nientemeno che in Mesopotamia. Non era un'assurdità,
      ma una astuzia raffinata, anzi troppo raffinata per avere un
      risultato. Con tali offerte la Porta mirava ad imbrogliare le
      carte ed a creare dissensi e conflitti fra le Potenze diversamente
      interessate nelle varie zone dell'Impero Ottomano; noi infatti in
      Mesopotamia ci saremmo urtati con gli interessi tedeschi ed
      inglesi, gli inglesi e i tedeschi in Libia si sarebbero urtati con
      gli interessi italiani.
      
      Tale era, nelle grandi linee, la situazione del problema della
      Libia quando nel 1911 io assunsi nuovamente il governo; cioè una
      situazione peggiorata e che rendeva ormai difficile assai, se non
      addirittura impossibile, una sua pacifica soluzione, quale forse
      anteriormente avrebbe potuto essere accettata. Di tutto questo da
      principio non parlai che con quello dei miei colleghi, che era il
      più direttamente interessato, e al quale competeva la preparazione
      diplomatica iniziale: l'on. San Giuliano. Egli si trovò pienamente
      d'accordo meco e mi fu poi validissimo collaboratore per la sua
      parte, sia nella preparazione dell'impresa sia nella sua finale
      soluzione. 
      
      L'on. San Giuliano, di cui ricordo sempre la fidata amicizia e il
      grande disinteresse patriottico, era uomo di ingegno pronto,
      sottile, ed equilibrato ad un tempo; e che si era fatta
      rapidamente per la politica estera una larga e sicura
      preparazione, avendo anche coperti i posti di ambasciatore a
      Londra e a Parigi. Egli aveva la capacità, piuttosto rara, di
      considerare le questioni in tutte le loro faccie prima di prendere
      una risoluzione: come pure di fare giusta ragione alle critiche
      che si potevano.opporre alle sue vedute, assimilando le opinioni
      degli altri. Possedeva poi una singolare facilità, una volta
      compresa una questione nel suo complesso, di farne una esposizione
      chiara e semplice;  e particolarmente felice era nella
      redazione di documenti diplomatici, che devono essere compilati in
      modo che esprimano tutto ciò che si deve e vuol dire,  senza
      dare  appigli a ritorsioni.  Ricordo  che spesso,
      dopo una conversazione che egli aveva meco, nella quale
      esaminavamo una questione nei suoi vari aspetti e prendevamo una
      decisione, egli si ritirava in una stanza attigua al mio studio,
      ed in pochi minuti compilava la nota diplomatica, che dopo
      un'ultima revisione fatta insieme veniva spedita. 
      
      Egli mi teneva sempre informato, anche quando eravamo lontani,
      minutamente di tutto, e non prendeva alcuna deliberazione senza
      prima essersi messo d'accordo con me. Il solo punto in cui io non
      ero d'accordo con lui, era una certa tendenza che egli aveva di
      spingersi avanti troppo rapidamente; ma bastava poco per fargli
      subito riconoscere la convenienza di andare più adagio e ponderare
      più lungamente. Ad un certo punto della sua carriera egli si era
      disinteressato interamente dalla politica generale e da qualunque
      altra questione che non fosse di politica estera,  per
      la  quale intendeva di specializzarsi;  ed a questo
      scopo appunto mi aveva chiesto di farlo nominare Senatore, perchè
      l'ambiente della Camera, con le sue lotte politiche e con le
      necessità elettorali, gli impediva di seguire completamente questa
      sua inclinazione.
      
      Quando la guerra con la Turchia fu dichiarata, ci fu chi almanaccò
      sulle ragioni che potevano avere spinto il governo a questa
      decisione, la quale a chi ignorasse i precedenti doveva parere
      appunto improvvisata. E si parlò di ragioni segrete, le quali
      avrebbero  ad un  certo  punto  vinte le mie
      esitanze. Niente di vero vi è in tutto questo. 
      
      Le ragioni che mi persuasero della necessità di agire, erano
      ragioni di carattere politico generale. Una volta risolta la
      questione del Marocco da una parte con lo stabilimento del
      predominio francese, e quella dell'Egitto dall'altra, col
      riconoscimento diplomatico del predominio inglese, stabilitovi di
      fatto da lungo tempo, le condizioni di cose in cui rimaneva la
      Libia, sotto il dominio ottomano, erano tali da non poter
      continuare. Mentre infatti l'Africa occidentale, da Tunisi al
      Marocco, e l'Egitto si trovavano sotto l'egida di amministrazioni
      europee, nella Libia prevalevano ancora condizioni
      straordinariamente arretrate; basta ricordare che a Bengasi c'era
      ancora il commercio degli schiavi, che venivano presi con la
      violenza; nel centro d'Africa e venduti su quel mercato. Era
      impossibile  che una  simile infamia fosse tollerata
      alle porte d'Europa. 
      
      Noi, nei negoziati con la Francia e l'Inghilterra per le questioni
      egiziane e marocchine, ci eravamo fatti attribuire dei diritti,
      dei quali avevamo ottenuto il riconoscimento anche da parte delle
      altre maggiori potenze; e doveva venire, e per me era venuto o era
      imminente il momento nel quale noi ci trovavamo in questa
      alternativa: o esercitare senz'altro questi diritti o rinunciarvi.
      Lo stato di cose esistente non poteva durare, e data la condotta
      dei Giovani Turchi, se in Libia non fossimo andati noi, ci sarebbe
      andata qualche altra potenza in qualche modo interessata
      politicamente, o che vi avesse creato degli interessi economici. 
      
      D'altra parte l'Italia, che si era già così profondamente commossa
      per l'occupazione francese di Tunisi, non avrebbe certamente
      tollerata una ripetizione di un evento di quel genere per la
      Libia; e così noi avremmo corso il rischio di un conflitto con
      qualche potenza europea, cosa senza confronto più grave di un
      conflitto con la Turchia. Perseverare nella situazione in cui ci
      trovavamo, di avere messa una ipoteca sulla Libia, ciò che
      impediva agli altri di andarci, senza poi andarvi noi, sarebbe
      stata una cosa non seria, e che del resto ci creava difficoltà in
      tutte le altre questioni europee, e particolarmente in quelle dei
      Balcani. 
      
      Un'altra complicazione derivava dal fatto della politica turcofila
      in cui si erano impegnati allora i nostri alleati, sopratutto la
      Germania, e che si trovava in contrasta con il trattamento che il
      governo di Costantinopoli faceva agli interessi italiani; così che
      San Giuliano, nelle sue comunicazioni coi governi di Berlino e di
      Vienna sosteneva la tesi, in apparenza paradossale, che l'unico
      modo per ristabilire l'amicizia fra noi e la Turchia, e rendere
      possibile una politica armonica della Triplice Alleanza
      nell'Impero Ottomano, era che noi occupassimo la Tripolitania.
      
      Per queste ragioni capitali, appena formato il Ministero, San
      Giuliano ed io ci trovammo d'accordo che l'occupazione della Libia
      era una questione da tenere di mira. San Giuliano, che per la
      Libia sentiva un interesse più speciale, nella sua qualità di
      siciliano, aveva maggiore fretta, e riteneva conveniente di agire
      prima che fosse risolta la questione grave assai, allora pendente
      fra la Francia e la Germania, pel Marocco. Egli sosteneva che se
      noi avessimo agito mentre l'opinione pubblica europea era assai
      preoccupata dei pericoli della questione marocchina, la nostra
      azione avrebbe attratta minore attenzione e sarebbe, come si dice,
      passata più facilmente. Tittoni esprimeva una opinione eguale da
      Parigi, con argomenti diversi; egli pensava che l'impresa libica
      non avrebbe trovate opposizioni in Francia mentre vi perdurava la
      preoccupazione della questione marocchina; ma temeva che una volta
      quella questione risolta, il governo francese, con tutta la
      migliore buona volontà di mantenere gli impegni presi con noi per
      la Libia, si sarebbe trovato sotto la pressione del partito
      coloniale francese, assai potente, il quale non avrebbe mai visto
      di buon occhio che l'Italia s'insediasse vicino alle colonie
      francesi nell'Africa settentrionale. 
      
      Sulla opportunità di agire subito io ero d'opinione diversa. Io
      pensavo che l'Italia non dovesse muoversi fino a che non fosse
      risolta appunto la questione marocchina, che nei primi tempi del
      mio nuovo Ministero era ancora aperta fra la Francia e la
      Germania, e traversava anzi il suo momento più difficile e
      pericoloso. Tale questione era infatti di tanta importanza, che
      poteva essere la scintilla della conflagrazione europea; ed io
      ricordo che in quei giorni l'Ambasciatore di Francia, Barrère, mi
      aveva accennato al pericolo che per la questione del Marocco
      scoppiasse la guerra fra il suo paese, che non intendeva di subire
      più l'umiliazione inflitta al Delcassé, e la Germania, i cui
      propositi apparivano oscuri. Ora, finché pendeva questa minaccia
      di una guerra europea, noi, a mio parere, nulla dovevamo fare che
      potesse complicare la situazione, e sopratutto nei rapporti fra la
      Francia e la Germania; sia per non assumere la grave
      responsabilità di avere contribuito alla conflagrazione generale;
      sia perchè se la guerra europea fosse scoppiata, era nostro
      evidente interesse di trovarci interamente liberi, e non impegnati
      in una impresa che avrebbe complicata la nostra situazione. 
      
      Si aggiunga ancora che, aspettando la fine della questione
      marocchina, la questione della Libia si sarebbe presentata sul
      campo diplomatico interamente isolata, nel quale caso era assai
      più facile ottenere il consenso di tutti; mentre, se noi agivamo
      mentre era aperta un'altra questione, che interessava così
      profondamente alcune delle maggiori Potenze europee, il consenso
      ci sarebbe stato mercanteggiato e condizionato dalle varie parti,
      con l'effetto di complicare assai le cose.
      
      Però, oltre a queste, di carattere politico e diplomatico, di
      altre complicazioni si doveva tenere conto, di carattere militare.
      Noi sapevamo che i porti della Libia non possedevano
      fortificazioni o solo fortificazioni invecchiate, tali da non
      potere opporre alcuna resistenza all'attacco di una flotta
      moderna; e che le guarnigioni turche a Tripoli, Derna, Bengasi,
      Tobruk, Misurata, ecc. erano esigue e tali da non potere opporsi
      ai nostri sbarchi. La flotta ottomana, costituita di poche e
      vecchie navi, non poteva pure fare ostacolo alle nostre
      operazioni. Ma era noto però che il governo Giovane Turco stava
      lavorando a rimettere in piena efficienza l'assetto militare
      dell'Impero, e per la flotta si erano date o si stavano per dare
      importanti ordinazioni per dreadnoughts e cacciatorpediniere ai
      cantieri inglesi. A parte questi preparativi di carattere
      generale, nulla avrebbe impedito al governo ottomano, quando
      avesse avuto sentore delle nostre intenzioni, di portare in Libia
      forti reparti di truppa, e di rafforzare la resistenza contro
      sbarchi con mine e torpedini. 
      
      In secondo luogo bisognava tenere conto delle condizioni del mare
      nelle diverse stagioni, considerando sopratutto che gli sbarchi
      nei porti della Tripolitania e peggio in quelli della Cirenaica,
      erano resi assai difficili per la mediocrità dei mezzi di cui quei
      porti disponevano. Grossi sbarchi improvvisi, quali si richiedono
      per una spedizione militare che deve procurarsi il vantaggio della
      sorpresa, non erano possibili, per le condizioni del mare, fra il
      dicembre ed il maggio; l'impresa quindi, o doveva farsi in autunno
      o rimandarsi all'anno seguente, cosa, per le ragioni dette, assai
      pericolosa. 
      
      Un'altra considerazione favoriva la scelta della stagione
      autunnale, quando cioè si andava verso l'inverno: il nostro
      proposito cioè di isolare l'azione libica il più possibile, ed
      evitare sopratutto ripercussioni nei Balcani, che l'esperienza
      mostrava assai meno probabili nella stagione invernale, quando la
      neve rende molto difficili, in quel paese montuoso, i movimenti
      militari ed anche le incursioni di semplici bande armate.
      
      Quando dunque la questione marocchina fra la Francia e la Germania
      fu pacificamente risolta, io giudicai che fosse giunto il momento
      di agire.
      
      La condotta del governo dei Giovani Turchi aveva nel frattempo,
      anziché mitigata, aggravata la situazione. A Tripoli
      particolarmente, il Vali, istigato e spalleggiato dal comitato
      locale «Unione e Progresso», moltiplicava gli atti di dispregio
      verso i cittadini italiani, e cercava ogni pretesto per
      ostacolarne l'attività e danneggiarli. Le cose erano giunte a tal
      punto che il Banco di Boma, che aveva specialmente stesi i suoi
      interessi  commerciali nella Tripolitania, vedendosi esposto
      a gravi danni, parve avesse aperte trattative per cedere tutti
      questi suoi interessi ad un gruppo di banchieri austro-tedeschi. E
      bisognava per la verità riconoscere che da quasi ormai due anni la
      Porta si mostrava affatto sorda a tutti i nostri reclami ed alle
      nostre proteste; lasciando anzi intravedere chiaramente il
      desiderio di sradicare qualunque influenza italiana dalla Libia,
      provocando nello stesso tempo l'entrata in campo di altri
      interessi, specialmente tedeschi, con l'evidente intenzione di
      crearvi una condizione di cose che alla lunga avrebbe intaccati
      gli stessi diritti politici che dalle altre Potenze ci erano stati
      riconosciuti. 
      
      L'importanza decisiva dell'elemento commerciale nel determinare la
      validità degli interessi politici, sia pure tradizionali, è uno
      degli aspetti della colonizzazione moderna; e il governo ottomano
      con la sua politica intesa ad ostacolare l'affermazione della
      nostra supremazia economica in Libia, insidiandola con concessioni
      offerte o promesse a cittadini di altre Potenze, e togliendoci
      così l'alternativa di una penetrazione pacifica, non solo rendeva
      inevitabile, ma affrettava l'occupazione militare italiana, dando
      ad essa le migliori ragioni. 
      
      Fra l'altro, come esempio di queste macchinazioni contro gli
      interessi italiani, va ricordato che, dovendosi in quel tempo fare
      l'aggiudicazione per lavori notevoli di estensione ed adattamento
      del porto di Tripoli, il governo di Costantinopoli, stabilendo di
      bandire un'asta pubblica, aveva lasciato intendere di essere
      disposto a fare di tutto per impedire che essa fosse aggiudicata
      ad un italiano. Sino dal luglio noi, anche per mezzo dei nostri
      alleati, cercammo di fare comprendere al governo turco che
      continuando per quella strada avrebbe rese inevitabili nostre
      decisioni radicali; e che, per migliorare le relazioni fra i due,
      paesi, s'imponevano alcuni provvedimenti, fra i quali la
      sostituzione dell'allora Vali, principale persecutore dei nostri
      interessi, ed ormai troppo decisamente compromesso in una politica
      antitaliana perchè si potesse sperare in un suo ravvedimento
      sincero e leale. 
      
      L'Aehrenthal, allora alla testa del governo austro-ungarico, e il
      Cancelliere tedesco, Kiderlen-Wächter, riconobbero la giustezza
      delle nostre lagnanze e la legittimità delle nostre domande; ma,
      da certi loro accenni pare che essi pensassero che i Giovani
      Turchi dopo gli atteggiamenti nazionalisti che avevano presi, e
      sui quali fondavano il loro prestigio, non si trovassero in
      condizione di fare reali concessioni, senza esporsi ad un grave
      indebolimento di quel prestigio, con la possibile conseguenza
      anche di una caduta del loro regime. E che il governo turco non
      avesse alcuna volontà di venire incontro alle nostre eque
      esigenze, anzi credesse di potersi prendere con noi qualunque
      libertà, anche fuori della questione libica, fu in quel torno
      dimostrato da un altro fatto diplomatico assai grave. 
      
      Avendo bisogno di fondi, la Porta stava negoziando con la Germania
      e l'Austria-Ungheria un aggravamento del quattro e mezzo per cento
      sulle tariffe doganali; e noi fummo informati che, una volta
      ottenuto il consenso delle altre Potenze a tale aumento, esso
      intendeva mettere l'Italia di fronte al fatto compiuto, ed
      applicare la nuova tariffa alle merci italiane senza alcun
      preventivo negoziato. Siccome il consenso delle altre Potenze era
      ottenuto in base a compensi ed a concessioni, era evidente che
      anche per quella occasione il governo turco, non solo si proponeva
      di evitare qualunque discussione di compensi e concessioni
      col-l'Italia; ma credeva di poter compiere contro di noi un aperto
      atto di dispregio, che avrebbe gravemente danneggiato in tutto
      l'Oriente il nostro prestigio, già assai scosso, secondo le
      relazioni dei nostri consoli, in Tripolitania, come conseguenza
      delle prepotenze a cui vi erano stati sottomessi i nostri
      connazionali.
      
      La conclusione della questione marocchina aveva poi avuto notevoli
      e inevitabili ripercussioni nell'opinione pubblica italiana, quale
      era espressa nella stampa. La stampa si occupava largamente della
      questione dell'Africa mediterranea; ed anche giornali cauti e
      moderati non nascondevano che la conclusione dell'accordo
      franco-tedesco pel Marocco, che dava finalmente, senza più
      ostacoli e riserve, alla Francia ciò che le era stato riconosciuto
      nella convenzione conclusa con l'Italia, rendeva ormai imperativo
      di definire chiaramente, ed una volta per sempre, nella realtà gli
      interessi ed i diritti che erano stati riconosciuti anche a noi.
      Definizione che avrebbe potuto anche essere pacifica, se a
      Costantinopoli si fosse avuto un chiaro concetto della situazione,
      e si fosse compreso che l'unico modo di evitare un conflitto, era
      di venire incontro lealmente all'Italia. Le lettere e i telegrammi
      da Tripoli portavano invece ad ogni momento notizie di nuovi
      soprusi, i quali, per quanto mediocri e secondari ognuno per sé
      stesso, presi tutti insieme costituivano un grave danno economico
      e politico; mentre le notizie da Costantinopoli, riconfermate dai
      dispacci della nostra ambasciata, e perfino dalle corrispondenze
      di giornali esteri, dipingevano la Porta in atto di spregio e di
      sfida verso di noi.
      
      La considerazione generale dei nostri interessi nell'Africa
      mediterranea, congiunta, a quelle notizie che dimostravano essere
      in pericolo, non solo gli interessi economici, ma anche il nostro
      prestigio e la nostra dignità nazionale, finirono per determinare
      una vera campagna in molta parte della nostra stampa, che chiedeva
      senz'altro la soluzione della questione libica, con largo consenso
      da parte della pubblica opinione. La ripercussione del linguaggio
      dei nostri giornali, tanto in Tripolitania che a Costantinopoli,
      fu assai curiosa e contradditoria. Quel tanto di opinione pubblica
      che vi era in Turchia, e che era totalmente dominata dai Giovani
      Turchi, cominciò anch'essa ad agitarsi; si tennero sedute dei
      Comitati «Unione e Progresso», nei quali si protestava contro
      qualunque; concessione all'Italia in Libia; si eccitava il governo
      a mandare truppe ed armi a Tripoli e a Bengasi; si minacciava di
      istituire un boicotaggio generale in tutto l'Impero contro le
      merci italiane; e si accennava persino al proposito, nel caso di
      guerra, di espellere tutti gli italiani dai territori dell'Impero.
      
      
      A Tripoli la situazione era più complicata. I rapporti dei nostri
      consoli avevano già richiamata la nostra attenzione al fatto che
      il regime turco non era affatto popolare fra gli arabi, che ne
      erano continuamente vessati; e non mancavano dei capi influenti,
      quale il sindaco di Tripoli, Hassuna pascià, discendente della
      antica famiglia reale del paese, che non si mostravano alieni
      dall'affiatarsi con noi. I nostri consoli non si fecero però mai
      eccessive illusioni in proposito; presumendo che, in caso di
      guerra, l'appello al fanatismo islamico ed al nazionalismo non
      sarebbero riusciti vani. Infatti i Comitati locali dell'«Unione e
      Progresso> iniziarono per tempo una campagna di nazionalismo e
      fanatismo, convocando i capi e le popolazioni arabe nelle moschee,
      per manifestazioni di protesta contro l'Italia; ottenendo nel
      principio una risposta mediocre, che andò però a mano a mano
      infervorandosi e aumentando.
      
      Il contegno del governo turco fu assai vario, ed
andò mutando con
      lo svolgersi degli avvenimenti.
Esso tentò dà principio la maniera
      forte. L'incaricato d'affari turco, il giorno quattro agosto si
      presentò alla Consulta, e nell'assenza del San Giuliano
parlò in
      modo altero al sottosegretario, lagnandosi
che l'ostilità verso la
      Turchia che si andava manifestando nell'opinione pubblica e
      perfino nel Parlamento, non fosse moderata da esplicite
      dichiarazioni ufficiali del governo italiano; e concluse dicendo
      che la mancanza di un'azione energica da parte nostra avrebbe
      potuto turbare i rapporti fra i due paesi. Il sottosegretario,
      onorevole Di Scalea, premettendo che egli non poteva .accettare
      tale intonazione di linguaggio né prendere nemmeno atto di quella
      comunicazione, osservò che la Turchia doveva solo a sé stessa la
      sollevazione dell'opinione pubblica italiana, per gli innumerevoli
      atti di ostilità che essa aveva lasciato compiere da suoi
      funzionari, e particolarmente dal Vali di Tripoli. 
      
      San Giuliano informò della cosa De Martino, che reggeva
      l'Ambasciata di Costantinopoli, dandogli anche incarico di
      lasciare chiaramente intendere al Ministro degli Esteri turco, che
      se la condotta delle autorità turche verso i nostri interessi in
      Tripolitania non fosse mutata, le conseguenze potrebbero essere
      più gravi assai che gli articoli dei giornali e i discorsi dei
      deputati. Era un parlar chiaro e leale il nostro, che però non
      ebbe alcun effetto; ed io tengo a rilevarlo contro l'accusa fatta
      a noi di avere consumata una aggressione improvvisa ed
      ingiustificata. In fondò la Turchia, come ci comunicava il nostro
      addetto militare, riferendo sulla lentezza ed inadeguatezza dei
      preparativi militari turchi per la difesa della Libia, non credeva
      né alla nostra capacità di agire né alla nostra potenzialità
      militare, e calcolava quindi che una nostra spedizione avrebbe
      implicata una lunga e visibile preparazione che le avrebbe dato
      tutto il tempo necessario per preparare la difesa. 
      
      Neanche i moniti di qualche ambasciatore estero ebbero effetto.
      Solo all'ultimo momento, anzi quando già la nostra flotta era
      davanti a Tripoli ed entrava in azione, rivolgendosi alla Germania
      e ad altre potenze perchè intervenissero come pacieri, fece
      promesse di concessioni di ogni genere, e si dichiarò disposta a
      riparazioni pel passato. Era troppo tardi, e le promesse fatte in
      quelle condizioni e circostanze erano la riprova della scarsissima
      fede che si poteva avere in quel governo.
      
      D'altra parte, durante tutto questo periodo preparatorio, che andò
      dal giugno al settembre, io ritenni conveniente di condurre avanti
      un'opera di preparazione diplomatica presso le Potenze in
      qualunque modo interessate; opera che fu intensificata quando
      l'occupazione della Libia divenne per noi una decisione
      irrevocabile, ed anzi di imminente attuazione.
      
      Anche in questo bisognava però procedere con molta prudenza, per
      non dare allarmi e non provocare complicazioni. Si trattava di
      risolvere la situazione libica, che non poteva più protrarsi senza
      danno ai nostri interessi ed al nostro prestigio, senza allarmare
      l'Europa riguardo alla questione ottomana, che si temeva potesse
      provocare una confagrazione generale. C'era dunque il pericolo, se
      le nostre intenzioni diventassero  troppo  apparenti,
      che a qualche potenza venisse l'idea di darci dei consigli, e che
      in tal modo s'intavolasse una discussione generale che poteva
      compromettere tutto, dando tempo alla Turchia per una forte
      preparazione bellica nel territorio che dovevamo occupare. Per
      tanto la preparazione diplomatica, che pure era necessaria per
      creare intorno alla nostra impresa, quando si iniziasse, un
      sentimento di benevolenza o almeno per evitare avversioni troppo
      forti ed aperte, doveva consistere nel tenere le Potenze al
      corrente della diffìcile condizione in cui la condotta del Governo
      turco poneva l'Italia, e lasciare comprendere che noi potevamo
      essere costretti, prima o dopo, ad agire, senza però nulla
      precisare al riguardo.
      
      Inviammo quindi le opportune istruzioni ai nostri ambasciatori
      nelle grandi capitali. Il nostro ambasciatore a Londra, marchese
      Imperiali, trovò la strada abbastanza facile presso il Governo,
      mentre il contegno della stampa non era ugualmente favorevole.
      Parlando con Sir Edward Grey, allora ministro degli Esteri, il
      nostro ambasciatore mise in rilievo la longanimità veramente
      esemplare di cui il Governo italiano aveva dato prova, pel suo
      desiderio di evitare complicazioni, ma senza però riuscire a
      persuadere i Giovani Turchi a mutare la loro condotta, ora
      nascostamente ora apertamente ostile. Tale ostilità si era andata
      anzi sempre più aggravando; così che il nostro governo non si
      troverebbe più in grado di resistere  alla  opinione
      pubblica,  reclamante la tutela degli interessi e della
      dignità nazionale. 
      
      Questa comunicazione ebbe luogo il 26 luglio. Grey l'accolse con
      molta cordialità. Egli dichiarò che già precedenti accenni
      l'avevano reso edotto delle difficoltà della nostra situazione, e
      che un esame di questa l'aveva persuaso che le nostre lagnanze
      erano pienamente fondate. Se pertanto l'Italia, a tutela dei suoi
      diritti conculcati, e fallito ogni possibile tentativo per una
      soluzione pacifica della questione, si trovasse costretta ad
      agire, l'Inghilterra non solo nulla farebbe contro, ma le
      concederebbe l'appoggio della sua simpatia, beninteso solamente
      morale, riservandosi, al momento opportuno, di fare sentire a
      Costantinopoli che la Turchia non poteva aspettarsi dall'Italia
      trattamento diverso dato il suo scorretto procedere verso di essa.
      
      
      Grey osservò ancora, sempre a titolo di consiglio amichevole e
      personale, che gli pareva fosse indispensabile che la nostra
      eventuale azione fosse giustificata da una flagrante violazione
      dei nostri diritti, o dalla patente dimostrazione del proposito
      della Turchia di porci in Tripolitania in condizioni di
      inferiorità rispetto alle altre nazioni. Insistette su questo
      punto specialmente nel senso di evitare qualunque apparenza che la
      nostra azione fosse determinata dal desiderio da parte nostra di
      ottenere dalla Turchia una posizione economica basata su
      particolari interessi, perchè una tale apparenza gli avrebbe reso
      difficile di sostenere davanti al Parlamento la simpatia e
      l'appoggio morale che intendeva di concederci; l'Inghilterra
      avendo sempre mantenuto intatto il principio della porta aperta in
      materia economica anche nei suoi accordi con la Francia per il
      Marocco. 
      
      Codeste cordiali ed amichevoli disposizioni dell'Inghilterra,
      dovute oltre che all'antica amicizia fra i due paesi, ed agli
      accordi intervenuti fra loro per l'Africa mediterranea, anche al
      riconoscimento, che al governo inglese era agevole per la sua
      esperienza di cose coloniali, della impossibilità di altra
      soluzione, furono pienamente confermate all'ultimo momento.
      Infatti il 26 settembre, nell'imminenza della nostra azione,
      avendo l'ambasciatore turco a Londra, per ordine del proprio
      governo, fatte preghiere presso il Foreign Office, perchè
      l'Inghilterra intervenisse dando a noi consigli di moderazione,
      Grey gli fece rispondere che, trattandosi di questione
      esclusivamente italo-turco, il Governo britannico non intendeva di
      intervenire in alcun modo, anche se l'Italia, andando alle ultime
      conseguenze, occupasse la Tripolitania. 
      
      Più incerto fu il contegno della stampa inglese. Alcuni giornali
      riconoscevano fondate le nostre lagnanze, ma si mostravano
      riluttanti ad incoraggiare misure coercitive, per la
      preoccupazione delle ripercussioni che esse potevano avere sulla
      già precaria situazione interna della Turchia, e si prevedeva
      un'aspra resistenza con misure di rappresaglia contro gli
      interessi italiani nelle altre parti dell'Impero. Vi erano poi
      alcuni giornali liberali ed altri radicali che si mostravano
      risolutamente ostili, usando anche un linguaggio violento; e seppi
      che erano giornali che risentivano l'influenza tedesca in quanto
      sostenevano il progetto, allora patrocinato da alcuni gruppi
      politici inglesi, per una intesa con la Germania.
      
      Pienamente cordiale fu pure verso di noi l'atteggiamento della
      Francia, alla quale del resto i nostri diritti sulla Libia
      dovevano apparire tanto più legittimi, e la nostra azione più
      giustificata, in quanto la situazione generale dell'Africa
      mediterranea, e la posizione speciale in cui l'Italia si trovava,
      erano in buona parte una diretta conseguenza, sia della politica
      francese riguardo al Marocco, sia degli accordi intervenuti da
      lungo tempo e sempre confermati, fra l'Italia e la Francia. Il
      governo francese comprese benissimo ed ammise senza riserve, che
      la soluzione definitiva a cui arrivava la questione marocchina con
      gli ultimi accordi con la Germania, apriva nettamente il problema
      della soluzione del problema libico per l'Italia. Il nostro
      ambasciatore, on. Tittoni, che già aveva avuto molta parie nei
      negoziati relativi ai nostri diritti sulla Libia quando era
      ministro degli esteri, aveva ottenuto recentemente le più
      esplicite e categoriche dichiarazioni dai Ministri Pichon e Cruppi
      riguardo alla fedeltà della Francia agli impegni conclusi nel
      1902. Il 22 settembre egli aveva poi avuta una nuova conversazione
      col Ministro degli Esteri De Selves, e questi gli aveva dichiarato
      che per la nostra azione in Tripolitania potevamo contare che il
      governo francese sarebbe stato con noi incondizionatamente; e
      soggiunse anche che siccome si parlava della eventualità del
      lanciamento di un nuovo prestito turco
in Francia, il governo non
      avrebbe mai data la sua
adesione fino a che la questione tripolina
      non fosse
pienamente risolta. 
      
      Anche Delcassé dichiarò al Tittoni che tutti i voti e le simpatie
      erano per l'Italia.
Tale atteggiamento, così cordialmente
      amichevole del
governo francese, fu pure rispecchiato dalla
      stampa,
la quale, a parte l'incidente del Manouba e del Carthage,
      seguì poi con molto favore e simpatia la nostra
      impresa.    
      
      Anche il governo russo, informato di una nostra eventuale azione
      in Tripolitania verso la fine d'agosto, prese atto amichevole, per
      mezzo del Ministro degli Esteri, signor Neratow, delle nostre
      comunicazioni, riconoscendo il nostro diritto di agire in base
      agli accordi di Racconigi. L'Iswolsky, che di quegli accordi era
      stato meco e col Tittoni l'autore nel 1907, trovandosi ora a
      Parigi quale ambasciatore, parlò della cosa col Tittoni, ed udite
      le spiegazioni di questi, dichiarò che potevamo agire come
      credevamo, aggiungendo: — Procurate però di non farci trovare
      all'improvviso sulle braccia lo sfacelo della Turchia e la
      necessità di un intervento europeo nella Balcania. —
      
      Preoccupazioni di questo genere furono espresse poi da parte della
      stampa russa, la quale, considerando che in tre anni di esistenza
      il regime giovane-turco non aveva avuto a registrare che degli
      insuccessi o dei disastri; nella Bosnia-Erzegovina, in Creta, in
      Albania, e dovunque; temeva che l'occupazione della Tripolitania
      potesse essere la goccia che facesse traboccare il vaso
      dell'indignazione pubblica turca, spingendo il governo a gettarsi
      in qualche avventura pericolosa nei Balcani oppure in Persia per
      riconquistare il prestigio perduto. 
      
      Nel contegno di queste tre Potenze in tale occasione, oltre che la
      cordialità verso di noi e il leale adempimento degli impegni
      contratti, non era assente forse un qualche risentimento verso il
      governo Giovane-Turco, che si era buttato in braccio alla
      Germania, e il calcolo della convenienza politica che quel governo
      dovesse accorgersi che la protezione germanica potesse riuscire
      inefficace anche contro un membro della Triplice Alleanza.
      
      La considerazione della particolare situazione in cui si trovavano
      la Germania e l'Austria, e sopratutto la prima, fra l'alleanza con
      l'Italia, e l'amicizia e gli interessi con la Turchia, aveva
      persuaso me e il San Giuliano della convenienza di ritardare al
      più possibile di informare gli alleati delle nostre intenzioni e
      della nostra eventuale azione; ragione che noi poi dichiarammo
      francamente, e che anche l'Aerenthal riconobbe legittima e giusta,
      quando verso la fine di settembre ritenemmo opportuno alla fine di
      informarli. Avevamo voluto ad un tempo risparmiare loro un serio
      imbarazzo, ed assicurarci contro interferenze le quali, per quanto
      bene intenzionate ed amichevoli, avrebbero complicata la nostra
      situazione. L'Aerenthal, informato dal nostro ambasciatore
      D'Avarna, e messo al corrente delle ragioni dell'azione nostra,
      mostrò di rendersene benissimo conto. Egli si mostrò soddisfatto
      del proposito, da noi dichiaratogli, di volere localizzare la
      questione nel Mediterraneo, e di astenerci, nella misura del
      possibile, da azioni tali da provocare ripercussioni nei Balcani;
      ma insistette sul pericolo che tali ripercussioni non si potessero
      evitare, considerando la situazione interna della Turchia e le
      disposizioni dei Giovani Turchi. 
      
      Come amico ed alleato dell'Italia egli credeva suo dovere di
      richiamare su ciò l'attenzione del nostro governo, pregandolo a
      considerare la grave responsabilità in cui poteva incorrere. Del
      resto chiese tempo a riflettere, per poi fare il suo rapporto
      all'Imperatore, a cui competeva di pronunziarsi, riservandosi di
      comunicarci le decisioni che il governo avrebbe prese. Gli
      avvenimenti poi posero l'Austria davanti al fatto compiuto; ed il
      conte di Aerenthal,dando il 29 settembre la risposta che si era
      riservata, dichiarò che il suo governo doveva anzitutto esprimere
      il rincrescimento che il governo italiano avesse abbandonato così
      presto il terreno diplomatico. Però il governo austro-ungarico
      considerava che l'Italia, sua alleata ed amica, aveva diritto di
      provvedere come meglio credeva alla tutela dei propri interessi, e
      non avrebbe quindi fatta alcuna difficoltà alla sua azione in
      Tripolitania. E concludendo richiamava ancora l'attenzione nostra
      sulle eventuali ripercussioni della nostra azione nei Balcani, e
      ricordando che il Trattato della Triplice era basato sul
      mantenimento dello status quo nella Turchia europea, esprimeva la
      fiducia che l'Italia avrebbe preso tutti i provvedimenti
      convenienti per localizzare la sua azione nel Mediterraneo e
      impedire perturbamenti nei Balcani. 
      
      Nel fare le nostre comunicazioni all'Austria ed alla Germania, noi
      avevamo abbinato in certo modo la questione della Tripolitania col
      rinnovamento, ormai prossimo della Triplice, per fare ben
      comprendere a Vienna ed a Berlino che un atteggiamento ostile e
      poco cordiale verso di noi avrebbe messo in serio pericolo
      l'Alleanza.
      
      Più complicata e delicata ancora di quella dell'Austria era la
      situazione della Germania, la quale, dopo avere compiuto negli
      ultimi anni un lavoro assiduo e fortunato per attrarre la Turchia
      nella orbita della Triplice, vedeva ora prossimo a scoppiare un
      conflitto fra la Turchia ed una delle antiche alleate. L'amicizia
      turco-tedesca era stata opera di un diplomatico tedesco di grande
      valore, il barone Marshall, e il governo tedesco contando su di
      lui per trovare una soluzione pacifica della questione, noi ci
      trovammo in comunicazione più col Marshall a Costantinopoli che
      con  il  Cancelliere  a  Berlino.
      
      Il giorno 26 settembre il Marshall arrivò a Costantinopoli di
      ritorno da Berlino, dove certo aveva avuti affiatamenti ed
      istruzioni; ed in alcune conversazioni col nostro reggente
      l'ambasciata, Comm. De Martino, fece del suo meglio per
      traversarci, sia pure amichevolmente, la strada. Al suo arrivo il
      Gran Visir l'aveva subito chiamato, invocando i buoni uffici della
      Germania, e nello stesso tempo facendo ricadere su questa la
      responsabilità delle cose, e sostenendo che la questione tripolina
      non era altro che una conseguenza dell'azione tedesca nel Marocco.
      Il Marshall, secondo che egli riferì al De Martino, aveva
      energicamente negato, respingendo la responsabilità sui Giovani
      Turchi, che non avevano mai seguito i suoi consigli di non
      scontentare l'Italia in Tripolitania. Ad ogni modo il Gran Visir
      insisteva per l'intromissione di buoni uffici della Germania,
      dichiarandosi disposto a fare tutte le concessioni che l'Italia
      chiederebbe, per evitare la caduta dei Giovani Turchi. Il Marshall
      aveva risposto che avrebbe riferito a Berlino. 
      
      Quale fosse la risposta che da Berlino ricevette non sapemmo; ma
      in un'altra e decisiva conversazione col De Martino apparve chiaro
      che egli aveva promesso al Gran Visir di fare un tentativo per una
      intesa sul terreno economico; e si sforzò assai di persuaderlo.
      Egli sosteneva che la nostra occupazione della Tripolitania
      avrebbe fatto scoppiare una immediata rivoluzione in Turchia, con
      la caduta dei Giovani Turchi e conseguenti disordini contro le
      colonie europee; che ciò avrebbe reso necessario l'invio di navi e
      sbarchi da parte dell'Italia e di altre Potenze, con la
      conseguenza ultima che si sarebbe aperta la questione d'Oriente.
      Il nostro rappresentante, in base ad altre informazioni raccolte,
      dichiarò esagerate quelle preoccupazioni, e i fatti gli dettero
      poi ragione; mentre il Marshall viceversa si dichiarava convinto
      che gli Stati balcanici non si sarebbero mai mossi, ed in questo
      invece ebbe poi torto. 
      
      Il Marshall insistè assai nelle sue vedute, dandoci assicurazioni
      sulle concessioni economiche; e poiché il De Martino gli
      rispondeva che la fiducia dell'Italia era ormai esaurita e che del
      resto la questione si era spostata, e che si trattava ormai
      dell'equilibrio del Mediterraneo, egli concludeva, sempre
      insistendo che noi ci assumevamo una responsabilità assai grave.
      
      Ed anche alla vigilia del giorno in cui si iniziarono le ostilità,
      il ministro degli esteri tedesco Kiderlen Wàchter chiamò il nostro
      ambasciatore, il Pansa, e cercò di indurlo a persuadere il governo
      italiano a non dichiarare la guerra alla Turchia, mettendo
      anch'egli avanti il pericolo di perturbazioni balcaniche e dello
      sfacelo dell'Impero Ottomano.Questi tentativi di arrestarci sulla
      via dell'azione, mi confermarono nel mio proposito di evitare che
      fra l'evidente nostra intenzione di agire e l'azione stessa ci
      fosse un intervallo che lasciasse tempo all'intervento di consigli
      da qualunque parte. La situazione della Germania, ripeto, era
      assai delicata, per gli impegni, sia pure generici, di protezione
      presi verso i Giovani Turchi, e si comprende e non c'è da fare
      obbiezione al suo tentativo di guadagnarsi un gran merito presso
      di loro risolvendo amichevolmente la questione della Libia II
      Marshall aveva tentata la sua mediazione il 27 settembre, il
      giorno dopo la presentazione del nostro ultimatum; tre giorni dopo
      venne la risposta insoddisfacente della Turchia
      e la nostra dichiarazione di guerra; e dopo il fatto compiuto il
      governo tedesco si condusse sempre lealmente con noi. 
      
      Una forte parte della stampa tedesca, come pure di quella
      austriaca, condusse invece una violenta campagna di denigrazione
      contro l'Italia, per quasi l'intera durata della guerra; ed io
      ebbi ragione di credere che quella campagna rappresentava un
      tentativo di certi interessi che avrebbero voluto sostituire nella
      Triplice la Turchia all'Italia. Tali vedute non erano affatte
      condivise dal Governo di Berlino, il quale anzi insistette presso
      di noi per una  rinnovazione  anticipata 
      dell'Alleanza.
      
      A quel segreto, che consideravo necessario per la preparazione
      della nostra azione, e che fu benissimo mantenuto sino all'ultimo,
      concorse anche la stagione estiva, che allontanando da Roma gli
      ambasciatori delle Potenze, evitava le indiscrezioni ed anche quei
      contatti nei quali non è sempre possibile non tradire il proprio
      pensiero. Io poi m'ero inteso con San Giuliano perchè, col
      pretesto delle vacanze egli si tenesse a Fiuggi o a Vallombrosa,
      mentre io stavo a Cavour ed a Bardonecchia, per mostrare che nulla
      d'insolito era sul tappeto. Ricordo che i giornali più infervorati
      per la questione libica mi rimproveravano acerbamente questa mia
      lontananza dalla capitale, e la mancanza di contatti col Ministro
      degli Esteri e con gli altri membri del Governo in un momento,
      simile; ma le ingiurie che mi rivolgevano mi facevano un gran
      piacere, perchè dimostravano che il mio stratagemma riusciva
      perfettamente, concorrendo anche a dissipare i sospetti presso il
      governo turco, che fu poi infatti colto quasi di sorpresa dal
      nostro ultimatum.
      
      La preparazione militare fu essa pure condotta segretamente e
      rapidamente. L'eventualità che l'Italia potesse avere bisogno di
      compiere un'azione d'oltremare era stata considerata nelle nostre
      disposizioni militari; e tutti i particolari  per la
      rapida  formazione di un corpo di sbarco erano stati studiati
      e fissati già da tempo.
      
      Si trattava quindi di calcolare gli effettivi necessari per una
      data operazione e di mettere in moto il meccanismo prestabilito.
      Nel mese di agosto io avevo pertanto chiamato a me il nostro Capo
      di Stato Maggiore, generale Pollio, e gli avevo dato incarico di
      studiare il problema della occupazione della Libia e di fare il
      calcolo delle truppe necessarie per effettuarla; e gli raccomandai
      di calcolare con larghezza. Le truppe regolari di presidio nei
      punti capitali della Tripolitania e della Cirenaica non erano che
      tre o quattro mila; ma bisognava tenere conto della popolazione
      araba, di carattere assai bellicoso; e specie di quelle tribù
      nomadi dell'interno, abituate all'aspra vita del deserto e che
      vivevano costantemente in armi ed erano suscettibili agli
      eccitamenti fanatici a cui i turchi sarebbero indubbiamente
      ricorsi. 
      
      Nella Cirenaica poi vi era una vera organizzazione militare, che
      faceva capo al Senusso di Kufra e di Giarabub; e se i senussiti
      non erano sempre in buone relazioni con i turchi, non c'era su
      questo da fare fidanza, non essendo difficile, come provarono poi
      gli avvenimenti, che potessero essere rivolti contro di noi. 
      
      Era poi mio intendimento, per ragioni di ordine generale, che la
      nostra azione fosse fatta con forze talmente preponderanti, da
      togliere sino dal principio ogni dubbio sull'esito; pensando che
      in tal modo sia le popolazioni locali, sia la Turchia si
      rassegnerebbero più facilmente al fatto inevitabile. Pertanto,
      quando il generale Pollio mi portò il risultato dei suoi studi, in
      base ai quali egli riteneva sufficiente una spedizione di circa
      ventiduemila uomini, io gli dissi di raddoppiarla, portandola a
      circa quarantamila. In realtà poi, a certo momento, il nostro
      corpo di spedizione, durante la guerra, superò gli ottantamila
      uomini. Il primo corpo di spedizione fu dunque costituito da un
      corpo d'armata e due divisioni e truppe suppletive e servizi di
      intendenza in grande abbondanza. Nel formarlo si tenne conto della
      convenienza di non turbare un'eventuale contemporanea
      mobilitazione generale dell'esercito. I reparti che lo componevano
      — cioè reggimenti, squadroni, batterie, ecc. — erano unità
      organiche di pace opportunamente rafforzate; le truppe erano
      composte di uomini della classe 1890, che avevano compiuta
      l'intera istruzione, più quelli della classe del 1888,
      appositamente richiamata. Vi furono uomini della classe del 1889,
      che si trovavano ormai alla fine del servizio, i quali chiesero di
      fare parte volontariamente della spedizione. Si erano pure
      provvisti abbondantemente mezzi che consentissero di portarsi a
      due o tre giornate di marcia dalla costa, e di spingere,
      occorrendo, qualche piccola colonna ad alcune tappe verso
      l'interno.
      
      Queste forze furono divise in due scaglioni; il primo, destinato
      ad entrare immediatamente in azione, comprendeva una divisione di
      fanteria, due squadroni di cavalleria, nove batterie da campagna,
      ed aveva per forze suppletive due reggimenti di bersaglieri, tre
      batterie da montagna, due compagnie di artiglieria da fortezza ed
      i vari servizi. Complessivamente comprendeva 22 500 uomini,
      seimila cavalli, settantadue pezzi d'artiglieria ed ottocento
      carri. Il secondo scaglione riproduceva, in proporzioni alquanto
      ridotte, il primo; contava 13 200 uomini e trenta pezzi di
      artiglieria. Il totale del corpo di spedizione fu di trentaseimila
      uomini circa. I reggimenti di fanteria e i bersaglieri erano
      dotati di mitragliatrici da montagna, ed il corpo aveva a sua
      disposizione mezzi aeronautici, fra cui quattro aeroplani; e credo
      che tali mezzi militari fossero usati allora per la prima volta. A
      base generale del corpo di spedizione fu scelto Napoli; e basi
      secondarie furono poi costituite nei luoghi di sbarco.
      
      Il primo scaglione, quando imbarcato, costituì un convoglio di
      trentadue piroscafi, ventitré dei quali caricarono a Napoli, e
      nove a Palermo. C'erano poi navi sussidiarie; due trasporti per
      feriti, due navi ospedali; altre pei rifugiati, altre pel
      rimorchio. Pel secondo scaglione si usarono dodici piroscafi, ed
      una parte delle sue truppe fu imbarcata a Catania. Abbondantemente
      si provvide pei viveri, per le munizioni, pei materiali del genio,
      fra cui pontili per lo sbarco, indispensabili in una costa la
      quale, tranne a Tripoli, non disponeva quasi di porti; e si creò
      un corpo speciale pel servizio dell'acqua con numerosi drappelli
      di zappatori e tutto il necessario perchè in quel paese aridissimo
      i soldati non dovessero soffrire  di una  tale 
      mancanza.
      
      Quando poi il corpo di spedizione si mosse, noi, dopo una rapida
      concentrazione a Taranto e a Siracusa mettemmo in azione l'intera
      nostra flotta per assicurarne assolutamente l'incolumità e
      prevenire qualunque incidente. A questo proposito è opportuno
      ribattere una critica errata che si fece allora alla nostra azione
      navale da parte di certi spiriti bellicosi a vuoto. Si sapeva, e
      noi eravamo stati informati in proposito con precisione dal nostro
      console, che allo scoppiare della guerra la flotta turca si
      trovava a Beirut, in Siria, da dove però si mosse immediatamente.
      Alcuni avrebbero voluto che la flotta nostra l'avesse ricercata
      per colarla a fondo; cosa che sarebbe stata assai agevole, tanto
      la flotta nemica, composta di due vecchie corazzate, di due
      incrociatori e di alcune torpediniere, era inferiore alla nostra.
      Ma io consideravo una tale impresa inutile e rischiosa nello
      stesso tempo. Entrando in guerra noi avevamo dichiarato
      chiaramente alle Potenze interessate nell'Impero Ottomano, che il
      nostro unico proposito era l'occupazione della Libia, e che, a
      parte ciò, non desideravamo fare alcun danno alla Turchia, ed
      intendevamo evitare qualunque azione che potesse condurre a
      complicazioni. 
      
      Se noi avessimo aperta la campagna andando a cercare e ad
      affondare la flotta turca nell'Egeo, lontano dal nostro obbiettivo
      dichiarato, ci saremmo esposti all'accusa di mancare sin dal
      principio, se non ai nostri impegni, certo alle nostre
      dichiarazioni, e ciò avrebbe suscitato indubbiamente dei malumori
      ed avrebbe potuto dare a qualche Potenza il pretesto di
      complicazioni che era nostro primissimo interesse di evitare in
      quel momento, essendo impegnati altrove. In secondo luogo una tale
      impresa avrebbe potuto essere rischiosa; non per la minaccia di
      quella flotta turca, ma per qualche eventuale incidente indiretto.
      Ricordo che da Beirut si ricevette avviso telegrafico che la
      flotta turca uscendo da quel porto si dirigeva verso sud-ovest, la
      qual cosa faceva supporre che volgesse verso la Cirenaica; si
      seppe poi che, mutata la sua rotta, si era diretta ai Dardanelli.
      Rintracciare quella flotta nel suo viaggio da Beirut ai
      Dardanelli, entro i meandri costituiti dalle isole del Mare Egeo,
      a giudizio degli intendenti non era cosa facile; e mentre le
      nostre forze navali fossero impegnate in quella caccia, avrebbe
      potuto avvenire che il nemico, il quale possedeva dei velocissimi
      cacciatorpediniere di recente acquisto, alcuni dei quali si
      credeva fossero annidati a Prevesa, quindi non  lontano 
      dalle  vie  del  nostro  corpo  di 
      spedizione, tentasse un colpo di mano e riuscisse a colpire
      qualcuno dei nostri trasporti o ad affondarlo. 
      
      Pure prescindendo dall'effetto che un tale incidente avrebbe avuto
      sul pubblico italiano, che metteva allora di nuovo alla prova i
      suoi nervi sedici anni dopo il disastro della guerra abissina; un
      tale scacco, che sarebbe apparso anche più grave in considerazione
      della enorme differenza fra le forze navali nostre e quelle del
      nemico, nell'inizio stesso della nostra azione sarebbe stato
      deplorevole. Noi eravamo stati costretti, per ragioni
      imprescindibili, a turbare la pace europea; e molti occhi non
      benevoli erano fissi su di noi; in tali condizioni dovevamo
      evitare qualunque incidente che potesse dare ragione di accusarci
      di leggerezza e d'incompetenza. Le azioni energiche, come quella
      in cui ci eravamo impegnati, anche se spiacciono per gli interessi
      che turbano, finiscono per imporre il rispetto quando siano ben
      condotte; cosa di cui avemmo appunto un esempio anche in
      quell'occasione, nel linguaggio della stampa forestiera, la quale,
      dopo averci per qualche giorno accusati ed anche ingiuriati, finì
      per cambiare presto tono, quando vide che andavamo diritti per la
      nostra strada e che saremmo arrivati alla meta.
      
      Intanto, già nella prima metà di settembre, la situazione in
      Tripolitania si andava aggravando, per il crescente sospetto di
      una nostra non lontana azione. A Tripoli gli agitatori del
      Comitato «Unione e Progresso»   compievano una duplice
      azione; per una parte si sforzavano di eccitare le popolazioni e
      attrarre nella loro orbita i capi delle tribù e dei villaggi, ed a
      questo scopo vi tenevano frequenti riunioni; e quantunque
      l'elemento migliore del paese, che aveva già con gli italiani
      relazioni commerciali, si mostrasse più moderato, si riusciva a
      determinare una corrente a noi ostile specie nella bassa
      popolazione. Per l'altra parte questi agitatori si tenevano in
      continua comunicazione col governo turco e col Comitato centrale
      di Costantinopoli, al quale trasmettevano resoconti dei comizi
      assicurando la ferma volontà della popolazione di rimanere
      nell'Impero Ottomano, pronta e decisa per questo scopo a qualunque
      sacrifizio, e si domandava che Tripoli venisse fortificata e si
      inviassero armi e munizioni. 
      
      Si compilavano pure statistiche delle popolazioni arabe
      dell'interno, in base alle quali si calcolava che vi fossero nel
      paese circa centomila uomini atti a portare le armi ed a
      partecipare ad una energica difesa contro qualunque attacco. Il
      governo e il Comitato di Costantinopoli rispondevano incoraggiando
      tali preparativi, promettendo di fare avere almeno centomila
      fucili e cannoni, e di inviare una commissione, presieduta da
      Nasin pascià, ex-valì di Bagdad, per intraprendere immediatamente
      l'opera di fortificazione della città e del porto e degli altri
      punti più importanti della costa.
      
      Noi dovemmo allora preoccuparci di due cose: e cioè della
      sicurezza della numerosa colonia italiana di 
      Tripoli,   come   pure  degli  
      altri   europei   che   vi
      risiedevano; e d'impedire il minacciato invio di armi
e munizioni.
      Non era ancora il caso di fare manifestazioni tali che potessero
      fare precipitare le cose;
per tanto io autorizzai la marina a
      dislocare alcune navi da guerra a Siracusa, pronte a partire
per
      Tripoli al primo cenno. Che la Porta potesse
fare tutto quello che
      da Tripoli si chiedeva per la
sua difesa era da escludersi; ma che
      qualche cosa
avrebbe pure fatto era egualmente certo. Ed infatti
      verso la metà di settembre il nostro addetto
militare a
      Costantinopoli;ci informò che si stava caricando il piroscafo
      «Derna» con circa diecimila
fucili ed abbondanti munizioni,
      qualche cannone, e
viveri e vestiari. Quel piroscafo infatti partì
      poi
per Tripoli, e noi demmo ordine di intercettarlo,
cosa che
      avevamo ormai diritto di fare perchè il
suo arrivo coincise col
      nostro ultirrùaium; ma sfortunatamente esso riuscì a sfuggire alla
      nostra vigilanza.
      
      Anche la situazione diplomatica ci consigliava ad affrettare. Era
      ormai evidente che la questione del Marocco andava ad una
      soluzione pacifica, ed infatti l'accordo preliminare fra la
      Francia e la Germania fu firmato il 23 settembre. D'altra parte
      c'era sempre da temere di qualche resipiscenza da parte di qualche
      Potenza che pure fino allora aveva riconosciuto le nostre buone
      ragioni; fra l'altro ci fu riferito da Vienna che lAerenthal,
      parlando con alcuni diplomatici esteri, si era mostrato spiacente
      di quanto avveniva in Italia al riguardo della questione di
      Tripoli, perchè, a suo avviso, il momento per sollevare tale
      questione non era opportuno. Io decisi allora di agire. 
      
      Dovevo anzitutto parlare col Re ed ottenere la sua autorizzazione
      per la chiamata di qualche classe sotto le armi e per un'azione
      immediata. Io ero a Cavour ed il Re si trovava a Racconigi; e per
      evitare le illazioni che si sarebbero tratte da quella visita, la
      quale non sarebbe sfuggita all'attenzione dei giornali se io
      passavo per Torino, chiesi che da Casa reale mi fosse mandato a
      Cavour un'automobile. Esposi al Re la situazione ed ebbi il
      consenso alla nostra azione ed a tutti gli  atti relativi.
      
      M'ero incontrato col Re il 17 settembre; il giorno 18, di ritorno
      a Cavour telegrafai a San Giuliano, a Spingardi e a Leonardi
      Cattolica di affrettare i preparativi, insistendo perchè si
      procedesse con la massima segretezza e a mezzo di persone di
      sicura fiducia. Il Capo di Stato Maggiore, generale Pollio,
      riteneva indispensabile richiamare sotto le armi la classe del
      1888, allora in congedo, per la necessaria elasticità nella
      composizione del corpo di spedizione, e perchè i reggimenti che
      non partivano non rimanessero stremati di forze; ed io provvidi
      alla emanazione del decreto occorrente. Più tardi autorizzai
      l'invio immediato di navi a Tripoli per la sicurezza della nostra
      colonia e per impedire che si ripetesse l'episodio del «Derna»,
      essendo da aspettarsi che, la nostra intenzione essendo ormai
      patente, la Turchia tentasse di farvi arrivare nuove armi e
      soldati.
      
      Il 24 io arrivavo a Roma, ed il 26 veniva, in seguito a
      deliberazione del Consiglio dei Ministri, spedito il nostro
      ultimatum alla Turchia. Quel documento fu compilato in modo da non
      aprire strada a qualunque evasione e non dare appigli ad una lunga
      discussione, che dovevamo ad ogni costo evitare; e fu a questo
      scopo ponderato in ogni sua parola. Esso osservava che per un
      lungo periodo d'anni il Governo italiano non aveva mai cessato dal
      fare constatare a quello turco la necessità che lo stato di
      disordine e d'abbandono in cui erano lasciate, la Tripolitania e
      la Cirenaica avesse fine, e che quelle regioni fossero poste in
      grado di profittare degli stessi progressi conseguiti dalle altre
      parti dell'Africa mediterranea. Codesta trasformazione, che
      s'imponeva per le esigenze generali della civiltà, costituiva per
      l'Italia un interesse vitale, per la breve distanza che separava
      quei paesi dalle sue coste. Ma non ostante che il Governo italiano
      avesse sempre cordialmente dato il suo appoggio al governo
      ottomano in diverse questioni politiche degli ultimi tempi; non
      ostante la moderazione e la pazienza, di cui esso aveva dato
      finora prova, non solamente il Governo ottomano non aveva tenuto
      conto di tali sue vedute, ma, peggio ancora, aveva mantenuto
      contro qualunque nostra intrapresa economica in quelle regioni una
      opposizione sistematica ed ingiustificata. 
      
      Ora la Turchia, con un passo compiuto all'ultimo momento, aveva
      proposto all'Italia di venire ad un accordo, dichiarandosi
      disposta a qualunque concessione economica compatibile coi
      trattati in vigore, e con la dignità e gli interessi suoi
      superiori. Ma il Governo italiano non si credeva più in condizione
      di iniziare negoziati dimostrati vani dall'esperienza del passato,
      e che lungi dal costituire una garanzia pel futuro, non farebbero
      altro che moltiplicare le occasioni di irritazioni e conflitti. 
      
      Il documento continuava osservando che le informazioni dei nostri
      agenti consolari in quei paesi dipingevano la situazione che vi
      regnava contro i sudditi italiani, e che era stata apertamente
      provocata da ufficiali e da altri organi dell'autorità
      governativa. Questa agitazione costituiva un pericolo imminente
      non solo per i sudditi italiani, ma anche per quelli di altre
      nazioni i quali, giustamente allarmati avevano cominciato ad
      imbarcarsi ed abbandonare il paese. L'arrivo a Tripoli di
      trasporti militari ottomani, alle conseguenze del cui invio il
      Governo italiano non aveva mancato di richiamare l'attenzione
      della Porta, non poteva che aggravare la situazione, ed imponeva
      all'Italia di provvedere immediatamente ai pericoli che ne
      risultavano. 
      
      L'ultimatum continuava poi annunciando che il Governo italiano,
      vedendosi ormai forzato a tutelare la propria dignità e gli
      interessi del paese, aveva deciso di occupare militarmente la
      Tripolitania e la Cirenaica, non avendo la scelta di altra azione;
      e dichiarava di aspettarsi che il Governo ottomano desse gli
      ordini necessari perchè tale occupazione non incontrasse
      resistenza da parte dei suoi rappresentanti in quei territori.
      Accordi ulteriori fra i due governi potrebbero poi essere presi
      per regolare la situazione definitiva che risulterebbe
      dall'occupazione militare. E concludeva chiedendo una risposta
      entro ventiquattro ore, in mancanza della quale il Governo
      italiano procederebbe ad attuare immediatamente le misure
      destinate ad assicurare l'occupazione.
      
      La risposta della Turchia al nostro ultimatum fu, come era da
      aspettarsi, evasiva e dilatoria. Essa rigettava la responsabilità
      delle cattive condizioni in cui si trovavano la Trjpolitania e la
      Cirenaica sul precedente regime; sosteneva, contro verità, che il
      governo turco era sempre venuto incontro agli interessi italiani e
      che le autorità locali li avevano protetti; e rinnovando le
      offerte di concessioni, chiedeva che noi indicassimo le garanzie
      che ritenevamo necessarie, promettendo di non modificare nel
      frattempo la situazione di quei territori, specie nell'aspetto
      militare.
      
      La risposta del Governo ottomano ci arrivò il 29 settembre, e il
      giorno stesso noi facemmo presentare dal nostro incaricato
      d'affari la dichiarazione di guerra.
      Rapida azione militare iniziale e seguito di guerriglia —
        Complicazioni internazionali — Proteste dell'Austria per
        l'Adriatico — Proposta di una azione conciliativa delle Potenze;
        diffidenze ed intrighi — Il Decreto della sovranità sulla Libia
        — Iniziativa di pace del Sa-zonofF; sue fasi e suo fallimento —
        L'incidente del Manouba e del Carthage — La guerra navale nell'
        Egeo: proteste e chìcanes austriache — Diuturno dibattito
        sull'art. VII della Triplice per l'occupazione delle isole —
        L'attacco ai Dardanelli e la loro chiusura — Iniziativa a noi
        sfavorevole dell' Inghilterra, e nostra rivendicazione del
        diritto di belligeranti — Il partito militare austriaco in cerca
        di pretesti per agire — L'espulsione degli italiani dalla
        Turchia — Ripresa di operazioni in   Tripolitania e
        Cirenaica —  La  piccola, guerra  nel Mar 
        Rosso.
      
      La nostra azione militare per l'occupazione dei territori in
      questione, si svolse con precisione e rapidità, quale era stata
      preordinata.
      
      Il giorno 1.° ottobre la nostra flotta stabiliva il blocco di
      Tripoli; il giorno 4 ne bombardava le fortificazioni,
      distruggendole; e subito dopo forze navali, sotto la condotta
      dell'Ammiraglio Cagni, compivano un audace sbarco ed occupavano la
      città, che le truppe turche avevano abbandonata, ritirandosi al
      confine dell'oasi circostante. L'Ammiraglio Borea Ricci, nominato
      governatore della città, indirizzava un proclama  agli 
      arabi, che in  maggioranza facevano dichiarazioni di fedeltà
      ed amicizia e consegnavano le armi. 
      
      Il giorno 10, dopo che il Re l'ebbe passato in rivista, partiva da
      Napoli il primo corpo di spedizione, e il giorno 11 compiva
      felicemente il suo sbarco; ed allargava l'occupazione, strappando
      al nemico, con un violento combattimento, i pozzi della Bumeliana,
      necessari pel rifornimento dell'acqua. 
      
      Il giorno 22 si ebbe una azione pure violentissima, in cui si
      combinò un attacco dei turchi con un complotto di arabi della
      città e dell'oasi, che attaccarono alcune nostre trincee alle
      spalle, fatto che condusse ad una energica repressione. E le
      azioni continuarono a svolgersi quasi giornalmente, finché il 6
      novembre, con una manovra bene preparata, il generale Caneva
      riuscì a scacciare i turco-arabi da Ainzara, donde minacciavano e
      tormentavano continuamente la città, e a stendere intorno ad essa
      un largo anello di difesa.
      
      Tanto politicamente che militarmente le cose si svolsero secondo
      le nostre previsioni, e come avviene quasi sempre nelle guerre
      coloniali. I rapporti dei nostri consoli, fra i quali ricordo il
      Galli, buon giudice e conoscitore di quelle popolazioni, non
      avevano in proposito mai creato illusioni. Fra gli arabi e i
      turchi non c'era stato mai buon sangue; ma sarebbe stato
      arrischiato calcolare su una defezione generale o quasi, la quale
      soltanto avrebbe messo le scarse truppe turche in una posizione
      assai grave e forse costrette alla resa. Le cose andarono metà a
      metà; gli arabi della città e della costa, che erano a contatto
      con noi, in buona parte accettarono la nuova situazione; ma quelli
      dell'interno, sia per la suggestione della propaganda fanatica,
      sia perchè esposti a immediate rappresaglie, seguirono in buona
      parte i turchi. I quali così poterono contare subito su un nucleo
      di forze numericamente abbastanza rispettabile e bellicoso, se
      pure deficiente di mezzi e di organizzazione. Ne derivò una
      situazione comune a quasi tutte le guerre coloniali; che il nemico
      non poteva pensare di attaccarci nei punti capitali da noi
      occupati, e viceversa noi per colpirlo, avremmo dovuto preparare
      ed intraprendere un'azione di guerriglia, particolarmente faticosa
      e pericolosa in quel paese privo di risorse.
      
      Insieme a quella di Tripoli si svolse l'azione su gli altri punti
      capitali della lunghissima costa. Il giorno 4 la nostra flotta
      occupò Tobruk, per ordine mio, perchè mi premeva di assicurarmi
      quella importante baia sino dal principio, e non dare ragioni o
      pretesti, che la guerra poteva facilmente fornire, data la
      vicinanza della frontiera non ben definita, per una occupazione
      egiziana. Volevamo pure evitare che, con la sua comoda baia,
      Tobruk potesse essere usata per contrabbando d'armi e d'armati
      nella Cirenaica. Il giorno 13 fu bombardata e occupata Derna; il
      18 Horas; il giorno 20 si ebbe lo sbarco, condotto con grande
      audacia e fortuna, a Bengasi; dove, come a Derna, la popolazione
      locale si sottomise.
      
      Tali avvenimenti militari rappresentavano la guerra quale si
      svolgeva agli occhi del pubblico. Ma accanto a questa noi dovemmo
      fronteggiare una successione di incidenti e complicazioni
      diplomatiche, che ci erano ragione di continue preoccupazioni, e
      dei quali il pubblico non ha conosciuti che i più clamorosi,
      o  avuto solo notizie frammentarie.
      
      La guerra in cui ci trovavamo involti, era infatti una guerra sui
      generis, che paragonerei al ballo delle uova. Il territorio
      dell'Impero nemico, in ogni sua parte, si trovava circondato da
      una fitta rete di interessi ed ipotecato da aspettative e da
      cupidigie che per intanto gli servivano di protezione. Vi erano
      gli interessi generali di potenze europee contrastanti fra loro;
      gli interessi russi contro gli austriaci; quelli inglesi contro i
      germanici; vi erano le ambizioni e le rivendicazioni dei vari
      Stati balcanici; e appetiti e pretese e diritti economici e
      politici di ogni specie. Ricordo che le nostre operazioni nel Mar
      Rosso suscitarono perfino proteste e comizi dei mussulmani
      dell'India, con l'accusa che impedissero il pellegrinaggio ai
      luoghi santi. L'accusa era falsa e le proteste erano state
      indubbiamente provocate dalla Turchia, che cercava di suscitarci
      difficoltà da ogni parte. Poi vi era la preoccupazione generale
      della pace europea. Ora di tutti questi interessi e preoccupazioni
      noi dovevamo tenere conto, sia per cordialità verso le Potenze
      amiche e rispetto dei loro interessi, sia anche per interesse
      nostro; ma pure cercando di dare ogni possibile soddisfazione
      nei  casi  particolari,  noi  mantenemmo 
      sempre  intatta la nostra generale libertà d'azione e i
      relativi diritti. Devo aggiungere che ogni volta che la
      discussione fu portata da noi su questi punti fondamentali, il
      nostro diritto fu immediatamente e senza riserva riconosciuto.
      
      Notificando alle Potenze la nostra dichiarazione di guerra alla
      Turchia, noi l'avevamo accompagnata con assicurazioni della nostra
      intenzione di rispettare al più possibile i loro interessi, e di
      evitare qualunque azione che potesse avere ripercussioni sulla
      compagine generale dell'Impero Ottomano. E così avevamo subito ed
      energicamente rifiutato di aiutare agitazioni o sollevazioni in
      Albania, ed avevamo pregato il Re del Montenegro di astenersi da
      qualunque azione che potesse turbare la situazione balcanica, ciò
      che egli ci aveva promesso. Ritenevamo sopratutto opportuno di
      evitare incidenti nell'Adriatico, sapendo che a Vienna c'era un
      partito che avrebbe cercato di trarne profitto. Se non che sulla
      costa adriatica turca, specie a Prevesa, si trovavano alcune
      velocissime cacciatorpediniere, e noi avendo notizie di
      preparativi che vi si stavano facendo per attaccare le navi del
      nostro corpo di spedizione e compiere raids contro le nostre città
      aperte, dovemmo informare le Potenze della assoluta necessità in
      cui ci trovavamo di compiere, contro il nostro desiderio, alcune
      operazioni navali nelle acque europee. Queste operazioni furono
      affidate al Duca degli Abruzzi, il quale efficacemente sventò
      tentativi di incursioni delle navi  nemiche.
      
      Un  suo dipendente, il capitano Biscaretti, avendo percorsa
      la costa turca e albanese, visitò alcuni piroscafi austriaci che
      gli erano parsi sospetti, e dovette rispondere al fuoco diretto
      contro le sue navi da un punto presso San Giovanni di Medua.
      L'Austria protestò, subito e vivacemente. Aerenthal il 1.° ottobre
      disse al nostro ambasciatore D'Avarna che tali operazioni erano in
      flagrante contrasto con le nostre promesse di localizzare la
      guerra nel Mediterraneo; che non si poteva ammettere che le
      operazioni nell'Adriatico e nel Mar Jonio continuassero; che
      bisognava vi fosse posto termine, altrimenti potrebbero venirne
      serie conseguenze, ed egli sarebbe costretto a tenerci un diverso
      linguaggio. Gli rispondemmo che intendevamo mantenere gli impegni
      presi, che corrispondevano anche al nostro interesse; ma che vi
      sono esigenze militari imprescindibili, come era il caso delle
      operazioni militari intese a liberare i nostri mari dalla minaccia
      costituita per noi dalla base navale turca di Prevesa. 
      
      Ad ogni modo, siccome non volevo fare il gioco dell'Austria, che
      poteva mirare all'occupazione di Durazzo, inviai ordini perentori
      al Duca degli Abruzzi perchè le forze del suo comando si
      limitassero a vigilare il mare, astenendosi da sbarchi e
      bombardamenti terrestri. Il 3 ottobre l'Aerenthal c'informava che
      il governo turco era disposto ad entrare in negoziati anche dopo
      lo scoppio delle ostilità; e noi cogliemmo l'occasione di tale
      dichiarazione per avanzare la proposta di un primo passo, che
      consisteva nel neutralizzare per intanto, agli scopi della guerra,
      l'Adriatico, e forse, con l'assenso dell'Inghilterra, il Mar
      Rosso, riservandoci per tutto il resto del mare e del territorio
      nemico quella piena ed intera libertà d'azione militare che era
      nei nostri diritti, e che credevamo necessaria anche
      nell'interesse generale, per porre fine alla resistenza della
      Turchia ed abbreviare la guerra.
      
      II Governo ottomano intanto aveva messo in moto
tutte le sue
      ambasciate, facendo pervenire alle capitali di tutte le grandi
      Potenze una nota intesa a promuovere un loro intervento amichevole
      in favore
della pace. Il primo a comunicare con noi a
      questo
proposito fu ancora il governo di Vienna, a mezzo
del suo
      ambasciatore, lasciando intendere, in forma
abbastanza moderata,
      che la soluzione della situazione
si sarebbe potuta ottenere
      conservando una sovranità
nominale del Sultano. San Giuliano, dopo
      avere conferito meco, gli rispose che nella nostra opinione
la
      nota turca era uno dei soliti artifizi della Porta,
da non
      prendersi sul serio, e che noi non potevamo
contentarci di mezzi
      termini, il nostro scopo essendo
di risolvere la questione della
      Libia in modo da togliere di mezzo una causa continua di attrito
      fra noi
e la Turchia, e di complicazioni internazionali. Se
si
      fosse mantenuta la sovranità, sia pure solamente
nominale, del
      Sultano, tale scopo sarebbe fallito; né
d'altra parte l'opinione
      pubblica italiana avrebbe
consentito ad una soluzione che non
      comprendesse
lo stabilimento della nostra sovranità in quelle
      regioni. 
      
      Il Ministro degli Esteri francese, De Selves,
che aveva prima
      accennato ad una possibile mediazione francese, informò poi il
      nostro ambasciatore Tittoni dell'avviamento ad una mediazione
      generale delle Potenze; con l'intesa però che essa dovesse avere
      luogo solo come e quando l'Italia lo giudicasse opportuno. Il De
      Selves rinnovava la sua assicurazione che nella questione di Libia
      la Francia si proponeva per unico scopo di fare cosa gradita
      all'Italia, aggiungendo di voler tentare di procedere d'accordo
      con la Germania, cercando di portare le Potenze a fare tutte
      insieme un passo a Costantinopoli per l'annessione pura e
      semplice, dando così anche al governo turco il pretesto di dover
      cedere di fronte alla volontà unita dell'Europa. 
      
      Questo atteggiamento del De Selves ci dette occasione di fare
      sentire a Vienna ed a Berlino, per mezzo dei nostri ambasciatori,
      che noi non potevamo supporre che i nostri alleati tenessero verso
      noi un contegno meno amichevole, e si mostrassero meno persuasi
      delle nostre buone ragioni. E qualche giorno più tardi, per
      rispondere ad amichevoli richieste in proposito che ci venivano da
      Berlino, il San Giuliano comunicò al Governo germanico uno schizzo
      generale delle condizioni in base alle quali l'Italia era disposta
      a fare la pace; nel quale schizzo, mentre si manteneva
      assolutamente fermo il nostro proposito di non transigere sulla
      questione della sovranità, si facevano generose concessioni alla
      Turchia nel riguardo di vecchie vertenze ancora sospese; si
      prendeva l'impegno di accollarci quella parte del debito ottomano
      che potesse attribuirsi alla Libia; si proponeva di regolare la
      questione religiosa con rispetto alla qualità di Califfo del
      Sultano, in modo però che non nuocesse al nostro prestigio presso
      gli arabi, e non apparisse come una forma larvata di sovranità
      politica anche nominale, tale da dare appiglio ad attriti e
      conflitti fra Italia e Turchia, e ad intrighi turchi nelle due
      Provincie che dovevano rimanere definitivamente staccate
      dall'Impero Ottomano; ed infine si proponeva di fare precedere il
      trattato di pace da uni decreto unilaterale d'annessione da parte
      nostra; di modo che nel trattato la Turchia non dovesse fare
      cessioni, ma semplicemente regolare le conseguenze di fatti
      compiuti. 
      
      È interessante rilevare che le condizioni del trattato che fu poi
      quasi un anno dopo firmato fra noi e la Turchia a Losanna,
      corrispondevano notevolmente a quelle nostre prime proposte. Il
      lavorio diplomatico fra le varie capitali continuava sempre assai
      intenso; ed il 25 ottobre l'Aehrenthal ci comunicava di avere
      ottenuto dai gabinetti di Londra e di Pietroburgo una risposta
      favorevole ad una sua proposta perchè le Potenze procedessero ad
      uno scambio di idee per addivenire ad una soluzione della
      questione di Libia; i due gabinetti di Londra e Pietroburgo
      mostravano di accogliere con simpatia la sua iniziativa, ma
      aggiungendo di non credere che qualche cosa di preciso si potesse
      per allora fare. Questa comunicazione appariva alquanto ambigua,
      ma a chiarirla venne una conversazione che il sottosegretario
      degli Esteri tedesco, Zimmermann, ebbe col nostro incaricato di
      affari. Zimmermann gli aveva dichiarato che le proposte di
      Aerenthal erano state bene accette agli altri gabinetti; ma che
      però predominava in tutti l'idea che un passo collettivo fosse per
      ora inutile, se non addirittura dannoso, se noi non accettavamo
      l'alta sovranità del Sultano su l'intera Libia, o almeno non ci
      contentavamo di avere in assoluta nostra sovranità la sola
      Tripolitania. 
      
      In quella conversazione lo Zimmermann si mostrava pure diffidente
      assai circa il contegno dell'Inghilterra. Egli osservava che ormai
      tutte le speranze della Turchia erano rivolte verso di essa, e che
      egli, per sintomi e indizi di vario genere che gli giungevano da
      diverse parti, aveva il presentimento che l'Inghilterra, per
      riprendere il perduto ascendente a Costantinopoli, sarebbe stata
      perfettamente capace di farsi avanti per imporci di accettare
      l'alta sovranità del Sultano, ottenendo la pace a tale condizione.
      Molti erano secondo lo Zimmermann gli interessi inglesi, in Egitto
      ed anche in India, dove essa contava sui mussulmani come sul suo
      più sicuro appoggio, che potevano spingerla ad un tale atto; e se
      ciò avvenisse, all'Italia non sarebbe rimasto altro che cedere; ed
      egli aggiungeva che in tale caso la Germania, per quanto
      spiacente, nulla avrebbe potuto fare per aiutarci. 
      
      Il nostro ambasciatore a Londra fu subito incaricato di accertare
      cosa potesse esserci di vero in tali insinuazioni; ed egli ebbe un
      colloquio con Sir Edward Grey, al quale fece presente che noi non
      avremmo mai accettata altra soluzione come base di trattative di
      pace, che non fosse quella della piena nostra sovranità, e che
      qualunque potenza che pensasse a spingerci ad accettarne una
      diversa, perderebbe inevitabilmente l'amicizia del popolo
      italiano. Il Grey rispose con grande precisione; dichiarando che
      alle pressioni fatte dall'Ambasciata turca egli aveva sempre
      risposto che qualunque tentativo di mediazione, che non avesse per
      base la nostra assoluta sovranità, riuscirebbe vano.
      L'insinuazione dello Zimmermann era così pienamente smentita; ma
      essa più che un tentativo d'intrigo a nostro danno, rappresentava
      lo stato di diffidenza che, riguardo le cose di Costantinopoli,
      dominava fra l'Inghilterra e la Germania; la quale ultima, non
      potendo fare nulla contro di noi a favore dei turchi, era
      preoccupata di perdere la situazione di prevalenza guadagnata in
      Turchia a mezzo della politica del Marshall, e temeva che
      l'Inghilterra pensasse di profittare delle difficoltà in cui essa
      si trovava. 
      
      Da una conversazione che il Tittoni aveva avuto a Parigi con
      l'Iswolsky risultava che la sospettosa diffidenza tedesca verso
      l'Inghilterra aveva la sua contropartita nella diffidenza della
      Russia verso l'Austria; e che a Pietroburgo si considerava che la
      proposta di Aerenthal per un passo a Costantinopoli era stata
      fatta in termini ambìgui e generici, e tale da compromettere la
      Potenza la quale, uscendo da quei termini, si fosse mostrata
      troppo favorevole all'Italia. Il Marshall poi,avendo condotto
      avanti a Costantinopoli un suo lavoro preparatorio per venire alla
      pace sulla base del riconoscimento della sovranità nominale del
      Sultano, quando, informato del nostro deciso proposito di
      annessione, dovette rinunciarvi, aveva ammonito il proprio governo
      che alla Germania non conveniva di assumere l'iniziativa in favore
      del riconoscimento della sovranità italiana, perchè ciò facendo si
      sarebbe esposta al pericolo che altri ne profittasse a pregiudizio
      della sua posizione nell'Impero Ottomano. Da una nuova
      conversazione che il nostro ambasciatore a Berlino ebbe con lo
      Zimmermann apprendemmo poi che i sospetti tedeschi si erano
      spostati dall'Inghilterra contro la Russia, temendosi che essa
      profittasse dell'occasione per risolvere a proprio favore la
      questione degli Stretti.
      
      Ho voluto esporre nei suoi particolari tutto questo incrociarsi di
      azioni diplomatiche, per fare finalmente conoscere i precedenti
      che mi decisero ad un atto che, nel momento in cui fu compiuto,
      apparve a molti, e fu criticato anche in seguito, come prematuro;
      voglio dire il decreto di annessione della Libia. Un mese solo di
      guerra aveva mostrato entro quale vasta rete di interessi delle
      altre Potenze la nostra azione dovesse svolgersi; e pure avendo
      ogni fiducia nella lealtà con cui la Francia, l'Inghilterra e la
      Russia avrebbero mantenuto gli impegni contratti verso di noi per
      la Libia, e che la Germania e l'Austria non sarebbero venute meno
      ai doveri dell'Alleanza; c'era sempre da temere che sorgessero fra
      le varie Potenze interessate nell'Impero Ottomano, complicazioni
      tali da indurle ad esercitare pressioni perchè la guerra si
      concludesse, insistendo presso di noi nel concetto che noi
      potessimo accettare per la pace generale, quella nominale
      sovranità del Sultano, senza la quale il Marshall ammoniva il suo
      governo che la guerra si sarebbe trascinata assai lungamente. 
      
      Ora, pure prescindendo dalla impressione sulla opinione pubblica
      italiana, il mantenimento della sovranità nominale del Sultano in
      Tripolitania e in Cirenaica avrebbe avuto molteplici gravi
      conseguenze. In primo luogo, una tale soluzione avrebbe diminuito
      di assai la nostra autorità sulle popolazioni arabe, le quali
      avrebbero continuato a considerare come loro sovrano il Sultano,
      che aveva già su di esse tanta autorità come capo religioso.
      Imporre a popolazioni nello stato di cultura in cui erano quelle
      della Libia, una duplice sovranità; nominale l'una, l'altra
      effettiva, avrebbe create confusioni tali da ostacolare gravemente
      qualunque azione di governo. In secondo luogo si presentava la
      identica questione con la quale l'Austria-Ungheria aveva
      giustificata l'annessione della Bosnia-Erzegovina; perchè, quando
      la sovranità del Sultano fosse stata in qualsiasi forma mantenuta,
      come si sarebbe potuto impedire agli arabi di eleggere il loro
      rappresentante nel Parlamento di Costantinopoli; e il mantenimento
      di questa rappresentanza quali effetti avrebbe avuto sull'animo
      della popolazione? Infine c'era la questione delle capitolazioni,
      che avrebbero, in un tale regime per cui la Libia rimaneva legata
      all'Impero Ottomano, continuato a sussistere nel rispetto degli
      altri paesi, costituendo un'altra fonte di complicazioni,
      difficoltà ed attriti nel futuro.
      
      L'Italia dunque, accettando una tale soluzione o una qualunque
      altra soluzione che non fosse veramente completa e decisiva, si
      sarebbe trovata in una posizione diffìcile, con tutte le passività
      dell'impresa compiuta, e nessun vantaggio. Bisognava anche ora,
      come nel periodo della preparazione, evitare il pericolo di dovere
      ascoltare consigli di amici e di interessati; ed anche questa
      volta il modo di tagliare corto a questo pericolo era di mettere
      le Potenze davanti al fatto compiuto. E questo fine conseguii col
      decreto reale del 4 novembre che proclamava la sovranità assoluta
      dell'Italia sulla Libia. La sua accoglienza fu quale l'avevo
      preveduta. Ci furono dei brontolamenti, specie da parte di Vienna,
      contro quell'atto, ma nessuna protesta. 
      
      Il decreto fu poi presentato al Parlamento appena si adunò in
      febbraio. Al Senato fu votato ad unanimità; alla Camera ebbe
      l'approvazione di tutti, eccetto i socialisti, i quali lo
      criticarono con la ragione che esso avrebbe resa più difficile la
      conclusione della pace; critica che si spiega, perchè era naturale
      che chi non aveva voluto l'impresa non s'interessasse al suo buon
      successo. Del resto, chi non è al governo in queste contingenze,
      non conoscendo i djetroscena non vede la ragione degli atti
      compiuti; e viceversa questa ragione il governo non può dirla. È
      infatti evidente che io non potevo spiegare pubblicamente che
      avevo proclamata la nostra sovranità sulla Libia per paura di un
      intervento da parte delle Potenze alleate o amiche.
      
      Che l'atto irrevocabile da noi compiuto, con la proclamazione
      della nostra sovranità sulla Libia, fosse giunto opportuno, lo
      provarono poi gli ulteriori tentativi fatti dalla diplomazia
      europea per risolvere la guerra; e che, in contrasto con quelli
      precedenti, furono basati sull'accettazione del fatto compiuto. A
      nessuno infatti poteva ormai passare per la mente che si potesse
      ottenere dall'Italia la rinunzia al decreto con cui la sua
      sovranità era stata proclamata.
      
      L'iniziativa della nuova campagna di pace, che si prolungò per
      parecchi mesi, fu presa questa volta, e con sentimento di grande
      amicizia verso di noi, dal Ministro degli Esteri russo, Sazonoff.
      Il 2 gennaio l'Ambasciata di Russia a Roma comunicava ai San
      Giuliano una idea che il Sazonoff aveva già fatta conoscere ai
      rappresentanti delle grandi Potenze a Pietroburgo, e che si
      riassumeva presso a poco nei termini seguenti:— Le grandi Potenze,
      riconoscendo che l'affrettare la pace fra l'Italia e la Turchia
      era un interesse europeo, dovrebbero fare a Costantinopoli un
      passo collettivo per convincere la Turchia che la perdita della
      Libia era inevitabile, e per indurla ad accettare un armistizio;
      durante il quale la Turchia ritirerebbe dalla Libia le sue truppe,
      mentre l'Italia studierebbe la misura di un compenso pecuniario
      con cui in certo modo indennizzarla. L'Italia non avrebbe
      domandato il riconoscimento immediato della sua sovranità da parte
      della Turchia, lasciando alle circostanze di regolare il corso
      degli eventi; ma le grandi Potenze, per garantire i diritti
      dell'Italia, s'impegnerebbero a riconoscere la sua sovranità sulle
      due provincie occupate. Alla Francia sarebbe stato dato l'incarico
      di parlare a Costantinopoli a nome di tutti. —
      
      Sir Edward Grey, interrogato in proposito dal nostro ambasciatore
      si mostrò incerto ed esitante. Le disposizioni delle altre Potenze
      gli parevano poco incoraggianti; l'atteggiamento della Turchia gli
      pareva negativo, nel qual caso una insistenza troppo viva da parte
      delle Potenze gli pareva avrebbe assunto il carattere di una
      pressione non in armonia cogli obblighi della neutralità.
      
      In Francia, secondo informazioni del Tittoni, un tale passo non
      pareva ancora giustificato dalla situazione da noi conquistata. Il
      Sazonoff persistette tuttavia nella sua iniziativa, cercando
      specialmente di intendersi con l'Inghilterra. Sir Edward Grey,
      ripugnandogli sempre l'idea di parere di violare la neutralità,
      proponeva che si facesse un passo contemporaneo a Roma e a
      Costantinopoli; ma poi, riconoscendo egli che in tal modo si
      sarebbero date false impressioni al governo turco ed incoraggiata
      la sua resistenza, fu deciso di fare prima un passo a Roma per
      essere informati delle condizioni che l'Italia sarebbe disposta ad
      accordare, poi un passo a Costantinopoli per consigliarne
      l'accettazione. Il passo a Roma fu compiuto dagli ambasciatori,
      ognuno per suo conto, il 9 marzo. Il 15 marzo noi consegnammo agli
      ambasciatori la nostra risposta scritta nella quale erano elencate
      e spiegate le condizioni alle quali eravamo disposti a concludere
      la pace; e che corrisposero poi in grande parte esse pure a quelle
      con cui la pace fu conclusa; ciò che dimostra come il Governo
      italiano si fosse fino dal principio fatte idee chiare e precise
      sul modo con cui la questione doveva essere risolta, mantenendo
      fermamente i punti fondamentali, e mostrandosi conciliante per
      tutte le condizioni secondarie. 
      
      Passò ancora un mese prima che le Potenze si accordassero
      pienamente sul passo da compiere a Costantinopoli, sulla base
      della nostra risposta. Il passo ebbe luogo il 16 aprile; la
      risposta della Turchia fu ritardata ancora sino al 24 aprile
      nell'attesa che fossero finite le elezioni, e risultò interamente
      negativa, in quanto la Turchia, pure dichiarando di accettare
      senz'altro, per deferenza alle Potenze, la loro proposta di
      mediazione, aggiungeva di dover avvertire, ad evitare malintesi,
      che non le sarebbe possibile di entrare in negoziati se non sulla
      base del mantenimento effettivo ed integrale dei diritti del
      Sultano, e della rinunzia dell'Italia all'annessione delle due
      provincie e del ritiro delle sue truppe.
      
      In  tal modo  l'iniziativa,  perseguita dal 
      Sazonoff con grande energia, e che aveva raccolto l'adesione
      di tutte le Potenze, falliva completamente. E merita rilevare che
      solo due mesi dopo la Turchia entrava in negoziati diretti con
      noi, essendo chiaramente avvertita che la nostra piena ed
      effettiva sovranità sulle due provincie doveva essere fuori di
      discussione.
      
      Dopo la nostra occupazione delle città e degli altri punti più
      importanti della costa, e dopo l'azione, egregiamente condotta,
      con cui il generale Canova aveva cacciati i turchi-arabi da
      Ainzara e spazzata l'oasi circostante a Tripoli, non si erano più
      avuti né in Tripolitania né in Cirenaica fatti d'armi di carattere
      risolutivo. Il nemico era assolutamente incapace di attaccarci nei
      punti che noi avevamo occupati e fortificati, ed ogni suo
      tentativo di attacco finiva sempre per essere fiaccato con sue
      gravi perdite; ma d'altra parte per noi era pure assai difficile e
      alle volte anche pericoloso cercare d'inseguirlo nel deserto, dove
      le nostre truppe avanzandosi si esponevano a sofferenze ed a
      rischi, per le difficoltà del terreno, la penuria d'acqua e la
      mancanza di qualunque risorsa, e dove le sue squadre leggere
      riuscivano a dileguarsi davanti a ogni nostra mossa. L'opinione
      pubblica che non si rendeva abbastanza conto di tali condizioni, e
      del fatto che la guerra era ormai degenerata in guerriglia, si
      mostrava impaziente. A questa impazienza io non partecipavo; però
      mi rendevo conto della convenienza che l'azione militare
      procedesse più spedita, allo scopo di dimostrare sempre più ai
      turchi ed agli arabi la futilità di qualunque resistenza, e per
      evitare il pericolo, che mi era sempre presente e che doveva
      essere tenuto d'occhio, di possibili ripercussioni internazionali.
      
      
      Un incidente assai spiacevole in questo senso si era prodotto alla
      metà di gennaio. Una nostra nave da guerra, l'Agordat, che batteva
      il Mediterraneo occidentale per vigilare contro il contrabbando
      con cui i turco-arabi venivano riforniti di armi e di munizioni,
      il giorno 15 gennaio aveva fermato una nave postale francese, il
      Carthage, e tre giorni dopo una seconda nave, il Manouba, sulla
      quale si trovava una missione della Mezzaluna rossa turca, avviata
      al campo nemico in Libia, e l'obbligava a sbarcare in Sardegna. Si
      trattava, dopo tutto, di un piccolo incidente che in mie
      posteriori conversazioni con l'ambasciatore francese io qualificai
      come una causa da pretura; e quando, il mattino dopo avvenuto il
      fatto, venne da me, nell'assenza del Barrère, il primo segretario
      dell'ambasciata francese, signor Legrand, io gli dissi che a me
      l'incidente pareva una delle questioni caratteristiche, da
      deferirsi per la sua soluzione al Tribunale internazionale
      dell'Aja, essendo quel tribunale particolarmente atto ad impedire
      che una piccola questione potesse ingrossarsi e farsi pericolosa.
      Il signor Legrand mi chiese se poteva telegrafare al suo governo
      che io proponevo tale deferimento; ed io gli risposi
      affermativamente, pregandolo anzi di telegrafare subito. Ciò egli
      fece, ed all'una dopo mezzogiorno giungeva a Roma un telegramma
      dell'agenzia Havas che riferiva quella proposta del Governo
      Italiano. 
      
      Alle tre pomeridiane il Poincaré, allora Presidente del Consiglio
      francese, parlò alla Camera, pronunziando un discorso alquanto
      aspro e quasi minaccioso, nel quale della nostra proposta non era
      fatto cenno. Io non so se per caso egli non ne fosse stato
      informato; ma il suo discorso, che rispondeva un po' alla
      irritazione nazionalista, provocò naturalmente una reazione nella
      stampa italiana, e parve per un poco che la cordialità dei
      rapporti fra i due paesi, che avevano assai beneficiato del
      contegno decisamente amichevole tenuto dalla opinione pubblica e
      dal governo francese per l'impresa di Libia, ne fosse oscurata.
      Ricordo che lo stesso Clemenceau criticò l'atteggiamento assunto
      in quel discorso dal Poincaré, con un gioco di parole, dicendo: —
      Il pouvait ètre moins carré. — Ma poi le cose si
      appianarono, e lo stesso Poincaré cercò di dissipare l'impressione
      di quel discorso, conducendosi molto amichevolmente per l'Italia
      nelle ulteriori vicende diplomatiche connesse con la nostra
      impresa; e si finì per deferire, secondo la mia proposta, la
      questione al Tribunale dell'Aja, davanti al quale fu per noi
      patrocinata dall'on. Fusinato, e che fu conclusa con una sentenza
      conciliante, colla quale l'Italia ne usciva bene. Incidenti come
      codesto mostravano però che noi dovevamo preoccuparci, oltre che
      della guerra locale, anche della situazione generale. 
      
      Nelle mie comunicazioni col Caneva, io mettevo bene in chiaro che
      non intendevo affatto di impartirgli ordini, e di dirigere dal mio
      gabinetto le operazioni militari, per le quali gli lasciavo con
      tutte le responsabilità l'intera liberta di giudizio, limitandomi
      semplicemente a richiamare la sua attenzione sul lato generale
      della guerra. Il Caneva mandò a Roma il Giardino, allora tenente
      colonnello, per spiegarmi le ragioni della lentezza con cui la
      guerra procedeva. Poi più tardi, il 7 ed 8 febbraio, venne egli
      personalmente, ed ebbi con lui due lunghe conversazioni.
      L'impressione che ne riportai fu per un rispetto ottima, come di
      uomo capace, intelligente, ed ordinato, che non procedeva se non
      rendendosi pienamente conto delle cose; ma mi parve anche che
      mancasse alquanto di iniziativa, e che non si rendesse conto
      abbastanza delle ragioni di politica estera che consigliavano una
      azione più rapida, per evitare complicazioni che potevano nascere
      ad ogni momento in una guerra che turbava tanti altri interessi.
      Il Caneva invece considerava quasi esclusivamente la situazione
      militare locale.
      
      Nelle conversazioni egli mi spiegò con grande chiarezza tale
      situazione militare e la difficoltà di azioni risolutive, tanto
      che io fui persuaso che molte delle critiche che si rivolgevano
      alla sua opera non erano giustificate: egli alla sua volta si
      persuase delle ragioni di politica internazionale che
      consigliavano di abbreviare al possibile la durata della guerra.
      Fu convenuto di accrescere i mezzi militari, specie in vista di
      azioni rapide di colonne volanti, che poi furono usate in una
      seconda fase della campagna. Io  desideravo 
      insomma  di conseguire  la maggiore somma di risultati
      compatibile con una condotta prudente, che non esponesse a
      scacchi, perchè avevo sempre presente l'eventualità di un
      intervento amichevole da parte delle Potenze per la risoluzione
      della questione e la discussione della pace; e perchè sapevo che
      quando si entra in tale discussione si discute sempre in base ai
      risultati già ottenuti.
      
      La guerra nel frattempo, e precisamente fra il marzo e il giugno,
      entrò in una nuova fase, alla campagna di terra aggiungendosi una
      campagna navale, nel Mare Egeo. Varie furono le ragioni che ci
      obbligarono a questo nuovo passo. Anzitutto avevamo constatato che
      dalla Turchia partivano continuamente ufficiali, armi e munizioni,
      e materiale d'ogni genere, che a mezzo di un vasto contrabbando
      esercitato traverso l'Egeo, erano sbarcate e fatto arrivare agli
      arabi, specie nella Cirenaica; fra l'altro, in tal modo vi era
      giunto Enver Bey, che vi aveva assunto il comando delle operazioni
      contro di noi. Nei mesi d'inverno l'inclemenza della stagione e la
      difficoltà degli sbarchi su quelle coste avevano aiutata la
      vigilanza delle nostre navi di crociera; ma con la stagione
      primaverile il contrabbando accennava ad intensificarsi assai, e
      noi sapevamo di più vasti preparativi a tale scopo. Il Ministro
      della Marina, Leonardi Cattolica, mi fece allora presente le
      difficoltà della situazione, osservandomi che la nostra vigilanza
      avrebbe potuto riuscire assai più efficace se, invece che lungo la
      estesissima costa Ubica, avesse potuto esercitarsi agli sbocchi
      orientali del Mare Egeo; il
      che però avrebbe reso necessaria l'occupazione di qualche punto
      d'appoggio nelle isole di quel mare, per dare modo alle nostre
      squadre di crociera di rifornirsi senza dovere percorrere la lunga
      strada che le separava dalla nostra base navale di Tobruk. 
      
      Nello stesso tempo una persona che viveva a Costantinopoli, e che
      era assai addentro alle cose della marina turca, ci offriva i suoi
      servizi per aiutarci qualora lo credessimo opportuno, a compiere
      un colpo di mano contro la flotta turca, che si trovava ancorata e
      male vigilata alla punta di Nagara. Ora, se nell'inizio della
      guerra per le ragioni già dichiarate, noi credemmo opportuno di
      astenerci da un tentativo contro la flotta turca, la situazione
      mutata doveva consigliarci ad agire diversamente. La condotta
      della Turchia, che pareva quasi disinteressarsi a che la
      guerriglia in Libia si protraesse indefinitivamente; come pure
      l'insuccesso dei passi compiuti dalle Potenze per persuaderla a
      riconoscere il fatto compiuto e ad accettare l'inevitabile, ci
      spingeva necessariamente ad entrare in un altro campo di azione,
      dal quale ci eravamo fino allora astenuti, per riguardo agli
      interessi delle altre Potenze, senza però rinunciare menomamente
      ai nostri diritti di belligeranti. Io consideravo insomma che
      ormai ci si imponeva di avvicinare la guerra a punti in cui la
      Turchia fosse più vulnerabile, per farle capire che essa pure,
      ostinandosi a prolungare una guerra la cui sorte era ormai decisa;
      si esponeva a nuovi e più gravi rischi.
      
      Era però da aspettarsi che tale spostamento della nostra azione
      militare dalla Libia all'Egeo avrebbe moltiplicate le difficoltà
      diplomatiche intorno a noi. Già nei primi giorni di febbraio il
      nostro ambasciatore a Vienna, Duca d'Avarna, ci avvertiva che
      l'Aerenthal, conversando con un personaggio del corpo diplomatico,
      aveva lasciato intendere che l'Austria non avrebbe potuto lasciare
      passare una qualsiasi azione nella Turchia europea, che egli, con
      arbitraria interpretazione, riteneva contraria agli impegni
      stabiliti nell'articolo VII del nostro trattato di Alleanza.
      Viceversa il Ministro degli Esteri russo, Sazonoff, c'incitava
      quasi a fare qualcosa in questo senso, dichiarando al nostro
      ambasciatore Melegari che egli sarebbe lieto se noi facessimo
      qualche cosa che colpisse la Turchia in una parte vitale, e
      dessimo una buona lezione ai Giovani Turchi onde abbattere la loro
      ormai insopportabile tracotanza. E l'ambasciatore tedesco a Roma,
      conversando col De Martino, e pure premettendo di non parlare come
      ambasciatore, ma di esprimere semplicemente una sua personale
      opinione, gli diceva che noi dovevamo fare un'azione contro i
      Dardanelli, ed all'obbiezione dell'opposizione austriaca,
      rispondeva che da quanto gli aveva detto il suo ministro
      Kiderlen-Wächter, non risultava che l'Aerenthal fosse veramente
      opposto ad una tale azione. 
      
      L'Aerenthal però nel frattempo era morto; e siccome con lui non si
      era potuto andare a fondo della cosa, c'era da temere che il suo
      successore, il conte Berchtold, non volesse rischiare di
      mostrarsi, davanti all'opinione pubblica e sopratutto all'elemento
      militare, più arrendevole alI'Aerenthal, che godeva di una
      autorità molto superiore. Per parte dell'Inghilterra e della
      Francia nulla ci era stato detto; ma il resoconto stenografico di
      un discorso di Poincaré lasciava credere che noi avessimo
      esplicitamente rinunciato a qualunque operazione militare e navale
      fuori della Libia; e noi ci affrettammo a smentire subito la cosa,
      che fra l'altro avrebbe avuto l'inconveniente di incoraggiare la
      Turchia alla resistenza. Ci constava poi che la Turchia, a mezzo
      dei suoi ambasciatori, si sforzava di correre in precedenza ai
      ripari, minacciando, nel caso di un nostro attacco ai Dardanelli,
      non solo di espellere tutti gli italiani dai suoi territori, ma
      anche di chiudere gli Stretti al commercio internazionale. Era il
      sistema ormai abituale per cui la Turchia cercava la propria
      protezione dietro qualche interesse forestiero.
      
      La questione si trascinava così teoricamente negli scambi di
      vedute diplomatici, quando occorse un episodio che la mise alla
      prova della realtà. Una nostra squadra di crociera, essendosi
      presentata, il 24 febbraio, davanti a Beirut, vi trovò due vecchie
      navi da guerra turche che vi si erano ricoverate. Avendo esse
      all'intimazione di arrendersi, non solo rifiutato, ma aperto il
      fuoco contro le navi nostre, queste risposero colandole in breve a
      picco, senza del resto fare nessuna azione che causasse il menomo
      danno alla città ed al porto. L'Austria protestò immediatamente,
      sulla base di informazioni errate che ci accusavano di avere
      bombardata una città aperta; e il suo ambasciatore a Roma, il
      Merey, a nome del suo governo, richiamò l'attenzione del San
      Giuliano sulla responsabilità in cui l'Italia incorrerebbe qualora
      si rinnovasse il bombardamento di una città, in cui viveva una
      numerosa colonia austriaca. Barrère fece pure un passo a nome del
      suo governo, ma in forma assai amichevole; e noi gli facemmo
      osservare come fosse in quel momento sommamente necessario di
      evitare qualunque espressione di linguaggio che accennasse a
      limitazione delle nostre operazioni, con l'effetto di incoraggiare
      la Turchia nella sua resistenza.
      
      Ma il fatto diplomatico più grave di quel momento, fu il tentativo
      di una iniziativa inglese per determinare una tale limitazione a
      mezzo di una azione collettiva delle Potenze. Ne fummo informali
      contemporaneamente da Vienna e da Pietroburgo. Il 29 febbraio
      l'ambasciatore inglese a Vienna aveva consegnato al conte
      Berchtold una memoria così concepita: — «È certo che il commercio
      internazionale subirebbe gravi perdite nel caso che il Governo
      ottomano decidesse, come misura di difesa, di chiudere con mine
      sottomarine i Dardanelli. Sir E. Grey desidera sapere se il
      Governo austriaco giudicherebbe opportuno che i rappresentanti
      delle Potenze chiedano al Governo italiano se sarebbe disposto ad
      assicurare che nessuna operazione sarà intrapresa nei Dardanelli o
      nelle acque vicine». 
      
      Il Berchtold aveva risposto con disposizioni abbastanza cordiali
      verso di noi, dicendo di aver ragione di credere che il Governo
      italiano non consentirebbe mai a fare una tale dichiarazione e che
      egli non prenderebbe parte al passo progettato se non fosse prima
      sicuro che noi non faremmo alcuna obbiezione; ma incaricava
      l'ambasciatore Merey di aggiungere che egli era convinto che noi
      non pensassimo ad ima azione nei Dardanelli o nelle vicinanze, per
      timore delle ripercussioni che essa potrebbe avere nei Balcani.
      Più franco e deciso era stato il Sazonoff, il quale, non ostante
      le insistenze dell'ambasciatore inglese, aveva categoricamente
      rifiutato di partecipare ad un tale passo, come incompatibile coi
      doveri della neutralità, ed aveva dichiaralo poi al nostro
      ambasciatore che egli considerava la proposta inglese addirittura
      indecente. E l'Inghilterra non insistette più oltre.
      
      Non ostante questi intralci e manovre diplomatiche, noi avevamo
      deciso di agire, con l'intento sopratutto di colpire la flotta
      turca, e l'ammiraglio Thaon de Revel aveva avuto l'incarico chi
      concertare tutto il piano d'azione. La concentrazione della
      squadra a cui l'esecuzione del piano era affidato aveva già avuto
      luogo a Bomba; ma poi il progetto fu pel momento abbandonato, non
      in ubbidienza a intimidazioni diplomatiche, ma perchè, a giudizio
      della no!-stra marina, esso era diventato inattuabile in seguilo
      alle precauzioni prese dalla marina turca, la quale, avendo avuto
      sentore della cosa, aveva sbarrato l'entrata dei Dardanelli e
      ritirata la flotta nel Mare di Marinara, dove non avrebbe certo
      potuto essere  raggiunta.
      
      Noi ad ogni modo eravamo ben fermi di mantenere la nostra libertà
      d'azione ed i nostri diritti di belligeranti: opinando però nello
      stesso tempo che fosse conveniente di tenere informate le Potenze
      alleate ed amiche, sia per riguardo ai loro interessi, sia per
      impedire che qualcuna di esse, e l'Austria particolarmente,
      potesse prendere pretesto da una nostra azione per procedere ad
      un'azione propria che riuscisse anche indirettamente a nostro
      danno. Sapevamo che il partito militare austriaco spingeva a colpi
      di mano in Albania, che potevano essere consumati magari d'accordo
      con la Turchia, ed intendevamo di evitare che la nostra condotta
      desse a tali progetti qualunque pretesto. Avvertimmo pertanto il
      Berchtold che il contrabbando militare turco ci obbligava a
      stabilire una crociera allo sbocco dell'Egeo nel Mediterraneo, e
      che a tale scopo avremmo dovuto occupare provvisoriamente qualche
      isola, indicando Stampalia, Lemno e qualche altra. Informammo di
      queste nostre intenzioni anche il Governo di Berlino, che non fece
      opposizione, anzi si impegnò di agire a mezzo del suo ambasciatore
      presso Berchtold per persuaderlo a non frapporre ostacoli a nostre
      eventuali operazioni nell'Egeo e contro i Dardanelli. Anche la
      Francia non fece difficoltà, anzi il Poincaré consigliò
      apertamente di occupare qualche isola, come mezzo per
      impressionare la Turchia ed affrettare la pace. 
      
      Ma l'Austria, che si mostrò pure assai piccata che noi le avessimo
      fatto parlare dalla Germania, teneva duro; e ne seguì una lunga
      conversazione diplomatica, nella quale il San Giuliano controbattè
      con grande abilità dialettica le argomentazioni del Berchtold. La
      discussione verteva specialmente su due punti. Il Berchtold
      sosteneva, seguendo l'interpretazione già data dall'Aerenthal, che
      l'articolo VII del Trattato della Triplice, che contemplava i
      reciproci interessi dell'Austria e dell'Italia nei Balcani,
      vietasse qualunque occupazione, sia pure temporanea ed a scopo
      militare, nei territori europei dell'Impero; e fosse anzi
      contrario ad una qualunque azione militare, quale sarebbe un
      bombardamento di quelle coste. Sosteneva pure che tutte le isole
      dell'Egeo dovessero considerarsi come parte della Turchia europea.
      San Giuliano rispondeva rifiutando assolutamente di accettare
      l'interpretazione arbitraria ed infondata che l'Aerenthal ed il
      Berchtold davano all'articolo VII del Trattato, in quanto tale
      articolo si riferiva a modificazioni permanenti dello statu quo, e
      non già ad occupazioni temporanee consigliate ed imposte da
      ragioni militari, e reputava arbitrario l'assunto del Berchtold
      che le isole del basso Egeo, che sia nel criterio geografico, sia
      nello stesso criterio amministrativo turco facevano parte dei vilayets
      dell'Asia, dovessero intendersi contemplate dalle clausole del
      Trattato che si riferivano esclusivamente ai territori europei
      dell'Impero. 
      
      La conversazione diplomatica, diventò a certi momenti assai
      serrata; e ad un certo punto noi dichiarammo all'Austria che non
      ci saremmo lasciati arrestare da pericoli immaginari e da
      interpretazioni infondate; e che una sua opposizione alla nostra
      libertà d'azione renderebbe impossibile il mantenimento
      dell'Alleanza. 
      
      Al 12 aprile noi informammo il Berchtold che non potevamo ormai
      più differire, per ragioni militari e politiche, le nostre
      operazioni nell'Egeo; ed egli finì per dichiarare che non avrebbe
      sollevate difficoltà di fronte ad una nostra eventuale occupazione
      di Rodi, Stampalia, ecc., purché noi ci fossimo impegnati a
      restituirli a guerra finita. Noi non eravamo alieni di prendere
      tale impegno, a condizione che fosse mantenuto segreto; anzi
      consideravamo fosse nel nostro interesse di prenderlo, per evitare
      che l'Austria, giuocando sulla sua interpretazione dell'articolo
      VII dell'alleanza, avanzasse la pretesa di compensi o magari si
      prendesse di colpo un compenso in Albania o nel Sangiaccato,
      secondo le intenzioni da noi non ignorate del partito militare,
      col pretesto della nostra occupazione delle isole. Una nostra
      dichiarazione che quella occupazione era solo temporanea toglieva
      di mezzo quel pretesto, perchè in tal caso anche il preteso
      compenso austriaco avrebbe dovuto essere temporaneo. E di tale
      conseguenza forse si accorse il Berchtold, o chi stava dietro di
      lui; perchè dopo averci richiesta la formula scritta dell'impegno
      di restituzione delle isole alla Turchia, all'ultimo finì per
      rinunciarvi, probabilmente per conservare  maggiore 
      libertà  d'azione.
      
      Pochi giorni dopo s'iniziava questa nuova fase della guerra.
      Una squadra, al comando dell'Ammiraglio Viale, partita da Taranto
      si concentrava fra i giorni 15 e 16 aprile a Stampalia, già scelta
      come base di rifornimento, e dove fu raggiunta da un nostro agente
      forestiero segreto che doveva servire da pilota per qualunque
      azione nei Dardanelli. Il suo obbiettivo principale era di
      scortare ai Dardanelli una squadriglia di siluranti, le quali,
      qualora avessero potuto enti-are di sorpresa, avrebbero tentato di
      silurare la flotta turca. La squadriglia arrivò, come stabilito,
      davanti ai Dardanelli la notte del 17, ma le pessime condizioni
      del mare, e la vigilanza dei riflettori turchi, resero impossibile
      la sorpresa. Nella mattinata avanzò una squadra di nostre
      corazzate, con l'intento di attrarre quella nemica, mentre
      un'altra nostra squadra si teneva nascosta dietro Imbros, pronta a
      tagliarle la ritirata. Ma le navi turche non si mostrarono.
      Aprirono invece il fuoco contro le nostre squadre i forti delle
      due sponde; le nostre artiglierie risposero, cannoneggiando per
      due ore, poi si ritirarono per adempiere alle loro altre missioni.
      
      La crociera della nostra squadra non aveva affatto avuto lo scopo
      di un attacco ai Dardanelli, ma semplicemente di sostenere un
      eventuale attacco di torpediniere contro la flotta turca, e di
      compiere una dimostrazione che togliesse alla Turchia la illusione
      che la rincuorava alla resistenza, che la nostra libertà d'azione
      fosse limitata. Il breve scambio di cannonate coi forti turchi non
      poteva essere considerato quale un attacco, ed era stato provocato
      dai forti stessi. Ma la Turchia, la cui sola speranza stava nel
      provocare complicazioni, colse l'occasione per un atto che
      danneggiasse gli interessi commerciali delle altre Potenze e ne
      provocasse l'irritazione e forse qualche provvedimento contro
      l'Italia; e cioè la chiusura dei Dardanelli alla navigazione
      commerciale. Quella decisione turca era insostenibile, ed
      inammissibile la tesi su cui si fondava. Il diritto della Turchia
      di chiudere gli Stretti, sancito dal Trattato di Londra del 1841 e
      confermato da quelli del 1856 e del 1871, si limitava
      esplicitamente alle navi da guerra, non essendo ammissibile di
      diritto, né il blocco assoluto dei Dardanelli da parte di una
      flotta nemica, né la loro assoluta chiusura da parte del Governo
      turco. 
      
      E il Sazonoff, con la dirittura che mantenne durante tutte queste
      vicende, inviò subito alla Porta una energica protesta scritta,
      chiedendo l'immediata riapertura degli Stretti e minacciando, in
      caso di rifiuto, di esigere risarcimenti. A rendere la chiusura
      ingiustificata anche dal punto di vista pratico, stava il fatto
      che il grosso della nostra squadra si era già allontanata
      rientrando parte a Taranto e parte a Tobruk. Ma gli interessi
      commerciali, che esercitandosi nel territorio ottomano,
      parteggiavano per la Turchia, facevano sentire il loro peso,
      riuscendo a determinare qualche atto diplomatico. Sir Edward Grey,
      rispondendo ad una rappresentanza commerciale, aveva dichiaralo
      che avrebbe telegrafato a Roma e a Costantinopoli, per ottenere
      che le navi commerciali potessero passare liberamente dall'Egeo al
      Mar Nero e viceversa. Una tale mossa sarebbe stato un nuovo
      attacco ai nostri diritti di belligeranti, con conseguente
      incoraggiamento alla Turchia; e noi facemmo sapere al governo
      inglese che non avremmo potuto ammettere una qualunque diminuzione
      di tali nostri diritti, del resto perfettamente compatibili con
      gli interessi commerciali che esso desiderava proteggere, la
      Turchia non avendo diritto di chiudere gli Stretti che dopo
      iniziato un attacco; aggiungendo che a noi pareva che il miglior
      modo di risolvere la questione fosse di fare passi presso la sola
      Turchia, appoggiando l'azione della Russia. 
      
      Il Berchtold rinnovò le solite lagnanze, qualificando, in una
      conversazione col nostro ambasciatore, l'attacco ai Dardanelli
      come un atto di provocazione, che egli non si aspettava, e che
      stava in contrasto coi nostri amichevoli accordi; che egli non
      poteva ammettere che noi in avvenire ripetessimo azioni simili a
      quella ora compiuta; e che se un'operazione simile fosse da noi
      eseguita, avrebbe potuto avere gravi conseguenze. Alla fine il
      punto di vista russo prevalse, e la Turchia, dopo una certa
      resistenza, si rassegnò a riaprire gli Stretti al commercio, ed a
      rinunciare a questo ricatto tentato ai danni nostri e degli
      interessi generali dell'Europa.
      
      Non ostante queste complicazioni diplomatiche noi
      continuammo  risolutamente nel programma  che ci
      eravamo prefisso: ed il 23 aprile una nostra divisione navale, al
      comando dell'Ammiraglio Presbitero, occupò l'isola di Stampalia,
      stabilendovi una nostra base navale, e facendo prigioniera la
      guarnigione turca. II 12 maggio la divisione al comando
      dell'Ammiraglio Corsi occupava le isole di Scarpanto e Gos e altre
      otto isole; ed il giorno dopo varie nostre navi occuparono le
      altre isole del Dodecaneso. L'impresa più importante fu quella di
      Rodi, dove si trovava una grossa guarnigione turca. Viale ed
      Ameglio vi erano sbarcati il 3 e 4 maggio, alla Baia di Catilla,
      senza colpo ferire; la guarnigione turca ritirandosi nell'interno,
      dove finì per arrendersi il 17 maggio dopo una piccola battaglia
      combattuta a Psitos.
      
      L'occupazione delle isole non dette luogo ad alcuna osservazione
      da parte delle Potenze, eccetto l'Austria. Anche per queste
      operazioni il Berchtold rinnovò le sue lagnanze, perchè le nostre
      occupazioni non si erano limitate alle isole per le quali egli
      aveva espresso, sebbene a riluttanza, il suo consenso. Egli
      affacciò allora la tesi che le occupazioni italiane dessero
      all'Austria il diritto di chiedere compensi, che essa per ora non
      desiderava, senza per ciò rinunciare a tale suo diritto. Egli
      intendeva però che le occupazioni compiute segnassero l'ultimo
      limite. Il San Giuliano, che in tutta questa controversia, mostrò
      sempre grande pazienza unita a fermezza, gli rispose che in Italia
      si considererebbe come amica ed alleata della Turchia, e come non
      amica e non alleata dell'Italia quella potenza la quale, violando
      i doveri della neutralità in favore della Turchia ci avesse
      impedito di servirci di tutti i mezzi in nostro potere per
      obbligarla a cederci. 
      
      Osservava che la astensione da operazioni, politicamente e
      militarmente necessarie, ma ostacolate dall'Austria, non sarebbe
      stata possibile alla lunga senza che il vero motivo di tale
      astensione, cioè l'opposizione dell'Austria, finisse per essere
      noto, ed anzi il Governo italiano potrebbe trovarsi, ad un dato
      momento, nella necessità di dichiararlo. E concludeva che vi era
      contraddizione fra il pretesto dell'Austria di non riconoscere la
      nostra sovranità in Libia perchè la Turchia era ancora in grado di
      resistere, e la pretesa di ostacolarci l'uso dei mezzi per
      obbligarla e desistere dalla resistenza. 
      
      Io non ho mai avuta occasione di conoscere il Berchtold- ma il San
      Giuliano, che poi lo incontrò in un convegno a Pisa, me ne
      comunicò una impressione assai mediocre, come di persona senza
      idee proprie ed asservita interamente alla camarilla aulica e
      militare, alla quale non sarebbe parso vero di profittare della
      situazione per svolgere i suoi progetti nell'Albania e nel
      Sangiaccato. Ed infatti la sua condotta diplomatica, di perpetue
      lagnanze e di mezze minaccie verso di noi, senza che arrivasse mai
      ad una conclusione; e la monotonia con cui insisteva in
      interpretazioni  arbitrarie  ed  infondate
      dei  nostri  impegni, senza mai  tentare di
      affrontare  le argomentazioni contrarie del San Giuliano,
      davano l'impressione di un uomo che non aveva né libertà né
      capacità d'azione, e che invece di ragionare con la propria testa
      per rendersi conto della realtà delle cose, eseguisse
      semplicemente una parte che gli era affidata. La stranezza ed
      ambiguità della sua posizione e dei suoi atteggiamenti, risultò in
      modo assai curioso nell'ultimo episodio di questa lotta
      diplomatica, che merita di essere ricordato. 
      
      Lo Stato Maggiore della nostra marina credè ad un certo momento
      conveniente che noi occupassimo Chio e due o tre altre isole
      minori, per rendere più agevole e meno faticosa la nostra
      vigilanza. Siccome il Berchtold riteneva che secondo i trattati
      noi fossimo impegnati di preavvisarlo e consultarci seco per
      qualunque nostro progetto di occupazione, e ci aveva rimproverata
      come una violazione dei nostri impegni il non averlo fatto in
      precedenti occasioni, così noi incaricammo il nostro ambasciatore
      D'Avarna di informarlo e consultarlo. Il Berchtold mutò allora la
      sua tesi, dichiarando che tali nostri preavvisi avevano l'effetto
      di associarlo alla nostra azione, e che egli declinava tale
      compromissione. Noi agissimo per nostro conto; e se la nostra
      azione era contraria agli impegni da noi assunti egli si sarebbe
      ritenuto svincolato pure per parte sua dagli obblighi
      dell'alleanza e della convenzione segreta dei Balcani del 1909. 
      
      Siccome l'occupazione di Chio era conveniente ma non
      indispensabile, io e San Giuliano decidemmo di prendere, come si
      dice, la palla al balzo, rinunciando alla occupazione progettata;
      ma nello stesso tempo avvertimmo il Berchtold che prendevamo nota
      che, con la nostra rinuncia, egli riconosceva che i reciproci
      impegni rimanevano pienamente validi. E di questa nostra
      constatazione demmo pure avviso alla Germania.
      
      La risposta della Turchia alle nostre occupazioni nell'Egeo fu un
      decreto di espulsione, già da lungo tempo minacciato, dei nostri
      connazionali da tutti i territori dell'Impero. Quella
      deliberazione del Governo turco era una rappresaglia abbastanza
      grave, non essendoci meno di ventimila cittadini italiani a
      Costantinopoli, e cinquantamila nel resto dell'Impero; ma i suoi
      effetti sulla guerra erano più che nulli, negativi in quanto che
      se quel decreto fosse stato integralmente applicato, e i nostri
      porti fossero stati invasi dai profughi, lo spettacolo delle loro
      miserie e sofferenze avrebbe irritata sempre più l'opinione
      pubblica e spinto il Governo italiano a rispondere alla sua volta
      con nuovi attacchi militari alle parti più vitali dell'Impero. 
      
      L'Ambasciata tedesca, che aveva assunto la tutela dei nostri
      concittadini, non spiegò un'azione protettrice molto vigorosa; il
      Marshall essendo assai irritato contro l'Italia perchè considerava
      che la nostra impresa avesse gravemente danneggiata la sua opera
      politica in Turchia, costrutta col lavoro di un ventennio; ma
      l'applicazione del decreto fu assai blanda, anche perchè molti dei
      nostri connazionali erano impiegati in imprese europee che non
      potevano fare a meno della loro collaborazione.
      
      L'ultima impresa d'una certa importanza della nostra marina
      nell'Egeo, fu una scorreria nei Dardanelli,, compiuta da una
      squadra di torpediniere al comando dell'Ammiraglio Millo. Avendo
      avuta notizia che la flotta turca progettava un colpo di mano
      contro qualche nostra nave isolata, fu ordinato di intenisificare
      e spingere più al nord le crociere di vigilanza delle nostre
      siluranti. Una nostra squadriglia così entrò nei Dardanelli,
      spingendosi con grande ardimento per una ventina di chilometri,
      fino quasi a Cianak. Giunta colà fu scoperta, e presa sotto un
      fuoco incrociato; ma proseguì nella rotta finché, giunta al luogo
      d'ancoraggio della flotta turca, e constatando che questa era
      sicuramente difesa da reti di acciaio che rendevano impossibile un
      attacco, decise di ritirarsi; e la ritirata fu eseguita in
      perfetto ordine, senza alcun danno, e senza che il nemico osasse
      un inseguimento, quantunque le nostre siluranti non fossero
      protette da alcuna nave maggiore. La squadriglia aveva a bordo,
      per pilota, uno straniero conoscitore degli Stretti, il quale ad
      un certo punto era stato preso da paura, e voleva che si
      retrocedesse; ma il Millo, puntandogli la rivoltella alle tempie,
      l'aveva obbligato a compiere sino al fondo l'opera per cui si era
      profferta ed era stato ingaggiato.
      
      Questa complicata guerra, fra diplomatica e marittima, condotta
      nell'Egeo, non aveva affatto distolta ia nostra attenzione dalla
      Libia; dove alcuni mesi di sosta ci avevano permesso di riordinare
      i nostri corpi di occupazione, rafforzandoli anche con nuovi
      importanti contingenti, e con mezzi intesi a renderli atti ad una
      serie di operazioni e spedizioni, più rapide e lontane, allo scopo
      di debellare i vari nuclei turco-arabi, riaffermando il nostro
      dominio e mostrando, alle popolazioni da cui i turchi traevano le
      loro reclute, la inutilità di una ulteriore resistenza.
      
      Codeste operazioni furono iniziate con una impresa
contro
      Misurata, che era uno dei centri della resistenza nemica e che
      serviva particolarmente ai turco-arabi per il contrabbando d'armi
      e munizioni nella
Tripolitania. Un corpo di spedizione, al
      comando
del Generale Camerana, scortato dalla divisione
      dell'Ammiraglio Borea-Ricci, vi effettuò uno sbarco la
sera del 16
      giugno, e si impadronì delle principali posizioni dopo un
      combattimento accanito. L'operazione
ebbe poi il suo compimento
      l'8 luglio, con l'occupazione della città stessa, che si trovava
      alcune miglia
all'interno, dopo un altro accanito
      combattimento.
Il 21 luglio fu iniziata la avanzata del colonnello
      Fara
verso il Garian, che costituiva il principale
      punto
d'appoggio del nemico nell'interno; e il 5 agosto
      il
generale Garioni, operando con due divisioni sbarcate
dal mare,
      occupava, ad occidente di Tripoli, Zuara;
estendendo poi
      l'occupazione sino alla frontiera tunisina, anche allo scopo di
      mettere fine al contrabbando di armi e munizioni che passava
      abbondantissimo traverso quella frontiera. 
      
      Il 31 agosto Caneva
lasciava Tripoli e veniva esonerato dal
      comando supremo del corpo di spedizione; e i due comandi
      della
Tripolitania e della Cirenaica venivano resi indipendenti
      sotto i rispettivi generali Ragni e Bricola; tale provvedimento
      venendo preso in considerazione del fatto che ormai l'unità del
      comando non era più necessaria, anzi avrebbe intralciata quella
      particolare opera di polizia militare, rispondente alla nuova fase
      della guerra, e che richiedeva libertà e rapidità di iniziativa.
      Il generale Reisoli effettuò verso la metà di agosto alcune di
      queste operazioni ad occidente di Derna, provocando un grande
      attacco da parte del nemico, che fu sconfitto, lasciando oltre un
      migliaia di morti sul terreno; e pochi giorni dopo si aveva pure
      una notevole battaglia a mezzogiorno di Tripoli, presso Zanzur.
      
      Queste operazioni nella Libia si svolgevano parallelamente ai
      negoziati per la pace, già iniziati ufficiosamente ad Ouchy, ed
      erano intese, fra l'altro, a fare comprendere alla Turchia che,
      quale si fosse l'esito di quei negoziati, noi eravamo ben fermi
      nel proposito di andare a fondo in Libia a qualunque costo, fino a
      che la nostra autorità vi fosse stabilita e riconosciuta. E del
      resto queste operazioni erano pure necessarie per fiaccare la
      resistenza locale, che altrimenti avrebbe potuto prolungarsi anche
      dopo che la Turchia avesse firmata la pace.
      
      Una terza piccola guerra, oltre a quelle di Libia e dell'Egeo, fu
      combattuta in un teatro più lontano, nel Mar Rosso, parte
      direttamente a mezzo di una piccola squadra navale nostra, e parte
      indirettamente a mezzo di uno sceicco arabo, Said Idriss, col
      quale riuscimmo ad assicurarci una specie di alleanza.
      
      Queste operazioni nel Mar Rosso, che richiedevano un'azione tutta
      speciale dietro le quinte, furono sempre sotto il controllo del
      Ministero degli interni, e dirette da me personalmente.
      L'estensione della guerra nel Mar Rosso apparve necessaria e
      conveniente sino dal principio, per varie ragioni. Dovevamo
      anzitutto proteggere le nostre colonie contro qualche colpo di
      mano che la Turchia vi potesse tentare, se non altro per recarci
      qualche disturbo; ad evitare la qual cosa sarebbe però bastata la
      vigilanza dei nostri incrociatori e delle nostre cannoniere di
      stazione a Massaua. Ma vi era un altro più grave pericolo,
      connesso con la guerra in Cirenaica, e cioè che traverso il Mar
      Rosso e il Sudan i turchi facessero passare armi e capi al
      Senusso, che aveva il suo quartiere generale nelle oasi di Kufra e
      di Giarabub. Ad impedire questo, la vigilanza delle nostre navi,
      su una costa cotanto estesa, sarebbe riuscita assolutamente
      insufficiente; e forze maggiori di quelle di cui disponevamo in
      quel mare, sarebbero pure occorse per bloccare i porti della costa
      araba. 
      
      Io giudicai che fosse mezzo di maggiore efficacia, a distogliere i
      turchi da tale tentativi, creare loro delle ostilità nel loro
      stesso territorio d'Arabia; ciò che appariva anche più agevole in
      quanto che Said Idriss, una specie di grande feudatario delle
      popolazioni che si trovano fra la Mecca e lo Yemen, era già in
      stato di ribellione contro le autorità ottomane, per motivi
      religiosi; il linguaggio e le idee occidentali adottate dai
      Giovani Turchi apparendo assolutamente eretiche a quegli ortodossi
      purissimi dell'islamismo che vivevano nei territori da dove uscì
      Maometto, e che furono culla della loro religione. Ricordo che
      nella corrispondenza passata fra noi, cristiani, e l'Idriss,
      costui ci considerava come strumenti della volontà di Allah, e
      qualificava i Turchi di «cani infedeli», accusandoli di avere
      introdotte nuove divinità come il Progresso, la Civiltà, ecc.
      nella loro religione.
      
      Ad annodare rapporti con Said Idriss, ci aiutò assai il Kedivè di
      Egitto, che in quel tempo era ostilissimo ai Giovani Turchi, di
      cui temeva le ambizioni e le pretese; e che mostrò, durante
      l'intera guerra, grande amicizia per l'Italia, in riconoscenza,
      egli diceva, della cortesia di Umberto I, il quale aveva accolto
      con cordiale ospitalità in Italia suo padre, quando era stato
      privato del trono e bandito dall'Egitto in seguito agli
      avvenimenti del 1882, alla rivolta di Arabi pascià ed
      all'occupazione inglese. Suoi agenti, venuti appositamente a
      Massaua, riuscirono a mettersi in comunicazione, non ostante la
      vigilanza turca alla costa, con Idriss, il quale accolse con
      entusiasmo la nostra offerta di aiutare la sua guerriglia contro i
      Turchi. 
      
      Al comando delle nostre forze navali nel Mar Rosso, fu inviato
      l'allora capitano di vascello Cerina Ferroni, che condusse 
      le  cose  con  molta  capacità  ed 
      energia,   insieme al tenente Rubiolo, che vi si trovava
      già ed aveva grande pratica di quei luoghi. Noi aiutammo Idriss
      con danaro; poi gli fornimmo circa diecimila fucili e munizioni, e
      mettemmo anche a sua disposizione tre batterie da campagna, coi
      loro cannonieri, per dargli modo di attaccare i turchi anche nelle
      loro fortificazioni, mentre poi le nostre navi bloccavano Hodeida
      per impedire che rifornimenti di armi e munizioni arrivassero ai
      campi turchi, e partecipavano pure dal mare ai bombardamenti dei
      forti lungo la costa. Siccome Idriss mirava ad impadronirsi dei
      luoghi santi, scacciandone la guarnigione turca, la qual cosa
      avrebbe recato un grave colpo all'autorità del Sultano quale
      Kalifa, i turchi si allarmarono assai, e tentarono ogni mezzo per
      pacificarlo, o per minacciarlo e creargli difficoltà che lo
      forzassero a rinunciare a quell'impresa. Così pensarono di
      attaccarlo a tergo, suscitandogli contro l'Iman Jaja, che dominava
      nello Yemen; e siccome fra lo Yemen e il territorio di Idriss
      c'erano delle popolazioni mezzo selvaggie, noi alla nostra volta
      lavorammo a incitarle contro l'Iman Jaja, perchè gli impedissero
      di attaccare Idriss alle spalle. 
      
      A dare una idea dello stato di ignoranza affatto primitiva di
      queste popolazioni, ricordo un curioso episodio. Fra i nostri
      ufficiali che si recavano a negoziare coi loro capi, ce ne era uno
      che aveva un dente d'oro; e la cosa, che evidentemente esse
      credevano naturale, impressionò talmente queste popolazioni che
      accorrevano da ogni parte solo per ammirare quel dente.
          
      Quella piccola campagna secondaria conseguì tutti gli effetti che
      ci eravamo proposti, e non fu nemmeno senza qualche ripercussione
      in Cirenaica, perchè il Said Idriss, col quale eravamo alleati,
      era imparentato col capo dei Senussi la cui autorità dominava
      nell'intera Cirenaica. Più efficaci ancora furono le sue
      ripercussioni, di carattere morale e politico, sull'animo del
      governo ottomano e del Comitato «Unione e Progresso», il quale già
      da tempo preoccupato delle tendenze separatiste manifestate dagli
      arabi, tanto nell'Arabia che nella Siria e nello Yemen, temeva che
      questa campagna, insieme all'incapacità mostrata dal governo
      ottomano a difendere gli arabi della Libia, portasse ad una
      sollevazione generale dei dodici milioni di arabi compresi
      nell'Impero.
      
      Ed anche questa campagna, non ostante i limiti modesti entro i
      quali era mantenuta, ci suscitò le solite difficoltà diplomatiche;
      il governo inglese, a mezzo del Viceré delle Indie avendo ricevute
      proteste dei mussulmani dell'India, dell'Afganistan e perfino
      della Cina, non ostante che noi avessimo evitato con ogni cautela
      di interferire coi pellegrinaggi, guardandoci da qualunque attacco
      ai punti di sbarco pei luoghi santi della Mecca e di Medina.
      
Nuovi passi per la pace e proposte inaccettabili — Nostri
        rapporti indiretti col governo turco — Conversazioni di Volpi
        con personaggi turchi — Prima proposta di negoziati e successive
        complicazioni — La nomina del principe Said Halern a fiduciario
        turco; di Bertolini, Fusinato e Volpi per l'Italia — La figura e
        i modi di  Said Halem —Inizio quasi comico — Si manda un
        verbale a Costantinopoli, ma non arriva risposta — Schemi di
        compromesso dei nostri delegati, da me non accolti — Faccio fare
        nuove domande per potere poi cedere su di esse — Crisi a
        Costantinopoli e ritiro di Said Halem —Un cristiano al Ministero
        degli esteri turco — Strana condotta dell'ambasciatore tedesco a
        Costantinopoli — Una proposta del Gran Visir a mezzo della
        Germania da me respinta — I nuovi fiduciari: Nabi e Feredin Bey
        — Cinque proposte turche respinte — Convegno di Torino e mio
        schema per la pace — Ridda di proposte turche di ogni genere —
        La missione dilatoria  di   Reschid  pascià
        — Mia minaccia di allargare la guerra ed avvertimento alle
        Potenze.
      
      Dopo l'insuccesso del passo collettivo fatto dalle Potenze, a Roma
      per conoscere le condizioni alle quali noi eravamo disposti a
      trattare la pace, ed a Costantinopoli per comunicare tali
      condizioni alla Porta perchè le prendesse in considerazione, nulla
      più era stato fatto diplomaticamente per affrettare la pace;
      quantunque noi, specie quando le nostre operazioni nell'Egeo
      suscitavano un qualche malessere internazionale, lasciassimo
      comprendere e dichiarassimo anche apertamente che se le Potenze
      temevano complicazioni e desideravano  evitarle, cercassero
      di persuadere la Turchia a desistere da
una inutile resistenza;
      essendo noi sempre disposti
a trattare con larghezza quando il
      principio della
nostra sovranità sulla Libia fosse salvo. Ma i
      conflitti e le divergenze degli interessi, come pure le
mutue
      diffidenze, rendevano difficile una intesa diplomatica a questo
      scopo. Solo quando gli approcci
diretti fra noi e il governo
      ottomano avevano già
avuto luogo, qualche passo diplomatico fu
      fatto, però
sempre con molta peritanza e riserbo, a
      Costantinopoli, in ragione anche della crescente preoccupazione
      per la situazione che si andava maturando
nei Balcani.  
       
      
      Così ci giungevano di tratto in tratto notizie di proposte
      approssimative. Il Marshall, che nel giugno lasciò Costantinopoli
      per assumere l'Ambasciata di Londra, in una conversazione col
      nostro ambasciatore a Berlino, il Pansa, dichiarò che la Porta era
      ormai persuasa che la Tripolitania fosse irremediabilmente
      perduta, ma che il riconoscerlo apertamente con una cessione, le
      avrebbe arrecati danni ancora maggiori, sia per la perdita di
      prestigio nel mondo musulmano, sia per il probabile distacco dello
      Yemen. Soggiunse che l'area della nostra occupazione in Libia era
      ancora troppo scarsa, perchè si potesse per allora prendere in
      considerazione la delegazione dell'autorità del Sultano ad un
      qualche ente locale col quale noi potessimo poi venire ad accordi.
      Quando la nostra occupazione si fosse maggiormente estesa, la
      Turchia forse avrebbe
      trattato, a condizione però che noi consentissimo a riservare una
      parte del territorio dell'interno per quegli arabi che
      preferissero di ritirarvisi in condizione di intera indipendenza;
      condizione questa che essa considerava come un debito d'onore.
      
      Un passo di una certa importanza fu fatto a Costantinopoli nella
      seconda metà di giugno dall'Austria, con intenti molto amichevoli
      verso di noi, forse per riparare alla condotta poco cordiale
      seguita per la questione delle nostre operazioni nell'Egeo.
      L'ambasciatore Pallavicini, per incarico del Berchtold, chiese una
      udienza al ministro degli Esteri, Assim Bey, per insistere sulla
      convenienza per la Turchia di porre fine alla guerra, e richiamare
      la sua attenzione al pericolo di una protratta occupazione delle
      isole, riguardo alla restituzione delle quali la Turchia si era
      tenuta fino allora sicura, forse anche per qualche indiscrezione
      diplomatica. Un primo progetto affacciato nelle conversazioni
      turche-austriache, fu che la Turchia cedesse la Cirenaica al
      Kedivè d'Egitto, e la Tripolitania al Bey di Tunisi, che le
      avrebbero poi alla loro volta cedute all'Italia, con alcune
      clausole a favore delle autorità spirituali del Sultano. Questo
      progetto, assai poco pratico, fu subito lasciato cadere. Assim Bey
      aveva poi avanzata una nuova proposta: — la Turchia avrebbe
      dichiarate indipendenti le due Provincie sotto il regno di un Bey
      arabo,- poi le truppe italiane e le truppe turche verrebbero
      ritirate e si formerebbe una milizia del paese; e l'Italia infine
      potrebbe concludere col governo locale un accordo che le
      assicurasse una posizione simile a quella della Francia in
      Tunisia. Lo stesso ambasciatore austriaco osservò subito ad Assim
      Bey che tali condizioni non potevano essere accettate. 
      
      Un'altra proposta, che ci pervenne a mezzo dell'ambasciatore
      francese, fu affacciata dal nuovo ministro degli esteri turco,
      Noradoughian Effendi, il quale osservando che la prima cosa da
      farsi era di cercare di calmare gli arabi, mentre fino allora non
      si era pensato che ad eccitarli, proponeva che fosse concesso alla
      Turchia di inviare in Tripolitania una missione che li rendesse
      edotti della situazione e della necessità per la Turchia di venire
      alla pace, e che sentisse da loro a quali condizioni fossero
      disposti a deporre le armi. 
      
      Un'altra proposta fu che noi ci contentassimo della Tripolitania,
      che ci sarebbe stata ceduta in piena sovranità, purché
      rinunciassimo alla Cirenaica. Erano tutte proposte vaghe e
      inaccettabili, ma che avevano però l'effetto di farci conoscere
      che ormai le ragioni della pace si facevano sentire, contro i
      propositi di intransigenza assoluta, nello spirito del governo
      ottomano.
      
      Non ostante lo stato di guerra, qualche rapporto indiretto e di
      carattere assolutamente privato, era sempre stato mantenuto fra
      noi e i membri del governo turco, o altri importanti personaggi di
      quel regime. A mantenere questi rapporti avevano molto contribuito
      il Comm. Volpi, che aveva una larga rete
      di conoscenze e relazioni nell'ambiente turco, e il Commi. Nogara
      che, quale rappresentante della Commerciale d'Oriente, era rimasto
      a Costantinopoli, dove godeva di molta considerazione e
      benevolenza da parte di personaggi importanti. Giovandosi di
      questa sua speciale condizione, il Comm. Nogara non aveva mancato,
      quando gli se n'era presentata l'occasione, d'intrattenersi sulla
      situazione e sulla possibilità di venire alla pace, con qualcuno
      di questi personaggi; fra l'altro aveva avuta nel principio
      dell'aprile una lunga   ed  importante 
      conversazione  con   l'ex-ministro di Giustizia, B.
      Halagian, che era magna pars del  Comitato  
      «Unione e  Progresso»,  il quale  alla sua volta
      esercitava sul governo una influenza decisiva. 
      
      Costui, pure ammettendo che la Turchia aveva bisogno della pace,
      metteva avanti le gravi difficoltà che si frapponevano a
      raggiungere tale scopo. Egli osservava che il governo turco era
      riuscito ad organizzare una resistenza militare che avrebbe
      immobilizzato  il nostro  esercito per un tempo
      indefinito; per organizzare questa resistenza la Turchia
      aveva  dovuto   fare  
      appello   ai  sentimenti  religiosi ed
      appoggiarsi sul movimento islamitico, ed ora doveva tener conto
      dello stato di animo così creato, che vietava di 
      accogliere,  anche indirettamente, la tesi italiana. 
      Il  pericolo di movimenti nei  Balcani,  secondo
      l'Halagian, interessava più le Potenze che la Turchia; 
      così  che  i rischi  che  la Turchia 
      attualmente correva erano minori proseguendo la guerra che 
      facendo  la  pace;   perchè 
      facendo  la  pace la Turchia avrebbe dovuto abbandonare
      gli arabi che combattevano per essa; ciò che avrebbe provocata una
      inevitabile reazione con la probabile conseguenza della
      proclamazione di un Califfato arabo. Bastava un tale pericolo per
      impedire alla Turchia di trattare la pace sulla base voluta
      dall'Italia. 
      
      Egli riconosceva che il prolungarsi dello stato attuale di cose
      era pieno di pericoli; per cui i turchi più illuminati
      desideravano di trovare una onorevole via d'uscita; la quale non
      avrebbe potuto essere, che o il ritiro del decreto d'annessione da
      parte dell'Italia, col mantenimento della sovranità religiosa e
      politica del Sultano in Libia; oppure avvenimenti militari così
      gravi per la Turchia, o in Libia o altrove, da giustificare
      l'abbandono della resistenza da parte del governo turco di fronte
      alla opinione pubblica del paese. E concludeva dichiarando che gli
      uomini politici turchi più eminenti desideravano di essere forzati
      dagli avvenimenti a fare la pace; ma gli avvenimenti diplomatici
      da soli sarebbero stati a ciò insufficienti. È da notare che la
      nostra azione navale nell'Egeo ebbe inizio poco dopo.
      
      Nel mese di maggio, quando gli avvenimenti dell'Egeo avevano
      cominciato a preoccupare il governo turco, il Comm. Volpi venne da
      me e mi disse che egli doveva recarsi a Costantinopoli, dove
      poteva andare nella sua qualità di console di Serbia, e mi chiese
      se io credevo utile che egli si informasse degli intendimenti del
      governo turco. Io gli dissi che credevo ciò molto utile;
      premendomi molto di sapere quale fosse la condizione di quel
      governo e la vera opinione dei più influenti ministri turchi.
      
      Il Comm. Volpi partì il 6 giugno per la capitale turca, dove
      giunse il 10 giugno. Pochi giorni dopo che egli era giunto colà si
      presentò a me un italiano di origine, ma di nazionalità turca (se
      ben ricordo era l'ingegnere Dinari) il quale mi disse che veniva a
      nome di Talaat Bey per sapere se potevano i ministri turchi
      parlare seriamente col Comm. Volpi. Risposi che sebbene non avesse
      mandato dal governo, potevano iniziarsi con lui utili
      conversazioni. Il Volpi ebbe subito un abboccamento col Ministro
      della Guerra, Machmoud Chefchet Pascià, persona molto autorevole
      ed onesta; col Ministro degli Esteri Assim Bey, diplomatico colto
      e intelligente; con un membro autorevole del Comitato, Hussein
      Djaid Bey, e con Halagian Effendi, deputato di Costantinopoli e
      vice presidente della Camera. La impressione complessiva che egli
      ritrasse da quelle conversazioni, fu che tanto gli uomini al
      governo che quelli del Comitato, preoccupati sopratutto dalle
      nostre operazioni nell'Egeo e dall'occupazione delle isole,
      fossero persuasi della opportunità di trovare una via di uscita. 
      
      Il Ministro della Guerra gli dichiarò che se fosse stato possibile
      di trovare una formula onorevole per la Turchia, per finire la
      guerra, egli era disposto personalmente ad imporla, anche a
      scapito della propria popolarità, ma che egli non sapeva
      escogitarne alcuna. Il Ministro degli Esteri, Assim Bey, si
      dichiarò convinto della gravità del momento per la Turchia, e del
      pericolo della perdita delle isole indipendentemente anche dalla
      volontà dell'Italia. Si mostrò fautore di una intesa rapida e
      diretta, escludendo una Conferenza internazionale, che gli pareva
      impossibile, e che anche se attuata avrebbe avuto il 
      solito  effetto  di provocare nuove  complicazioni,
      e  concluse  impegnandosi  a studiare 
      una  formula, basata su una preventiva dichiarazione di
      autonomia o di indipendenza delle due Provincie della Libia, che
      avrebbe potuto essere il preludio della fine del conflitto. Ebbe
      poi luogo una riunione del Comitato, con  la partecipazione
      dei più  importanti ministri, nella quale fu tracciato un
      progetto, che il vicepresidente della Camera, Halagian Effendi,
      espose il giorno dopo al .Volpi. La Turchia riconosceva che le due
      Provincie africane erano per essa perdute, ma constatava che
      l'Italia non le  aveva  ancora effettivamente
      occupate.  
      
      In tali condizioni là Turchia era disposta a recedere dalle
      dichiarazioni d'intransigenza fatte fino allora; ma anche l'Italia
      avrebbe dovuto ritornare sostanzialmente sulle sue decisioni. Il
      governo e il Comitato consideravano la possibilità di dichiarare
      autonome le due Provincie, facendone uno o due Stati retti da
      speciali patti internazionali, e nei quali ogni attività
      economica, agricola ed industriale fosse riservata, all'Italia. La
      milizia avrebbe dovuto  essere  locale,  inquadrata
      forse da ufficiali misti, italiani e turchi, creando così una
      specie di condominio   effettivo.  
      Si   poteva  concedere  che  le truppe
      italiane mantenessero i punti occupati. 
      
      Il Ministro degli Esteri, in una nuova conversazione confermava
      questi punti, aggiungendo che dal canto suo riteneva possibile di
      arrivare anche al riconoscimento della sovranità piena ed assoluta
      dell'Italia su Tripoli, il suo porto e il suo dietroterra
      immediato; così il governo italiano avrebbe potuto mostrare che si
      applicava il Decreto di sovranità ed ottenere una grande base
      navale. Tale proposta era pure autorizzata da Talaat Bey pel
      Comitato, e dal Presidente della Camera pel Parlamento. E prima
      che il Volpi ripartisse il 16 giugno per l'Italia, fu pure
      informato che era stata ad ogni modo decisa la nomina di una
      Commissione turca, composta di membri influenti del Comitato e
      graditi al governo, allo scopo di prendere contatto meco, o con
      altri italiani autorizzati, in forma privata, per trovare la base
      per la cessazione del conflitto e per un accordo.
      
      Il Comm. Volpi, secondo le istruzioni che gli avevo dato, si
      mantenne assai riserbato riguardo a queste proposte, limitandosi
      ad opporre ad esse il punto di vista italiano e le sue ragioni; e
      seppe disimpegnare con molto tatto ed abilità la sua missione,
      evitando la benché menoma compromissione e mantenendo integri i
      nostri punti fondamentali. Il fatto solo che, ciò non ostante,
      egli fosse stato ricevuto e intrattenuto in lunghi colloqui con
      personaggi fra i più importanti del regime, e che questi
      avanzassero proposte, sia pure non accettabili, ma già lontane
      dalla intransigenza assoluta fino allora dimostrata; insieme alla
      proposta di nominare rappresentanti  per  iniziare 
      conversazioni,   sia  pure  private, allo
      scopo di trovare una via di uscita dalla situazione,  
      era  già un notevole risultato,  in  quanto 
      ci mostrava che il desiderio di pace cominciava a maturare 
      nello   spirito   dei  nostri 
      nemici.   
      
      E  per chi conosceva la mentalità orientale, era ben da
      aspettarsi che essi non rinunciassero ancora all'illusione
      che,-col procrastinare e col ricorrere a formule ambigue,
      potessero ancora salvare ciò che era già irremediabilmcnte 
      perduto.   Io  consideravo  
      poi   specialmente importante il fatto  che il
      governo turco avesse riconosciuto la convenienza di negoziati per
      una intesa diretta, con l'esclusione di qualunque intervento e
      mediazione, che non avrebbero avuto altro effetto che di
      complicare il già difficile problema. 
      
      Dopo la partenza del Volpi da Costantinopoli, l'incarico di
      mantenere i rapporti e continuare le conversazioni con la Porta
      per accordarsi su un convegno ufficioso, rimase al Comm. 
      Nogara. I turchi proposero da prima che a sede del convegno fosse
      scelta Vienna, ma io mi opposi subito osservando che a Vienna non
      sarebbe mancato al governo austriaco il modo di sapere tutto 
      ciò che accadeva, mentre era comune intenzione che le cose
      procedessero segretamente sino a che si fosse raggiunto l'accordo
      sui punti capitali.  Proposi la Svizzera, ed allora i turchi
      indicarono Lucerna, ma poi condiscesero per Losanna, che a me
      pareva più conveniente perchè più appartata. Sorsero però, fra il
      16 e la fine del giugno nuove difficoltà. 
      
      Il Comitato avendo adottato il principio della intesa diretta, si
      era decisa già
la nomina della Commissione e scelti gli uomini;
e
      il Gran Visir e il Ministro degli Esteri avevano
data la loro
      incondizionata approvazione, indicando
come base dell'intesa, la
      proclamazione dell'autonomia, in forma tale che fossero salvi
      tanto il prestigio italiano che quello musulmano. Anche
      uomini
politici estranei al governo, come Hilmi pascià e
Kiamil
      pascià avevano espresso il loro consenso ad
una tale soluzione. Ma
      ad un certo momento si ebbe
l'intervento dell'elemento musulmano
      più intransigente, delle cui vedute si fece espositore nel
      Consiglio
dei Ministri Talaat Bey, il quale dichiarò che
      il
Comitato avrebbe perduto ogni appoggio del partito
religioso se
      si fosse fatto promotore di una intesa
diretta con l'Italia. Pare
      che si studiasse allora il
modo a che la Commissione dei
      negoziatori non dovesse essere o apparire l'emanazione diretta né
      del
Comitato né del governo, e che in genere l'elemento
musulmano
      non figurasse come promotore. 
      
      Queste
incertezze erano anche l'effetto delle
      complicazioni
albanesi e della crisi latente del gabinetto, che
      infatti
si dimise qualche settimana dopo, e dettero luogo
a nuovi
      progetti, fra cui quello di cedere a noi la
sola costa e di
      negoziare poi l'interno in scambio
delle nostre colonie
      nell'Africa orientale. Noi però
tenemmo fermo al principio di non
      discutere che
quando la Commissione fosse nominata e sempre
sulla
      base del nostro decreto di sovranità; ed infine,
al 2 luglio la
      nomina venne, ed a capo della Missione
turca fu scelto Said Haleni
      pascià, Presidente del Consiglio di Stato ed ex-presidente del
      Comitato «Unione e Progresso», arabo di origine. Delle sue qualità
      e posizione avemmo referenze contradittorie; secondo alcune egli
      era uomo molto stimato, di grande autorità e superiore ai partiti,
      e la scelta di lui si spiegava col desiderio che le conversazioni
      con l'Italia fossero affidate ad un personaggio il quale potesse
      rimanere e continuarle anche nel caso che il governo che l'aveva
      mandato cadesse in crisi; secondo altre egli era uomo di scarsa
      importanza ed era stato mandato avanti dal governo allo scopo di
      guadagnare tempo senza entrare in compromissioni. Probabilmente il
      governo turco intendeva di servirsene o nell'uno o nell'altro
      modo, a seconda delle circostanze.
      
      Per parte nostra nominammo nostri rappresentanti, sempre in veste
      per allora ufficiosa, l'on. Bertolini, che godeva di grande
      autorità politica ed era uomo ponderato e fermo; l'on. Fusinato,
      per la sua cultura e pratica di diritto internazionale, e il
      commendator Volpi, che aveva mostrato di conoscere a fondo i
      turchi, ed aveva il merito di avere promosse le 
      conversazioni.
      
      I Delegati delle due parti arrivarono a Losanna, ove alloggiarono
      all'Hotel Gibbon, molto appartato, fra il 10 e l'il di luglio; ed
      il giorno 12 ebbe luogo il primo incontro. Said Halem per
      l'importanza che dava alla propria posizione ufficiale di
      Presidente del Consiglio di Stato, pretese che i nostri si
      procurassero una presentazione ufficiale, il che fu fatto a mezzo
      del ministro nostro a Berna, Cucchi Boassi, che per mio ordine si
      recò espressamente a Losanna. Di quel primo incontro mi dette una
      relazione caratteristica il Fusinato, a mezzo di una lettera che.
      riproduco:
      
      «Sua Altezza Said Halem pascià — egli mi scriveva il 15 luglio — è
      un omino sui 55; con i capelli corti e quasi del tutto bianchi, e
      i baffetti più scuri; ciò che dovrebbe essere un indizio di avere
      egli lavorato più con la testa che con la bocca.... In complesso
      una fisionomia simpatica, che ricorda quella di V. E. Orlando,
      ridotta; tratti e maniere cortesissime e perfette, di signore di
      razza; si esprime ottimamente in francese e fuma delle eccellenti
      sigarette, fabbricate espressamente per lui dalla regìa ottomana.
      Come ben sai, è un grosso personaggio. Ha titolo di Altezza per la
      sua parentela col Kedivè di Egitto; è senatore, Presidente del
      Consiglio di Stato, e come tale membro di diritto del Consiglio
      dei Ministri. Fu del vecchio regime; ma è passato subito e
      volontieri al nuovo, e gode la fiducia dei Giovani Turchi. Si
      disse anzi, confidenzialmente, che la sostituzione di lui alla
      terna prima fissata, sia stata fatta in considerazione della
      attuale crisi ottomana: conveniva scegliere una persona che
      essendo, in certo modo, fuori e sopra i partiti, potesse venire
      riconosciuta e accettata anche nella eventualità di una mutazione
      di gabinetto. Io per altro ho in mente che la sua scelta sia stata
      determinata piuttosto dal fatto che egli stava già per venire qui,
      sul lago, dove ha in affìtto, ad Evian, di faccia a Losanna, una
      bellissima villa. Perchè, fra l'altro, il nostro amico-nemico, è
      pieno di quattrini.
      
      «Ad ogni modo, tutto ciò poco importa. Indubbiamente egli è qui in
      rappresentanza diretta del Governo turco. Il contatto è preso, in
      condizioni e forme eccellenti. Qualunque sia per essere lo
      svolgimento delle conversazioni, importa io credo, che il contatto
      non si perda più.
      
      «Ma se Sua Altezza rappresenta indubbiamente il Governo ottomano,
      malauguratamente, a tutt'oggi, ne rappresenta troppo poco le idee.
      Mi spiego meglio: ormai ho la persuasione assoluta che egli è
      venuto qui privo di istruzioni ufficiali. Ha parlato con Carasso,
      il deputato di Costantinopoli; sa all'ingrosso che cosa pensano i
      ministri al cui consiglio assistette; ma vere istruzioni, non ne
      ha....
      
      «Il nostro contatto si iniziò così. Fissato l'appuntamento, a
      mezzo di Nogara, siamo saliti senza farci annunziare. Appena
      entrati ci siamo dati la mano; abbiamo preso posto, e Sua Altezza
      aprì la conversazione con queste precise parole: — Il fait
        chaud aujourd'hut... — dal che capii subito che avevamo da
      fare con un fine osservatore. Avrei potuto rispondere che a
      Costantinopoli fa più caldo ancora; ma preferii tacere e
      consentire. Dopo qualche altra frase dello stesso valore, si
      arrivò in Africa. E qui viene il buono. Premessa, da una parte e
      dall'altra, qualche opportuna dichiarazione molto amichevole e
      fiduciosa, il Pascià disse che «Carasso gli aveva detto che già in
      massima si era d'accordo per una soluzione sulla base
      dell'autonomia». In sostanza una autonomia delle due Provincie
      dichiarata e convenuta dalle due parti, sotto la sovranità
      nominale del Sultano, con le coste all'Italia. Così l'Italia (ce
      lo lia ripetuto dieci volte) si assicurerebbe tutti i vantaggi
      politici che vuol trarre dalla sua intrapresa, e le cose si
      accomoderebbero nel miglior modo e col minor tempo. Tutti i nostri
      sforzi per persuadere Said pascià che nessun accordo esisteva o
      poteva esistere fra i due governi; per fargli precisare i suoi
      concetti; per fargli comprendere il punto di vista italiano; per
      indurlo ad una discussione pratica e concreta: — tutti questi
      nostri tentativi sono riusciti finora, in massima, vani. 
      
      Quell'uomo non aveva nel suo bagaglio che una preoccupazione ed
      una parola: l'autonomia. Era tutto ciò che gli era rimasto del
      discorso del deputato Carasso. Ad ogni nostra perorazione egli
      tirava fuori, con una monotonia desolante «l'autonomia». Ai nostri
      discorsi più stringenti, quando non sapeva che cosa rispondere,
      aveva sempre una frase risolutiva: — Ma che diventa l'autonomia
      con queste vostre proposte? 
      
      «D'altro canto, se a noi non riusciva di ben comprendere che cosa
      voleva Said, egli confidenzialmente dichiarava a Nogara che non
      riusciva a capire che cosa volevamo noi.... Non che egli sia uno
      stupido; lo giudico anzi uomo di criterio, e che, a buon conto, in
      tre giorni di conversazioni è riuscito a dire sempre la stessa
      cosa senza menomamente compromettersi. Ma appunto, egli ha messi
      tutti e due i piedi sopra un soldo, il soldo dell'autonomia, e non
      si muove di lì; e noi consideravamo con preoccupazione che la cosa
      poteva così prolungarsi sine die. Fu allora che pensammo di far
      telegrafare da Nogara a Carasso per sollecitare vere e precise
      istruzioni. Anche questa situazione, per la quale noi, senza che
      Said lo sappia, siamo in relazione diretta col Comitato da cui in
      sostanza lo stesso Said riceve le sue istruzioni, e gliele
      sollecitiamo, non è priva di comicità e non può accadere che coi
      turchi. D'altra parte abbiamo imaginato, contemporaneamente,
      quella specie di trucco, dirò così, del processo verbale con
      l'impegno di trasmetterlo ai rispettivi governi; il che ci
      assicura almeno che il nostro punto di vista sarà trasmesso
      esattamente a Costantinopoli e provocherà — è da credere — le
      desiderate e più precise istruzioni....
      
      «Ecco infine le mie impressioni sintetiche: 1.° I turchi
      desiderano veramente la pace, e Said su ciò ne interpreta
      fedelmente il pensiero; 2.° Ciò che veramente e sinceramente
      arresta i turchi sulle vie della concessione è: a) l'impressione
      che l'abbandono degli arabi farebbe nel mondo musulmano; — b) la
      difficoltà e forse la impossibilità di fare ingoiare al Parlamento
      una pillola troppo grossa; 3.° Con Said sarà difficile, non
      ostante tutto, divenire a qualche conclusione pratica. E perciò
      per lo stesso tramite Nogara-Carasso, abbiamo suggerito di
      rinforzare Said con qualche personaggio più agile; 4.° Malgrado
      tutto, questo concetto dell'autonomia può implicare un gran passo
      da parte dei turchi. In sostanza è la rinunzia della sovranità
      turca; non è ancora il riconoscimento della sovranità nostra, ma è
      l'abbandono della loro; ed è anzi il riconoscimento della nostra
      dove effettivamente esiste, e cioè sulla costa. Le difficolta a
      cui ho accennato, in cui si trovano i turchi, sono vere e sono
      superiori alla stessa buona volontà del governo turco. Vediamo se
      da parte nostra è possibile di fare qualche cosa per aiutare quel
      governo a superarle. Senza qualche cosa di questo genere, non
      credo possibile di venirne a capo».
      
      Questa lettera del Fusinato rispecchia perfettamente l'inizio
      delle conversazioni diplomatiche di Losanna, ed indica quale fosse
      il punto di vista nostro e quello ottomano. Il processo verbale a
      cui il Fusinato si riferisce, e che fu il primo documento
      diplomatico relativo a quelle trattative, era inteso a stabilire i
      rispettivi punti di vista delle due parti. Per parte nostra esso
      constatava che l'Italia non domandava il riconoscimento della
      sovranità nostra da parte della Turchia; ma che essa non
      accetterebbe qualunque formula che la disconoscesse; per parte
      della Turchia esso constatava essere impossibile il distacco
      assoluto delle due provincie africane dell'Impero, i suoi doveri
      di fronte al mondo musulmano impedendole di abbandonare le
      popolazioni arabe che avevano per lei combattuto. 
      
      Passando alla possibile soluzione, da parte della Turchia si
      avanzava il progetto di autonomia sotto l'alta sovranità del
      Sultano, riconoscendo però l'occupazione italiana della costa,
      così che l'Italia secondo i turchi avrebbe conseguiti gli scopi
      della sua impresa. La risposta nostra era che tale soluzione si
      accorderebbe col punto di vista italiano solo nel modo seguente: —
      Che la Turchia concedesse l'autonomia alle due Provincie con atto
      interno emanante dalla sua sovranità; mentre l'Italia, pure con
      atto interno, avrebbe determinati nel modo più largo i principi
      amministrativi da applicarsi a quei territori. Quindi i due
      governi avrebbero proclamata la fine delle ostilità, sia
      d'accordo, sia per atti unilaterali contemporanei; ed avrebbero
      poco appresso concluso l'accordo pel ristabilimento dei rapporti
      politici, giuridici ed economici.
      
      Passando i giorni senza che da Costantinopoli, ove il Governo era
      entrato in crisi, venisse nessuna istruzione, e Said pascià non
      facendo il menomo passo personalmente per avvicinarsi alle vedute
      italiame, i nostri delegati, in corrispondenza alle dichiarazioni
      con cui il Fusinato concludeva la lettera sopra riportata, mi
      trasmisero alcune loro idee di possibili concessioni per
      facilitare alla Turchia la soluzione. Il Bertolini mi esponeva una
      sua idea di una soluzione che si prestasse ad una duplice
      interpretazione, e che consisteva nel fare un accordo della durata
      di trent'anni per l'interno con concessioni minori, quali
      l'ammissione di un rappresentante religioso del Sultano in Libia,
      pagato coi proventi dei vacufs, o beni religiosi e
      l'attribuzione di un quinto dei prodotti doganali pel servizio del
      debito ottomano e così via. 
      
      Un'altra proposta affaciatami dai nostri delegati, era di lasciare
      indecisa la situazione del Fezzan, impegnandoci noi a non
      occuparlo per lungo tempo, per dare modo agli arabi che
      intendessero di rimanere fedeli al Sultano, di trovarvi un
      rifugio. Anche il San Giuliano non era contrario a questa
      soluzione, per la quale, a suo parere, il Fezzan si sarebbe
      assimilato a quei dietroterra coloniali il cui stato politico
      rimane per lungo tempo indefinito, come accadeva anche per noi
      nella Somalia. Per il rappresentante religioso e per il concorso
      al servizio del debito ottomano, che ci era imposto anche da
      considerazioni di carattere internazionale, io diedi il mio
      assenso; ma non accolsi le altre proposte. 
      
      Al Bertolini osservai che la proposta sua di un accordo
      trentennale per l'interno non solo offenderebbe il principio della
      sovranità, ma potrebbe riuscire pericoloso nel futuro, e dare
      luogo a complicazioni se la Turchia cedesse ad altri i suoi
      diritti; e riguardo all'altra proposta del Fezzan dichiarai che io
      avevo grandissima ripugnanza ad ammettere che a quel distretto si
      facesse un trattamento non perfettamente conforme esso pure al
      Decreto di sovranità, ciò che farebbe pessima impressione in paese
      e procurerebbe probabili difficoltà internazionali. Io rimanevo
      fermo nel concetto che, essendoci assunta la responsabilità
      dell'impresa di Libia era nostro dovere di affrontare tutte le
      difficolta, senza evitarne alcuna, per non lasciare una eredità di
      possibili guai ai successori. E siccome in tali condizioni non si
      faceva un passo innanzi, la Turchia non avendo altro da chiedere e
      noi altro da offrire, pensai che fosse il caso di mutare tattica,
      e di creare noi stessi alla Turchia difficoltà che poi potessimo
      rimuovere. 
      
      Così scrissi ai nostri delegati che a mio parere non conveniva
      ormai più di parlare di ulteriori concessioni; ma che piuttosto
      era il caso di porre sul tappeto tutti i punti nei quali potevamo
      chiedere qualche cosa, per fare poi qualche concessione riguardo
      ad essi. Indicai che si poteva chiedere che al nostro alleato
      Idriss fosse fatto nell'Assiz un trattamento eguale a quello fatto
      all'Iman Yaia nello Yemen; ed accennare pure alle isole, che
      potevamo tenere per diritto di conquista, o restituire solo con
      serie garanzie a favore degli abitanti. Un'altra domanda che io
      suggerii di avanzare, fu di una indennità per gli italiani espulsi
      durante la guerra. Seguendo tale metodo noi avremmo potuto tenere
      viva la discussione, ed evitare che si troncassero trattative
      dirette, nelle quali avevo grande fiducia, perchè sapevo essere
      interesse della Turchia di evitare un intervento delle Potenze che
      avrebbe potuto costarle caro; e ci saremmo pure procurato il modo
      di fare, al momento decisivo, diverse concessioni secondarie per
      guadagnare il punto principale. E così fu fatto. 
      
      In una nuova conversazione, tenuta  il  19 
      luglio,  i nostri  delegati dichiararono  a Said
      Halem che, nell'attesa della risoluzione della crisi del suo
      governo, e dell'arrivo di nuove e più precise istruzioni da
      Costantinopoli, pareva loro opportuno di conversare sulle
      questioni accessorie, che dovevano pure essere risolte, al momento
      della pace, insieme a quelle maggiori. Said pascià si mostrò da
      prima riluttante, sostenendo la tesi opposta, che cioè le
      questioni accessorie non incontrerebbero difficoltà quando sulla
      principale fosse raggiunta l'intesa. Finì però per consentire alla
      nuova discussione, e fu posta sul tappeto la questione delle
      isole, i nostri delegati spiegando le ragioni che ci avevano
      mossi, per l'ostinazione della Turchia, ad occuparle, e
      prospettando le diverse soluzioni a cui l'Italia potrebbe
      addivenire: e cioè o assumerle definitivamente sotto la propria
      sovranità, stabilirvi una forma di autonomia, o retrocederle
      pretendendo tuttavia serie garanzie a favore degli abitanti.
      
      Said pascià accolse con malumore quella esposizione, e dette una
      risposta singolare: — Io posso intendere le ragioni storiche e
      politiche che vi hanno spinto alla vostra impresa di Libia; ma
      esse non si estendono alle isole dell'Egeo. Ad ogni modo, se
      volete tenervi veramente quelle isole, tenetevele; ma non chiedete
      a noi un consenso che non vi daremo mai. Se avete invece
      intenzione di restituirle, è inutile parlarne adesso. Per me la
      questione delle isole non esiste; voi le avete occupate
      temporaneatnente a titolo di azione bellica; quando cessa la
      guerra voi le lasciate  ed esse tornano  sotto  la
      sovranità nostra. Col creare la questione delle isole voi
      aumentate le difficoltà e non date prova di buon volere. —
      
      Anche di questa conversazione sulle isole fu redatto processo
      verbale, e spedito a Costantinopoli ed a Roma; e l'irritazione
      provocata in Said pascià da questa nuova questione, provò, nel
      giudizio dei nostri delegati, che il fine di mettergli una pulce
      nell'orecchio era stato raggiunto.
      
      Qualche giorno dopo Said pascià comunicava ai nostri delegati che
      essendosi formato un nuovo gabinetto a Costantinopoli senza Tevfik
      pascià, col quale egli era assai affiatato, egli si considerava
      decaduto dal suo mandato, essendo, col mutamento del gabinetto,
      decaduto dalla carica di Presidente del Consiglio di Stato. I
      nuovi ministri erano in maggioranza uomini del vecchio regime, non
      compromessi nella guerra, di natura conciliante ed abituati ai
      sacrifizi della Turchia. Hilmi pascià era un vecchio amico
      dell'Italia, e Kiamil, che era stato mantenuto al corrente delle
      conversazioni, era propenso alla pace e da tempo non si faceva
      illusioni. Pareva poi particolarmente significante il mantenimento
      di Noradoughian, armeno cristiano, al ministero degli affari
      esteri; il sottosegretario tedesco degli esteri, lo Zimmermann,
      disse in proposito al nostro ambasciatore, di pensare che Kiamil
      avesse voluto agli esteri questo ministro cristiano per
      addossargli la responsabilità della pace e farne il capro
      espiatorio per le concessioni repugnanti alla pubblica opinione
      ottomana.
      
      Perdurando però il silenzio da Costantinopoli, Said pascià il
      giorno 28 luglio prese congedo dalla delegazione italiana, ed
      anche i delegati nostri decisero di partire lo stesso giorno,
      pronti a ritornare appena la Turchia mostrasse intenzione, come
      pareva già certo, di riprendere le conversazioni interrotte.
      
      Sospese così le conversazioni di Losanna, ritenemmo opportuno che
      il Comm. Nogara, che aveva già resi servizi importanti per
      avviarle, ritornasse a Costantinopoli per rendersi conto, a, mezzo
      delle sue numerose conoscenze, della situazione. Egli infatti,
      arrivatovi il 30 luglio, ebbe subito una lunga conversazione col
      ministro degli Affari Esteri, Noradoughian, il quale impegnossi a
      sottoporre subito al Consiglio dei Ministri la nomina di nuovi
      delegati. E infatti la sera dello stesso giorno gli comunicò che
      il Consiglio aveva deciso di continuare le conversazioni e di
      nominare i nuovi delegati, dando loro le istruzioni necessarie. Il
      Ministro aggiungeva che il nuovo governo aveva forza ed autorità
      sufficiente per imporre la pace ai musulmani recalcitranti; ma che
      bisognava però calmarli, ed a tale scopo riteneva fosse d'uopo che
      noi ci astenessimo da intraprendere nuove azioni di guerra.
      Aggiunse pure che la Camera, dalla quale non si poteva aspettare
      un consenso pel suo carattere nazionalista, sarebbe stata sciolta,
      come infatti poi avvenne. Dichiarò che ai nuovi delegati avrebbe
      dato le istruzioni più utili alla causa della pace; ma per fare
      ciò gli occorreva di sapere dove il Governo italiano volesse
      arrivare. Concluse che la pace non poteva essere fatta se non
      considerando la questione dal punto di vista italiano per parte
      della Turchia, e dal punto di vista turco per parte dell'Italia. 
      
      Volendo, nei limiti del possibile, facilitare l'opera del governo
      turco per la pace, io ordinai di non fare altre operazioni per il
      momento nell'Egeo, ma di intensificare la campagna nella Libia, ed
      in Cirenaica particolarmente, per togliere ai Turchi l'illusione
      che essi nutrivano ancora, in ragione della poca estensione delle
      nostre occupazioni in quella provincia, che l'Italia alla
      Cirenaica potesse alla fine rinunciare. Qualche giorno dopo
      ricevevamo l'informazione che i due nuovi delegati nominati dal
      governo turco, erano Nabi Bey, ex-ministro plenipotenziario a
      Sofia, e Faredin Bey console generale a Budapest, e che era già
      stato in servizio diplomatico a Roma. Dell'uno e dell'altro avemmo
      ottime informazioni, come di persone di specchiata onestà, di buon
      senso, ed animate da buon volere verso l'Italia; ed in seguito non
      avemmo che a lodarci della loro condotta, sempre diritta e leale.
      Faredin Bey era un grande estimatore dell'occidente, ma detestava
      gli orientali europeizzati.
      
      Una piccola complicazione, che poteva essere indice di cose più
      gravi, si rivelò in una conversazione che il Nogara ebbe col nuovo
      ambasciatore tedesco a Costantinopoli, il Waggehheim, succeduto da
      poche settimane al Marshall. Pure mostrando la maggiore cordialità
      e dichiarandosi desideroso di mettersi a
      nostra disposizione, il Waggenheim affacciava la convenienza che
      le conversazioni fossero spostate dalla Svizzera a Costantinopoli,
      dove, secondo lui, avrebbero avuto maggiore probabilità di
      arrivare ad una rapida conclusione. Egli riconosceva poi che la
      situazione dei turchi era ormai scossa in Tripolitania, ma che in
      Cirenaica si manteneva eccellente, e che l'Italia avrebbe dovuto
      contentarvisi di un regime simile a quello degli inglesi in
      Egitto, insistendo assai sovra questo punto, che egli diceva
      essere quello del Governo ottomano stesso. 
      
      Ora noi avevamo già saputo che il Marshall, lasciando
      Costantinopoli, aveva promesso al Governo turco di fare il
      possibile per salvare per esso la Cirenaica; era dunque evidente
      che questo suo progetto egli l'aveva passato in eredità al suo
      successore. La cosa era abbastanza grave, perchè questi discorsi
      che il Waggenheim andava facendo, probabilmente non a noi soli,
      avrebbero avuto l'effetto di creare illusioni nell'animo dei
      Turchi ed incoraggiarli alla resistenza, con la credenza anche che
      essi rappresentassero il punto di vista del Governo tedesco. Io
      feci quindi telegrafare al Nogara perchè avvertisse il Waggenheim
      che la piena sovranità sull'intera Libia era per l'Italia una
      condizione assoluta, mancando la quale noi rifiuteremmo di
      continuare le trattative; ed al Governo di Berlino, per richiamare
      la sua attenzione sul linguaggio del suo ambasciatore, che ci
      riusciva grandemente nocivo, e che lo mostrava animato da
      sentimenti ostili verso di noi, e colsi l'occasione per
      riaffermare ancora che l'applicazione integrale del decreto di
      sovranità era per noi una necessità assoluta. 
      
      Ricevemmo poi da Berlino in proposito assicurazioni soddisfacenti,
      e il Waggenheim fu avvertito di astenersi da dichiarazioni ed
      opinioni contrarie agli interessi italiani. Ma non ostante questi
      moniti, noi dovemmo anche in seguito constatare che  
      quell'ambasciatore   persisteva  
      ad   ostinarsi  in quelle sue opinioni, sino al
      punto di sostenerle e difenderle in conversazioni che aveva col
      Comm. Nogara; ciò che ci costrinse a nuove proteste e richiami,
      tanto più che noi lo sapevamo in continui rapporti col capo del
      Governo turco. Il Sottosegretario degli Esteri tedesco, lo
      Zimmermann ci informava infatti che il Gran Visir, in una sua
      conversazione col Waggenheim, gli aveva detto  che c'erano
      solo due formule possibili di pace  e cioè: o  cessione
      della Tripolitania all'Italia, conservando la Turchia la
      Cirenaica; o cessione all'Italia dei punti da essa effettivamente
      occupati, lasciando il resto del paese agli indigeni, salvo
      all'Italia a regolare poi le cose con costoro. 
      
      Il Ministro degli Esteri, Noradoughiam, in nuove conversazioni col
      Comm. Nogara,  affacciava pure, a nome di Kiamil pascià, una
      proposta di armistizio e l'invio di una delegazione in Libia per
      persuadere gli arabi ad intendersi con l'Italia; mentre il
      rappresentante del Comitato, il deputato Carasso, insisteva
      sull'autonomia. Queste proposte vennero poi espresse dal Gran
      Visir in una nuova conversazione col Waggenheim, e trasmesse a
      Berlino; e lo Zimmermann, parlando al nostro ambasciatore,
      mostrava di
ritenere degna di considerazione quella per cui
      noi
avremmo tenuta la costa e lasciato il resto del paese
agli
      indigeni, coi quali poi, a suo avviso, non ci
sarebbe stato
      diffìcile venire ad una intesa. 
      
      A San
Giuliano che mi comunicava quella proposta, io risposi che
      essa mi pareva pericolosissima, perchè
qualunque distinzione così
      pattuita nella Libia, oltre essere contraria al Decreto di
      sovranità, avrebbe
potuto involgerci in difficoltà gravissime con
      la Francia e con l'Inghilterra, ed anche con gli arabi,
      che
sarebbero posti perpetuamente in condizione di belligeranti e
      potrebbero anche, secondo il diritto internazionale, invocare
      l'aiuto di potenze straniere.
E poiché il San Giuliano, in una
      lunga lettera, insisteva nel suo concetto che l'esistenza di un
      retroterra
il cui stato politico non fosse per il momento
      definito,
non creasse seri inconvenienti, io gli risposi
      ancora
che a mio avviso, sul punto di vista della sovranità
la
      nostra intransigenza doveva essere assoluta, e che
io non avrei
      mai firmato la pace alle condizioni affacciate dal Gran Visir. 
      
      Merita rilevare che queste
idee del Governo turco, a cui
      l'ambasciatore tedesco a Costantinopoli si mostrava ancora fedele
      non
ostante i richiami del suo governo, mi venivano confermate da
      un'altra fonte tedesca, e cioè da quell'Hellferich che poi ebbe
      tanta parte nell'amministrazione della finanza tedesca durante la
      guerra
mondiale.
Questi contatti e queste indiscrezioni avevano
      ogni modo il vantaggio di farci prevedere approssimativamente con
      quali istruzioni i nuovi delegati turchi sarebbero venuti al nuovo
      convegno in Svizzera, che da Losanna era stato trasportato a Caux.
      Il punto capitale di queste istruzioni era di non cedere sulla
      questione della sovranità nominale del Sultano sui territori che
      noi non avevamo ancora militarmente occupati. Per cui, quando i
      delegati turchi arrivarono il 12 agosto al luogo del convegno, io
      ritenni necessario, e detti istruzioni perchè la nostra azione
      bellica in Libia fosse intensificata, specie in Cirenaica; ed
      avvertii il Ministro della Guerra che nei suoi progetti tenesse
      conto che di pace non si potrebbe veramente parlare prima di tre
      mesi. Ai nostri delegati poi ripetei le istruzioni di astenersi
      dal lasciare sperare concessioni, ed anzi di affacciare pretese, e
      nuove difficoltà; ad esempio proponendo che la questione delle
      isole fosse risolta mediante un plebiscito, fra gli abitanti.
      
      La mattina del 13 agosto furono iniziate coi delegati Turchi le
      nuove conversazioni, premettendosi che quelle di Losanna si
      considerassero come non avvenute e sorpassate.
      
      Poi Naby Bey dichiarò di essere incaricato dal suo governo di
      presentarci successivamente cinque proposte scritte, che avrebbero
      dovuto formare base delle discussioni. La prima e la seconda
      presupponevano appunto una rinuncia nostra a parte del nuovo
      possesso africano; e i nostri, delegati le scartarono subito,
      perchè in aperta contraddizione con la nostra legge di sovranità.
      La terza proposta tendeva a stabilire in Libia un regime simile a
      quello della Francia in Tunisia; e i delegati turchi spiegavano
      che con essa il Governo ottomano intendeva di lasciarci l'assoluto
      ed effettivo dominio delle due provincie, ma che ci si domandava
      solamente di consentire ad una formula che servisse a duper,
      la parola era usata da Naby stesso, l'opinione pubblica turca e le
      suscettibilità musulmane. Alla risposta dei nostri delegati, che
      anche una tale soluzione si trovava in contrasto con la situazione
      creata dal Decreto di sovranità e non poteva essere accettata, i
      delegati turchi dimostrarono un rammarico che ai delegati nostri
      parve sincero veramente; e Naby Bey e-Faredin Bey non rifuggirono
      allora dal fare una lunga ed aperta esposizione dell'intrico di
      difficoltà in cui il Governo turco, preso fra le pretese
      dell'esercito, quelle del Comitato e quelle degli arabi, si
      sarebbe già trovato per fare accettare una soluzione la quale,
      lasciando la sostanza all'Italia, salvasse almeno le apparenze.
      Quanto alle altre due proposte, i delegati Turchi si riservavano
      di presentarle  appena fossero  state  loro 
      trasmesse.
      
      Esse arrivarono in fatti a Caux il 27 agosto; l'una proponeva di
      concedere l'autonomia, cedendo in piena sovranità all'ltalia due
      porti in punti da scegliere che non fossero attualmente abitati ;
      e i fiduciari turchi tentavano di persuaderci che essa implicava
      virtualmente l'abbandono della Libia all'amministrazione italiana;
      l'altra proponeva l'autonomia per la Cirenaica e la cessione
      assoluta della Tripolitahia all'Italia, la quale alla sua volta e
      per compenso avrebbe ceduto alla Turchia Massaua e l'Eritrea.
      Naturalmente esse pure furono immediatamente respinte.
      
      Intanto, siccome da Costantinopoli si insisteva a mezzo dei
      fiduciari turchi per conoscere la risposta nostra alle tre prime
      formule proposte dei fiduciari ottomani, i nostri fiduciari li
      autorizzarono a telegrafare al loro governo in termini precisi,
      dettando la risposta essi stessi, «che le tre proposte fatte dal
      Governo ottomano erano respinte dal Governo italiano perchè
      incompatibili con la sovranità dell'Italia». E su richiesta dei
      fiduciari Turchi, consentirono a consegnare loro, perchè fosse
      trasmesso al loro governo, un riassunto dei postulati capitali
      italiani per la pace, che costituirono il primo schizzo del
      trattato di pace che fu poi dalla Turchia finalmente accettato. I
      nostri fiduciari ripeterono poi solennemente ai fiduciari ottomani
      che, piuttosto che rinunciare anche in minima parte alla legge che
      aveva proclamata la sovranità, l'Italia avrebbe combattuto
      indefinitivamente, portando la guerra anche in Arabia, nell'Asia
      Minore e in Albania, e che le isole non sarebbero mai state
      sgombrate fino a che le truppe e gli ufficiali turchi non fossero
      stati ritirati dalla Libia.
      
      Fino a questo punto i nostri fiduciari avevano condotte le
      conversazioni sulla base della istruzioni ricevute, e che si
      potevano riassumere: intransigenza assoluta sul punto capitale
      della sovranità, e spirito di conciliazione pel resto, lasciando
      però ai Turchi di avanzare le loro domande, e mettendone anzi
      avanti essi pure, per stabilire dei punti su cui potessimo fare
      concessioni. Altre istruzioni e indicazioni particolari io
      trasmettevo a mano a mano che venivano presentate e discusse le
      proposte turche, lasciando ai nostri negoziatori la necessaria
      libertà di discussione, di cui però essi si valsero sempre con"
      grande ponderazione e buoni risultati. Però, siccome qualche
      lettera di Bertolini e di Fusinato lasciava travedere una certa
      preoccupazione che le conversazioni stessero per arrivare ad un
      punto morto, e dovessero essere abbandonate, cosa che io volevo ad
      ogni modo evitare, persuaso come ero che prima o dopo, mantenendo
      i contatti, si sarebbe arrivati in porto; credetti opportuno di
      avere coi nostri delegati uno scambio di idee, per fissare
      definitivamente il nostro programma. 
      
      Questo incontro ebbe luogo il 25 agosto all'Hotel Bologne a
      Torino. Esaminato minutamente il corso delle conversazioni ed i
      loro risultati, io proposi il seguente schema: che il Governo
      turco proclamasse l'indipendenza delle popolazioni della Libia,
      nominandovi un rappresentante religioso del Califa, con un suo
      atto unilaterale; l'Italia alla sua volta, senza scriverlo nel
      trattato, s'impegnava a fare agli arabi tutte le possibili
      concessioni; mentre i turchi alla loro volta, pure senza scriverlo
      nel Trattato, farebbero le concessioni necessarie alle popolazioni
      delle isole Egee. Dopo ciò si sarebbe passati alla estensione del
      Trattato di pace.  Con  questa   formula 
      si  sarebbero evitate  al Governo turco molte e gravi
      difficoltà, non essendo esso in tal modo obbligato a riconoscere,
      neppure indirettamente, la nostra sovranità, e noi non avremmo
      avuti vincoli intemazionali né di fronte agli arabi, né di fronte
      agli abitanti delle isole Egee. 
      
      Questo progetto fu esposto in una nuova conversazione che i
      fiduciari nostri ebbero con quelli turchi il 27 agosto, al ritorno
      a Caux. Costoro non mostrarono di apprezzare troppo la nomina del
      rappresentante religioso; osservando che la nomina di un Muftì e
      di altre autorità religiose era una conseguenza necessaria del
      culto musulmano, e che implicava la rappresentanza del Califa
      anche in territori stranieri, quali l'India, la Bulgaria, la
      Russia e dovunque sono dei musulmani. Quindi una tale concessione,
      superflua affatto, non rispondeva alle esigenze del Governo turco
      per fare accettare dal paese il trattato di pace. Essi proponevano
      invece di nominare un Bey, che non sarebbe stato — e lo dicevano
      espressamente — che un uomo di paglia, del quale, se ci fosse
      riuscito incomodo, avremmo potuto sbarazzarci un anno o due dopo:
      la Turchia avrebbe protestato presso noi o presso le Potenze, e
      tutto sarebbe finito. Essi osservarono pure che, non riconoscendo
      la Turchia la sovranità italiana, non avrebbe potuto nominare un
      agente consolare; perchè dunque, anche se non si voleva la nomina
      di un Bey, non si permetterebbe al Governo turco di nominare un
      rappresentante del Sultano con una formula vaga, la quale senza
      indicare una investitura
      di podestà politica, gli desse modo di lasciarla interpretare in
      tale senso dalla opinione pubblica musulmana; mentre l'Italia,
      nell'atto unilaterale suo si limiterebbe a considerarlo come
      rappresentante puramente religioso  ed  amministrativo?
      
      Il tal modo, sia pure lentamente, in queste conversazioni ci
      andavamo avvicinando alla via di uscita. Ritengo superfluo entrare
      nei particolari di tutte le nuove proposte che ci venivano
      affacciate, ora a mezzo del Comm. Nogara; ora a mezzo di un ex
      ambasciatore francese, il signor Revoil, che aveva in Turchia una
      posizione importante nel mondo degli affari, e il quale ebbe in
      proposito uno scambio di idee a Carlsbad col Marchese Garroni; ora
      a mezzo dell'ambasciatore .turco a Parigi, in conversazioni con
      l'ambasciatore nostro, Tittoni. Di queste proposte ve n'era di
      tutti i generi: — ci si chiese che cosa penseremmo se la Turchia
      richiedesse i buoni uffici dell'Inghilterra; ci si informò che un
      importante personaggio aveva proposto l'arbitrato del Presidente
      degli Stati Uniti, assicurando che il Presidente era disposto ad
      offrirlo; ed in verità una proposta di mediazione americana era
      pervenuta a me pure, ma non aveva avuto seguito dopo la mia
      dichiarazione che il nostro proposito di mantenere la sovranità
      proclamata era irremovibile. Si propose di mandare un membro del
      Governo turco a trattare direttamente meco a Roma; ci si chiese
      ancora se l'Italia sarebbe stata disposta a cedere alla Turchia,
      come indennità per la perdita della Libia, due
      delle migliori navi della sua flotta; proposta quest'ultima di
      cui si comprende l'importanza, quando si consideri che c'erano già
      nell'aria i primi indizi della guerra balcanica, e che con quella
      nostra cessione la Turchia avrebbe guadagnato di colpo la
      supremazia sulla flotta greca. Si prospettò di venire ad un modus
      vivendi, rimandando ad una conferenza europea la soluzione
      definitiva, la Turchia impegnandosi a non fare opposizione al
      riconoscimento della nostra sovranità, in, cambio del nostro
      appoggio su altri problemi economici e politici.
      
      L'ultima fra queste proposte che ci venivano a mano a mano
      presentate dai delegati Turchi, o accennate da qualche membro di
      quel governo al commendator Nogara, arrivava all'assurdo di
      mantenere in Libia, con gli organi appositi, la sovranità del
      Sultano, senza per questo obbiettare alla sovranità dell'Italia,
      di modo che quel paese sarebbe stato sottoposto ad una duplice
      sovranità, ognuna delle quali avrebbe finto di ignorare l'altra! A
      queste proposte, alcune ingenue o fantastiche, altre abili ed
      insidiose, io risposi sempre negativamente, e dando a volta a
      volta ragione del mio diniego, ed insistendo per la soluzione
      unica, e che essa dovesse essere combinata fra i fiduciari nostri
      e i fiduciari turchi a Caux. A questo incrociarsi di progetti e di
      proposte io non davo alcuna importanza; è però interessante
      rilevare come essi indicassero che per la Turchia non si trattava
      ormai di una questione di sostanza, ma di forma; e come per essa
      fossero in gioco, non già la Cirenaica e la Tripolitania,
      irremediabilmente perdute fino dal principio, ma il prestigio
      politico interno di fronte al mondo musulmano, ed all'elemento
      arabo in particolare. 
      
      A questi interessi politici generali altri se ne intrecciavano,
      speciali e partigiani; del governo, del Comitato «Unione e
      Progresso», dell'esercito, cercando ognuno di scaricare sulle
      spalle degli altri la responsabilità della situazione e delle sue
      conseguenze. Il governo allora al potere, costituito di elementi
      del vecchio regime, si preoccupava di affrettare la soluzione, per
      fare comprendere di avere dovuto agire su una situazione da esso
      trovata, e fare ricadere sul governo dei Giovani Turchi, che
      l'aveva preceduto, la responsabilità della perdita delle provincie
      africane; mentre la tattica del Comitato era di fare ricadere
      questa responsabilità sul governo attuale, astenendosi dal
      concedergli un qualunque appoggio, sino a che la questione della
      Libia non fosse tolta di mezzo. 
      
      Altri invece, nell'aspettativa dello scoppio della guerra
      balcanica, di cui si avevano già molteplici indizi premonitori, e
      nella convinzione che quella guerra sarebbe stata vinta facilmente
      dalla Turchia, ritenevano inutile fare la pace con l'Italia, e più
      conveniente di rimandare la questione della Libia, insieme alle
      altre questioni, davanti alla Conferenza europea che avrebbe
      dovuto regolare le conseguenze e i risultati della guerra. Si
      aggiungano gli intrighi finanziari che non mancano mai in codeste
      occasioni; e i colpi di  testa di  qualche
      diplomatico,  come quello  che, secondo ci informò lo
      stesso Presidente del Senato turco, consigliava alla Turchia di
      tirare le cose in lungo perchè l'indebolimento dell'Italia era
      utile alla situazione politica generale; e si avrà un, quadro
      della rete di complicazioni nella quale doveva svolgersi l'azione
      nostra; complicazioni che mi confermavano sempre più nel mio
      concetto di seguire una linea diritta e precisa.
      
      Uno dei personaggi turchi, che si rendeva meglio conto delle
      necessità di porre fine ad una situazione insostenibile, e che si
      faceva di più in più pericolosa, era il ministro degli esteri,
      cristiano, Noradoughian Bey, uomo abile ed intelligente; ma egli
      pure temeva di addossarsi responsabilità che lo esponessero poi a
      rappresaglie. Ad ogni modo egli sostenne la opportunità di
      accettare le proposte nostre come base dei negoziati; e nello
      stesso tempo furono, se non eliminate, assai ridotte le difficoltà
      interne mediante un compromesso firmato fra il partito dell'Intesa
      liberale, che faceva capo a Kiamil, e il Comitato «Unione e
      Progresso»; compromesso col quale si riconosceva che la pace era
      un interesse nazionale, e le due parti s'impegnavano a non fare
      delle condizioni di pace una piattaforma elettorale o di
      opposizione al governo. Si ventilava pure l'idea di mandare,
      traverso la Tunisia, missioni pacificatrici in Tripolitania. Ma
      altre difficoltà sorsero, in Libia e fra gli arabi. 
      
      Il comandante militare in Tripolitania, informato delle
      trattative, telegrafò a Costantinopoli che malgrado la conclusione
      della pace, egli avrebbe continuata la guerra per suo conto;
      mentre il Comitato arabo di Costantinopoli minacciava di
      considerare la cessione della Libia come ragione sufficiente per
      proclamare la decadenza del Califfatto.
      
      Sorsero così nuove incertezze e titubanze, e noi fummo informati
      che il Consiglio dei Ministri turco aveva deciso di incaricare
      Reschid pascià, che era già stato ambasciatore a Roma, ed
      attualmente teneva il posto di Ministro d'Agricoltura, Industria e
      Commercio, di venire a conferire meco; e che la sua missione
      doveva essere assolutamente segreta. Secondo i nostri informatori,
      Reschid pascià doveva chiedere all'Italia importanti impegni
      politici, in vista della crisi balcanica che andava maturando, in
      compenso della conclusione della pace secondo le nostre
      condizioni. La missione di Reschid poteva essere anche un semplice
      espediente dilatorio, o celare la speranza di ottenere qualche
      ulteriore concessione. Per ogni buon fine io feci sapere al
      governo turco che ero disposto a riceverlo, qui a Roma; ma che per
      lealtà dovevo dichiarare che la sua venuta sarebbe stata
      assolutamente inutile, se diretta ad ottenere modificazioni della
      nostra legge di sovranità; non solo il governo, ma anche il
      Parlamento e il popolo italiano essendo irremovibili nel proposito
      di mantenerla integra a qualunque costo. 
      
      Non ostante questo monito preventivo, la partenza di Reschid da
      Costantinopoli ebbe luogo egualmente. Egli  
      si   fermò   a   Vienna,  
      dove   doveva   attendere le ultime
      istruzioni, e di là fece sapere che invece che a Roma preferiva
      d'incontrarsi meco in una città contigua alla frontiera, da dove
      avrebbe proseguito per Losanna, per unirsi agli altri due
      fiduciari turchi, A questa richiesta io risposi che il Presidente
      del Consiglio italiano non avrebbe mai fatto un viaggio per andare
      incontro al Ministro d'Agricoltura della Turchia; ciò che del
      resto sarebbe stato futile anche per lo scopo di mantenere il
      segreto, io essendo troppo conosciuto in Italia dovunque. Ad ogni
      modo, siccome dovevo recarmi e rimanere per una settimana a
      Cavour, non avrei avuto difficoltà a che l'incontro avesse luogo
      invece che a Roma, a Torino.
      
      Se non che, arrivato il 29 settembre Reschid a Ouchy, vicino a
      Losanna, dove i fiduciari nostri e turchi si erano spostati da
      qualche giorno, dichiarò di non essere disposto di recarsi a
      Torino o in qualsiasi città italiana, perchè il suo Consiglio dei
      Ministri lo aveva autorizzato ad incontrarsi col Presidente del
      Consiglio italiano solamente fuori della nostra frontiera. Questa
      sua dichiarazione era in contrasto con le comunicazioni fatte in
      proposito dai fiduciari turchi ai fiduciari nostri, secondo le
      istruzioni che quelli avevano ricevuto dal loro Ministro degli
      Esteri. Ma Reschid replicò che le istruzioni del Ministro degli
      Esteri erano per lui insufficienti, se non fossero accompagnate da
      esplicita deliberazione del Consiglio dei Ministri, e promise che
      l'avrebbe per parte sua provocata. Io ebbi subito l'impressione
      che il contegno di Reschid dimostrasse il proposito del Governo
      turco di guadagnare semplicemente tempo; impressione che fu
      apertamente comunicata dai nostri negoziatori nelle conversazioni
      avute con lui. Le risposte sue, vaghe e generiche, confermarono
      nei nostri negoziatori codesto sospetto, anzi lo posero fuori
      dubbio; la cosa essendo d'altronde in piena corrispondenza con la
      situazione. 
      
      La Turchia era sotto la minaccia, o della guerra balcanica, che
      poi scoppiò effettivamente, o di una Conferenza europea; ed era
      ovvio che, aspettando di vedere quale corso gli avvenimenti
      prenderebbero, fosse suo interesse di tenere a bada l'Italia.
      Essendo Reschid una vecchia conoscenza di Fusinato, che aveva
      avuti rapporti abbastanza famigliari con lui quando era
      ambasciatore a Roma, il Fusinato cercò di cavarne fuori qualche
      cosa di più in un abboccamento strettamente privato; ma finì per
      persuadersi che Reschid non aveva altra missione se non di
      implorarmi a nome dei supremi interessi dell'Impero ottomano,
      perchè noi prestassimo alla Turchia una nostra collaborazione
      diplomatica nei Balcani. Si voleva cercare insomma, profittando
      della situazione speciale in cui l'Italia si trovava per la
      guerra, di attirarla ad impegni che avrebbero potuto trovarsi in
      contrasto con l'azione generale della diplomazia europea, ciò che,
      oltre a non corrispondere ai nostri impegni diplomatici
      precedenti, ci avrebbe messo in una situazione pericolosissima. 
      
      Per tanto, il 1 settembre, telegrafai ai nostri fiduciari per
      avvertirli che sarebbe stato bene fare intendere subito e
      chiaramente ai fiduciari turchi, che se scoppiasse un conflitto
      nei Balcani, io avrei rotto immediatamente ogni trattativa, perchè
      ad ogni buon fine converrebbe all'Italia che la sistemazione
      balcanica avvenisse mentre eravamo ancora nel pieno possesso delle
      isole Egee; e che d'altronde non era consentaneo con la nostra
      dignità il prolungare negoziati con un governo che dimostrava di
      non avere altro scopo che di farci perdere tempo.
      
      Incaricai nello stesso tempo San Giuliano d'informare le Potenze
      dello stato delle cose, e di fare loro sapere che, avendo ormai
      acquistata la certezza che il Governo turco non si proponeva altro
      che di tergiversare, noi eravamo decisi a rompere le trattative e
      riprendere con maggiore energia la guerra, e non più nella sola
      Libia, ma contro le parti più vitali dell'Impero ottomano. Monito
      questo alle Potenze che era tanto più giustificato, in quanto che,
      quantunque avvertite da noi del corso dei negoziati, e richieste
      di aiutarlo con qualche consiglio dato alla Porta, nell'interesse
      generale della pace europea, esse, con una ragione o un'altra, se
      ne erano fino allora astenute.
    
      Ultimatum di otto giorni alla Turchia — Il governo turco
        dichiara di accettare lo schema da noi proposto — Nuovi
        espedienti turchi — Invio della flotta italiana nell'Egeo —
        Ordine di attaccare Smirne e Dedeagatch — La pace alfine firmata
        — Critiche diverse mosse contro la guerra e la sua condotta
        diplomatica e militare — I pacifisti ad ogni costo, gli
        umanitari ed i nazionalisti — Una critica postuma: la guerra di
        Libia spinse alla guerra europea?
      
      Il contegno e la condotta di Reschid pascià, insieme al fatto che
      da Costantinopoli non si rispondeva
nemmeno più alle osservazioni
      ed alle richieste di
istruzioni da parte degli stessi fiduciari
      turchi, mi
persuasero della necessità di far sentire al
      Governo
ottomano una più energica pressione. Degli imbarazzi e
      delle reali difficoltà in cui quel governo si trovava, fra la
      questione della nostra pace e la già
imminente minaccia della
      guerra balcanica, io mi
rendevo conto; ma era pure evidente che i
      vari poteri
e uomini del regime cercavano di evadere tutti
      insieme, ed anche ognuno per conto proprio, qualunque
      responsabilità a spese nostre, non rifuggendo
di ricorrere agli
      espedienti della più flagrante malafede. Era dunque ormai
      necessario di fare loro sentire che la nostra pazienza e
      longanimità aveva un
limite, e che noi non eravamo affatto
      disposti a prestarci indefinitamente al loro gioco.
      
      Nel corso delle conversazioni passate fra i nostri fiduciari e i
      due fiduciari turchi, che personalmente si comportarono sempre con
      lealtà, rendendosi pienamente conto della situazione e
      collaborando del loro meglio per trovare una soluzione, un punto
      di accordo era stato raggiunto nella prima metà di settembre. Il 6
      di quel mese, e dopo già venticinque giorni di discussione, la
      delegazione ottomana aveva comunicato alla nostra una nuova
      proposta del suo governò; e il giorno 10 la nostra delegazione
      aveva risposto, dopo essersi affiatata meco, che il Governo
      italiano era disposto a discutere sulla base di quella proposta,
      condizionando il suo consenso con la modificazione di alcuni punti
      incompatibili coi nostri postulati. In tal modo era stato
      compilato uno schema di accordo segreto, la cui firma avrebbe
      dovuto precedere quella del trattato di pace pubblico, e di cui
      era stata inviata copia al Governo ottomano. Da quel giorno erano
      passate tre settimane senza che gli stessi fiduciari turchi
      riuscissero ad ottenere risposta in proposito dal loro governo. Io
      pensai che questo stato di fatto potesse servire di base ad una
      ulteriore nostra azione, e mi accordai coi nostri delegati perchè
      fosse fatta una dichiarazione ai fiduciari turchi, all'effetto che
      se quell'accordo segreto non fosse firmato entro otto giorni, cioè
      entro il 10 ottobre, i negoziati sarebbero stati sospesi,
      riserbandoci noi piena libertà d'azione. 
      
      Suggerii che tale dichiarazione fosse fatta a mezzo di una breve
      nota, la quale mettesse in evidenza la longanimità nostra e le
      tergiversazioni a cui la Turchia era ricorsa dopo la venuta di
      Reschid. Nello stesso tempo, da Cavour dove mi trovavo ancora,
      telegrafai a San Giuliano perchè, mettendo in rilievo che le
      dilazioni e tergiversazioni turche erano aumentate dopo la venuta
      di Reschid, facesse conoscere alle Potenze la probabilità che i
      negoziati fossero interrotti per colpa della Turchia, ed il
      conseguente nostro proposito di riprendere con maggiore energia, e
      senza più riguardo pel nemico, la nostra azione militare. Questa
      azione avrebbe dovuto svolgersi nell'Egeo, ed io mi riservavo di
      studiarne e concretarne i particolari al mio ritorno a Roma fra
      due giorni, tenendo conto delle necessità e degli accordi
      internazionali allora in discussione, perchè volevo evitare che
      noi apparissimo in qualunque modo provocatori di una guerra
      europea. 
      
      La comunicazione di questa nota fece molta impressione sui
      delegati turchi, i quali telegrafarono subito e lungamente a
      Costantinopoli. Reschid confessò anche che egli era stato bensì
      invitato dal suo Ministro degli Esteri a recarsi a Torino, ma non
      aveva avuto formale mandato dal governo; aggiunse che il Ministro
      degli Esteri era decisamente favorevole alla pace, secondato in
      ciò dal Gran Visir e da Kiamil pascià, ma ostinatamente
      contrastato dallo Sceicco dell'Islam in nome dell'elemento
      religioso. I delegati turchi vollero pure riprendere la
      discussione  dello  schema  d'accordo 
      segreto,   sollevando nuove obbiezioni e chiedendo altre
      concessioni; ma io avvertii i nostri che era bene di fare
      comprendere ai turchi che le concessioni nostre erano giunte ormai
      all'ultimo limite, e che non saremmo andati oltre a qualunque
      costo; e che ormai la Turchia doveva rispondere con un semplice sì
      o no; di osservare loro che se gli avvenimenti portassero ad una
      Conferenza europea, a noi sarebbe stato molto utile il possesso
      delle isole; e che se fosse scoppiata la guerra fra la Turchia ed
      i paesi balcanici, noi, essendo già in stato di guerra, ci saremmo
      trovati liberi di spingerla alle ultime conseguenze. E feci
      avvertire anche che sino da allora la nostra marina aveva ordini
      di impedire qualunque trasporto di truppe turche per mare,
      sequestrando le navi che a tali trasporti fossero adibite.
      
      Questa mossa energica ebbe l'effetto che mi ero proposto. Da
      Costantinopoli, a mezzo dei nostri agenti, fummo avvertiti che un
      corriere di gabinetto era partito immediatamente portando ai
      delegati turchi nuove istruzioni, e che nello stesso tempo i
      fiduciari turchi di Ouchy avevano chiesto telegraficamente i pieni
      poteri. Apprendemmo pure che il Governo tedesco in seguito al
      nostro avvertimento, aveva dato al suo ambasciatore istruzioni di
      consigliare il governo turco di desistere da ulteriori
      tergiversazioni; e che l'ambasciatore francese a Costantinopoli
      informava il suo governo che la Porta aveva autorizzato Reschid a
      cedere sulla questione della sovranità. E il giorno 4 i fiduciari
      turchi comunicavano ai nostri che lo schema di accordo segreto era
      stato approvato dal Consiglio dei Ministri turco senza sostanziali
      modificazioni.
      
      Lo schema dell'accordo segreto era presso a poco nei termini
      seguenti. Anzitutto il Sultano, con un atto spontaneo e
      unilaterale, doveva pubblicare un firmano che accordava la piena
      autonomia alla Libia, nominando un suo rappresentante, già scelto
      nella persona di Chemseddin Bey, uomo mite e pio, di cui avemmo
      buone informazioni. All'atto del Sultano doveva seguire un atto,
      pure unilaterale, dell'Italia la quale, in base alla sua legge di
      sovranità accordava amnistia agli arabi combattenti, e riconosceva
      agli effetti religiosi il rappresentante del Sultano, accordando
      anche piena libertà religiosa. Il terzo atto consisteva in un iradè
      col quale il Sultano accordava amnistia e riforme radicali alle
      isole dell'Egeo da noi occupate. 
      
      Seguiva infine un atto comune che ristabiliva la pace e lo statu
      quo ante bellum fra l'Italia e la Turchia. Lo sgombero delle
      truppe turche dalla Libia doveva precedere il nostro ritiro dalle
      isole dell'Egeo. Non volendo abbandonare Idriss, che aveva
      combattuto al nostro fianco, io chiedevo che gli fosse concessa
      ampia amnistia ed una posizione nei suoi territori eguale a quella
      goduta dall'Iman Yaja nello Yemen; e la Turchia chiedeva alla sua
      volta che noi pagassimo al debito ottomano la somma che questo
      traeva annualmente dalla Libia.
      
      Non ostante però le informazioni e le assicurazioni che avevamo
      ricevuto da varie parti, presto apparve
      che le tergiversazioni turche non erano ancora finite. Il giorno
      8 venivamo informati da Costantinopoli che, essendo riunito il
      Consiglio dei Ministri per deliberare sulla pace con l'Italia,
      intorno alla Sublime Porta si era raccolta una clamorosa
      dimostrazione la quale reclamava la continuazione della guerra ed
      il ritiro del Gabinetto pacifista. Si temevano pronunciamenti
      militari ed era stato dichiarato lo stato d'assedio. Il Ministro
      degli Esteri aveva ricevuto minaccie di morte ed era assai
      impaurito ed abbattuto. E il comm. Nogara il giorno 10 ci
      telegrafava confermando che il governo era sinceramente deciso a
      concludere subito la pace; ma che per ragioni costituzionali e per
      difficoltà insormontabili interne era costretto ad invertire la
      procedura già approvata  nell'accordo  segreto.
      
      Che cosa fosse questa inversione così preannunciata da
      Costantinopoli, l'apprendemmo in riassunto il giorno 11, dopo
      l'espirazione del nostro ultimatum, e in tutti i suoi particolari
      il giorno dopo, a mezzo di una lunghissima comunicazione che i
      delegati turchi ricevettero dal loro governo. Lo schema
      dell'accordo segreto vi era interamente sconvolto. Mentre si
      doveva, secondo quest'ultima proposta turca, firmare un trattato
      di pace che fosse immediatamente effettivo, l'emanazione del
      firmano col quale il Sultano doveva accordare la piena autonomia
      alla Libia, come pure il ritiro delle truppe turche, venivano
      rimandate a dopo che il trattato di pace fosse stato approvato dal
      Parlamento ottomano. Si domandava inoltre che l'Italia rinunciasse
      ai diritti di tutela degli abitanti della Libia quando questi si
      trovassero in territorio ottomano ; cosa questa che ci avrebbe
      fatto perdere ogni prestigio presso gli arabi; ed infine si
      pretendeva che noi rinunciassimo all'articolo dell'accordo che
      imponeva al Governo ottomano di impedire che dal suo territorio
      fossero spedite armi agli arabi i quali persistessero a combattere
      contro di noi. 
      
      Io telegrafai immediatamente ai nostri delegali di respingere
      senza la menoma discussione tali proposte, tutte assolutamente
      inaccettabili; facendo osservare fra l'altro che la mancata
      pubblicazione del firmano accordante l'autonomia agli arabi
      avrebbe reso impossibile alle potenze di riconoscere la nostra
      sovranità; e che un trattato di pace concluso su quelle basi si
      ridurrebbe sostanzialmente a questo: che noi daremmo denari alla
      Turchia permettendole anche di usare liberamente della sua flotta
      e di spostare le sue truppe per mare, ricevendo in compenso la
      semplice promessa del ritiro dalla Libia delle sue truppe le
      quali, istigate sottomano, potrebbero anche rifiutare di obbedire.
      Nello stesso tempo, avvertendone il Re, facevo mandare ordine alla
      squadra dell'Ammiraglio Amero d'Aste di tenersi pronto per una
      energica azione, ed alla squadra dell'Ammiraglio Viale, che era a
      Taranto, di preparasi a partire per le acque ottomane.
      
      Avvisammo pure le Potenze che la nuova tergiversazione dei turchi
      rendeva ormai inevitabile l'azione militare da cui ci eravamo
      astenuti oltre il limite fissato dal nostro ultimatum, e per la
      quale, dopo lo scoppio, avvenuto in quei giorni, della guerra
      balcanica, non c'era più ragione di alcuna limitazione. La nostra
      intenzione, nel caso la guerra fosse ripresa, era di attaccare le
      fortificazioni di Smirne, e di tagliare, nella Turchia europea, il
      nodo ferroviario di Dedeagatch , il che avrebbe creato imbarazzi
      gravissimi alla Turchia nella sua mobilitazione per fronteggiare
      l'attacco della Bulgaria e della Grecia, in quanto sarebbero state
      rotte tutte le  comunicazioni  fra Costantinopoli 
      e Salonicco.
      
      I nostri delegati ad Ouchy, che sino dal primo momento, ricevendo
      la nuova comunicazione dei delegati ottomani, avevano protestato
      dichiarando inaccettabili le nuove proposte, essendosi fatta la
      convinzione che all'ultimo la Turchia avrebbe ceduto, mi chiesero
      la facoltà di dare un altro brevissimo termine alla Turchia per la
      firma del trattato. Io consentii di concedere un ultimo termine
      sino alla mezzanotte del 15, senza impegnarmi però a sospendere
      una eventuale azione della nostra flotta. Questa volta i dispacci
      dei suoi fiduciari al Governo turco ebbero finalmente l'effetto di
      persuaderlo che l'ultimo limite delle tergiversazioni era
      raggiunto. Un Consiglio dei Ministri, convocato la mattina del 14,
      riesaminò, sotto l'impressione del nostro nuovo ultimatum, la
      questione costituzionale che era stata sollevata a pretesto delle
      antecedenti tergiversazioni, e fu scoperta che un articolo della
      costituzione turca dava facoltà al governo, in caso di pericolo
      nazionale, di fare la pace per decreto-legge,  senza 
      aspettare l'approvazione del Parlamento. Ed alla sera dello stesso
      giorno i delegati turchi annunciarono ai nostri di avere ricevuto
      dal loro governo istruzioni di firmare il testo nostro
      dell'accordo preliminare, avanzando però ancora a quell'ultimo
      momento, qualche richiesta di modificazioni, alcune ragionevoli,
      altre insidiose. 
      
      Si proponeva di togliere dal firmano il preambolo col quale il
      Sultano riconosceva di non potere più difendere la Libia; ed io
      risposi che consentivo a modificare le frasi che potessero parere
      offensive al decoro militare turco, conservando però la sostanza,
      e sopra tutto l'esortazione agli arabi di fare la pace; in caso
      diverso avrei abolito anche l'annunzio della nomina del
      rappresentante del Sultano. Si domandava che nel nostro decreto di
      amnistia agli arabi fosse cancellato il riferimento alla nostra
      legge di sovranità del 5 febbraio; e l'insidia di tale proposta,
      la cui accettazione sarebbe stata per noi vergognosa, non ha
      bisogno di spiegazione. Si obbiettava a che fosse introdotta nel
      trattato la questione di Idriss, apparendo umiliante che il
      Governo turco dovesse prendere impegni con un'altra Potenza pel
      trattamento di un ribelle; ed io consentii a che la questione di
      Idriss fosse risolta con un atto spontaneo di amnistia da parte
      del Sultano. Si chiedeva ancora che l'annualità del debito
      ottomano da trarsi dai redditi della Libia fosse capitalizzata in
      una somma pagabile immediatamente, ed a questo anche consentii,
      preferendo anzi io stesso di liquidare senz'altro 
      questa  pendenza,   perchè  non  ci 
      fosse  poi l'apparenza che noi pagassimo annualmente un
      tributo. 
      
      Poi si avanzava una domanda di carattere politico assai
      importante, e cioè che noi c'impegnassimo a sostenere la Turchia
      nella sua politica balcanica; domanda che in quella forma, e di
      fronte alla situazione che ormai precipitava, era inaccettabile,
      perchè ci avrebbe potuto mettere in seri imbarazzi con le altre
      Potenze; ed io risposi limitandomi a dare assicurazioni del nostro
      buon volere riguardo al problema della integrità dell'Impero
      ottomano in Europa ed in Asia, sempre subordinatamente agli
      avvenimenti. E la discussione giunse così, per quanto riguardava
      la sostanza del trattato, al suo termine, i delegati turchi avendo
      del resto istruzioni di tentare sì di ottenere codeste ultime
      concessioni, ma alla fine di firmare in ogni caso. 
      
      Devo pure ricordare che, in quell'ultimo momento, alcune, delle
      Potenze credettero finalmente conveniente di esercitare la loro
      influenza per la pace. L' ambasciatore tedesco Waggenheim, e
      quello austriaco Pallavicini, ricevettero istruzioni, per
      iniziativa della Germania, e dopo uno scambio di vedute fra
      Berlino e Vienna, di agire fermamente presso la Porta; ed in tale
      senso agì pure, quantunque in maniera indipendente, l'ambasciatore
      americano. L'Inghilterra si astenne, sopratutto per lo scrupolo
      personale dei doveri della neutralità, che era fortissimo in Sir
      Edward Grey, ed anche per la preoccupazione di possibili
      ripercussioni di malcontento nel vasto mondo ottomano, sottoposto
      al dominio inglese in India ed altrove.
      
      Anche dopo questo non ci trovammo del tutto fuori dagli imbrogli e
      dalle insidie; perchè si scoperse che, o per disordine o per
      malafede, i poteri inviati da Costantinopoli ai delegati turchi
      non erano validi, recando solo la firma del Ministro degli Esteri:
      al che potemmo rimediare senza ulteriore perdita di tempo, facendo
      depositare il documento genuino dei pieni poteri presso
      l'ambasciata di Germania a Costantinopoli, che lo prese in
      consegna e lo verificò, dandocene notifica ufficiale. E così, la
      sera del 15 ottobre, alle, ore diciotto, prima che spirasse
      l'ultima dilazione da noi accordata, l'accordo preliminare della
      pace fu finalmente e regolarmente firmato. E la sera stessa, per
      richiesta dei delegati turchi, noi ordinammo in Libia la
      sospensione delle ostilità, mentre alla loro volta i delegati
      turchi telegrafarono a Costantinopoli di applicare nuovamente il
      regime doganale normale alle merci italiane.
      
      Il firmano del Sultano, contenente la proclamazione dell'autonomia
      della Libia, e l'iradè riguardo le isole e quello per
      Idriss furono firmati dal Sultano il giorno 16 e promulgati il
      giorno dopo; nel qual giorno fu pure firmato dal Re d'Italia il
      decreto di amnistia agli arabi e la proclamazione della libertà
      religiosa per la Libia. Il giorno 18, alle ore 15,45 fu infine
      firmato ad Ouchy il trattato di pace. Lo stesso giorno io
      deliberai, informandone il Re, di istituire il Ministero delle
      Colonie, e telegrafai a Bertolini pregandolo di accettarlo, come
      poi egli fece. Seguì il riconoscimento, da parte delle Potenze,
      alla nostra sovranità sulla Libia. La prima a dichiararlo fu la
      Russia, il giorno 16 ottobre, il 17 e il 18 seguirono l'Austria e
      la Germania; il 19 l'Inghilterra, e qualche giorno appresso la
      Francia. Il giorno 20 i nostri delegati giunsero a Roma portando
      il testo del Trattato; ed il giorno 22 il generale Tassoni inviò
      da Zuara al campo turco di Garbia il capitano Camera pel disarmo
      delle truppe turche, che fu effettuato senza alcun incaglio. E
      verso la fine di novembre il Trattato fu ratificato dal
      Parlamento.
      
      La condotta, sia politica e diplomatica, sia militare di questa
      singolare guerra svoltasi in condizioni veramente eccezionali;
      come pure la conclusione della pace dettero luogo a critiche di
      ogni genere, alle quali io risposi, nei limiti allora consentiti
      dalle convenienze internazionali, in un discorso che chiuse una
      lunga discussione parlamentare nei primi giorni del marzo 1914.
      Oggi, che molte delle ragioni di riserbo diplomatico sono venute
      meno, quelle critiche possono essere esaminate alla luce di più
      larghe e precise informazioni.
      
      Come avviene sempre in tale genere di cose, le critiche si
      contradicevano; alcune accusandoci addirittura di avere fatto la
      guerra o di avere fatto troppo, e di non avere scelto il momento
      opportuno; mentre altre ci accusavano di essere stati incerti e
      timidi  e  di   avere  fatto  
      troppo   poco.   
      
      I   critici  del primo gruppo ci rimproveravano di
      avere dichiarata formalmente guerra alla Turchia, sostenendo che
      avremmo dovuto semplicemente occupare i territori in questione,
      come si sarebbe potuta compiere una qualunque occupazione
      coloniale. Al che si risponde, in primo luogo che la Libia formava
      parte integrale dell' Impero ottomano, e che l'occupare un
      territorio di una grande Potenza senza previa dichiarazione di
      guerra avrebbe costituita una violazione del diritto
      internazionale; e in secondo luogo che se non avessimo fatta la
      formale dichiarazione di guerra, non avremmo avuto il diritto di
      impedire il contrabbando, per l'esercizio del quale diritto Io
      stato di guerra è necessario. Gli stessi critici ci rimproveravano
      di non avere scelto il momento opportuno, sostenendo la tesi che
      prima di agire avremmo dovuto aspettare almeno di vedere se
      qualche altra Potenza tradiva l'intenzione di prevenirci; ci.
      accusavano pure di non avere fatta la necessaria preparazione
      diplomatica, e sopratutto insistevano sulla intempestività della
      proclamazione della nostra sovranità sulla Libia, la quale, a loro
      avviso aveva avuto l'effetto di prolungare la guerra e di renderne
      più diffìcile la soluzione. Alla maggior parte di queste critiche
      ho già incidentalmente risposto con la precedente narrazione dei
      dietroscena diplomatici degli avvenimenti, che fino ad ora erano
      rimasti in massima parte ignoti o erano conosciuti solo in modo
      frammentario. 
      
      Alla luce di codesta narrazione  cadono  anche 
      quelle  critiche  le   quali, nell'ignoranza
      dei fatti, potevano apparire più plausibili; dovendo oggi essere
      evidente ad ognuno che l'omissione o il ritardo della
      proclamazione della nostra sovranità sulla Libia, avrebbe forse
      risparmiate parecchie difficoltà a quel governo che si fosse
      contentato di concessioni secondarie; ma avrebbe tramandato ai
      suoi successori difficoltà assai più gravi di quelle che io avevo
      creduto doveroso affrontare per risolvere radicalmente il
      problema. E c'era infine un'ultima critica, che traeva apparenza
      di fondamento dalle difficoltà che rimanevano ancora per stabilire
      la nostra autorità sull'intero territorio conquistato; e della
      quale si era fatto portavoce l'on. Bissolati, che pure era stato
      un genuino fautore dell'impresa. Il Bissolati sosteneva insomma la
      tesi che noi avremmo dovuto limitare la nostra occupazione alla
      costa, aspettando che le popolazioni dell'interno venissero poi a
      noi spontaneamente. Nel mio pensiero, se avessimo fatto ciò, la
      nuova colonia sarebbe stata per noi pressoché inutile, ed avremmo
      avuto uno stato permanente di guerra con gli abitanti
      dell'interno, che non si sarebbero resi conto di quella nostra
      condotta. Peggio ancora; essendo stati quei territori proclamati
      da noi e riconosciuti da tutte le Potenze come territori italiani;
      se le popolazioni dell'interno, abbandonate a se stesse, avessero
      fatto, come era da aspettarsi, incursioni a danno dei paesi
      vicini, o dalla parte della Tunisia o dalla parte dell'Egitto,
      quei governi avrebbero avuto il diritto di porci questo dilemma: o
      provvedete perchè la sicurezza sia mantenuta nella frontiera, o
      avremo diritto di provvedere noi.
      
      Più vivace e clamorosa, e forse più ascoltata dalla opinione
      pubblica, era quell'altra schiera di critici che ci rimproveravano
      di avere fatto troppo poco. E che si suddividevano poi in due
      specie: quella degli umanitari, che avrebbero voluto che noi
      coglies-simo quell'occasione per una universale crociata di
      liberazione delle popolazioni cristiane e delle nazionalità
      oppresse che rimanevano ancora sotto il giogo ottomano; e quella
      dei nazionalisti, secondo i quali si sarebbe dovuto fare una
      grande guerra, che dimostrasse tutta la forza dell'Italia, e che
      fosse sino dall'inizio diretta a colpire la Turchia nei suoi punti
      più vitali.
      
      Anche la risposta a tale critica è contenuta in grande parte nella
      narrazione da me fatta dei dietro-scena diplomatici, i quali
      mostrano fra quali difficoltà noi dovemmo muoverci, e con quanta
      prudenzja dovemmo manovrare per evitare che quella ostilità
      universale che la nostra impresa incontrò sino dal principio da
      parte dell'alta banca, e per riflesso nella massima parte della
      stampa e della pubblica opinione europea, non finisse per
      travolgere anche i governi i quali, pure sollevandoci di tratto in
      tratto difficoltà, non ci crearono mai dei veri e seri imbarazzi.
      Del resto, attaccare la Turchia nelle parti vitali, era una bella
      frase che non trovava però corrispondenza nella realtà; perchè,
      anche quando noi ritenemmo conveniente di spostare la guerra dalla
      Libia all'Egeo, da qualunque parte ci rivolgevamo ci trovavamo di
      fronte interessi inglesi, tedeschi, russi, francesi, e perfino
      americani; ma interessi turchi, mai. La Turchia era, per così
      dire, corazzata dai debiti di ogni specie che aveva verso tutti i
      grandi Stati ed i loro cittadini. Questa condizione di cose
      c'imponeva dei riguardi; ma debbo aggiungere che tali riguardi
      coincidevano coi nostri stessi interessi, essendo evidente che a
      noi non conveniva, né che la questione di Oriente si aprisse
      mentre eravamo impegnati nella Libia, né che una qualunque nostra
      azione desse pretesto ad altri, e particolarmente all'Austria, di
      avanzarsi nei Balcani. 
      
      La storia diplomatica della guerra, quale ho narrata, mostra come
      noi dovessimo avere sempre, occhio a che l'Austria non profittasse
      della situazione per risolvere a nostro danno il problema, per noi
      di primissima importanza, dell'Albania. Questi critici avrebbero
      pure, voluto che noi avessimo spinto avanti con maggiore rapidità
      ed energia le operazioni nell'interno della Libia. Ma ad una tale
      più rapida azione avrebbe, corrisposto un assai maggiore
      sacrifizio di vite umane. Ora, se in una guerra nazionale, per la
      difesa del suolo della patria, non si deve guardare al numero
      delle vittime, io penso che invece in una guerra coloniale si
      adempia ad uno stretto dovere, evitando un inutile spargimento di
      sangue.
      
      Io pensavo, e mantengo questo convincimento, che il successo di
      una impresa non debba misurarsi affatto dalla teatrale grandiosità
      dei mezzi e dei modi con cui viene conseguito; ma anzi dall'uso
      sobrio
dei mezzi atti al suo conseguimento. Noi ci
      eravamo
proposta semplicemente la conquista della Libia, ed
a tale
      scopo avevamo predisposti tanto i mezzi diplomatici quanto quelli
      militari; l'esserci riusciti senza bisogno di ricorrere a colpi di
      audacia che implicavano rischi corrispondenti, e senza
      provocare
l'apertura di altre questioni e di altri conflitti,
      conseguendo all'ultimo precisamente gli scopi che ci eravamo
      proposti sino dal primo giorno, fu, amio parere,
il merito
      maggiore del governo. 
      
      Malauguratamente
pochi sono coloro che riescono a mantenersi
      immuni dall'eccitazione particolare che. accompagna
qualunque
      guerra; e come, esempio di ciò, io ricordo una strana proposta che
      mi fu fatta, ad un certo
momento, dal nostro Capo di Stato
      Maggiore, il generale Pollio, che pure, era uomo di molto e
      ponderato ingegno. Egli mi trasmise un documento in
cui, dopo
      avere esaminati i vari aspetti della situazione e la difficoltà di
      risolverla, proponeva che,
per trovare una soluzione decisiva, noi
      facessimo
una grande spedizione militare nell'Asia Minore,
      sbarcando a Smirne. Attaccare così l'Asia Minore significava
      impegnarci là dove la Turchia aveva la sua massima forza, e,
      prescindendo dalle difficoltà militari
dell'impresa, che avrebbe
      richiesto l'impiego di almeno centomila uomini, c'era la questione
      politica internazionale da considerare. Il generale Pollio se
      ne
sbrigava osservando che, qualora quella nostra mossa
avesse
      sollevata l'ostilità delle Grandi Potenze, l'Italia
avrebbe potuto
      abbandonare l'impresa e rimbarcare le sue truppe senza
      umiliazione, cedendo alla forza maggiore!
      
      La pace fu generalmente bene accolta, nel Parlamento, nella stampa
      e nel paese. Non mancarono però le critiche anche per essa,
      specialmente da parte di coloro che avrebbero voluto che,
      scoppiata la guerra balcanica, noi avessimo colta l'occasione di
      una maggiore guerra, mettendoci alla testa dei nuovi nemici della
      Turchia, o almeno aspettandone la soluzione. Per me invece lo
      scoppio della guerra balcanica era una nuova e potente ragione
      perchè noi dovessimo procurare in ogni modo che la questione
      nostra fosse liquidata prima ed a parte, affinchè la fine di
      quella guerra ci trovasse, fra i giudici e non fra  coloro
      che dovevano  essere giudicati.
      
      Infine c'è stata una critica postuma, che vorrebbe attribuire alla
      guerra di Libia la prima responsabilità della catastrofe
      consumatasi negli anni susseguenti, quasi che essa fosse stata il
      primo anello della catena di avvenimenti che condusse alla guerra
      europea e mondiale. Ma non c'è alcuna ragione perchè in quella
      catena non si risalga ad avvenimenti anteriori, quali la lunga
      questione del Marocco e quella della Bosnia Erzegovina, le quali
      minacciarono di per sé stesse di fare, scoppiare la guerra
      europea, tenendo preoccupata per più anni la pubblica opinione ed
      i governi; mentre la guerra nostra fu giustamente considerata sino
      dal principio come un episodio distaccato. Del resto i germi della
      guerra balcanica erano già da parecchi anni contenuti nella
      situazione formatasi in quel paese, e che dovesse scoppiare era da
      tempo preoccupazione generale; soltanto si pensava che la Turchia
      avrebbe avuto facilmente ragione dei piccoli Stati balcanici, e la
      situazione avrebbe poi dovuto essere regolata da una Conferenza
      europea. 
La rinnovazione della Triplice Alleanza e le sue ragioni — La
        grave questione albanese — Le  aggressioni 
        serbo-montenegrine e greche —Scutari ed il Canale di Corfù —
        Pericoli e minacce fra l'Austria e la Russia — Proposta
        austriaca all' Italia contro il Montenegro — Mio rifiuto
        motivato dalla convinzione che quell'azione avrebbe portato alla
        guerra europea — Scambio di dispacci e lettere fra me e San
        Giuliano — Pressioni dell'Imperatore Guglielmo — La Conferenza
        degli ambasciatori — La questione del Dodecaneso: rigido
        atteggiamento dell' Inghilterra — Compromissione della Francia
        per la Grecia — Mantengo fermo il punto di vista italiano, che è
        accettato — Secondo tentativo di aggressione dell'Austria contro
        la Serbia —Io nego l'intervento italiano mancando il casus
        foederis — Gli accordi per l'Asia Minore — Il pacifismo
        dell'Imperatore Guglielmo.
      
      
      Circa due mesi dopo la fine della guerra di Libia e la conclusione
      della pace con la Turchia, e precisamente il 5 dicembre 1912, noi
      addivenimmo al rinnovamento della Triplice Alleanza, in anticipo
      di alcuni mesi sulla data valida per la denunzia.
      
      Già durante la guerra libica la Germania e l'Austria avevano
      avanzata la proposta del rinnovamento anticipato; e quella loro
      proposta ci era pervenuta appunto subito dopo gli incidenti sorti
      fra noi e la Francia per il fermo e la visita del Manouba e del
      Carthage. Quegli incidenti in verità avevano fatta una forte
      impressione sulla pubblica opinione, spegnendo in buona parte quei
      sentimenti di più viva cordialità verso la Francia, che il suo
      contegno amichevole verso di noi in relazione alla guerra di Libia
      aveva nei primi mesi diffuso nel pubblico italiano; e si comprende
      che le nostre antiche alleate ritenessero opportuno di profittare
      di quella occasione per avanzare la loro proposta. Quella offerta
      ad ogni modo costituiva un atto molto amichevole verso di noi,
      perchè rinnovare l'alleanza in un momento in cui l'Italia era
      impegnata in una guerra, assumeva un notevole significato
      politico, ed equivaleva a fare sapere a tutto il mondo che la
      Germania e l'Austria, non ostante i loro particolari interessi
      nella Turchia, erano d'accordo con noi.
      
      La importanza di questo aspetto dell'offerta fattaci non poteva
      certo essere disconosciuta, ed io risposi ai due governi che
      apprezzavo assai il sentimento amichevole che li induceva alla
      loro proposta; ma osservavo che avendo noi già emanato il Decreto
      di sovranità della Libia, era per noi condizione sine qua non che
      nel rinnovamento del Trattato d'alleanza, questo nostro possesso
      venisse esplicitamente riconosciuto. La Germania e l'Austria
      risposero che, avendo esse dichiarato allo scoppio della nostra
      guerra con la Turchia la loro neutralità, non avrebbero potuto,
      senza venir meno ai loro obblighi, stipulare un trattato in cui
      fosse riconosciuto come già a noi appartenente ciò che formava
      l'oggetto della contestazione ed era stato la ragione della
      guerra. A mia volta dovetti riconoscere la giustezza di codeste
      obbiezioni; e rimase convenuto che si sarebbe proceduto al
      rinnovamento dell'Alleanza appena la Germania e l'Austria avessero
      potuto riconoscere la nostra sovranità secondo il diritto
      internazionale. E così, appena la guerra fu conclusa, l'Alleanza
      fu rinnovata senza alcuna modificazione. 
      
      Io veramente avrei voluto introdurre nel corpo del trattato gli
      altri accordi che avevamo concluso con l'Austria nell'intervallo
      intercorso dopo l'ultimo rinnovamento; uno dei quali si riferiva
      espressamente all'Albania e l'altro, concluso nel 1909 e mantenuto
      segreto, contemplava gli interessi generali delle due Potenze nei
      Balcani e stabiliva reciproci impegni; perchè mi pareva
      conveniente che tutti gli accordi esistenti fra gli alleati
      fossero contemplati in un unico trattato. Ma l'Austria e la
      Germania non accedettero a questa mia proposta, avanzando
      l'obbiezione che esse desideravano di trovarsi in condizione, sia
      per ragioni di politica interna che di politica estera, di potere
      dichiarare che il trattato era rimasto inalterato, per non fare
      nascere dei sospetti che qualche cosa vi fosse stato introdotto
      che ne snaturasse il carattere, già ben noto, di trattato
      puramente  difensivo;  ed  io   non 
      insistei.
      
      Al rinnovamento della Triplice Alleanza, fatto un anno e mezzo
      circa avanti lo scoppio della guerra europea, e contro il quale al
      momento in cui ebbe luogo non furono fatte obbiezioni di qualche
      peso né all'interno né all'estero, se non da parte di coloro che
      erano  stati  sempre  nemici  dichiarati
      di  quell'alleanza, sono state fatte in seguito critiche
      postume, dal punto di vista degli avvenimenti capitati poi; e fra
      l'altro si è detto che il rinnovamento dell' alleanza con gli
      Imperi centrali fu un errore, perchè sino da allora non mancavano
      indizi di un grave pericolo di guerra. Coloro che ragionano a
      questo modo, confondono la situazione dell'uomo politico che deve
      agire sulla realtà immediata, e dal quale non si può pretendere la
      qualità del profeta, con quella del critico e dello storico, che
      si trovano nella condizione assai più comoda di giudicare sui
      fatti compiuti. È assai facile, fra l'altro, dopo che gli
      avvenimenti si sono compiuti, trovare anche in incidenti mediocri
      e trascurabili gli indizi di ciò che doveva avvenire; quegli
      incidenti ricevendo nuova luce ed assumendo una nuova importanza
      per ciò che è poi avvenuto. Ma, a chi si metta nella giusta
      prospettiva apparirà che, non ostante le innegabili velleità
      aggressive del partito militarista austriaco, propositi e minacce
      di guerra non si erano in quel tempo manifestati, e che anzi si
      poteva avere giusta ragione di sperare in un periodo di pace, in
      quanto non poche delle situazioni minacciose, che negli anni
      precedenti avevano preoccupata l'Europa, si erano risolte: basta
      nominare fra le altre la questione della Bosnia-Erzegovina e
      quella del Marocco.
      
      La stessa situazione balcanica che da sì lungo tempo aveva tenuta
      inquieta l'Europa, specialmente orientale, aveva avuta con la
      vittoria degli Stati balcanici alleati contro la Turchia, una
      soluzione rispondente nella massima parte ai diritti delle
      nazionalità, con la quasi totale cacciata della Turchia
      dall'Europa. Quella soluzione era indubbiamente contraria alle
      ambizioni austriache, donde gli incidenti a cui ora si dà
      l'importanza di indizi infallibili; ma bisogna pure aggiungere che
      la Germania, senza il cui beneplacito l'Austria non avrebbe certo
      potuto assumersi la responsabilità di provocare una guerra, era
      sempre intervenuta con propositi e risultati pacifici. 
      
      D'altra parte è d'uopo tenere bene presente che i rapporti fra
      l'Austria e l'Italia, sia per la questione delle provincie
      irredente, sia pel contrasto degli interessi nostri con quelli
      austriaci nei Balcani ed in Albania specialmente, erano tali, che
      un dilemma si poneva rigidamente: i due paesi dovevano essere o
      alleati o nemici decisi; ed un nostro rifiuto di rinnovare
      l'Alleanza sarebbe apparso come un proposito da parte dell'Italia
      di mettersi di fronte all'Austria in una posizione di ostilità
      dichiarata; ed in tal caso c'era ogni ragione di temere che
      l'elemento militare austriaco, che verso di noi era stato sempre
      nemico, non avrebbe mancato di profittare del pretesto del nostro
      rifiuto, per dare seguito ai suoi propositi ostili verso l'Italia,
      
      
      Per la stessa ragione, dunque, per la quale, come vedremo qui
      appresso,, io mi ero costantemente adoperato a impedire che
      l'Austria ci impigliasse in una qualunque avventura che potesse
      precipitare ad una guerra, io dovevo pure procurare che una
      situazione pericolosa non si formasse fra l'Austria e noi. 
      
      D'altra parte è bene qui ricordare che sino da quando io assunsi
      per la prima volta la responsabilità della politica italiana, mi
      ero adoperato con ogni mezzo a togliere alla Triplice Alleanza,
      per quanto spettava all'Italia, qualunque aspetto pure
      lontanamente aggressivo; ed a questo scopo avevo lavorato a
      migliorare i nostri rapporti con la Francia, poi a stringere
      rapporti con la Russia, mantenendo sempre la tradizionale nostra
      amicizia con l'Inghilterra. Codesta politica italiana conciliante
      e pacifica era stata sempre condotta apertamente; ed il fatto che
      essa non avesse dato mai ragione o occasione ad obbiezioni da
      parte della Germania e dell'Austria riconfermava nel modo più
      autorevole la legittimità della nostra interpretazione della
      Triplice, come di un'alleanza pacifica ed essenzialmente
      difensiva.
      
      Come ho già accennato, le ultime giornate delle trattative nostre
      con la Turchia per la conclusione della guerra di Libia,
      coincisero con lo scoppio della prima guerra balcanica. Che
      qualche azione decisiva nella Balcania si stesse da tempo
      preparando, noi avevamo avuto informazioni dai nostri
      rappresentanti; già alcuni mesi avanti il Venizelos ci aveva fatta
      la proposta di unirsi a noi nella guerra contro la Turchia,
      proponendoci di invadere la Macedonia con centocinquantamila
      uomini. I nostri impegni ed i nostri interessi erano contrari in
      quel momento a che venisse sollevata la questione ottomana, e non
      solo avevamo rifiutata l'offerta, ma avevamo anche dato a
      Venizelos consigli di prudenza e di pace. 
      
      Le Potenze più interessate nei Balcani, avendo a mente le gelosie
      e le rivalità fra gli Stati balcanici, che la Turchia aveva sempre
      saputo abilmente sfruttare, non credettero, fino quasi all'ultimo,
      alla possibilità che si formasse la Lega balcanica contro la
      Turchia. Quelle loro impressioni furono smentite in una prima fase
      dai fatti, perchè la Lega si formò e riuscì, pure contro le
      aspettazioni quasi generali, ad abbattere la potenza militare
      turca; ma poi in una seconda fase furono confermate dallo scoppio
      della seconda guerra balcanica, suscitata appunto dalle rivalità e
      gelosie fra i vincitori. 
      
      La diplomazia europea, che prima che la guerra scoppiasse si era
      limitata a fare dei moniti e delle riserve, finì per accettarne
      complessivamente i risultati, intervenendo con decisioni
      particolari su un solo punto; la questione dell'Albania. Gli
      albanesi avevano combattuto lealmente a fianco dei turchi; ma dopo
      la sconfitta si trovavano separati a grande distanza dal centro
      dell'Impero ottomano, ed era ovvio che la costituzione di uno
      Stato albanese autonomo s'imponeva. Per questo rispetto le Grandi
      Potenze erano d'accordo e per conto nostro ci trovammo anzi
      ravvicinati all'Austria per la difesa di un comune interesse. Le
      difficoltà però sorgevano riguardo alla delimitazione delle
      frontiere albanesi, che erano attaccate, da settentrione ed
      oriente dalla Serbia, che voleva avere Giacova ed un porto
      sull'Adriatico, e dal Montenegro che mirava ad impadronirsi di
      Scutari; ed a mezzogiorno dalla Grecia, che cercava di allargare
      oltre ogni limite le frontiere dell' Epiro. Queste ambizioni erano
      sostenute per la Serbia ed il Montenegro dalla Russia, che
      perseguiva la sua politica slava, e per la Grecia dall'Inghilterra
      e con maggior fervore dalla Francia. 
      
      Ora, siccome continuava lo stato di guerra contro l'Albania, quale
      parte dell'Impero ottomano, la Grecia l'invadeva nel mezzogiorno,,
      e la Serbia e il Montenegro nel settentrione; la prima cercando di
      arrivare al mare e il Montenegro particolarmente tentando con ogni
      sforzo di impadronirsi di Scutari. L'Italia e l'Austria invece si
      trovavano d'accordo nel difendere l'integrità dell'Albania, la
      quale non avrebbe potuto costituire uno Stato vitale se fosse
      stata troppo mutilata; l'Austria preoccupandosi sopratutto di
      impedire l'avanzata verso l'Adriatico della Serbia e del
      Montenegro, e noi di evitare che entrambe le sponde del canale di
      Corfù cadessero nelle mani della Grecia; il che avrebbe peggiorata
      assai, secondo il giudizio della marina, la nostra situazione
      strategica nel mar Jonio. La Germania appoggiava l'Austria e
      l'Italia, pure mostrando una certa benevolenza verso la Grecia,
      parte per ragioni dinastiche, una sorella del Kaiser avendo
      sposato l'erede del trono di Grecia, che poi è stato Re
      Costantino, e parte perchè sperava di distogliere la Grecia dalla
      Triplice Intesa e di attrarla nell'orbita sua.
      
      Già sin d'allora, secondo nostre informazioni, pareva che
      Costantino fosse personalmente assai favorevole a questo mutamento
      nell'orientamento della politica greca e che la Germania vi
      contasse sopra; e la guerra europea mostrò poi che quelle
      informazioni non erano infondate.
      
      Da questa complicata condizione di cose, risultava una situazione
      assai pericolosa, e che, a certi momenti appariva quasi
      insolubile. Fortunatamente i consigli di moderazione e la buona
      volontà di evitare guai peggiori avevano allora la prevalenza, non
      ostante il contrasto delle tendenze e degli interessi, in entrambi
      i gruppi delle Grandi Potenze; e si finì per deliberare che la
      soluzione delle questioni più intricate e minacciose fosse
      affidata ad una Conferenza di Ambasciatori, convocata a Londra nei
      primi mesi del 1913. 
      
      Le discussioni di quella Conferenza procedettero in modo assai
      amichevole; l'Austria, per dare soddisfazione alla Russia, finì
      per rinunciare alla sua opposizione contro l'assegnazione di
      Giacova alla Serbia; ed alla sua volta la Russia riconobbe che
      Scutari, assediata e bombardata dai montenegrini, dovesse rimanere
      all'Albania. Ma il Montenegro, non solo si ostinava a non cedere
      alla volontà unanime delle Potenze, ma assumeva pure un
      atteggiamento provocatore contro l'Austria, tanto da ingenerare
      anche il sospetto che volesse suscitare un conflitto che gli desse
      modo di uscire dalla insostenibile situazione in cui si era messo.
      Tale atteggiamento del Montenegro faceva d'altra parte il giuoco
      del partito militarista e di altri interessi austriaci, i quali
      avevano subito mal volentieri la nuova situazione creatasi nei
      Balcani per la vittoria, prima dei piccoli Stati contro la
      Turchia, poi della Serbia, Rumenia e Grecia contro la Bulgaria; in
      quanto i risultati di quegli avvenimenti sembravano tagliare la
      strada al vecchio programma austriaco di espansione orientale e di
      discesa al Mare Egeo per la via di Salonicco. 
      
      Il partito militarista, dopo la morte dell'Aerenthal e l'avvento
      del Berchtold, che non possedeva né autorità nò prestigio, faceva
      sentire assai la sua influenza al Ministero degli Esteri
      austroungarico; ed indubbiamente furono dovuti alla sua azione due
      gravi tentativi di aggressione dell'Austria, prima contro il
      Montenegro, poi contro la Serbia, e nei quali si tentò di
      coinvolgere l'Italia. All'infuori di una mia breve dichiarazione
      fatta quando era già scoppiata la guerra europea, ma durava ancora
      la neutralità italiana, al Parlamento italiano nel novembre del
      1914, niente si è risaputo di quegli episodi diplomatici, che se
      non fossero stati sventati avrebbero condotto allo scoppio della
      guerra europea un anno avanti. Credo opportuno e interessante
      raccontarne ora l'intera storia, tanto più che la contingenza che
      in entrambi quei momenti io mi trovassi fuori di Roma, ha portato
      che ne sia rimasta nelle mie mani l'intera documentazione. E che
      essi fossero compiuti durante la mia assenza da Roma, non era un
      semplice caso.
      
      L'ambasciatore austro-ungarico di quel tempo a Roma, conte Merey,
      era uno strano personaggio, che si permetteva spesso l'uso di modi
      e di un linguaggio non troppo diplomatici. Di quella sua
      inclinazione, che poteva anche corrispondere ad istruzioni
      trasmessegli da Vienna, egli aveva abusato durante la guerra,
      facendo nascere in quelli con cui trattava, e cioè in me e San
      Giuliano, la velleità di metterlo alla porta. Siccome però in
      quella situazione non era il caso di provocare uno scandalo
      diplomatico, io, in risposta alle sue burbanze, avevo adottato il
      sistema di mostrargli chiaramente che non lo prendevo sul serio.
      Così ricordo che una volta egli mi aveva chiesto un colloquio di
      urgenza, ed arrivando nel mio ufficio mi aveva fatta una protesta
      perchè in Corso Vittorio Emanuele era stato aperto un negozio con
      la scritta «Trento e Trieste». Io gli avevo risposto che se egli
      avesse spinto più avanti la sua passeggiata, avrebbe trovato un
      altro negozio intitolato «Alla Città di Vienna». Per queste
      ragioni il Merey evitava di trattare meco, lamentando che io lo
      prendessi in giro, e non c'era da meravigliarsi che egli, per
      eseguire certe istruzioni che gli venivano dal suo governo,
      profittasse dei momenti in cui ero lontano da Roma.
      
      Ecco ora come si svolsero le cose. Il nostro ambasciatore a
      Londra, Marchese Imperiali, ci aveva informati che l'ambasciatore
      tedesco, di ordine del suo governo, aveva presentato a Sir Edward
      Grey un memoriale per attirare la sua attenzione sulla necessità
      di una pronta ed energica azione collettiva, allo scopo di
      costringere la Serbia e il Montenegro ad  inchinarsi 
      dinanzi  alle  decisioni delle   Potenze
      sulla questione dei confini albanesi. Quel pro-memoria, dopo un
      esame della situazione, accennava, sebbene in tono dubitativo,
      alla convenienza di affidare eventualmente ad una o più potenze il
      mandato di fare rispettare dalla Serbia e dal Montenegro le
      decisioni delle Grandi Potenze. Grey aveva risposto che egli pure
      aveva dati dei moniti, ma che non credeva si potesse procedere a
      un passo collettivo quando la Russia si mostrasse contraria. Ed
      aveva aggiunto non essere sicuro sino a che punto l'Italia
      accetterebbe il mandato proposto, o gradirebbe che fosse dato
      all'Austria. 
      
      San Giuliano, in relazione, all'eventualità di un mandato
      all'Austria, aveva subito incaricato il nostro ambasciatore a
      Berlino, il Bollati, di dichiarare a Von Jagow che l'Italia si
      sarebbe opposta recisamente a tale mandato, anche a costo di
      votare con la Triplice Intesa contro gli alleati, perchè nelle
      circostanze il mandato sarebbe risultato in pratica nella
      conquista da parte dell'Austria di territori balcanici; ed io
      avevo approvato tale dichiarazione. Il giorno slesso il Merey
      aveva portata al San Giuliano la proposta di una dimostrazione
      navale contro il Montenegro, chiedendo che l'Italia si associasse
      all'Austria in questa dimostrazione. Il San Giuliano, nel darmi
      comunicazione di questo passo, pure dichiarando che una
      occupazione territoriale, anche provvisoria, da parte dell'Austria
      dovesse evitarsi ad ogni costo, osservava che per evidenti ragioni
      poteva essere necessario di partecipare alla dimostrazione navale.
      Io, pensando che una dimostrazione navale contro un paese
      di
montagna sarebbe finita necessariamente con uno
sbarco, risposi
      a San Giuliano nei termini seguenti:
— Sono assolutamente
        contrario a partecipare ad
una dimostrazione navale. Questa, o
        finisce nel ridicolo se non è seguita da sbarco di truppe, o
        costituisce l'inizio di una guerra europea se si sviluppa in una
        vera azione militare. Questo nuovo atteggiamento dell'Austria
        significa che in essa ha
preso il sopravvento l'elemento
        militare, e il suo
invito tende a pregiudicare la nostra libertà
        di azione e a metterci mani e piedi legati al servizio di
essa.
        Il mandare navi da guerra a Scutari costituisce qualche cosa di
        più che una semplice dimostrazione, perchè per trasportare gli
        abitanti di Scutari
bastano navi commerciali. Quindi sono
        d'avviso che
si debba rispondere negativamente. — 
      
      Il San Giuliano, che si preoccupava assai di contrastare
      l'influenza austriaca nell'Albania, nella stessa giornata
mi
      telegrafò ancora richiamando la mia attenzione
sul danno che
      deriverebbe alla influenza nostra, se
l'Austria, agendo da sola,
      si guadagnasse sola la riconoscenza degli albanesi. Aggiungeva che
      la Germania non voleva la dimostrazione navale; ma che
se questa
      dovesse avere luogo, desiderava che vi partecipasse pure l'Italia.
      Io gli risposi ancora con questo
telegramma: — Nel giudicare
        la condotta da tenere
nei rapporti con l'Austria, occorre tenere
        conto del
fatto che il Merey fa quanto può per spingere
        alla
guerra. La dimostrazione militare, se fatta seriamente
        costringerebbe la Russia ad attaccare l'Austria, e, se noi
        avessimo partecipato alla dimostrazione saremmo fatalmente
        costretti a partecipare alla guerra. Questo è il fine
        dell'azione del Merey. Se l'Austria non è certa della nostra
        partecipazione, eviterà ad ogni costo la guerra. La, Germania
        vuole la pace e quindi non vuole la dimostrazione navale; ma se
        questa ha luogo desidera che noi vi partecipiamo per avere la
        certezza che. in ogni caso saremo costretti a partecipare alla
        guerra. L'umanitarismo dell'Austria è molto sospetto,, tanto più
        che secondo il diritto delle genti, il Montenegro che è in
        guerra con la Turchia, ha diritto, di attaccare le fortezze
        turche. Quanto alla, considerazione che se, l'Austria agisce
        sola, l'Albania sarà riconoscente a lei sola, io non vi do
        importanza alcuna perchè la gratitudine fra i popoli non esiste;
        o. almeno tale considerazione è affatto secondaria di fronte
        alla quasi certezza che la nostra azione scatenerebbe la guerra
        europea, mentre l'Austria, se lasciata sola, forse se ne asterrà».
      
      
      Questo scambio di telegrammi fra me e il San Giuliano continuò nei
      giorni seguenti; perchè egli si rendeva perfettamente conto della
      gravità delle obbiezioni mie, ma si allarmava pure all'idea che
      l'Austria, agendo da sola, creasse un pericoloso precedente a
      nostro danno nell'Albania. Lo svolgersi, assai rapido, degli
      avvenimenti avvalorò tuttavia sempre maggiormente la mia tesi.
      Anzitutto la Conferenza degli Ambasciatori a Londra aveva presa
      all'unanimità una deliberazione che doveva dare piena 
      soddisfazione
      alle apprensioni che l'Austria ostentava, in quanto che essa
      aveva deciso, in base ad una proposta di Sir Edward Grey, che le
      Potenze, a mezzo dei loro rappresentanti a Cettigne ed a Belgrado
      facessero un passo collettivo per dichiarare che la delimitazione
      delle frontiere dell'Albania era riservata alle Grandi Potenze, e
      che sino a che tale delimitazione fosse fatta, nessuna azione
      della Serbia e del Montenegro in Albania avrebbe l'effetto di
      creare dei diritti acquisiti; aggiungendo più particolarmente
      riguardo a Scutari che il suo destino, anche se essa fosse caduta,
      sarebbe deciso dalla volontà delle Potenze e non già dal fatto
      della occupazione montenegrina. 
      
      Ora, io osservavo che, dopo tale unanime deliberazione delle
      Potenze, una qualsiasi azione militare da parte dell'Austria
      sarebbe stata un'aggressione ingiustificabile, che avrebbe
      provocalo inevitabilmente l'intervento militare della Russia. Ed
      infatti un telegramma di qualche giorno dopo del nostro
      rappresentante a Pietroburgo, marchese Carlotti, ci avvertiva che
      il primo effetto di una dimostrazione navale austriaca contro il
      Montenegro sarebbe stato di provocare la caduta di Sazonoff, pel
      fallimento della sua politica di conciliazione, e l'assunzione al
      suo posto di persona la quale, per soddisfare all'opinione
      pubblica avrebbe dovuto assumere verso l'Austria l'atteggiamento
      più energico, moltiplicando i pericoli di guerra. 
      
      Il ministro degli Esteri tedesco, Von Jagow, dichiarava poi alla
      sua volta al nostro ambasciatore, che egli aveva già dovuto
      intervenire più volte a Vienna perchè si astenessero da ogni
      risoluzione precipitosa, e che egli aveva ciò fatto, oltre che
      nell'interesse della pace generale, anche per una speciale
      considerazione della situazione particolarmente delicata e
      diffìcile nella quale, in certe eventualità, si sarebbe potuta
      trovare l'Italia. Ma ormai, egli soggiungeva, non era più
      possibile fare ulteriori pressioni sull'Austria; al punto in cui
      erano giunte le cose una ritirata da parte sua avrebbe nociuto
      immensamente tanto al suo prestigio quanto alla situazione
      internazionale della Triplice Alleanza, che ne sarebbe stata
      irreparabilmente compromessa. Aggiungeva di opinare che un
      atteggiamento fermo e risoluto della Triplice in quel momento
      poteva procurarle un successo positivo, e riaffermare durevolmente
      la sua influenza in Europa imponendosi agli avversari. Con tali
      vedute egli aveva fatto sentire a Londra che, a suo avviso, un
      mandato dell'Europa alle Potenze più interessate, per fare
      eseguire le sue decisioni, gli sembrava opportuno. 
      
      Egli aveva continuato dicendo di avere fatto domandare al nostro
      governo, a mezzo dell'ambasciatore a Roma, se l'Italia fosse
      disposta a partecipare all'azione che poteva rendersi necessaria
      nell'Adriatico, e pure non dissimulandosi le nostre difficoltà,
      egli era convinto che fosse nostro interesse partecipare a
      quell'azione, e che la partecipazione dell'Italia poteva
      facilitare una soluzione e diminuire i pericoli di più gravi
      complicazioni. Tale, egli aggiungeva, era pure l'avviso
      dell'Imperatore Guglielmo, il quale gli aveva espressa la speranza
      che, grazie al concorso dell'Italia, la situazione si sarebbe
      definita con un successo per la Triplice Alleanza. A tutto questo
      io risposi che solo nel caso che il mandato di una dimostrazione
      navale fosse affidato da tutte le Potenze a noi ed all'Austria, si
      sarebbe potuto accettare; ma che preferivo sempre che le Potenze
      facessero un'azione comune, o almeno che vi partecipasse una delle
      Potenze della Intesa, che avrebbe potuto essere l'Inghilterra.
      
      Il 23 marzo Sazonoff, in una conversazione col nostro
      ambasciatore, dichiarava essere principio acquisito che le Potenze
      procedessero solidariamente negli affari balcanici, e non essere
      quindi ammissibile che una di esse agisse isolatamente per gli
      incidenti montenegrini; ed aggiungeva che nel fare rispettare tale
      principio la Russia non si troverebbe sola. Aggiunse pure di aver
      fatto osservare all'Austria che un'azione isolata contro il
      Montenegro sarebbe dalla Russia considerata assai grave, e che
      Berchtold aveva risposto che vi sarebbe stato costretto se il
      Montenegro non dava all'Austria giusta soddisfazione. Alla domanda
      se egli considerasse la situazione allarmante, il Sazonoff aveva
      risposto che pendevano trattative fra la Russia e l'Austria,
      perchè la prima si associasse all'assegnazione di Scutari
      all'Albania e la seconda all'assegnazione di Giacova alla Serbia;
      e fortunatamente lo stesso giorno la Conferenza degli Ambasciatori
      decise all'unanimità in tale senso, invitando in pari tempo il
      Montenegro a levare l'assedio di Scutari. 
      
      Il Montenegro però non voleva assolutamente piegarsi ad obbedire a
      tale invito, rifiutando perfino di ascoltare i consigli di
      moderazione che gli venivano anche da Belgrado. Io non credevo
      però che ciò dovesse in alcun modo mutare le nostre risoluzioni, e
      telegrafavo a San Giuliano «che la pazzia ed anche i delitti di
        uno slaterello destinato, a scomparire, erano cosa assai meno
        grave e non paragonabile col pericolo di provocare una, guerra
        europea per l'ansia di ridurlo al più presto alla ragione».
      Il San Giuliano, che ormai era pienamente d'accordo meco, lavorava
      intanto a Parigi ed a Londra perchè invece che ad un mandato da
      conferirsi all'Austria ed all'Italia, fosse data la preferenza ad
      un'azione collettiva; come infatti fu poi deciso.
      
      Ma il pericolo non era per questo ancora del tutto passato.
      Trascorsero, fra il 24 marzo e il 5 d'aprile, alcune giornate più
      tranquille, durante le quali intervennero fra le Potenze scambi di
      vedute e furono avanzate varie proposte sul modo con cui la
      dimostrazione collettiva avrebbe dovuto farsi; quando
      improvvisamente a Vienna si prospettò nuovamente la necessità di
      un'azione austro-italiana che andasse più a fondo, nel caso che la
      dimostrazione collettiva fallisse ai suoi fini di ricondurre il
      Montenegro Alla ragione. Ecco la lettera, datata 5 aprile, con cui
      San Giuliano mi dette notizia di questo nuovo e pericoloso 
      tentativo:
      «Merey, a nome di Berchtold, mi ha detto in via ufficiale che, in
      vista della possibilità che la dimostrazione navale internazionale
      non raggiunga il suo scopo, Berchtold crede venuto il momento che
      l'Austria e l'Italia si mettano d'accordo per un'azione comune,
      per far valere in pratica i principii sanciti dai vigenti accordi;
      e ciò solidalmente ed egualmente per l'intera Albania, e non già,
      come alcuni nella stampa sostengono, l'Italia per il sud e
      l'Austria per il nord.
      «È ormai necessario dare all'Austria una risposta precisa.
      «A me pare che noi potremmo rispondere che anzitutto bisogna
      esaurire tutti i mezzi per raggiungere lo scopo stesso, o con
      mezzi conciliativi (per esempio, compensi finanziari e forse
      territoriali al Montenegro, ecc.)  o con l'azione
      internazionale.
      «Aggiungerei che è solo dopo che sia ben dimostrato che si sono
      fatti inutilmente tutti questi tentativi che si potrebbe chiedere
      un mandato europeo per l'Italia e l'Austria; un tal mandato non
      dovrebbe essere limitato alla sola eventuale azione per Scutari,
      bensì verso qualsiasi Stato balcanico che si ribellasse alla
      volontà dell'Europa nella questione dei confini dell'Albania tanto
      a nord quanto a sud.
      «Io ho detto a Merey che avrei scritto subito a te per dare una
      risposta. Nel darla dobbiamo tener conto della possibile necessità
      di un'azione comune italo-austriaca nella questione dello Stretto
      di Corfù, che c'interessa in modo speciale. Cordiali saluti.
      Tuo aff.mo San Giuliano ».
      
      A questa lettera io risposi immediatamente con la seguente:
      
      «Ricevo la tua lettera di oggi, ore 18,40, mentre sto per
        partire.
        «Salvo a specificare poi meglio quando occorrono risposte 
        più  precise,  ritengo   intanto:
        «1.° che non dovremo mai, per nessuna ragione, fare azione né
        soli né con l'Austria senza un mandato da tutte le Potenze
        europee;
        «2.° che dovremo cercare con tutti i mezzi di evitare questo
        mandato, procurando che si continui sempre l'azione europea, o
        per lo meno con l'intervento dell'Inghilterra;
        «3.° che né Scutari nò lo Stretto di Corfù valgono una guerra
        europea, e che in questa non ci lasceremo involgere se non vi è
        un nostro gravissimo interesse o si verifichi rigorosamente il
        casus foederis;
        « 4.° che l'Austria cercherà di comprometterci per avere la
        sicurezza del nostro intervento, ma che dobbiamo evitare ciò in
        modo assoluto;
        «5° che tutte le considerazioni partenti dal punto di vista di
        procurarci la riconoscenza dell'Albania non hanno valore alcuno.
        L'Albania come Stato è così di là da venire, che nessun calcolo
        si può fare su coloro che vi occupano qualche posto, trattandosi
        di gente poco fida, e che agirà sempre secondo i suoi interessi
        caso per caso, e non per altri sentimenti. 
      «Insomma il nostro fine, a mio avviso, deve essere solamente
        questo: evitare che avvenga una guerra, europea; e se questa
        avvenisse non averne la responsabilità e non esservi implicati.
        Tutto il resto per noi
        non ha valore alcuno, e non mi permetterei mai di cavare le
        castagne dal fuoco per gli altri. 
      «Coi più cordiali saluti. — Giolitti».
      «P.S. — Quanto a qualche spesa ora, per gli albanesi, puoi
        prendere accordi con Tedesco, ma tenendo presente che sono
        danari buttati; non escludo che qualche volta occorra buttar via
        qualche cosa».
      
      Merey tornò ad insistere il 7 aprile per avere una risposta
      precisa; ma il giorno 8 la Serbia si ritirava dalle operazioni
      contro Scutari, nelle quali aveva aiutato il Montenegro; ed il
      pericolo, prolungatosi dal 19 marzo in poi, che per la pace
      europea costituiva l'eventuale caduta di Scutari, fu per allora
      scongiurato. L'Austria, la quale temeva anche l'eventuale
      assorbimento del Montenegro nella Serbia, vedendo fallire il suo
      progetto di aggressione pensò che le convenisse di aiutare la
      dinastia montenegrina allo scopo di tenere separati i due paesi
      slavi, e ci propose di partecipare ad aiuti finanziari al
      Montenegro. San Giuliano, nel comunicarmi questa proposta, mi
      descriveva anche l'abbattimento del Merey perchè la sia pure
      tardiva ubbidienza della Serbia alle ingiunzioni delle Potenze
      aveva fatto perdere all'Austria l'occasione di aggredirla e di
      metterla a posto definitivamente. 
      
      Io, in data dell'11 di aprile, gli risposi dando il mio assenso
      alla proposta austriaca con questo dispaccio: — «Credo che la
        caduta della dinastia del Montenegro sia inevitabile
        nell'avvenire; ma è bene non avvenga ora per evitare un ritardo
        nella conclusione della pace. L'Italia, potrà concorrere agli
        aiuti finanziari nelle stesse proporzioni dell'Austria e non
        più, perchè un maggiore nostro concorso sarebbe ingiustificabile
        davanti al Parlamento. Non posso partecipare al dolore di
        Merey.  Cordiali saluti.  — Giolitti».
      
      Il partito militarista di Vienna, che questa volta aveva subito
      uno scacco, stava però fermo nelle sue mire; ed il proposito di
      aggressione alla Serbia con partecipazione nostra venne fuori una
      seconda volta, a pochi mesi di distanza, e cioè nella prima metà
      dell'agosto del 1913, mentre la Conferenza degli Ambasciatori a
      Londra era nuovamente adunata per importanti deliberazioni.
      
      Due problemi di notevole importanza per noi si trovavano allora in
      discussione: quello delle isole del Dodecaneso e quello dei
      confini della Grecia con l'Albania, col quale ultimo si connetteva
      la questione del canale di Corfù. Ho già accennato che noi
      difendevamo per questo rispetto i diritti incontrastabili degli
      albanesi al possesso di Coritza e di tutto il territorio da quella
      parte sino a capo Stilos, quei diritti collimando anche con un
      nostro vitale interesse: di impedire cioè che la Grecia, entrando
      in possesso della costa albanese che stava dirimpetto all'isola di
      Corfù, si assicurasse nel canale di Corfù una forte base navale la
      quale avrebbe potuto essere usata contro di noi in caso di guerra
      nell'Adriatico.
      
      L'Austria aveva in ciò i nostri medesimi interessi; mentre non
      solo le Potenze dell'Intesa, Inghilterra, Francia e Russia,
      sostenevano fermamente la Grecia, ma sentimenti favorevoli ad
      essa, per ragioni dinastiche, e pel segreto proposito di attrarla
      nella sua orbita, mostrava pure, come ho già accennato, la
      Germania.
      
      La questione delle isole era più complicata ancora. Noi, pel
      Trattato di Losanna, eravamo impegnati a restituirle alla Turchia
      quando questa avesse adempiute a tutte le condizioni poste a suo
      carico da quel Trattato, ed alle quali essa era inadempiente sopra
      tutto nei riguardi della Cirenaica, forse anche per impedimenti
      sopravvenutile con la guerra balcanica. Ma, a parte questi impegni
      con la Turchia, noi ne avevamo con l'Austria-Ungheria, in base
      all'art. 7 della Triplice Alleanza, e ad altri accordi speciali
      che vietavano ad ognuno dei due contraenti di impossessarsi di
      territorio ottomano — sempre esclusa la Libia — senza compensi per
      l'altro; a cui dovevano aggiungersi gli altri impegni, rimasti
      casualmente solo verbali, che noi, occupando le isole durante la
      guerra di Libia, avevamo assunti con Berchtold. D'altra parte
      l'Inghilterra, la quale temeva che le isole derEgeo, restando in
      nostra mano, potessero servire di base alle flotte della Triplice
      Alleanza, in caso di guerra, nel Mediterraneo orientale, aveva
      fatto chiaramente intendere, che anche a costo di una guerra essa
      non avrebbe consentilo che nessuna delle isole dell'Egeo rimanesse
      nel possesso di una Grande Potenza, ed in ciò era seguita dalla
      Francia. La Triplice Intesa, e più particolarmente l'Inghilterra e
      la Francia, volevano, dopo il risultato della guerra balcanica,
      che le isole del Dodccaneso passassero alla Grecia, fondando
      questo loro proposito sul fatto che la grande maggioranza delle
      loro popolazioni era greca.
      
      Appena la Conferenza di Londra, il 2 agosto, iniziò l'esame di
      queste questioni, noi fummo informati che Sir Edward Grey aveva
      espressa l'intenzione di abbinare la questione del confine
      meridionale albanese con la questione delle isole — intendendo con
      ciò le altre isole dell'Egeo oltre a quelle da noi occupate. — Il
      pensiero di Sir Edward Grey era che Coritza e il capo Stilos
      fossero aggiudicati all'Albania, incaricando una Commissione
      internazionale di decidere del territorio intermedio sulla base
      del suo carattere etnico; e che tutte le isole fossero da dare
      alla Grecia tranne Imbros e Tenedos, che per la loro posizione
      dovevano restare alla Turchia, e Tasso e Samotracia delle quali si
      doveva decidere più tardi nel regolamento territoriale generale.
      Per quanto concerneva le isole da noi occupate, si proponeva che
      l'Italia le restituisse, senza tener conto se fossero o no state
      adempiute le condizioni del trattato di Losanna, nello stesso
      momento in cui Coritza e Stilos sarebbero state consegnate agli
      albanesi; e Sir Edward Grey lasciava intendere all'ambasciatore di
      Germania, Lichnowsky, in una conversazione avuta con lui, che
      soltanto a queste condizioni l'Inghilterra e la Francia avrebbero
      dato il loro consenso alla delimitazione del confine albanese
      desiderata dall'Austria e dall' Italia.
      
      Ora, siccome questa proposta di abbinamento portava che le isole
      da noi occupate sarebbero andate alla Grecia, in contrasto con
      l'impegno da noi assunto col Trattato di Losanna di restituirle
      alla Turchia, io non potevo accettarla; perchè, fra l'altro, una
      nostra infrazione del Trattato di Losanna avrebbe giustificato la
      Turchia a mancare agli obblighi per parte sua. Io potevo dare
      assicurazioni, e le avevo date, che noi non intendevamo di
      annettere alcuna di quelle isole, che anche come base navale non
      avrebbero avuto valore senza un grave dispendio; ma esse erano in
      nostra mano come un pegno, e come tale dovevano rimanere sino a
      che gli obblighi che il Trattato di pace imponeva alla Turchia
      fossero pienamente assolti. 
      
      Il San Giuliano, che in un suo memoriale con cui m'esponeva
      l'intera questione si preoccupava che un eccessivo prolungamento
      della nostra occupazione potesse dare luogo ad una situazione che
      rischiasse di risolversi, data la speciale mentalità degli
      inglesi, anche senza alcuna intenzione da parte loro di
      danneggiarci od offendere, in uno scacco diplomatico per noi o in
      gravi complicazioni, ricordando in proposito anche speciali
      dichiarazioni fatte da Sir Edward Grey al nostro ambasciatore
      marchese Imperiali; avanzava pure la congettura che con la
      cessione delle isole alla Grecia si potesse aiutare il lavoro che
      la Germania slava compiendo per attrarla nella Triplice Alleanza.
      Ma per me il nostro impegno del Trattato
      di Losanna aveva la prevalenza su qualunque altra considerazione,
      ed al San Giuliano risposi in questi termini: — «Credo che a noi
      convenga insistere sulla pregiudiziale del Trattato di Losanna che
      ci obbliga a restituire le isole alla Turchia, e perciò ci vieta
      dì partecipare ad accordi destinati a consegnarle ad altre
      Potenze. La nuova guerra tra gli alleati balcanici e la necessità
      di trovare compensi alla Turchia per indurla ad abbandonare
      Adrianopoli rendono utile anche per la pace europea questa nostra
      insistenza».— 
      
      E che noi avessimo ragione nel sostenere questo punto, fu subito
      dopo dimostrato da un telegramma che la Turchia diramò ai suoi
      ambasciatori, col quale dichiarava che l'Italia, non essendo che
      depositaria delle isole del Dodecaneso, non poteva prendere alcun
      impegno a loro riguardo senza il suo previo consenso, e che agendo
      altrimenti essa si sarebbe esposta per parte della Turchia alla
      denuncia del Trattato di Losanna ed alla rivendicazione dei
      diritti turchi sulla Cirenaica.
      
      La questione dette luogo, nella Conferenza degli Ambasciatori, ad
      una discussione che si prolungò parecchi giorni, in ragione delle
      sue stesse difficoltà, perchè fra l'altro il Ministro degli Esteri
      francese, il Pichon, avendo creduto in buona fede, in un primo
      momento, che noi avessimo accettato l'abbinamento, aveva dati al
      governo greco degli affidamenti riguardo il Dodecaneso, dai quali
      gli era malagevole recedere. La discussione procedette però sempre
      nel modo più amichevole verso di noi, le buone ragioni della
      nostra tesi essendo state cordialmente riconosciute. Si finì per
      accettare una nostra dichiarazione, la quale diceva: — Il Governo
      italiano considera che la questione del Dodecaneso, la quale deve
      la sua origine alla guerra italo-turca, è giuridicamente regolata
      dalle disposizioni del Trattato di Losanna. Ciò stante il Governo
      italiano ripete che renderà quelle isole alla Turchia appena il
      Governo ottomano avrà da parte sua eseguiti integralmente gli
      ohblighi che gli incombono in forza dell'art. 2 del detto
      Trattato. — 
      
      Nel testo dell'accordo seguiva poi una dichiarazione proposta dal
      Cambon, secondo la quale, .quando il Trattato di Losanna fosse
      stato integralmente eseguito dai due contraenti, le cinque
      Potenze, al momento del regolamento finale di tutte le questioni
      pendenti, avrebbero deciso della sorte finale delle isole del
      Dodecaneso; nella quale formula l'Italia veniva lasciata in
      disparte come se per la questione delle isole in forza della sua
      occupazione il suo giudizio fosse compromesso. Ma una tale
      esclusione non avrebbe avuto più ragione di essere dopo che le
      isole fossero state da noi restituite, e sarebbe riuscita ad una
      diminuzione della nostra dignità; ed a nostra richiesta, e dopo
      cordiali spiegazioni intervenute fra il nostro ambasciatore a
      Parigi, Tittoni, e il Pichon, fu accettata una nostra
      modificazione che attribuiva a tutte le sei Potenze il compito
      della finale decisione, e senza alcuna compromissione preventiva.
      
      
      Ora, fu appunto durante questa sessione della Conferenza degli
      Ambasciatori, la quale dava pure larga
      soddisfazione alle esigenze austriache e nostre riguardo
      all'Albania, che si manifestò di nuovo, ed anche in forma più
      precisa, il proposito austriaco di aggressione, questa volta
      contro la Serbia; che appare indubbiamente connesso coi risultati
      della seconda guerra balcanica, scoppiata il 30 giugno, fra la
      Bulgaria da una parte, e la Serbia, Rumenia e Grecia dall'altra, e
      che finì rapidamente con la totale disfatta della Bulgaria. Io non
      so e non ho modo di sapere se qualcosa di vero ci fosse nelle voci
      che allora corsero, che l'aggressione della Bulgaria contro
      l'esercito serbo, che dette occasione a quella guerra, fosse stata
      segretamente istigata da Vienna; ma indubbiamente i suoi
      risultati, col rafforzamento della Serbia, e l'assegnazione
      definitiva di Salonicco alla Grecia, costituivano un nuovo scacco
      al partito militarista austriaco, e nuovi ostacoli alle sue mire
      ed ambizioni.
      
      Il 9 agosto, essendo io assente da Roma, ricevetti dal San
      Giuliano il seguente telegramma: — L'Austria ha comunicato a noi
      ed alla Germania la sua intenzione di agire contro la, Serbia, e
      definisce tale azione come difensiva, sperando di applicare il
      casus foederis della Triplice Alleanza che io credo inapplicabile.
      «Io cerco di concertare con la Germania sforzi per impedire
        tale azione austriaca; ma potrà essere necessario il dichiarare
        apertamente che noi non consideriamo tale azione come difensiva
        e perciò non crediamo che esista il casus foederis.
        «Pregoti di telegrafarmi a Roma se approvi.
      San Giuliano».
      
      A questo  telegramma  io risposi:
      «Se l'Austria attacca la Serbia è evidente che non si verifica
        il casus foederis. È una, azione che essa compie per conto
        proprio, perchè non si tratta di difesa, poiché nessuno pensa ad
        attaccarla. È necessario che ciò sìa dichiarato all'Austria nel
        modo più formale, ed è da augurarsi una anione della Germania
        per dissuadere l'Austria dalla pericolosissima avventura».
      
      La cosa non ebbe più seguito. Per due volte dunque il partito
      militarista di Vienna, che aveva preso sempre maggiore prevalenza
      sul Governo, aveva complottata l'aggressione alla Serbia,
      procurando di involvervi la prima volta l'Italia, e la seconda
      anche la Germania, andando a cuor leggero contro il pericolo della
      guerra europea. Per due volte il tentativo fallì; ma la terza, col
      pretesto dell'assassinio dell'Arciduca Ereditario Ferdinando, non
      incontrando più la resistenza, o essendosi assicurata la
      approvazione della Germania, riuscì malauguratamente al suo scopo,
      provocando, come io avevo previsto, una delle più immani
      catastrofi che ricordi la storia.
      
      La narrazione che ho qui fatta di tali eventi, in gran parte
      sconosciuti, darà ad ogni modo ragione della politica che io
      seguii o consigliai quando la guerra europea fu scoppiata, e dei
      motivi e principi di cui quella mia politica era informata.
      
      Prima di chiudere con questo capitolo il ricordo di quei mesi, che
      oggi apparirebbero fortunosi, se l'impressione di quegli
      avvenimenti non fosse stata soverchiata da quelli assai più vasti
      e gravi che seguirono poi, devo fare menzione di alcune altre cose
      secondarie.
      
      Una volta assicurata, entro confini ragionevoli, l'esistenza
      dell'Albania come Stato indipendente, bisognò pensare a trovare un
      capo pel nuovo Stato. Non era il caso di cercarlo fra le antiche e
      più insigni famiglie albanesi, che si trovavano in una continua e
      brutale lotta di rivalità ed erano estraniate l'una dall'altra da
      odi e competizioni ereditarie; e fra noi e l'Austria, come le due
      Potenze più interessate, si convenne di tentare la prova di
      mettere sul trono albanese un qualche personaggio di illustre
      famiglia forestiera. Fra gli aspiranti c'era Fuad pascià della
      famiglia Kediviale egiziana, che io conobbi e che mi parve avesse
      non poche delle qualità adatte al governo di un tale paese; ma la
      sua candidatura fu scartata dall'Austria, perchè Fuad era
      musulmano. Un secondo candidato fu il principe Napoleone,
      secondogenito di Girolamo e della principessa Clotilde di Savoia,
      e che sposò poi Clementina del Belgio; e che io sostenni pure, ma
      che fu scartato dall'Austria forse per sospetto della sua
      parentela con Casa Savoia.  Si  finì  per 
      accordarsi sul  principe  di Wied, uno junker prussiano,
      il quale, venuto a Roma nel suo viaggio per l'Albania, non fece né
      a me né a San Giuliano l'impressione che fosse persona adatta pel
      difficile compito che gli era affidato. Insediato infatti come
      Principe d'Albania nei primi di marzo del 1914, pochi mesi dopo
      doveva abbandonare il paese, in cui non era riuscito a farsi amici
      e a trovare appoggi.
      
      Un altro evento che devo ricordare, è la concessione, di carattere
      economico e commerciale, che, a mezzo del Nogara prima e poi del
      Garroni nostro ambasciatore, noi ottenemmo dal Governo turco
      nell'Asia Minore, nella regione di Adalia. Codesta concessione
      aveva per noi un valore più eventuale che immediato, ed una
      ragione più politica che economica; perchè nell'eventualità di una
      dissoluzione dell' Impero ottomano, già così gravemente colpito,
      era utile stabilire dei nostri diritti, che ci permettessero poi
      di mantenere l'equilibrio nel Mediterraneo orientale. Quando la
      concessione fu conosciuta, provocò obbiezioni da parte
      dell'Austria col pretesto di sue domande anteriori per la stessa
      concessione. San Giuliano, pel quale il problema delle nostre
      relazioni con l'Austria era ragione di continue e giustificate
      preoccupazioni, propose di trarre profitto da tali obbiezioni nel
      senso di andare incontro ai desideri dell'Austria e di venire con
      essa ad accordi per una spartizione della concessione stessa, col
      concetto che se l'Austria avesse nuovi interessi fuori
      dell'Adriatico  che richiamassero  la sua 
      attenzione  e la sua attività, la sua pericolosa rivalità con
      noi in quel mare ne sarebbe attenuata. Quindi, dopo accertato a
      Berlino quali fossero i limiti della sfera di influenza che la
      Germania intendeva riservata a sé stessa nell'Asia Minore, noi
      iniziammo a Vienna, per la delimitazione delle due sfere
      d'influenza austriaca ed italiana, conversazioni che non ebbero
      poi seguito pei sopravvenuti avvenimenti.
      
      A chiudere questi ricordi di eventi diplomatici che precedettero
      la guerra, credo interessante riportare alcune informazioni ed
      impressioni raccolte da San Giuliano nel viaggio a Berlino da lui
      fatto nei primi di novembre del 1912, e trasmessemi per dispaccio.
      Il 6 novembre egli era stato ricevuto con molta affabilità
      dall'Imperatore Guglielmo, che aveva conversato a lungo con lui
      sulla situazione europea, esprimendo giudizi che non collimavano
      sempre con l'azione svolta dal suo governo. Così egli dichiarava
      di credere utile la completa liquidazione della Turchia europea,
      con piena soddisfazione degli Stati balcanici, di cui preconizzava
      una Confederazione che sarebbe stata un nuovo elemento di
      equilibrio e di pace. Voleva la soluzione definitiva della
      questione orientale e l'entrata dei bulgari in Costantinopoli. Si
      mostrò preoccupato delle insistenze della Serbia, appoggiata dalla
      Russia, per un porto nell'Adriatico, a cui l'Austria non avrebbe
      consentito mai. Sperava che tale difficoltà sarebbe eliminata col
      dare alla Serbia un porto nell'Egeo, e che in tal modo il pericolo
      di complicazioni europee sarebbe stato allontanato. Ed aveva
      infine espresso il desiderio della rinnovazione della Triplice
      Alleanza, che infatti ebbe luogo in quei giorni. Ed anche fra gli
      uomini principali del governo, quali Kiderlen Wãchter e Bettmann
      Holwegg, il San Giuliano trovò allora prevalenti i sentimenti di
      fiducia nel mantenimento della pace europea, e di conciliazione
      degli interessi divergenti e contrastanti delle Grandi Potenze.
      
      
      La crisi e il Ministero Salandra — Lo scoppio della guerra mi
        trova a Londra — Esprimo l'opinione della mancanza del casus
        (oederìs e della convenienza della neutralità — Lettere di San
        Giuliano e Salandra — Miei giudizi, apertamente espressi, della
        lunghezza, difficoltà e sacrifìci della guerra — Polemiche fra
        neutralisti e interventisti — Accuse smentite su
        l'impreparazione militare — Leggende sui miei rapporti con Bùlow
        e sulla mia neutralità assoluta — L'azione del Governo per
        ottenere concessioni dall'Austria e mio appoggio — Una mia
        lettera ad un personaggio tedesco — Allarmi ai primi di maggio
        sulla condotta del Governo — Vengo a Roma per la riapertura
        della Camera: dimostrazioni ostili — Trecento deputati approvano
        le mie opinioni — Conversazioni con Carcano, Salandra, Marcora —
        Non sono informato del Patto di Londra — Altre minacce ed accuse
        contro me — Il Ministero Salandra riconfermato dopo le
        dimissioni — Mia condotta durante la guerra per non provocare
        dissensi — Ritorno al Parlamento dopo Caporetto.
      
      
      Al Governo che aveva fatto votare la legge della riforma e
      dell'allargamento del suffragio, competeva necessariamente di
      farne la prima applicazione. La quale, in circostanze ordinarie,
      avrebbe dovuto seguire poco appresso all'approvazione della legge,
      specie in un caso nel quale, da un suffragio teoricamente largo,
      ma nella pratica assai ristretto e quasi di classe, si passava al
      suffragio quasi universale; in quanto la Camera eletta col
      suffragio ristretto non poteva più ritenersi come la adeguata
      rappresentanza del
paese. 
      
      Ma il prolungarsi della guerra balcanica, con
tutte le conseguenti
      complicazioni e preoccupazioni
internazionali, ritardarono lo
      scioglimento della Camera e l'appello agli elettori, che ebbe
      luogo solamente
nell'autunno del 1913. I risultati delle elezioni
      smentirono le preoccupazioni dei conservatori che, pure
non osando
      di oppugnare apertamente la riforma,
l'avevano segretamente
      osteggiata. I socialisti tornarono in numero notevolmente
      accresciuto, ma non
tanto da dare loro altro che la forza di una
      piccola
minoranza; ed i cattolici fecero sentire più largamente la
      propria influenza, specie nelle campagne;
ma nel complesso la
      nuova rappresentanza nazionale,
sia pure con un largo mutamento
      d'uomini, mantenne
l'antica fisonomia, con la prevalenza assoluta
      dei partiti liberali. Gli uomini più cospicui delle varie
      parti
furono quasi tutti rieletti.    
      
      Ogni Camera nuova è sempre irrequieta ed ha il bisogno, alle volte
      salutare, di provocare una crisi. La spinta alla crisi, in quella
      occasione, venne dai radicali, nel cui gruppo, pure notevolmente
      accresciuto, si manifestò un movimento di fronda contro i propri
      rappresentanti al governo, e la direzione del partito deliberò di
      passare all'opposizione. Il distacco dei radicali dalla
      maggioranza, che metteva la coalizione di Sinistra nella
      condizione di non potere reggere un governo, portava logicamente a
      che il potere passasse a quegli che si presentava come il capo dei
      gruppi di Destra. Il gruppo che per tanti anni aveva tatto capo,
      con molta devozione e disciplina all'on. Sonnino, si era disciolto
      dopo la guerra di Libia, constatando che le ragioni che lo avevano
      tenuto unito in un programma generale, erano ormai venute meno, i
      suoi componenti riprendendo piena libertà di azione; in seguito a
      ciò la persona più in vista era il Salandra, che effettivamente fu
      indicato al Re da me e dalla maggioranza delle persone consultate.
      
      
      Il Salandra venne da me perchè l'aiutassi a comporre il Ministero,
      e sopratutto perchè persuadessi il San Giuliano a rimanere come
      Ministro degli Esteri; al che il San Giuliano opponeva molta
      resistenza, non inducendosi ad accettare se non dopo che io lo
      ebbi vivamente pregato di farlo, per la continuità della politica
      estera, che in quegli anni aveva avuta una così essenziale
      importanza anche per l'Italia. 
      
      Il nuovo Ministero, appena insediato dovette affrontare alcune
      difficoltà, fra cui una specie di agitazione semi-anarchica
      nell'Italia centrale, ed uno sciopero parziale di ferrovieri, ciò
      che il Salandra fece con fermezza, senza precipitare a misure di
      reazione, cercando di contempcrare le proprie tendenze
      conservatrici con la pratica liberale ormai compenetrata nella
      vita del paese.
      
      Quando, in seguito all'assassinio dell'Arciduca Ereditario
      Ferdinando e della sua consorte, consumato a Serajevo per mano di
      serbi, scoppiò la questione fra l'Austria e la Serbia, io non
      potei credere, sino all'ultimo, che quella questione, per quanto
      grave, potesse
essere ragione di una guerra europea. Ricordavo i
      due
tentativi dell'Austria, che avevo concorso a sventare,
per
      aggredire la Serbia nell'anno precedente, e sentivo e sapevo che
      il partito militare austriaco mirava
ostinatamente a tale scopo;
      ma io confidavo che le
ragioni della pace, che erano così grandi e
      universali,
avrebbero prevalso contro quella criminale
      infatuazione. La guerra con la Serbia era voluta dai militaristi
      austriaci come mezzo per sanare le discordie
interne, con
      l'illusione che essa potesse rimanere isolata; ma io pensavo che
      le altre potenze, che non avevano quelle ragioni e non potevano
      farsi illusioni sul
contegno della Russia di fronte ad una tale
      provocazione, e che avrebbero dovuto comprendere l'enormità del
      disastro che la guerra europea sarebbe stata
per tutti, avrebbero
      all'ultimo trovato un compromesso ed una transazione che evitasse
      l'immane rovina.    
      
      Nel mese di luglio ero stato a Vichy, poi a Parigi ed a Londra; e
      in questa città mi trovavo negli ultimi giorni di quel mese, e
      seguivo sui giornali le notizie del conflitto diplomatico, sempre
      sperando che la guerra sarebbe stata evitata. Ma quando vidi
      l'intimazione della Germania alla Russia di disarmare entro dodici
      ore, ed alla Francia entro ventiquattro , capii che oramai la
      guerra era decisa e partii immediatamente per l'Italia. Passando
      per Parigi, il 1.° agosto, mi fermai, e mi recai immediatamente
      all'Ambasciata d'Italia, dove non trovai Tittoni, che era in
      viaggio di congedo nel Mare del Nord. C'era invece il primo
      Segretario di Ambasciata, principe Ruspoli, al quale espressi la
      mia opinione, che l'Italia non avesse obbligo, pel Trattato della
      Triplice, di entrare in guerra, visto che l'Austria aggrediva la
      Serbia, mentre il Trattato era puramente difensivo, e prescriveva
      il nostro intervento a fianco delle alleate solo nel caso che esse
      fossero aggredite. E realmente si ripeteva il duplice caso del
      1913, quando io avevo fatto dire all'Austria che se essa aggrediva
      la Serbia, noi non avevamo l'obbligo di intervenire, anzi avremmo
      protestato. Ed aggiunsi che, a mio avviso, l'Italia doveva
      dichiarare senz'altro la propria neutralità. Il principe Ruspoli,
      di sua iniziativa, credette bene di comunicare subito questa mia
      opinione al San Giuliano. Ritornato in Italia, e fermatomi a
      Bardonecchia, dove era la mia famiglia, ricevetti una lettera di
      San Giuliano ed una di Salandra, entrambe con la data del 3
      agosto. San Giuliano mi scriveva:
      
      «Ruspoli mi telegrafa la tua opinione sulla politica da seguire in
      questi gravi momenti. È appunto quella che sino dal primo momento
      io ho proposta a Salandra ed a S. M. il Re, e che è stata
      adottata. Anche questa volta tu ed io abbiamo avuto lo stesso
      pensiero senza avere avuto modo di scambiare le nostre idee.
      Salandra ti ha fatto cercare per avere il tuo consiglio, e sarà
      lietissimo ora di sapere che è  conforme 
      all'attitudine   adottata.   Spero 
      di   tutto «cuore che la tua salute sia buona.
      «Saluti cordiali, con devota amicizia del tuo
      aff.mo di San Giuliano».
      
      A questa lettera io risposi, il 5 agosto, nei termini seguenti:
      «Carissimo Amico,
      «Sono stato a Vichy, poi a Parigi e Londra e devo confessare che
      non credevo alla possibilità che con tanta leggerezza si
      provocasse una guerra europea. Non vi credei che il 31 luglio, ed
      il 1.° agosto partii precipitosamente da Londra per l'Italia.
      «Il modo con cui l'Austria provocò la conflagrazione fu veramente
      brutale, e rivela o una incoscienza o il deliberato proposito di
      volere una guerra europea. Sbaglierò, ma la mia impressione è che
      essa, più di tutti, ne pagherà le spese.
      «Per fortuna la cosa fu condotta in modo da giustificare la nostra
      neutralità. Non mi nascondo che questa potrà avere anche
      conseguenze non buone per noi, ma il Governo ora non poteva
      seguire altra via. Un conflitto dell'Italia con l'Inghilterra non
      è possibile, e il modo come la guerra fu provocata dall'Austria
      avrebbe reso molto difficile persuadere il nostro paese a
      parteciparvi con entusiasmo. Aggiungasi che evidentemente
      l'Austria si propone fini che non concordano coi nostri interessi.
      «Ritengo che ora più che mai dobbiamo coltivare i nostri buoni
      rapporti con l'Inghilterra, e fare quanto ci è possibile per
      limitare o abbreviare la durata e le conseguenze del conflitto.
      Come ritengo pure che dobbiamo tenerci militarmente pronti.
      «Ti auguro buona fortuna, perchè ciò significa anche la fortuna
      d'Italia; ti prego di salutare da parte mia l'on. Salandra, e ti
      stringo cordialmente la mano
      aff.mo Giolitti».
      
      La lettera dell'on. Salandra, che riproduco integralmente, diceva:
      «Caro Giolitti,  
      «Nei giorni scorsi, quando diventarono improvvisamente imminenti
      le gravi decisioni circa l'atteggiamento dell'Italia nella
      conflagrazione europea, che non si è potuta evitare nonostante i
      nostri sforzi, avrei voluto sentire, nell'interesse dello Stato,
      il tuo consiglio. Ma il prefetto di Cuneo, al quale chiesi dove tu
      ti trovassi, mi rispose che eri a Londra, prossimo a ritornare,
      aggiungendo che il tuo indirizzo non era noto.
      Incalzarono intanto gli avvenimenti, ed ora apprendo quasi
      contemporaneamente il tuo passaggio per Parigi ed il tuo arrivo a
      Bardonecchia.
      Ho saputo pure che a Parigi hai espresso parere favorevole alla
      interpretazione da noi data al Trattato della Triplice,
      interpretazione che oltre all'essere, a senso mio, giuridicamente
      esatta, corrispondeva al sentimento prevalente nella grande
      maggioranza del paese. E la tua opinione conforme è per me di
      grande importanza.
      Non mi nascondo però le gravi ragioni che militavano per una
      diversa risoluzione; e so bene che gli avvenimenti, i quali si
      svolgeranno nessuno può dir come, faranno sorgere altri problemi e
      imporranno altre risoluzioni; le quali, oltre che sulla politica
      estera, avranno conseguenza di massima importanza sulla politica
      interna e sulla politica economica del paese.
      Mi sarebbe perciò gratissimo giovarmi della tua lunga esperienza
      di governo e discorrere con te sulle più probabili ipotesi per
      l'avvenire, nonché sui provvedimenti più urgenti; e cercherei ben
      volentieri il modo d'incontrarti anche fuori di Roma, se nei
      momenti presenti non mi fosse impossibile lasciare la «Capitale
      anche per  un  giorno.
      Non posso quindi se non pregarti di tenermi informato del tuo
      sicuro recapito nel prossimo periodo, affinchè io, se possibile,
      abbia modo di prendere un contatto con te.
      Ti stringo  cordialmente la mano
      iaff.mo A. Salandra».
      
      A questa lettera io risposi, il 6 agosto:
      
      «Caro   Salandra,    
      «Io resto a Bardonecchia domani; vado a Torino il giorno 8, e poi
      il 9 a Cuneo per il Consiglio provinciale, e dopo torno qui a
      Bardonecchia, dove conto restare sino alla fine del mese.
      Sono però a piena disposizione tua. Tu non puoi muoverti da Roma,
      e quindi verrò io a Roma ogni qual volta tu possa desiderarlo.
      Scrissi ieri a San Giuliano le ragioni per le quali sia da
      approvare la deliberazione presa.
      Disponi dunque di me per qualunque cosa che tu creda io possa
      fare.
      Con una cordiale stretta di mano
      aff.mo  Giolitti».
      
      All'adunanza del Consiglio provinciale di Cuneo a cui nella
      lettera all'on. Salandra accennavo, io, prendendo la presidenza,
      pronunciai le seguenti brevi parole:
      «Noi ci riuniamo in un momento angoscioso per tutta l'Europa, e
      grave per il nostro paese.
      Il Consiglio Provinciale, corpo amministrativo, non può
      pronunciarsi su questioni politiche. Ma io sono certo di
      interpretare il pensiero di tutti i colleghi e dell'intera
      provincia, affermando che, di fronte ai pericoli che possono
      minacciare l'Italia, un solo pensiero ci anima: la solidarietà col
      Governo, che, senza distinzioni di parti politiche, appoggeremo
      lealmente e fortemente in quella via che creda di seguire per la
      tutela dei nostri diritti e per assicurare all'Italia il posto che
      le spetta nel mondo.
      Noi guardiamo sicuri all'avvenire, forti della concordia di tutto
      il popolo e della fiducia assoluta nell'amato nostro Re».
      
      Il giorno dopo ricevetti dall'on. Salandra il seguente
telegramma:
      
        
      «A nome del Governo e personalmente ti ringrazio delle nobili
      parole che tu pronunziasti iniziando i lavori di codesto Consiglio
      Provinciale. Esse inciteranno autorevolmente gli italiani alla
      solidarietà, alla fermezza, alla calma, così necessarie nel
      gravissimo momento che attraversiamo. — Salandra».
      
      Per concludere la rassegna delle opinioni allora manifestate,
      pubblicamente o privatamente, dagli uomini politici più in vista,
      posso ricordare di avere saputo poi, da fonte sicurissima, che
      l'on. Sonnino, allo scoppio della guerra europea, era
      dell'opinione che noi dovessimo seguire gli alleati; e che tale
      opinione egli manifestò apertamente agli amici arrivando a Roma,
      dove il Salandra l'aveva pure chiamato per sentire il suo avviso,
      troppo tardi e quando la deliberazione della neutralità era già
      stata presa. Molti altri, specie fra i nazionalisti, che poi
      furono fra i più accesi fautori della guerra contro gli Imperi
      centrali, accusando di tradimento chi da loro dissentiva, in quel
      primo momento avevano espresso e sostenuto il concetto che noi
      dovessimo schierarci a fianco degli alleati, e biasimavano il
      Governo per la sua decisione neutralista.
      
      Nel mese di settembre io dovetti entrare nell'Ospedale Mauriziano
      di Torino per sottopormi ad una piccola operazione, che fu fatta
      dal mio amico senatore Carle. In seguito a quella operazione, mi
      si sviluppò una polmonite che mi tenne all'ospedale per una
      ventina di giorni, ed alquanto debole per alcune settimane
      susseguenti, che passai nella mia residenza di Cavour. Per tutto
      quel tempo io rimasi affatto estraneo a discussioni, né ebbi
      informazioni particolari da alcuna parte; solo nelle conversazioni
      che avevo con amici che venivano a trovarmi, io manifestavo la mia
      soddisfazione che l'Italia fosse rimasta neutrale.
      
      Venni poi a Roma per l'apertura della Camera, in ottobre; e
      siccome sapevo da sicura fonte che negli stessi paesi che dalla
      nostra neutralità erano stati beneficati e forse salvati nel primo
      urto dell'immane conflitto, vi erano molti che non nascondevano
      l'opinione o almeno il dubbio che la nostra condotta, astenendoci
      dall'intervenire nella guerra a fianco dei paesi coi quali eravamo
      legati da così lunga alleanza, non fosse perfettamente leale, io
      colsi l'occasione della discussione parlamentare per fare
      dichiarazioni e ricordare quell'episodio del tentativo di
      aggressione dell'Austria contro la Serbia, narrato in tutti i suoi
      particolari nel precedente capitolo di queste «Memorie», e
      l'atteggiamento allora assunto dall'Italia, che giustificava
      pienamente la nostra condotta allo scoppio della guerra, in quanto
      dimostrava che tale interpretazione dei nostri obblighi
      nell'alleanza era stata già chiaramente espressa in altra
      occasione, senza che né Austria né Germania avessero fatta la
      menoma obbiezione. 
      
      È assai curioso il fatto che, mentre quelle mie dichiarazioni e
      rivelazioni tornavano a tutto vantaggio dell'Italia, ci fossero
      dei deputati e dei giornali, amici del Governo, i quali tentarono
      di smentire la cosa. Della quale però, per la ragione della mia
      lontananza da Roma quando quel tentativo austriaco di involgerci
      in una guerra balcanica fu compiuto, esisteva una intera
      documentazione nei telegrammi e lettere scambiati in
      quell'occasione fra me e San Giuliano, solo alcuni dei quali ho
      riportato nel capitolo precedente e che furono poi trovati anche
      alla Consulta. Non capii allora e non ho mai capito perchè certi
      amici del governo dell'on. Salandra si risentissero di quelle mie
      dichiarazioni che pure giustificavano le sue decisioni, e
      cercassero di svalutare un fatto che dimostrava agli occhi di
      tutta l'Europa la perfetta correttezza nostra nel mantenere la
      neutralità allo scoppio della grande guerra.
      
      In tutto quel periodo e sino alle vacanze di Natale io non ebbi
      con l'on. Salandra e con altri uomini del governo alcun
      particolare rapporto. Trovai che nei circoli politici e nella
      stampa la discussione sulla neutralità si andava facendo sempre
      più ardente ma in un altro senso; discutendosi se a noi convenisse
      o no di intervenire insieme alle Potenze dell'Intesa contro i
      nostri vecchi alleati. Alle discussioni che si facevano nei
      corridoi della Camera io allora partecipai, manifestando
      apertamente le mie opinioni e dandone le ragioni.  
      
      I fautori della guerra sostenevano allora l'urgenza  di 
      prendervi  parte, ritenendo  che essa sarebbe stata di
      breve durata; temevano  che, venendo a finire senza il nostro
      intervento, si perdesse una magnifica occasione per compiere
      l'unità nazionale; ed affermavano che l'intervento nostro,
      rompendo l'equilibrio delle forze, avrebbe fatto finire la guerra
      in tre o quattro mesi. E che anche il Governo prevedesse allora
      una guerra brevissima è provato da molti indizi, e sopratutto dal
      testo del Patto di Londra, col quale l'Italia si obbligava di
      entrare in guerra. In quel Patto infatti, per la parte
      finanziaria, si era stipulato solamente l'obbligo dell'Inghilterra
      di facilitare all'Italia un prestito di cinquanta milioni di
      sterline, somma inferiore a quanto abbiamo poi speso in ogni mese
      di guerra; inoltre in quel Patto non si era fatto 
      accordo  alcuno  per i noli marittimi,  né per gli
      approvvigionamenti di carbone, ferro, grano, e di altre materie
      che a noi mancano, e che erano indispensabili per una guerra che
      non fosse brevissima. Anche i provvedimenti finanziari interni
      erano stati ordinati solo per alcuni mesi; ed alcuni dispacci
      diplomatici, pubblicati nel Libro Verde distribuito al Parlamento
      alla nostra entrata in guerra, e che preannunciavano 
      come  imminente  l'uscita dell'Austria dal conflitto e
      la sua pace separata con la Russia, mostravano, pel l'atto stesso
      della loro pubblicazione in quel momento, che il Governo pensava
      che qualunque ritardo potesse essere pericoloso.
      
      Io avevo invece la convinzione che la guerra sarebbe stata
      lunghissima, e tale convinzione manifestavo liberamente; a tutti i
      colleghi della Camera coi quali ebbi occasione di discorrerne. A
      chi mi parlava di una guerra di tre mesi rispondevo che sarebbe
      durata almeno tre anni, perchè si trattava di debellare i due
      Imperi militarmente più organizzati del mondo, che da oltre
      quarantanni si preparavano alla guerra; i quali, avendo una
      popolazione di oltre centoventi milioni potevano mettere sotto le
      armi sino a venti milioni di uomini; che l'esercito
      dell'Inghilterra, di nuova formazione, sarebbe stato in piena
      efficienza, come dichiarava lo stesso governo inglese, solamente
      nel 1917; che il nostro fronte, sia verso il Carso, sia verso il
      Trentino, presentava difficoltà formidabili. Osservavo d'altra
      parte che atteso l'enorme interesse dell'Austria di evitare la
      guerra con l'Italia, e la piccola parte che rappresentavano gli
      italiani irredenti in un Impero di cinquantadue milioni di
      popolazione, si avevano l; maggiori probabilità che trattative
      bene condotte finissero per portare all'accordo. Di più
      consideravo che; l'Impero Austro-ungarico, per le rivalità fra
      l'Austria ed Ungheria, e sopratutto perchè minato dalla ribellione
      delle nazionalità oppresse, slavi del sud e del nord, polacchi,
      czechi, sloveni, rumeni, croati ed italiani, che ne
      formavano  la maggioranza,  era fatalmente destinato a
      dissolversi, nel qual caso la parte italiana si sarebbe
      pacificamente unita all'Italia.
      
      Inoltre, ricordando le peripezie della Russia durante la guerra
      col Giappone, e la violenta rivoluzione scoppiata dopo quella
      guerra, a me pareva
dubbio che ad una guerra di molti anni
      quell'Impero
potesse resistere. All'intervento degli Stati Uniti
      di
America, che fu poi la vera determinante di una più
rapida
      vittoria, allora nessuno pensava, né poteva
pensare.  
       
      
      Ciò che era facile prevedere erano gli immani sacrifici d'uomini
      che avrebbe imposti la guerra per la terribile sua violenza, dati
      i nuovi, potenti e micidiali mezzi di offesa e di difesa che la
      scienza e la tecnica moderna avevano inventati e che allora erano
      già messi in opera sul fronte francese e sul fronte russo; come
      era facile prevedere che un conflitto così tremendo avrebbe
      segnata la totale rovina di quei paesi ai quali non avesse arriso
      una completa vittoria. Oltre a ciò una guerra lunga avrebbe
      richiesto colossali sacrifizi finanziari, specialmente gravi e
      rovinosi per un paese come il nostro, ancora scarso di capitali,
      con molti bisogni e con imposte ad altissima pressione.
      Consideravo ancora che la guerra assumeva già allora il carattere
      di lotta per la egemonia del mondo, fra le due maggiori Potenze
      belligeranti, mentre era interesse dell'Italia l'equilibrio
      europeo, a mantenere il quale essa poteva concorrere solamente
      serbando intatte le sue forze.
      
      I fautori della guerra facevano anche appello al sentimento
      popolare offeso dalla violazione della neutralità del Belgio; ma
      l'Italia, come l'America, non era fra le Potenze che avevano
      garantita quella neutralità, e l'America non si mosse se non
      quando il suo intervento era richiesto dall'interesse del suo
      popolo. In una lettera pubblicata nei giornali il 1915, e che più
      avanti riporto, io osservavo che non si può portare il proprio
      paese alla guerra per ragione di sentimento verso altri popoli, ma
      solo per la tutela del suo onore e dei suoi primarii interessi.
      
      Tali sono le ragioni pratiche, che possono essere ricordate da
      amici ed avversari, per le quali io esprimevo parere contrario
      all'entrata dell'Italia in guerra; e le quali, per quanto riguarda
      le previsioni della durata della guerra, delle sue difficoltà e
      dei sacrifizi di uomini e di ricchezza che essa implicava, furono
      poi pienamente confermate dagli avvenimenti.
      
      Nel mese di dicembre del '14, mentre la Camera era ancora aperta,
      era venuto a Roma, quale inviato speciale della Germania, il
      Principe di Bülow, riguardo ai miei rapporti col quale si crearono
      e diffusero malignamente le più strane leggende. Ecco a che cosa
      quei rapporti si erano ridotti: un giorno io l'avevo casualmente
      incontrato in Piazza del Tritone; ci fermammo un momento, ed egli
      mi disse che sarebbe venuto a trovarmi. Gli risposi che sarei
      passato io da lui. E così feci. La conversazione che avemmo in
      quella occasione fu in termini affatto generici, sulla situazione
      generale d'Europa; da una parte e dall'altra cercando di evitare
      di entrare in materie delicate. 
      
      Io non intendevo assolutamente di entrare a
parlare di cose che
      erano di competenza esclusiva del
governo, ed egli, che mi
      conosceva da lunghi anni,
si rendeva certamente conto di questo
      mio atteggiamento. Ricordo che, quasi per un complimento, io
gli
      dissi che se egli fosse stato alla testa del governo
tedesco,
      probabilmente la guerra si sarebbe evitata,
perchè egli avrebbe
      procurato di non avere contro
nello stesso tempo l'Inghilterra e
      la Russia; — egli
sorrise ma non rispose. Due giorni dopo egli
      venne
per restituirmi la visita, e non avendomi trovato in
casa,
      mi lasciò la sua carta; e dopo d'allora io non
ebbi più occasione
      di vederlo, né ebbi con lui rapporti di alcun genere, né diretti
      né indiretti. L'ho
poi rivisto solo quest'anno (1922)
      incontrandolo al
Pincio.    
      
      I giornali amici del Ministero Salandra avevano cominciato a
      muovermi attacchi ed accuse sino dal principio dell'autunno; fra
      l'altro avevano messo in giro la voce che il governo era stato
      costretto ad ogni modo a proclamare la neutralità pel grave stato
      di impreparazione e debolezza in cui i Ministeri da me presieduti
      avevano lasciato l'esercito e la marina, e perchè con la guerra di
      Libia si erano esauriti i magazzini militari, senza poi provvedere
      a reintegrarli. La prima accusa, assolutamente assurda, ripetuta
      anche alla Camera, fu facilmente smentita e dimostrata falsa
      dall'on. Tedesco, già mio Ministro del Tesoro, in un discorso
      pronunciato il 4 dicembre, recando cifre che non ammettevano
      replica e che infatti fecero tacere gli accusatori, alla testa dei
      quali si trovava l'on. Colajanni, cioè uno di quei deputati che
      avevano più costantemente avversate le spese militari, e che poi
      erano diventati improvvisamente guerrafondai. 
      
      L'on. Tedesco potè infatti dimostrare che nel sessennio occupato
      specialmente dai miei due Ministeri, e cioè fra il 12 luglio 1907
      e il 30 giugno 1913, le spese annue per l'esercito e la marina
      erano state quasi raddoppiate, salendo da 474 a 821 milioni;
      mentre nel sessennio precedente, e cioè dal 1901 al 1907,
      l'aumento era stato solo di 45 milioni; e che l'incremento
      maggiore, e cioè di 173 milioni, si era ottenuto appunto
      nell'ultimo biennio. Nella marina poi, in un solo quinquennio, dal
      1909 al 1913 si era assegnatala somma di un miliardo e cento
      milioni per la rinnovazione della flotta. E negli ultimi mesi del
      mio Ministero, fra me e il Ministro del Tesoro, il Ministro della
      Marina ed il Capo di Stato Maggiore, generale Pollio, si era
      stabilito un piano di provvedimenti che importava una spesa
      straordinaria di 500 ed ordinaria di 70 milioni da portare in
      aumento al bilancio nello spazio di quattro anni; alcuni dei quali
      provvedimenti, ed i più costosi, erano stati anche annunciati dal
      Ministro del Tesoro nell'esposizione finanziaria fatta il 20
      dicembre 1913. 
      
      E passando dalle spese agli uomini, era da osservare che la forza
      bilanciata, che con la legge di bilancio dell'esercizio 1909-10
      era fissata in 205 mila uomini, era stata portata a 275 mila
      col  progetto del bilancio presentato dal mio Ministero nel
      novembre del 1913. Ed a tutto questo si deve aggiungere che
      appunto sotto i Ministeri da me presieduti si erano costruite, con
      spesa ingente, le fortificazioni verso la frontiera austriaca,
      prima disarmata. 
      
      Quanto alla seconda accusa, che non fossero stati ricostituiti i
      magazzini militari dopo la guerra di Libia, io scrissi subito allo
      Spingardi, al quale competeva una speciale responsabilità, non
      solo per la sua qualità di Ministro della Guerra all'epoca della
      guerra di Libia, ma perchè già aveva date precise assicurazioni in
      proposito al Parlamento. Lo Spingardi non volle entrare in
      polemiche pubbliche, ma poi più tardi, e poco prima della sua
      morte, si fece chiamare dalla Commissione d'inchiesta istituita
      dal Governo per accertare le responsabilità del disastro di
      Caporetto, e vi fece una ampia e documentata esposizione delle
      condizioni in cui era l'esercito dopo la guerra libica, dalla
      quale risulta quanto fossero ingiuste le accuse mosse al Ministero
      di cui egli era parte. La Commissione infatti pronunciò questo
      giudizio sulle condizioni dell'esercito prima della guerra: — «Non
      si può negare che esso corrispondeva ad una condizione comune
      degli Stati dell'Intesa, alieni da intenzioni aggressive, e che
      con tutto ciò costituiva già un non lieve aggravio per l'erario,
      assorbendo nel 1914 per il solo esercito (esclusa cioè la marina)
      un quinto del bilancio passivo, e cioè 450 milioni su 2522.
      Ingiuste per tanto debbono ritenersi le voci che eccessivamente
      hanno insistito (e talune forse per dare risalto all'opera di
      ricostruzione) sulla nostra impreparazione alla guerra».—
      
      Infine, per dare una cifra, va ricordato che, sempre nel sessennio
      1907-1913, durante il quale la responsabilità del governo fu
      sopratutto mia, il valore della consistenza patrimoniale dei
      magazzini militari era salito da 837 milioni a un miliardo e 263
      milioni, con un aumento di 426 milioni, cioè di oltre il cinquanta
      per cento. E sino dai primi mesi della guerra di Libia si era dato
      ordine per la reintegrazione dei magazzini e la ricostituzione
      sollecita delle scorte, adibendovi la somma di 162 milioni,
      inscritta ai fondi speciali della guerra di Libia. Per la marina
      basterà una cifra: al principio della guerra italo-turca la
      quantità di carbone esistente nei depositi della marina era di
      1.24 mila tonnellate; alla fine della guerra era più che
      triplicata, ammontando a 395 mila tonnellate.
      
      Messe a posto queste accuse, e chiusa questa polemica diretta
      contro di me, un'altra, e sempre dalla stessa parte, fu suscitata,
      facendosi circolare la voce che io intendevo di abbattere il
      Ministero e di crearne ,un altro da me presieduto, col programma
      della, neutralità assoluta. Di queste voci ebbi avviso per lettere
      di amici, fra gli altri Peano, Malagodi e Co-losimo. A queste
      lettere risposi, esprimendo le mie opinioni, e respingendo
      qualunque idea di una crisi, anzi dichiarando espressamente «che
      sarebbe molto male fare una opposizione al Ministero; che il paese
      giudicherebbe male tale contegno, e che era bene che in momenti
      così difficili il governo avesse piena autorità». Ed aggiungevo:
      «Sono del resto persuaso
che se la situazione europea non si muta
      sostanzialmente, il Governo non impegnerà il paese in una
guerra
      difficile, sanguinosa, costosissima, e non voluta
dalla immensa
      maggioranza». E poiché si continuava
a parlare di intrighi
      politici, mischiandovi il mio
nome, io scrissi al Peano dicendogli
      che, a mettere
ad essi fine, la miglior cosa era di fare
      pubblicare
nella Tribuna, che si era già espressa chiaramente
e
      per conto suo in tale senso contro le voci tendenziose, una
      lettera che io gli avevo scritto alcuni giorni
avanti. E così fu
      pubblicata quella lettera, che qui
riproduco:    ,
      «Cavour, 24 gennaio 1915.   
      
      Caro Amico,
      È stranissima la facilità con la quale, parte in buona, parte in
      mala fede, si formano le leggende. Ora due tendono a formarsi; una
      di pretesi miei rapporti col Principe di Bülow, l'altra la
      opinione che mi si attribuisce che si debba mantenere in modo
      assoluto la neutralità in qualunque caso.
      Conosco il Principe Bülow da molti anni; ho
grande stima del suo
      ingegno e del suo carattere;
l'ho sempre trovato amico
      dell'Italia, beninteso mettendo sempre in prima linea il suo
      paese, come è
suo dovere.    
      Egli quando era a Roma come semplice privato veniva spesso a
      trovarmi. Ora, che venne a Roma come ambasciatore, lo incontrai
      per caso in piazza del Tritone; egli mi disse che voleva venire a
      trovarmi; io gli risposi che essendo io un disoccupato sarei
      andato da lui, e così feci l'indomani. Si parlò in modo affatto
      accademico dei grandi avvenimenti; ma mi guardai bene dall'entrare
      nell'argomento del contegno che debba tenere l'Italia. Avrei
      mancato al mio dovere, ne egli entrò in tale argomento, perchè
      egli è uomo che non manca mai alle convenienze.
      Alcuni giorni dopo venne a rendermi la visita; io non ero in casa,
      mi lasciò una carta da visita e non lo vidi più essendo io partito
      da Roma.
      La mia adesione al partito della neutralità assoluta. Altra
      leggenda.
      Certo io non considero la guerra come una fortuna, come i
      nazionalisti, ma come una disgrazia, la quale si deve affrontare
      solo quando è necessario per l'onore e per i grandi interessi del
      paese.
      Non credo sia lecito portare il paese alla guerra per un
      sentimentalismo verso altri popoli. Per sentimento ognuno può
      gettare la propria vita, non quella del paese. Ma quando fosse
      necessario non esiterei nell'affrontare la guerra, e l'ho 
      provato.
      Credo molto, nelle attuali condizioni dell'Europa, potersi
      ottenere senza guerra, ma su di ciò chi
non è al governo non ha
      elementi per un giudizio
completo.    .
      Quanto alle voci di cospirazioni e di crisi non le credo 
      possibili.  Ho appoggiato  ed appoggio  il Governo,
      nulla importandomi delle insolenze di chi si professa suo amico ed
      invece è forse il suo peggior nemico.
      «Gradisca i miei più cordiali saluti
      aff.mo   Giolitti»
      
      .
      Quantunque quella lettera esprimesse idee che corrispondevano
      pienamente all'azione che il Governo aveva cominciato a svolgere
      sino dal 9 dicembre con la prima Nota all'Austria, stampata poi
      nel Libro Verde, e che continuò a svolgere ancora per alcuni mesi;
      e quantunque essa si opponesse decisamente alle velleità di crisi
      e di opposizione, le malignazioni ed insinuazioni continuarono.
      Per cui io., rispondendo ancora, il 3 aprile, ad un'altra lettera
      dell'onorevole Peano, scrivevo: «Lo spettacolo più doloroso è
      quello che danno molti uomini politici, i quali cercano di
      risuscitare le antiche gare, che furono la vera peste dell'Italia,
      parteggiando per nazioni straniere, anziché pensare agli interessi
      veri del nostro paese. Io conto di restare qui a Cavour per molto
      tempo, per evitare la nausea di pettegolezzi che, a Camera chiusa,
      infestano la vita politica».
      
      E così feci; e per tutto quel periodo non ebbi rapporti di alcun
      genere con nessuno; solo constatavo che la corrente contro la
      guerra andava diventando in tutto il Piemonte predominante in
      misura straordinaria, e che tutti gli uomini politici di quella
      regione si mostravano apertamente e decisamente contrari al nostro
      intervento nell'immane conflitto.
      
      Tornai a Roma nel mese di marzo, per la riapertura della Camera.
      Trovai l'ambiente assai agitato, anche per ragione del ritardo dei
      soccorsi, e dell'azione, che pareva poco efficace, compiuta dal
      Governo pel terremoto della Marsica. Molti deputati mostravano
      apertamente di non fidarsi della condotta del governo, temendo che
      si lasciasse trascinare alla guerra, e molti dei miei amici
      politici credevano opportuno provocare una crisi. Io ero invece di
      contrario avviso, perchè si sapeva ormai che trattative erano
      avviate  fra il  governo  e l'Austria, 
      ed  io  pensavo che non si dovesse in alcun modo
      disturbare tale azione, avendo io piena fiducia che il Governo
      comprendesse la convenienza di ottenere dall'Austria le
      maggiori  concessioni evitando  di  portare 
      il  paese al  rischio  della guerra.  
      
      Queste mie  convinzioni  e sentimenti  io 
      procurai di fare  prevalere  presso  i miei amici;
      mentre nelle conversazioni che in quei giorni ebbi assai
      frequenti, nelle sale del Parlamento, specie con gli uomini
      politici che volevano la guerra e si industriavano  a
      persuadermi della sua convenienza, sostenendo sempre che sarebbe
      stata brevissima, e che il nostro intervento sarebbe riuscito
      decisivo; io sostenevo il mio punto di vista, già espesto, sulle
      difficoltà ed i sacrifizi a cui si sarebbe andati incontro; e
      ricordo che dicevo loro che, lungi dal credere ad una prossima
      fine, io ero d'avviso che la guerra fosse appena incominciata, e
      che quindi ad ogni modo non c'era ragione di avere fretta.
      
      Il  Governo  intendeva di domandare  un 
      voto  di fiducia,   con   piena 
      libertà   d'azione,   riferendosi  
      ai negoziati, ormai a tutti noti, che stava conducendo, L'on.
      Salandra, qualche giorno avanti questo voto e prima che il
      Parlamento si chiudesse per le vacanze di Pasqua, desiderò di
      avere un colloquio meco, e venne a trovarmi a casa mia. Avemmo una
      conversazione nella quale egli mi confermò le voci che il
      Governo  stesse trattando con l'Austria, senza però entrare
      in particolari. Io gli dissi che era mio desiderio che il
      Parlamento gli desse modo di premere sull'Austria tanto da potere
      ottenere le massime concessioni possibili. Questa conversazione mi
      persuase sempre più della necessità di lasciare mano libera al
      Governo, e mi convinse pure che non c'era affatto ragione di
      allarmarsi per i provvedimenti militari che il  Governo stava
      prendendo, i quali, mentre erano generalmente giustificati dalla
      situazione, dovevano sopratutto servire a dimostrare all'Austria
      la necessità per essa di affrettarsi a fare serie concessioni. 
      
      Da questa conversazione io avevo del resto ritratta la precisa
      impressione che il proposito del Governo  non era di entrare
      in  guerra, ma di  premere con tutti i mezzi per
      persuadere l'Austria a mettere fine alle sue tergiversazioni, ed a
      decidersi a soddisfare alle giuste esigenze italiane, in base
      all'art. 7 del Trattato di alleanza ed alle convenzioni
      particolari  pei  Balcani; e  questa 
      mia  impressione io  la manifestai apertamente a molti
      amici.  Il contrasto voluto poi stabilire fra la mia
      cosidetta politica neutralista e delle concessioni, e la politica
      del Governo, non ha ragione di essere, ed è anzi smentito
      decisamente dalla stessa pubblicazione del Libro Verde; la quale
      dimostra come il nostro Governo trattasse lungamente con Vienna
      per ottenere delle concessioni, appoggiato in ciò dalla Germania;
      e come anche all'ultimo fossero fatte delle richieste moderate, e
      quindi intese evidentemente a che fossero accettate, fra l'altro
      rinunciando alla aspirazione, pure giustificatissima, che la città
      italiana di Trieste fosse inclusa nei confini del Regno. 
      
      E certo il torto del fallimento di quelle trattative, fu
      principalmente dell'Austria, col respingere, sino a quando apparve
      poi essere troppo tardi, le domande che il Governo italiano aveva
      avanzate con spirito di equità e di moderazione.
      
      Dopo la mia conversazione con l'on. Salandra, io esortai
      caldamente i miei amici, pure ancora dubitosi, a votare pel
      Governo. Una crisi in quel momento, nel mio pensiero, avrebbe
      avuta una di queste due conseguenze: —o sarebbe venuto un
      Ministero propenso alla guerra, e questo io non potevo approvare;
      o veniva un Ministero a tendenze troppo evidentemente neutraliste,
      ed allora non si sarebbero ottenute dall'Austria le concessioni,
      senza le quali la guerra non avrebbe potuto essere evitata. Le mie
      argomentazioni persuasero i miei amici, e il Ministero ottenne il
      voto di fiducia, per la piena libertà d'azione, che aveva
      richiesto.
      
      Durante il mese di aprile ricevetti da amici ed anche da altre
      persone del mondo politico con le quali ordinariamente non avevo
      domestichezza, lettere di più in più allarmanti, che mi
      segnalavano il pericolo che l'Italia fosse trascinata di sorpresa
      alla guerra, indicando indizi e raccogliendo voci, ma senza niente
      di veramente preciso. Erano preoccupazioni ed allarmi che potevano
      rispondere semplicemente alla polemica, che si agitava sempre più
      vivace nei giornali, fra le due schiere degli interventisti e dei
      neutralisti, in cui si era ormai divisa la pubblica opinione. Un
      solo fatto mi fu segnalato che avrebbe potuto essere assai
      significante, e che cioè alla cerimonia di Quarto, per la quale
      era stato chiamato come oratore il D'Annunzio, che aveva già
      manifestato in modo acceso la sua convinzione che l'Italia dovesse
      partecipare alla guerra, sarebbe intervenuto il Re; ma ciò poi non
      avvenne.
      
      Il 29 aprile ricevetti una lettera di un notevole personaggio
      tedesco, amico del Principe di Bülow, e che io avevo già
      conosciuto ad Homburg nella occasione del mio incontro colà col
      Principe stesso, parecchi anni avanti; il conte von Hutten
      Czapxski, il quale mi scriveva da Milano dicendomi di essere
      venuto direttamente dalla Germania, e di parergli suo dovere di
      chiedermi il grandissimo favore di un colloquio, nella speranza di
      rendere un servizio ai nostri due paesi. A quella richiesta io
      risposi con  la  lettera  seguente:
      
      «Cavour, 29 aprile,  1915. 
      
      Onorevole Signor Conte,
      Ella non può dubitare che con gran piacere avrei una conferenza
      con Lei; ma le circostanze attuali sono tali che ho dovuto
      prendere la decisione di astenermi da qualunque atto che sia o
      possa appjarire ingerenza mia nelle questioni di politica estera.
      Con la migliore intenzione potrei produrre un effetto contrario ai
      miei desideri.
      Questo posso dirle, che l'Austria, con la sistematica persecuzione
      d'egli italiani suoi sudditi, ha creato in Italia una opinione
      pubblica ostilissima ad essa, e di ciò credo sia anche Ella
      informata.
      Quanto alle trattative in corso, mi consta che le ottime
      intenzioni della Germania incontrano ostacolo insuperabile nella
      mala volontà dell'Austria, la quale fa offerte assolutamente non
      tali che possano condurre ad una soluzione pacifica.
      Anche ora l'Austria arriverà troppo tardi, perchè la sua mentalità
      non le permette di comprendere la mentalità e i sentimenti degli
      italiani.
      So che il Governo italiano fa domande ragionevoli,, e chiede il
      minimo occorrente ad una soluzione pacifica; la sola opera che
      praticamente possa conservare la pace deve essere rivolta a
      persuadere l'Austria a cedere ciò che non potrà a meno di perdere,
      e che per essa oramai non costituisce più che una debolezza,
      poiché non potrà contare mai sulla devozione degli attuali suoi
      sudditi italiani.
      Sono proprio dolente di non potere avere una conversazione con
      Lei; ma da un lato non potrei dirle che ciò che Le scrivo, e
      dall'altro ogni mia anche indiretta ingerenza potrebbe avere per
      effetto di creare equivoci dannosi.
      Gradisca, signor Conte, gli attestati della più distinta stima
      Giovanni Giolitti».
      
      Questi, furono i cosidetti obliqui contatti che io ebbi coi
      rappresentanti e personaggi austriaci e tedeschi in quei mesi
      della neutralità italiana.
      
      Altre lettere ricevetti da Roma, nei primi giorni di maggio, da
      parte di amici che insistevano sugli indizi che ormai il Governo
      fosse deciso alla guerra. Sino all'ultimo io non avevo però avuta
      notizia alcuna di impegni che il Governo avesse preso, o anche
      soltanto di deliberazioni in tale senso; e quando partii da Torino
      per Roma, io non venivo che per la prossima apertura della Camera,
      ed anche per rendermi conto da vicino di ciò che stava accadendo.
      Alla partenza da Torino ci fu un primo episodio di tentata
      intimidazione, evidentemente preordinato; un certo numero di
      giovanotti vennero a fischiarmi alla stazione, e furono redarguiti
      dagli amici che mi accompagnavano. Arrivando a Roma, la cosa si
      ripetè in maggiori proporzioni. 
      
      Alla stazione fui avvertito che una folla di nazionalisti mi
      attendeva per farmi una dimostrazione ostile, e fui consigliato di
      uscire, non dalla porta solita, ma da una di passaggio; ma io
      rifiutai, rispondendo che volevo passare per dove ero passato
      sempre, e che se c'era una dimostrazione contro di me era bene che
      io la vedessi. E infatti un gruppo di dimostranti attorniò me e
      gli amici che erano venuti ad incontrarmi, e mi accompagnò sino a
      casa mia, fischiando e gridando abbasso. Quando io fui al portone,
      mi rivolsi e dissi loro: — Ma almeno per una volta tanto gridate
      «viva l'Italia!» —
      
      Nella giornata e nella mattinata seguente ricevetti oltre trecento
      biglietti da visita e lettere di deputati che si dichiaravano
      d'accordo con l'opinione, da me sempre apertamente manifestata,
      che non si dovesse allora entrare in guerra; e pure molte lettere
      e biglietti di Senatori. Erano una dimostrazione del sentimento e
      del pensiero della maggioranza parlamentare. Quei deputati e
      senatori furono poi accusati di faziosità, e di avere tentato di
      sovrapporsi alle prerogative della Corona, a cui compete nello
      Statuto la decisione per la guerra e per la pace. Ora io ricordo
      in proposito che quando la Germania dichiarò la guerra alla
      Francia, Asquith, dopo avere convocato il Consiglio dei Ministri,
      chiamò l'ambasciatore francese e gli disse presso a poco: — Il
      Governo inglese ha deciso di intervenire a fianco della Francia
      nella guerra; ma mentre credo di dovervi comunicare subito questa
      decisione, vi ricordo che essa non diventa effettiva che dopo
      l'approvazione del Parlamento. — La Costituzione nostra è in ciò
      simile a quella inglese; in quanto in entrambe la decisione della
      guerra spetta alla Corona; ma la decisione non avrebbe seguito
      senza l'approvazione delle necessarie spese, che spetta al 
      Parlamento.
      
      La mattina del giorno 7 ricevetti un biglietto di Carcano, allora
      Ministro del Tesoro, che mi diceva di avere bisogno di parlarmi
      nella giornata. Io gli fissai un appuntamento per le quattro e
      mezza del giorno dopo, perchè nel pomeriggio mi recavo a Frascati,
      dove era mia moglie, e dove intendevo trattenermi sino al
      pomeriggio dell'indomani. Il Carcano venne all'appuntamento
      fissato, ed avemmo una lunga conversazione, nella quale egli mi
      espose largamente le ragioni per le quali il Governo credeva
      necessario di entrare allora in guerra. Io ribattei pure
      lungamente le sue argomentazioni, dimostrandogli tutti i pericoli
      ai quali l'Italia sarebbe andata incontro. Il Carcano si commosse
      molto alle mie parole, e gli vennero le lacrime agli occhi; ma
      concluse che ormai la decisione del Governo di entrare in guerra
      era definitiva. Egli non mi parlò però in alcun modo, né fece il
      menomo accenno di un trattato che fosse stato sottoscritto; e il
      suo silenzio su questo punto lo compresi solo qualche anno dopo
      quando, il Trattato di Londra essendo stato pubblicato dai
      bolscevichi, vidi che c'era in esso l'impegno formale di tenerlo
      segreto. Prima che mi spiegassi il suo silenzio per tale ragione,
      era perfino sorto in me il dubbio che egli non ne avesse
      conosciuta l'esistenza, perchè fra lui e me vi era tale intimità,
      sino dal tempo che egli era stato mio sottosegretario nel 1893,
      che senza quell'obbligo del segreto non avrei capito che egli non
      me ne avesse parlato più apertamente e non me l'avesse confidato,
      sapendo che poteva fare pieno assegnamento sul mio silenzio.
      
      Ricevetti poi l'invito di recarmi da Sua Maestà il Re, che vidi il
      mattino del giorno appresso, ed al quale io esposi tutte le mie
      ragioni contrarie alila guerra; ma anche in quella conversazione
      l'obbligo del segreto, scritto nel Trattato, impedì che io ne
      fossi informato. Più tardi, verso mezzogiorno, venne da me
      Bertolini, che mi aveva già informato delle offerte fatte
      dall'Austria con la garanzia della Germania, e le quali del resto
      erano state messe largamente in circolazione negli ambienti
      italiani dal deputato tedesco Erzberger, e che si avvicinavano
      assai alle domande fatte dall'Italia, come apparve poi con la
      pubblicazione del Libro Verde; per dirmi che Salandra desiderava
      vedermi. Io gli risposi che non avevo nessuna difficoltà; e
      siccome il Salandra, nell'ultimo nostro incontro era venuto a casa
      mia, così mi proposi di recarmi questa volta a casa sua. E vi
      andai alle quattro dello stesso giorno. 
      
      Salandra mi disse .che sapeva della mia conversazione col Re; io
      ripetei a lui tutte le ragioni per le quali credevo che l'Italia
      avrebbe commesso un errore entrando in guerra nelle condizioni in
      cui la guerra si presentava allora; e nessuno certo allora
      immaginava nemmeno che potessero intervenire gli Stati Uniti.
      Salandra mi rispose che il Governo aveva ormai presa la
      deliberazione di entrare in guerra; che gli era impossibile di
      tornare indietro, e che se non avesse potuto dichiarare la guerra
      per ostacoli da parte del Parlamento, avrebbe dovuto dimettersi.
      Egli era informato della quantità di adesioni che i deputati
      avevano espresso al mio punto di vista, donde desumeva la
      possibilità che il Parlamento potesse votargli contro. Queste
      stesse dichiarazioni dell'on Salandra escludono che io venissi
      informato dell'esistenza del Trattato di Londra, perchè altrimenti
      la conversazione e la discussione si sarebbero rivolti ad altri
      punti ed avrebbero preso altro corso. Anche per lui si comprende
      che l'obbligo del segreto valse ad impedirgli di darmi intera
      notizia del come stessero le cose. 
      
      E dopo compresi pure che il Governo aveva un'altra e specialissima
      ragione per mantenere il segreto più assoluto. L'articolo secondo
      del Trattato disponeva infatti così: — L'Italia da parte sua
      s'impegna a condurre la guerra con tutti i mezzi a sua
      disposizione d'accordo con la Francia, la Gran Bretagna e la
      Russia, contro gli Stati che sono in guerra con esse. — La guerra,
      per l'articolo ultimo, doveva iniziarsi entro il 26 maggio. Per
      effetto di questi patti l'Italia avrebbe dovuto entrare in guerra
      nello stesso tempo contro l'Austria e contro la Germania: invece
      il Ministero di quel tempo parlò sempre esclusivamente di guerra
      all'Austria per la liberazione delle terre italiane irredente;
      Parlamento e Paese non seppero, come non seppi io, che si entrava
      in guerra contro la Germania, alla quale la guerra infatti non fu
      dichiarata finché rimase al potere quel Ministro, che mancava così
      al patto, destando nei paesi alleati diffidenze che cessarono
      solamente quando, oltre un anno dopo, il Ministero Boselli
      dichiarò la guerra alla Germania. 
      
      Tutto questo spiega perchè a me non si parlò nel maggio del 1915
      del Patto di Londra.
      
      Ad ogni modo, ritornando agli avvenimenti di quei giorni, il
      Salandra parve rendersi conto delle difficoltà della situazione,
      ed all'indomani, 11 maggio, presentò le sue dimissioni, lo fui
      chiamato nuovamente dal Re per le consultazioni d'uso che si fanno
      quando avviene una crisi ministeriale. Sempre nell'ignoranza degli
      impegni formali che l'Italia aveva assunti verso le potenze
      dell'Intesa, io espressi l'avviso che non potesse essere
      incaricato del Governo un uomo il quale fosse ritenuto come
      avverso all'entrata dell'Italia in guerra, e suggerii i nomi di
      Marcora o di Carcano, i quali essendo conosciuti come uomini che
      in caso di necessità sarebbero arrivati anche alla guerra si
      trovavano in condizioni di ottenere dall'Austria le maggiori
      concessioni. 
      
      Il Marcora, dopo essere stato in udienza dal Re, mi scrisse che
      desiderava di vedermi, e venne effettivamente a trovarmi, il
      giorno 14, e mi dichiarò che egli pure era d'opinione della
      necessità di entrare in guerra senz'altro. Carcano non lo rividi
      più. L'indomani il Re non accettò le dimissioni dell'on. Salandra;
      ed io, avendo considerata finita la mia missione, il giorno 17
      partii per Cavour. Per tutti quei giorni che fui a Roma,
      nell'intervallo fra le dimissioni e la riconferma del Ministero
      Salandra, si promossero per la città dimostrazioni e comizi,
      diretti contro di me particolarmente e contro il Parlamento, senza
      che la polizia intervenisse anche quando le cose passavano la
      misura. 
      
      Ricordo che in un comizio tenuto al teatro Costanzi, vicino a casa
      mia, il D'Annunzio incitò il pubblico ad ammazzarmi; e difatti la
      folla, uscendo dal teatro, si diresse tumultuosamente verso casa
      mia. Gli agenti di polizia la lasciarono passare, ma uno squadrone
      di cavalleria ed un plotone di carabinieri l'arrestò e non permise
      che arrivasse fino a me. La sera dopo, quando non c'era più alcuna
      minaccia, si fece intorno a casa mia uno spiegamento enorme di
      forze, bloccando tutte le strade che conducevano a Piazza
      Esquilino. In quei giorni ricevetti un'immensa quantità di lettere
      anonime, direttemi da ogni parte; erano tante che ne riempii due
      volte il cestino della cartaccia. Il fatto più curioso e
      caratteristico di quelle lettere anonime, provenienti da paesi
      lontani l'uno dall'altro, dal Veneto, dalla Sardegna, dalla
      Toscana, dalla Sicilia, era che tutte contenevano la stessa
      formula, e cioè l'accusa che io avessi presi venti milioni
      dall'Austria e dalla Germania per cercare di impedire la guerra.
      Alcuni degli anonimi scrittori, trovando forse la cifra troppo
      modesta, l'avevano raddoppiata. 
      
      Questa strana coincidenza della identità di un'accusa fantastica e
      canagliesca, mi fu di conforto in quei torbidi gioirai; perchè
      capii che essa non era la spontanea espressione di cittadini che
      ragionassero con  la  propria testa, ma una cosa
      preordinata ed organizzata dai fautori e dagli interessati alla
      guerra ad ogni costo. 
      
      Mi ritirai a Cavour; e poiché, dopo dichiarata la guerra, ogni
      cittadino, qualunque sieno le sue opinioni, ha il dovere di fare
      quanto può per assicurare la vittoria, da quel giorno non una
      parola uscì dal mio labbro che potesse generare sconforto o
      turbare la concordia cittadina, prima necessità per un paese in
      guerra. Per cui mi astenni anche dal rilevare gli insulti e dal
      rispondere alle più assurde calunnie di giornali i quali, in nome
      del patriottismo, seminavano la discordia. Era evidente che non
      mancava chi cercava di sfruttare quella situazione agli effetti
      della politica interna; e ci furono parecchi che, pretendendo di
      fare del super-patriottismo accusando gli altri, in realtà
      compivano una pericolosissima opera di disgregazione. 
      
      Ebbi occasione di parlare della guerra poco dopo, il 5 luglio del
      1915, al Consiglio Provinciale di Cuneo, e così mi espressi: — «I
      sentimenti della rappresentanza di una provincia come la nostra,
      la cui storia è da secoli una serie non interrotta di lotte per
      l'indipendenza dallo straniero e di devozione alla Monarchia di
      Savoia, non possono essere dubbi. Quando il Re chiama il paese
      alle armi, la provincia di Cuneo, senza distinzione di partiti e
      senza riserve, è unanime nella devozione al Re, nell' appoggio
      incondizionato al Governo, nella illimitata fiducia nell'esercito
      e nell'armata. L'impresa alla quale l'Italia si è accinta è ardua
      e richiederà gravi sacrifizi; ma nessun sacrifizio ci parrà troppo
      grave se ricorderemo sempre che dall'esito di questa guerra, dalle
      condizioni della pace che vi porrà termine, dalla situazione
      politica nella quale ci troveremo a pace conclusa, dipenderà
      l'avvenire dell' Italia per un lungo periodo della sua storia». —
      E terminavo con un appello alla concordia. 
      
      Tale appello, fatto anche da altre parti, rimase inascoltato da
      molti che del patriottismo volevano il monopolio per poterlo
      meglio sfruttare, ed io, che per la saldezza del paese credevo
      necessario evitare perfino qualunque apparenza di discordia, mi
      astenni per molto tempo dall'intervenire alla Camera. Nella
      condizione che mi era stata creata, era quello l'unico servizio
      che io potessi allora rendere al mio paese. 
      
      La notizia delle infauste giornate di Caporetto, io la ebbi a
      Cavour da un tenente degli alpini, Palazzoli, che fu mandato a me
      da Bissolati per dirmi se io avevo modo di fare qualche cosa per
      sostenere lo spirito pubblico. Io risposi che non potevo prendere
      una iniziativa individuale; ma siccome si sarebbe certo convocato
      il Parlamento, io non avrei mancato di intervenire e di fare la
      parte che si fosse creduta più utile. Ricevetti quasi subito dopo
      una lettera del Presidente del consiglio Orlando ed una del
      Presidente della Camera Marcora che mi chiedevano di intervenire
      all'apertura della Camera. Giunto a Roma fu convocata presso il
      Presidente della Camera una riunione degli antichi Presidenti del
      Consiglio; cioè Salandra, Boselli, Luzzatti ed io. Ricordo che
      appena entrato nella sala fui io il primo a stendere la mano a
      Salandra, per dimostrare che, in quel momento non doveva esserci
      alcuna divisione di persone. 
      
      In quella riunione, in cui intervenne anche Orlando, che pochi
      giorni prima di Caporetto aveva assunto la Presidenza, si accennò
      di dare ad uno solo l'incarico di parlare alla Camera, e capii che
      si voleva evitare che parlassi io, pel timore di qualche
      dimostrazione il cui significato potesse parere ambiguo. A questo
      io non potevo consentire, non volendo parere che ad intervenire al
      Parlamento io fossi stato trascinato quasi riluttante, e dichiarai
      che avrei parlato, in forma brevissima, e procurando che per parte
      dei miei amici nessuna dimostrazione fosse fatta che potesse dare
      luogo ad ambigue interpretazioni. Allora si convenne che ognuno di
      noi avrebbe parlato; ed io feci infatti nella solenne seduta
      dell'11 novembre 1917 una brevissima dichiarazione.
      
      Questo, e i discorsi che pronunciai alle aperture annuali del
      Consiglio Provinciale di Cuneo, alcuni dei quali riguardavano
      anche il futuro e causarono viva impressione, furono i soli miei
      atti pubblici durante la guerra. Privatamente, nella
      corrispondenza con amici e con persone, fra le quali anche alcuni
      che nel maggio del '15 si erano da me distaccati, io sostenni
      sempre la necessità della resistenza e della lealtà verso i nuovi
      alleati sino all'ultimo, quantunque le mie più gravi
      preoccupazioni sulla lunghezza del conflitto, sulle sue difficoltà
      e l'enormità dei sacrifizi si fossero purtroppo avverate. La
      caduta della Russia, che già io avevo prevista nelle conversazioni
      e nelle lettere scambiate durante il periodo della nostra
      neutralità, e la cui previsione era stata una delle maggiori
      ragioni per cui io avevo raccomandata la prudenza, non mi giunse
      naturalmente inaspettata. Per fortuna ci fu la coincidenza
      dell'intervento americano, che io consideravo decisivo, sopratutto
      perchè mentre assicurava a noi i mezzi finanziari ed i
      rifornimenti necessari, rendeva assolutamente impossibile
      qualunque ulteriore rifornimento del nemico, col conseguente
      effetto morale. 
      
      Io avevo sempre, sino dall'inizio, considerata la guerra come uno
      di quei supremi conflitti storici nei quali vengono poste a
      repentaglio le intere fortune ed i destini secolari delle nazioni;
      per cui le nazioni che vi sono impegnate non cedono e non si
      rassegnano sino a che tutti i loro mezzi di resistenza non siano
      esauriti. Trattandosi quindi di una guerra di esaurimento,
      l'intervento americano, chiudendo qualunque sia pure indiretta
      strada ai rifornimenti nemici, ed assicurando i rifornimenti
      nostri, segnava già la decisione finale del conflitto.
      
      Quanto alle cose interne, io seguii sempre con grande ammirazione
      lo spirito di sacrifizio e il valore dei soldati, come pure la
      resistenza e la fermezza del paese; ma non potei non constatare
      anche la deplorevole avidità di soverchi guadagni in molti che
      avevano rapporti d'interesse con lo Stato, e l'ostentazione di
      lusso e di divertimenti degli arricchiti della guerra, che
      facevano una sinistra impressione sui soldati che venivano dalle
      trincee pei loro brevi congedi presso le loro famiglie. 
      
      Caporetto fu una grande sventura, ma servì però anche a
      risvegliare in tutto il paese la coscienza della gravità della
      situazione e della necessità di affrontarla con sentimento più
      austero. E le cose migliorarono, non solo nell'opinione pubblica,
      ma anche nell'esercito, con la sostituzione nel Comando Supremo
      del generale Diaz al Cadorna, che aveva lanciata la indegna accusa
      di viltà ai nostri soldati, i quali pure avevano risposto con così
      esemplare abnegazione e cruenti sacrifici per due anni e mezzo a
      tante sue richieste. 
      
      Gli effetti del mutato indirizzo nel trattamento dei soldati, si
      videro poi nella gloriosa battaglia del Piave, che pel momento in
      cui venne combattuta e vinta dai soldati italiani, fu una delle
      più importanti battaglie della guerra europea, e fu preludio alla
      grande vittoria di Vittorio Veneto, che segnò la definitiva
      sconfitta dell'esercito austriaco e la distruzione dell'Impero
      degli Asburgo. 
      
      Nessuno potè sentire per la definitiva vittoria una gioia più viva
      di me, che avevo avuto chiara la visione delle spaventevoli
      conseguenze che per l' Italia avrebbe avuta la guerra, se non
      fosse terminata con una vittoria completa e definitiva. 
      
      Non ebbi alcuna parte nella pace, e non fui richiesto da alcuno.
      Io considerai però che alla grandezza della vittoria non
      corrisposero certamente le condizioni fatte all'Italia nelle
      trattative diplomatiche; e particolarmente ingiusto mi parve il
      rifiuto di riconoscere alla città di Fiume il diritto di
      ricongiungersi alla madre patria. Bisogna però riconoscere che la
      responsabilità di ciò risaliva a quel Governo che nel Trattato con
      cui eravamo entrati in guerra aveva scritta una clausola nella
      quale era detto espressamente che Fiume doveva essere data alla
      Croazia. Questa rinuncia, ingiustificabile perchè fatta in un
      momento in cui i futuri alleati nulla avrebbero negato all'Italia,
      fu la prima fonte delle difficoltà che si incontrarono nelle
      trattative di Parigi. Nessun argomento, per negare Fiume
      all'Italia, avrebbe potuto trovare il Presidente Wilson, che fosse
      così forte come la esplicita adesione del Governo italiano di
      consegnarla ai Croati. 
      
      Ed altro grave errore era pure stato commesso quando, entrando in
      guerra, il Wilson aveva dichiarato che gli Stati Uniti non
      avrebbero riconosciute le stipulazioni dei trattati segreti. Il
      ministro degli esteri italiano avrebbe dovuto fare subito fronte a
      quella dichiarazione del Presidente americano, mettendolo al
      corrente del nostro Trattato con gli altri alleati, per togliergli
      lo stigma della segretezza, e per provocare spiegazioni che
      potevano riuscire più favorevoli mentre la guerra durava, anzi
      doveva affrontare ancora alcune delle più aspre prove, che non a
      guerra finita. Ed è a ricordarsi che nelle polemiche diplomatiche
      che seguirono poi fra Wilson, l'Italia e gli Alleati, il Wilson si
      lagnò appunto, e con asprezza, del segreto mantenuto verso di lui,
      su gli accordi intervenuti fra gli Alleati e l'Italia.
      
      Con l'avvento della pace, anche a parte le difficoltà
      internazionali per la soluzione dei problemi del nostro confine,
      io prevedevo pure gravi difficoltà •interne» e ritenevo opportuno
      che al più presto si rafforzasse l'autorità del Governo e del
      Parlamento, con elezioni che portassero alla Camera una
      rappresentanza che fosse in piena corrispondenza con il sentimento
      ed il pensiero del paese; tanto più che per le necessità della
      guerra, la Camera eletta con i comizi dell'ottobre 1913, aveva
      sorpassati i limiti fissati alla sua vita dallo Statuto, e non
      possedeva più alcuna autorità, essendo effettivamente una Camera
      di semplici futuri candidati. E credevo pure opportuno che la
      nuova Camera fosse eletta quando l'entusiasmo della vittoria non
      fosse stato troppo attenuato ed oscurato dalla constatazione delle
      nuove, gravissime difficoltà che l'Italia doveva affrontare pure
      nella pace, col conseguente malcontento. Quindi nel mese di aprile
      del 1919, scrissi due volte al mio amico Facta, che era Ministro
      Guardasigilli con Orlando, esponendogli le ragioni per cui
      conveniva che si procedesse al più presto alle elezioni politiche.
      Orlando conveniva pienamente con me, riconoscendo la giustezza
      delle mie osservazioni; ma impegnato nelle trattative
      internazionali, non si decise a tempo a interrogare il paese.
      
      Chiusasi la Conferenza senza che le aspirazioni dell'Italia
      fossero soddisfatte, Orbando cadde e gli successe l'on. Nitti.
      
      Per quanto concerne l'opera compiuta dall'onorevole Orlando,
      durante il suo Ministero che s'iniziò con l'avvenimento più
      infausto della guerra, e finì con la vittoria completa, io
      riconobbi sempre il grande merito che egli ebbe nel sostenere, con
      incrollabile fervore, lo spirito pubblico dopo Caporetto. Sul modo
      con cui egli condusse poi a Parigi le trattative, nessun giudizio
      posso esprimere, mancandomene i necessari elementi.
      
       
      Il Ministero Nitti; sue incertezze e sua caduta— Il programma
        con cui assunsi il governo — Necessità di risolvere le questioni
        internazionali e quella di Fiume — Progetti radicali presentati
        al Parlamento per la politica estera e finanziaria — L'episodio
        di Ancona — Perchè sgomberai Vallona — Mio incontro con Lloyd
        George a Losanna e con Millerand a Aix-les-Bains — Il progetto
        del governo per la soluzione della questione jugoslava —
        Abbandono dei progetti antecedenti per chiedere il confine
        naturale — Rapida conclusione dal trattato di Rapallo — Vani
        tentativi per persuadere D'Annunzio — L'azione per ristabilire
        la situazione normale a Fiume.
      
      Il primo Ministero dell'on. Nitti aveva cominciato abbastanza
      bene, fronteggiando le agitazioni della piazza, provocate
      sopratutto dal rincaro del costo della vita, che i socialisti
      rivoluzionari tentavano di volgere a fini politici, con una certa
      fermezza che valse per un momento a vincere le diffidenze con cui
      era stato accolto, e gli assicurò larghi suffragi tanto alla
      Camera quanto al Senato. Questo suo atteggiamento però non fu
      duraturo; presto, e sopratutto dopo le elezioni del 1919, egli
      cedette sempre più alle imposizioni dei partiti estremi, dando
      l'impressione di credere che ormai le sorti dell'Italia e dello
      Stato fossero irrevocabilmente nelle loro mani. Per la politica
      estera non riuscì a risolvere la nostra questione con lo Stato
      Jugoslavo e ad assicurarsi il cordiale appoggio degli Alleati,
      vedendo l'una dopo l'altra le sue troppo frettolose e mutevoli
      proposte respinte; per le questioni interne si ridusse a ripetere
      continuamente la raccomandazione della necessità dell'ordine e
      della parsimonia; ma nella storia politica non c'è esempio che le
      prediche abbiano mai avuto grande effetto, richiedendosi dall'uomo
      di Stato non il sermoneggiare, ma l'agire. 
      
      Riuscì a lanciare l'ultimo prestito nazionale con notevole
      successo, la borghesia italiana rispondendo con larghezza alle
      domande dello Stato nella persuasione che con quel prestito si
      riuscisse a sanare la situazione; ma invece i proventi, che in
      danaro ammontavano a sette miliardi effettivi, furono divorati dai
      disavanzi, specie per l'assurda politica del prezzo del pane che
      portava via all'erario oltre sei miliardi all'anno. 
      
      L'on. Nitti ebbe la debolezza di lasciarsi imporre, pel timore di
      una crisi, a proposito del prezzo del pane, l'ordine del giorno
      Casalini, che stabiliva che tale prezzo non fosse modificato se
      non dopo che fossero tassati tutti i generi di lusso e solo col
      consenso della Camera; mentre la responsabilità della
      eliminazione, sia pure graduale, di quel prezzo politico, adottato
      d'autorità dal governo per le ragioni della guerra, competeva
      interamente al governo stesso. Poi, disperando di ottenere il
      consenso parlamentare di fronte all'opposizione socialista, che
      minacciava tumulti ed ostruzionismo, e rendendosi pure conto 
      del  baratro  che  quel  prezzo 
      assurdo   apriva nel bilancio dello Stato, tentò di
      abolirlo mediante un decreto legge, che viceversa dovè poi
      ritirare, quando il suo terzo Ministero si presentò già
      dimissionario.
      
      L'unica legge che l'on Nitti riuscì a far votare dal Parlamento,
      fu quella del mutamento del sistema elettorale, dal collegio
      uninominale alla proporzionale. È giusto riconoscere che
      l'infatuazione per questa riforma fu in quel momento quasi
      universale, alcuni vedendovi in buona fede un progresso; altri, e
      forse i più, quelli che erano sicuri di avere perduto l'antico
      collegio, accettandola con la speranza di migliore fortuna. Per
      conto mio, agli amici che mi scrivevano magnificandola ed
      invitandomi a venire a Roma per dare ad essa anche il mio voto,
      io, limitandomi quanto al merito ad esprimere gravi dubbi, avevo
      risposto che a mio avviso una Camera, la quale aveva già da tempo
      oltrepassati i cinque anni, termine massimo fissato dallo Statuto,
      e che quindi non era più la rappresentante della volontà degli
      elettori, non aveva il diritto di mutare così in fretta e furia
      una delle fondamentali leggi politiche dello Stato.
      
      Alla caduta del terzo Ministero Nitti, io fui indicato alla Corona
      dalla unanimità degli uomini politici consultati, ed assunsi il
      Governo.
      
      Quali fossero le mie idee riguardo il compito che spettava ai
      governi dell'immediato dopo guerra, io l'avevo già largamente
      indicato col discorso pronunciato a Dronero per le elezioni
      dell'ottobre 1919, tanto nei riguardi finanziarii, quanto in
      quelli politici, interni ed internazionali. 
      
      Per la politica finanziaria io avevo rilevato l'enorme aumento del
      debito dello Stato, che si poteva allora calcolare in circa
      novantaquattro miliardi, ai quali altri poi se ne sono aggiunti
      per il mancato raggiungimento del pareggio del bilancio. Per
      questo bilancio io constatavo in quel discorso un disavanzo di
      almeno quattro miliardi, che il mantenimento dell'assurda politica
      del prezzo del pane, ed altri coefficienti derivati dalla
      svalutazione della moneta, avevano poi portato rapidamente ad
      oltre quindici miliardi. 
      
      Per la politica estera io insistevo sulla necessità di assicurare
      la pace, ancora assai dubbia per noi per la mancata soluzione del
      problema dei nostri confini orientali; e rilevavo la strana
      contraddizione dei nostri ordinamenti politici, pei quali, mentre
      il potere esecutivo non può spendere una lira, non può modificare
      in alcun modo gli ordinamenti amministrativi, né creare o abolire
      una Pretura o un semplice impiego d'ordine, senza la preventiva
      approvazione del Parlamento; può invece, a mezzo di trattati
      internazionali, assumere, a nome del paese, i più terribili
      impegni che portino inevitabilmente alla guerra; e ciò non solo
      senza l'approvazione del Parlamento, ma senza che né il Parlamento
      né il Paese ne siano o ne possano essere in alcun modo informati.
      Ed avevo osservato che un tale stato di cose andava radicalmente
      mutato, dando al Parlamento, riguardo alla politica, estera, gli
      stessi poteri che esso ha riguardo alla politica finanziaria ed
      alla politica interna, prescrivendo cioè che nessuna convenzione
      internazionale possa stipularsi, nessun impegno si possa assumere
      senza l'approvazione del Parlamento. 
      
      Avevo pure richiamato l'attenzione sulla necessità di accrescere
      l'autorità del Parlamento contro il quale i partiti reazionari
      avevano condotta una campagna di diffamazione, a cui si era
      aggiunto il fatto che quattro anni di pieni poteri governativi
      avevano di fatto soppressa l'azione del Parlamento italiano, in un
      modo che non aveva avuto riscontro negli altri Stati alleati. Per
      noi ogni discussione di bilancio, ogni controllo sulle spese dello
      Stato e sulle operazioni finanziarie era stato soppresso; il
      Parlamento era tenuto all'oscuro circa gli impegni finanziari che
      si andavano assumendo, come di ogni provvedimento militare e di
      ogni atto diplomatico; l'azione legislativa era stata
      assolutamente nulla, sostituita anche in materie estranee alla
      guerra da innumerevoli decreti luogotenenziali, preparati senza
      discussione, nel chiuso degli uffici, spesso da persone
      incompetenti, ignare delle vere condizioni del paese; ispirati
      talora a concetti contraddicentisi e che spesso aggravarono i mali
      a cui intendevano portare rimedio, producendo lo spreco di
      miliardi. 
      
      A ristabilire l'autorità del Parlamento, io osservavo che non
      basterebbe ora aumentarne i poteri; ma occorreva che il Parlamento
      stesso dimostrasse coi fatti di volerli efficacemente esercitare.
      La pace doveva chiudere quel periodo così deleterio 
      pel  prestigio del  Parlamento  e così dannoso al
      Paese, ed aprirne uno nuovo di attività eccezionale. La
      rappresentanza nazionale, dopo così grave esperimento di governi
      senza controllo, avrebbe dovuto sentire fortemente l'autorità
      sovrana che le è delegata dal paese; ed a mio parere, come suo
      primo atto, essa avrebbe dovuto deliberare inchieste solenni per
      accertare le responsabilità relative alla guerra; esaminare il
      modo, con cui erano stati esercitati i pieni poteri; come erano
      stati stipulati ed eseguiti i grandi contratti di forniture tanto
      all'interno quanto all'estero, e fare conoscere chiaramente al
      paese come erano state spese le immani somme di decine di
      miliardi, delle quali fino allora nessun conto era stato dato. 
      
      E riguardo al risanamento del bilancio dello Stato, riconoscevo
      che esso avrebbe richiesto, oltre le economie nuove, ingenti
      entrate. Ora queste si possono ottenere in due modi, o portando il
      peso delle imposte sui consumi, o coll'imporre maggiori oneri
      sulla ricchezza accumulata. La mia tendenza a questo riguardo non
      poteva essere dubbia, avendo già per tre volte, quando ero al
      governo, proposta l'imposta progressiva sui redditi e le
      successioni. Considerando però che tanto alla imposta sul reddito
      che a quella di successione sfuggivano quasi per intero i titoli
      al portatore, che costituiscono grande parte della ricchezza
      mobiliare, e che a nulla gioverebbe l'inasprimento delle aliquote
      quando non si impedissero le evasioni, avanzavo la proposta che
      tutti i titoli di azioni e di obbligazioni dovessero farsi
      nominativi. 
      
      Infine, nel riguardo economico, io dichiaravo che l'Italia non
      avrebbe potuto trovare la salvezza al di fuori di una austera
      politica di lavoro, con l'intelligente utilizzamento di tutte le
      sue risorse materiali e morali, tanto nell'agricoltura che nelle
      industrie e nei commerci. E concludevo che se il paese,
      lasciandosi addormentare da quella vuota retorica che tanto danno
      aveva già recato all'Italia, non si rendesse conto delle vere sue
      condizioni; seguisse la facile via degli sperperi e dei debiti;
      non reagisse energicamente contro lo spirito imperialista,
      iniziando una forte politica di lavoro e di sacrifizio, sarebbe
      andato incontro al fallimento dello Stato, al discredito nel mondo
      ed alla rovina economica e politica. 
      
      Se invece, seguendo la via del dovere, avesse guardato arditamente
      alla realtà, affrontando energicamente le gravi difficoltà della
      situazione e dimostrando in pace quella magnifica resistenza e
      quel mirabile spirito di sacrificio che in guerra lo avevano
      portato alla vittoria, esso avrebbe vinto anche le difficoltà
      presenti, riprendendo le vie del progresso.
      
      Sette mesi dopo, constatando che la situazione rimaneva purtroppo
      immutata, anzi peggiorava; che la Camera si perdeva in vane
      declamazioni, senza che il Governo riuscisse a indirizzarla ai
      suoi compiti, così che anche a guerra finita, si aveva l'ironica
      situazione che si aspettava che la Camera fosse chiusa, per
      emanare le leggi a mezzo di decreti; che il disavanzo del bilancio
      diventava sempre più pauroso e si viveva sui debiti, niente
      facendosi d'altronde per recuperare il danaro mal tolto allo Stato
      durante le necessità della guerra; in una intervista, pubblicata
      sulla Tribuna, io avevo ribadito ancora questi concetti,
      adattandoli al momento. 
      
      Ed avevo detto:
      
      «Nelle gravissime condizioni nelle quali si trova l'Italia,
      occorre, a mio avviso, un programma di vera ricostruzione, che
      necessariamente sarà assai complesso, molte essendo le riforme
      sociali indispensabili, e specialmente riguardo ai lavoratori
      della terra; ma pure nei provvedimenti necessari vi è una
      gradazione di urgenza, ed è mio fermo convincimento che due
      pericoli sopratutto minacciano ora la compagine dello Stato; il
      discredito del Parlamento e la disastrosa condizione della
      finanza.
      
      Il prestigio del Parlamento è profondamente scosso nella pubblica
      opinione per l'assenza assoluta di qualsiasi attività legislativa,
      avendo esso abdicato ai suoi poteri che da molto tempo vengono
      esertati dal governo sotto forma di decreti legge. A questo
      sistema incostituzionale, e che toglie ogni serietà al lavoro
      legislativo, si deve rinunciare; e non solamente si deve ridare al
      Parlamento il pieno esercizio del potere legislativo, il controllo
      effettivo sulle pubbliche spese e sull'ordinamento dei pubblici
      servizi; ma gli si devono dare anche nella politica estera poteri
      eguali a quelli che gli spettano sulla politica interna e
      finanziaria, modificando l'art. 5 dello Statuto, e istituendo nei
      due rami del Parlamento commissioni permanenti di controllo sulla
      politica estera.
      
      È necessario inoltre che cessi la facoltà nel potere 
      esecutivo di  prorogare  le  sessioni
      del   Parlamento, poiché tale illimitata facoltà pone il
      Parlamento in condizioni di vera dipendenza del governo.
      
      Quanto alla condizione della finanza dello Stato, per dimostrare
      l'imminente pericolo che le sovrasta, basta considerare che nei
      dodici mesi dell'esercizio in corso si avrà un disavanzo non
      inferiore a 18 miliardi, il quale si copre con debiti e in parte,
      pur troppo, con emissione di altra carta moneta. L'ultimo grande
      prestito ha dato, in denaro, 7 miliardi che bastano appena a
      coprire il disavanzo di cinque mesi.
      «Mentre dal 1860 al 1914, in cinquantaquattro anni l'Italia ha
      fatto appena 14 miliardi di debiti, ora in un solo anno, a guerra
      finita, ne fa 18. Se non fosse mancato il controllo del
      Parlamento, ciò non sarebbe avvenuto.
      
      Così si cammina a gran passi verso il fallimento se non si dà,
      subito, un potente colpo di arresto alle spese, e se non si
      procurano, senza ritardo, così forti entrate al Tesoro, da
      escludere in modo assoluto ogni ulteriore aumento di circolazione
      cartacea, aumento che necessariamente importerebbe una nuova
      svalutazione della moneta, e quindi un ulteriore aumento del costo
      della vita.
      
      Per procurare al Tesoro questo forte aumento di entrata due mezzi
      principalmente si offrono: la revisione dei contratti stipulati
      dallo Stato durante e dopo la guerra, allo scopo di ricuperare
      quanto sia stato pagato al di là di una equa misura; e la rigida
      applicazione della imposta sul capitale.
        
      Questa imposta può dare grandi risultati se si
riesce a colpire
      tutta la ricchezza mobiliare, poiché
il contributo della proprietà
      fondiaria, come fu determinato con decreto legge, sarà molto
      limitato. Ora
la ricchezza mobiliare sfuggirà in molta parte
      all'imposta se non si disporrà, immediatamente per legge,
che
      tutti i titoli al portatore, di qualsiasi specie,
      azioni,
obbligazioni, cartelle fondiarie, titoli di debito
      pubblico, ecc., debbano essere convertiti in titoli
      nominativi.    
      
      Il valore complessivo dei titoli al portatore sale ad oltre 70
      miliardi, i quali sfuggono ora per la maggior parte alla tassa
      sulle successioni e sfuggirebbero egualmente alla imposta sul
      capitale, e alla imposta progressiva sul reddito.
      
      Quei 70 miliardi sono in buona parte concentrati nelle grandi
      fortune, le quali dovrebbero pagare il venti, il trenta, il
      quaranta e fino il cinquanta per cento, e quando si trattasse di
      patrimoni formati da profitti di guerra dovrebbero pagare aliquote
      ancora maggiori; è quindi evidente quanto grande sia il contributo
      che può averne il Tesoro; ciò però a patto che la nominatività dei
      titoli renda impossibile la frode.
      
      Il provvedimento è necessario alla finanza, ed è imposto da
      un'alta considerazione morale, per imprimere nelle masse popolari
      la sicurezza che gli oneri fiscali sono distribuiti con giustizia,
      e che non vi possono sfuggire appunto le maggiori ricchezze; ed è
      consigliato anche da considerazioni di giustizia regionale, in
      quanto quei 70 miliardi di titoli si trovano per la maggior parte
      nell'Alta Italia, e solo in piccola parte nel Mezzogiorno.
      
      Una giusta repartizione degli oneri fiscali è condizione
      indispensabile per ottenere che il Paese li
accetti.
      
      Ho fiducia che gli uomini politici i quali hanno la responsabilità
      del governo, in tempi così difficili, sentiranno il dovere
      indeclinabile di rialzare il prestigio del Parlamento,
      restituendogli l'esercizio dei suoi poteri, e di evitare, con
      radicali e immediati provvedimenti, il fallimento dello Stato che
      travolgerebbe in una comune rovina tutte le classi sociali.»
      
      Tutte queste pubbliche manifestazioni del mio pensiero sulle
      principali questioni non potevano lasciar dubbio sul programma che
      avrebbe informata l'azione di un Ministero da me presieduto.
      
      Io formai senza difficoltà il nuovo Ministero, chiamandovi uomini
      di tutti i partiti costituzionali, per stabilire un accordo su un
      programma preciso e concreto, che mirasse a risolvere le questioni
      di maggiore urgenza per far salvo il credito e la compagine dello
      Stato. Affidai il ministero degli Esteri ad un giovane diplomatico
      che aveva già fatta ottima prova nella sua carriera ed anche
      reggendo il sottosegretariato di quel dicastero nel governo
      precedente, il Conte Sforza; al Tesoro chiamai l'on. Meda; alle
      Finanze l'on. Tedesco; alla Guerra l'on. Bonomi; alle Colonie
      l'on. Luigi Rossi; all'Istruzione il Senatore Benedetto Croce,
      come rappresentante della più alta cultura; alle Poste l'on.
      Pasqualino Vassallo; alle Terre Liberate l'on. Raineri; ai Lavori
      Pubblici l'on. Peano; ed alla Marina mantenni il Senatore Sechi.
      Affidai la gestione dell'Ente degli approvvigionamenti e consumi,
      che doveva essere liquidato, all'on. Soleri. E sino dal primo
      Consiglio dei Ministri, distribuii ai miei colleghi una serie di
      progetti di legge, che dovevano essere immediatamente sottoposti
      alla discussione parlamentare.
      
      II Ministero si presentò al Parlamento il 24 giugno. Nel discorso
      con cui esposi il mio programma, ripresi e riaffermai i concetti
      sopra indicati. Per la politica estera indicai chiaramente che il
      nostro proposito era di condurre a termine la conclusione della
      pace, ristabilendo rapporti amichevoli con tutti i popoli;
      dichiarando che come salda garanzia di pace il Parlamento doveva
      avere nella politica estera la stessa autorità che aveva nella
      politica interna e in quella finanziaria. E per la completa
      applicazione di quel principio presentai un disegno di legge, il
      quale, modificando l'art. 5 dello Statuto, disponeva che i
      trattati e gli accordi internazionali, quale si fosse il loro
      oggetto e la loro forma, non sarebbero validi senza l'approvazione
      del Parlamento, e che senza la preventiva autorizzazione del
      Parlamento non potesse essere fatta dichiarazione di guerra. E
      perchè tale controllo parlamentare sulla polilica estera potesse
      essere esercitato,  io proponevo pure la creazione di
      Commissioni permanenti presso i due
rami del Parlamento, alle
      quali dovevano essere comunicati immediatamente i documenti
      relativi alle
questioni in corso, fra le quali quella
      dell'Adriatico
predominava.    
      
      Per la politica interna io proclamavo il concetto già esposto
      della necessità di ritornare all' osservanza dello Statuto; al
      quale scopo bisognava anzi tutto bandire l'uso dei decreti legge,
      con le sole eccezioni che si riferissero alla revoca o
      modificazione di decreti legge non ancora convertiti in legge,
      alla soppressione di istituti e di impieghi divenuti inutili, ed
      ai provvedimenti necessari per le terre redente, fino a che non
      fossero legalmente annesse al Regno. E prospettavo poi
      provvedimenti minori per le rappresentanze operaie in corpi
      deliberanti o consultivi; per l'incremento della cooperazione; per
      le autonomie amministrative basate sul referendum; e per l'esame
      di Stato, che io consideravo come unico mezzo serio ed efficace
      pel controllo non solo del profitto degli allievi, ma anche
      dell'operosità e della attitudine dei professori all'insegnamento.
      
      Per la politica economica richiamavo la necessità di frenare
      l'aumento del costo della vita, contro esose speculazioni,
      sostenendo però il concetto che la vera e permanente causa di
      quell'alto costo, era il deprezzamento della moneta, dovuto
      all'eccessiva circolazione ed al grave squilibrio fra esportazione
      ed importazione, e che contro queste cause bisognava indirizzare i
      rimedi. Per cui era d'uopo estendere la cultura di quelle materie
      per le quali eravamo più gravemente tributari dell'estero, come il
      grano, chiedendo al Parlamento poteri speciali per costringere a
      coltivare a grano tutte le terre suscettibili di tale cultura; di
      ridurre la necessità delle importazioni di carbone mediante un più
      vasto utilizzamento delle forze d'acqua, e di iniziare una
      razionale esplorazione del nostro sottosuolo per lo sfruttamento
      delle sue ricchezze minerarie. 
      
      E per la politica finanziaria proponevo di avocare totalmente allo
      Stato i sopraprofitti di guerra, in quanto che è ingiusto e
      immorale che la guerra possa essere fonte di guadagno; di
      procedere ad una inchiesta parlamentare sulle spese di guerra e
      per la revisione dei relativi contratti; di rendere più fortemente
      progressiva la tassa sulle successioni; di aumentare di molto
      l'imposta sulle automobili private e di imporre l'obbligo di
      rendere nominativi i titoli al portatore, che rappresentavano
      almeno settanta miliardi, la maggior parte dei quali sfuggiva alle
      tasse sulle successioni, a quella sui redditi ed a quella sul
      capitale.
      
      E disegni di legge riferentisi a tutti questi punti furono da me
      in quella stessa prima seduta presentati; perchè il mio primo
      pensiero era di ridare al Parlamento quell'autorità che solamente
      poteva venirgli dalla dimostrata capacità di riprendere con ogni
      energia il suo compito essenziale, e cioè l'opera legislativa, e
      di dare all'interno e all'estero la prova del fermo proposito di
      ristabilire l'equilibrio del bilancio.
      
      Assumendo il governo io trovai una situazione gravissima sotto
      tutti i rapporti. Nella politica estera, i cui problemi dovevano
      essere per primi risolti, perchè l'attenzione e l'opera del
      governo potesse poi portarsi tutta alla politica interna e di
      ricostruzione economica e finanziaria, trovai aperta una guerra in
      Albania, dove morivano oltre cento soldati al giorno di febbre
      malarica, e Vallona minacciata e stretta d'assedio, perchè lo
      sgombero e la ritirata dai territori dell'interno, in se stessa
      una buona decisione, era stata condotta con troppa manifesta
      fretta e con conseguente disordine; trovai Fiume occupata da
      D'Annunzio, con una situazione che costituiva una minaccia
      continua di guerra; trovai che i negoziati con la Jugoslavia per
      la definizione del nostro confine orientale erano arenati, perchè
      tutte le proposte e richieste avanzate dal nostro Governo per una
      soluzione erano state costantemente respinte. 
      
      All' interno l'irrequietezza dei partiti estremi era giunta al
      colmo; non solo, ma era cominciato un disgregamento negli stessi
      organi dello Stato, tanto che non si poteva fare viaggiare la
      forza pubblica senza che i ferrovieri arrestassero immediatamente
      i treni, e contro un tale stato di cose non era stata tentata la
      menoma reazione o preso alcun serio provvedimento. 
      
      Nel rispetto della politica finanziaria trovai un disavanzo di
      quattordici miliardi nel bilancio dello Stato, sei dei quali
      dovuti, come ho già detto, al prezzo politico del pane, ciò che
      avrebbe in breve volgere di tempo condotto al fallimento.
      
      Tutti questi problemi, ognuno di per sé gravissimo, e che tutti
      insieme formavano una situazione piena di pericolo, dovevano
      essere risolti. Il primo che affrontai per forza delle cose fu
      quello dell'Albania. Le tremende condizioni sanitarie in cui si
      trovavano le truppe nell'Albania erano note nell'esercito, anche
      per il rimpatrio continuo dei soldati colpiti dalla malaria; e la
      notizia che un reggimento di bersaglieri, che si trovava
      acquartierato ad Ancona, sarebbe stato inviato in Albania per
      rafforzare la guarnigione di Vallona, provocò una sedizione
      militare, a cui concorse la sobillazione di elementi anarchici,
      allo scopo di provocare un movimento insurrezionale. In quella
      occasione io percepii in tutta la gravità le condizioni del paese,
      in quanto non si poterono trasportare con la ferrovia le truppe e
      i carabinieri necessarii a domare la rivolta ed a ristabilire la
      disciplina e l'imperio della legge; e per l'urgenza della
      situazione dovemmo provvedere al trasporto delle truppe a mezzo di
      camions. Che un tale stato di cose fosse in buona parte effetto di
      inerzia e troppa paura da parte del precedente governo, che nulla
      aveva fatto per impedire che si formasse, o per arrestarlo alle
      sue prime manifestazioni, fu poi mostrato dal fatto che per
      rimettere un po' di disciplina fra i ferrovieri, non fu necessario
      ricorrere a mezzi eccezionali; e che in breve tempo si riuscì,
      parte con la persuasione ed il richiamo al dovere, e parte con la
      ferma applicazione delle punizioni comminate dai regolamenti, ad
      ottenere che le ferrovie servissero da allora in poi all'interesse
      dell'ordine pubblico, né si ebbe più alcun caso di rifiuto pel
      trasporto di truppe, guardie e carabinieri.
      
      Per quanto concerneva l'Albania io ero venuto immediatamente ad
      una decisione radicale, e l'avevo comunicata ai miei colleghi,
      dandone le ragioni che avevano ottenuta la loro piena
      approvazione. A mio parere la questione dell'Albania e di Vallona
      era profondamente mutata per noi dopo la caduta dell'Impero degli
      Asburgo. Fino a che esisteva quell'impero militare, le cui coste
      si estendevano per così grande tratto lungo l'Adriatico, noi
      avevamo un primario interesse a che esso, penetrando nel
      territorio albanese, non creasse una situazione per noi ancora più
      diffìcile, diventando padrone dell'entrata di quel mare; donde gli
      accordi speciali intervenuti fra l'Austria e noi, allo scopo di
      evitare gravi conflitti. Dopo la guerra balcanica e la quasi
      totale rovina del dominio turco in Europa, la nostra politica,
      nella quale avevamo pure potuto procedere abbastanza d'accordo con
      l'Austria, era stata di assicurare l'autonomia del territorio
      albanese, impedendo che la Serbia l'invadesse da settentrione e la
      Grecia da mezzogiorno. Nelle nuove condizioni sortite dalla guerra
      europea, l'interesse nostro era pure che l'Albania fosse autonoma,
      e che nessuno potesse insediarsi nelle sue coste e nei suoi porti;
      sicuri che l'Albania per conto proprio non avrebbe avuta mai una
      flotta che potesse essere una minaccia alle nostre coste ed alla
      nostra libertà di traffico in questo mare. 
      
      Riguardo poi a Vallona, io facevo questo ragionamento: che in caso
      di guerra, se  noi fossimo  i più  forti in mare
      non avremmo avuto bisogno di Vallona; se fossimo i più deboli, non
      potendo difenderla e rifornirla per mare,  saremmo costretti
      ad abbandonarla. E ciò prescindendo anche dalla considerazione
      della radicale trasformazione che il più largo uso dei sottomarini
      e degli idrovolanti porterà, secondo i tecnici, nella guerra
      navale del futuro. Ad ogni modo, ciò che veramente ci interessa è
      che Vallona non possa costituire una base di operazioni contro di
      noi; e questo scopo è raggiunto con l'occupazione dell'isolotto di
      Sasseno, che sta all'imboccatura della baia stessa. Per fare di
      Vallona una base navale nostra, data la enorme portata delle
      artiglierie moderne, sarebbe necessaria una occupazione
      territoriale estesissima perchè il porto non fosse esposto al tiro
      delle artiglierie nemiche; il che avrebbe importato non solo spese
      ingenti e continuative, ma, in caso di guerra, l'immobilizzamento
      di nostre considerevoli forze, che verrebbero sottratte al teatro
      principale della guerra ed alla difesa del territorio nazionale. 
      
      Per tutte queste ragioni io decisi di rinunciare al mandato,
      conferitoci dalla Conferenza di Parigi, sull'Albania, che avrebbe
      rappresentata una enorme passività senza alcun utile, e di
      limitare la nostra azione alla protezione diplomatica dell'Albania
      contro le mire di altri Stati, e di abbandonare Vallona,
      assicurandoci però il riconoscimento del possesso di Sasseno; ed
      inviai in Albania il Barone Alliotti, con tutti i poteri per
      trattare col governo albanese a questo scopo. Si venne facilmente,
      come era da presumere, all'accordo, e Vallona fu sgombrata. Io
      definii quella decisione e la sua esecuzione, l'estirpazione di un
      dente, per la quale il paziente esita e ritarda, ma di cui poi
      alla fine è lieto di essersi liberato.
      
      Assai più difficile si presentava la soluzione della questione dei
      nostri confini orientali col nuovo Stato della Jugoslavia, tanto
      più che essa era stata in certo modo compromessa dal Ministero
      precedente, con negoziati che non avevano approdato a nulla. Il
      che però era stata anche una fortuna, perchè in quei negoziati era
      stata da parte nostra richiesta e non ottenuta, una linea di
      confine non conveniente, in quanto non corrispondeva al confine
      naturale. Quella nostra domanda costituiva una grave
      compromissione, che rischiava di fare sentire i suoi effetti anche
      su trattative nuove, intralciando l'opera dei nuovi negoziatori. 
      
      Per questa ragione io mi astenni per parecchi mesi dall'entrare in
      rapporti col governo di Belgrado, premendomi di fare ben capire
      che le nostre eventuali trattative non dovevano in nessun modo
      considerarsi come una ripresa o continuazione di quelle
      precedenti, ma come trattative ex-novo. Resistei perciò anche alle
      pressioni, che ricevevo da alcune parti, perchè io mi affrettassi
      a risolvere quella questione, che pure io stesso giudicavo
      pericolosa. 
      
      Ricordo a questo proposito che, nei primi giorni di agosto, da
      parte inglese ci si manifestò una certa ansietà per la ripresa
      delle trattative nostre con la Jugoslavia. Al Foreign Office si
      temeva che i serbi, incoraggiati dagli avvenimenti di Albania, che
      naturalmente essi interpretavano dal loro punto di vista, fossero
      tentati a seguire lo stesso sistema usato dagli albanesi; e, a
      riprova di questi timori, e come un indizio di tali disposizioni
      da parte dei serbi, ci si indicava l'ammassamento di truppe serbe
      che si calcolava a trentasei divisioni, pronte a marciare contro
      di noi. Si lasciava intendere di temere che potesse nascere,
      provocato dalla Serbia, un conflitto, con le più gravi
      conseguenze, fra Serbia ed Italia; ma noi avevamo qualche ragione
      per ritenere pure che il Trumbic facesse pressioni a Londra perchè
      noi fossimo indotti alla ripresa dei negoziati, in un momento che
      a lui pareva specialmente opportuno, con la preoccupazione
      evidente di giungere ad un risultato prima che il Presidente
      Wilson, della cui protezione la Jugoslavia aveva particolarmente
      goduto, lasciasse il potere; mentre l'interesse nostro era
      l'opposto. 
      
      Non credetti poi, né allora né dopo, opportuno di invocare il
      Trattato di Londra, per l'altra compromissione che esso conteneva
      riguardo alle sorti della città di Fiume.
      
      Io giudicavo poi opportuno, prima di riprendere quelle trattative,
      di mettermi in rapporti diretti prima con Lloyd George, poi con
      Millerand. Lloyd George mi aveva già fatto sapere che riteneva
      utile d'incontrarsi meco; e si convenne che io mi sarei recato a
      visitarlo a Lucerna nel periodo in cui egli si sarebbe trovato
      colà per le sue vacanze. Così c'incontrammo nella seconda metà di
      agosto. Le lunghe conversazioni che io ebbi seco nei tre giorni
      che restai a Lucerna, ebbero sempre per principale obbiettivo lo
      studio dei mezzi coi quali si sarebbe potuto ottenere il più
      rapidamente possibile la pacificazione dell'Europa. Io rilevai che
      fra i punti che più urgeva di sistemare, era la questione dei
      confini fra l'Italia e la Jugoslavia. Io partivo, in questo, dallo
      stesso punto sostenuto nel Parlamento, e cioè la necessità della
      pacificazione definitiva fra i due paesi. Io feci conoscere a
      Lloyd George quali erano i punti dai quali l'Italia non poteva
      assolutamente recedere, senza però entrare con lui in alcuna
      discussione su tutte le varie questioni che concernevano
      semplicemente i rapporti fra noi e la Jugoslavia; e Lloyd George
      pure, per parte sua, si astenne dal discutere la ragionevolezza di
      ciò che noi chiedevamo; limitandosi a manifestare cordialmente il
      proposito di adoperarsi perchè la Jugoslavia entrasse in
      trattative con noi con la stessa intenzione di giungere ad una
      pace conclusiva.
      
      E mi risultò in seguito che, entro questi limiti di un intervento
      generico inteso a favorire la soluzione del problema, egli aveva
      poi fatta opera molto amichevole verso l'Italia. La mia ferma
      intenzione, insomma, era che i negoziati per le decisioni
      sostanziali dovessero svolgersi unicamente fra noi e gli
      jugoslavi, convinto come ero e come sono tuttavia, che comune
      interesse dei due popoli fosse di stabilire e mantenere amichevoli
      rapporti, sia politici che commerciali; e che, in genere, sia
      assai preferibile che qualunque negoziato si svolga direttamente
      ed unicamente fra le parti interessate; l'intromissione di un
      terzo, sia pure con le migliori intenzioni, avendo spesso
      l'effètto di introdurre nella questione altri interessi, che la
      rendono più complicata e di più difficile soluzione.
      
      Passando alla situazione generale, Lloyd George, mostrandosi
      sopratutto ansioso del ristabilimento di una pace sicura per tutto
      il mondo, osservava che la prima garanzia di tale pace doveva
      trovarsi nei trattati firmati, e nel modo della loro applicazione.
      I vincitori, secondo lui, dovevano mostrare uno spirito di
      moderazione, ed i vinti uno spirito di lealtà nel metterli in
      esecuzione. A parte però le questioni risolte coi trattati, vi
      erano pure numerose questioni pendenti, la maggioranza delle quali
      indissolubilmente connesse con gli avvenimenti della Russia. Egli
      osservava che finché la pace non fosse stata raggiunta fra la
      Russia e gli altri paesi, l'atmosfera internazionale rimarrebbe
      sempre torbida e minacciosa. Qualunque attacco della autocrazia
      soviettista russa contro l'indipendenza nazionale dei suoi vicini,
      renderebbe impossibile la pace con la Russia, e gli Alleati
      avrebbero dovuto opporvisi con tutti i loro mezzi, tenuto conto
      degli altri loro obblighi. Qualunque tentativo d'imporre ad un
      altro paese qual si voglia forma di governo, costituirebbe una
      violazione della sua indipendenza. 
      
      Noi ci trovammo quindi d'accordo nel compiacerci che nulla di
      simile si trovasse nelle condizioni allora in discussione per la
      conclusione della pace fra Russia e Polonia. Constatammo pure che
      l'esperienza aveva dimostrato che qualunque tentativo esteriore di
      intervenire nella lotta interna russa, avrebbe avuto il solo
      effetto di prolungare lo spargimento di sangue e di ritardare la
      soluzione pacifica desiderata.
      
      L'impressione della personalità di Lloyd George,, che io ritrassi
      da quelle conversazioni, fu di un ingegno grande e vivido, e di
      una straordinaria prontezza ad afferrare tutti i lati di una
      questione; come pure di una sincera e passionata volontà per la
      reale pacificazione dell'Europa, dopo le tremende rovine della
      guerra. Il mio pensiero in ciò coincideva pienamente col suo, come
      pure coincidevano gli interessi dei due paesi, e noi lo
      constatammo su tutti i punti in discussione con la più viva,
      reciproca soddisfazione.
      
      Nel mese di settembre ebbi pure un convegno col Millerand,
      presidente del Consiglio dei ministri francese, avendo entrambi
      ritenuta opportuna una intervista personale. Siccome allora io ero
      a Bardonecchia, il Millerand, con molta cortesia, fece fissare il
      luogo del convegno ad Aix-les-Bains, che è a poca distanza dal
      confine. Vi restai due giorni, ed anche con lui si parlò di quasi
      tutte le questioni generali europee, ma in modo più speciale di
      quelle che riguardavano i rapporti fra l'Italia e la Jugoslavia ed
      anche la Grecia, come pure dei rapporti di carattere economico fra
      l'Italia e la Francia. 
      
      Le conversazioni si svolsero sempre nel tono più cordiale; ed a
      lui pure esposi, come avevo fatto con Lloyd George, quali fossero
      i punti sui quali l'Italia non poteva transigere nella soluzione
      della nostra questione cogli jugoslavi. Ci fermammo sopratutto
      sulla questione dei nostri confini orientali; esaminando sopra una
      carta le varie linee, inaccettabili, proposte dal Presidente
      Wilson, e quella, pure non conveniente, che si denominava la linea
      Nitti. Io insistetti che l'Italia, per necessità strategiche,
      doveva possedere la linea del Monte Nevoso; cosa che era stata
      pure riconosciuta autorevolmente, in una sua conversazione con
      Badoglio, dal Maresciallo Foch. Aggiunsi che, non avremmo
      insistito per il possesso della Dalmazia, la popolazione della
      quale era nella immensa maggioranza slava, salvaguardando però la
      città di Zara, che doveva essere italiana, e chiedendo garanzie
      per gli altri centri in cui fossero elementi italiani. 
      
      Millerand, senza entrare nell'esame delle singole questioni,
      discussione che dovevamo fare direttamente con la Jugoslavia,
      manifestò il fermo proposito di adoperarsi per una soluzione che
      corrispondesse ai giusti desideri dell'Italia; e tali buoni uffici
      in favore dell'Italia furono poi da lui cordialmente fatti, sia
      quando era ancora Presidente del Consiglio, sia dopo quando
      assunse la Presidenza della Repubblica.  S'informò 
      poi  delle nostre  intenzioni  riguardo l'Albania,
      ed io gli risposi che l'Italia aveva rinunciato già ad ogni
      possesso diretto in Albania, come pure a qualunque mandato o
      protettorato; ma che avrebbe sostenuto costantemente il diritto
      dell'Albania all'indipendenza entro i confini segnati dalla
      Conferenza di Londra, e che non dovevano essere violati né dalla
      Serbia né dalla Grecia. 
      
      E siccome il Berthelot, segretario generale del Ministero degli
      esteri francese, mi chiedeva se l'accordo concluso fra Tittoni e
      Venizelos, durante la permanenza del Tittoni nel Ministero Nitti,
      — accordo che fra l'altro implicava la cessione delle isole del
      Dodecaneso — non fosse d'ostacolo all'indipendenza ed integrità
      albanese, io gli risposi che quel trattato era stato da me
      denunciato appena avevo assunto il governo ed aveva cessato
      d'esistere, checché se ne potesse pensare ad Atene. Al che il
      Berthelot esclamò: — Politis sera désespéré quand il le saura.
      —
      
      Si parlò poi della pace fra la Russia e la Polonia; dei rapporti
      fra gli Alleati e la Russia; dell'applicacazione dei trattati;
      della pace colla Turchia, ecc.; ed in tutte queste questioni,
      anche dove vi era divergenza di vedute, io ebbi a notare nel
      Millerand un grande senso di responsabilità e di moderazione. Pure
      denunciando lo spirito pericoloso che, secondo lui, permaneva in
      Germania, ove il popolo pareva ancora persuaso di essere stato
      aggredito e di avere subito una guerra difensiva, si mostrava
      disposto ad applicare i trattati con moderazione.
      
      Parlando della Russia, io gli dissi essere mia convinzione che,
      lungi dall'impedirlo, convenisse incoraggiare i socialisti
      nostrani a visitare la Russia, donde sarebbero ritornati
      disgustati in modo da fare esitare i più esaltati, e convinti che
      il paese dei soviety non è un paradiso terrestre; come infatti è
      poi accaduto. Millerand mi rispose che non voleva in Francia un
      rappresentante dei soviety, che si dedicherebbe certamente alla
      propaganda sovversiva ed alla corruzione. 
      
      Discutemmo poi della questione del tonnellaggio austro-ungarico a
      noi dovuto; di quella del carbone, dei fosfati, dell'emigrazione e
      delle relazioni commerciali generali fra i due paesi, arrivando su
      ogni punto a ragionevoli intese o ad impegni di studio pel futuro.
      
      
      Del Millerand ebbi una impressione simpaticissima, pel suo
      carattere evidentemente franco e leale, e per le buone
      disposizioni che egli mostrava verso l'Italia.
      
      Qualche tempo dopo il governo di Belgrado, a mezzo
      dell'Inghilterra, ci fece sapere che avrebbe volontieri ripreso le
      trattative. Lloyd George esprimeva però, in una conversazione col
      nostro ambasciatore, qualche dubbio sui possibili risultati
      pratici dei negoziati, data la complicata situazione del regno
      Jugoslavo. Una carta in nostro favore, a suo avviso, era però il
      quasi certo trionfo dei repubblicani nelle elezioni presidenziali
      americane; ciò che produrrebbe un grande abbattimento fra gli
      jugoslavi, per la scomparsa dell'uomo che li aveva così
      pertinacemente sostenuti nelle loro pretese. Ed aveva aggiunto
      che, se egli fosse stato al mio posto, qualora questi negoziati
      definitivi fallissero, procederebbe senz'altro ad occupare ciò che
      volevamo mantenere, e ad evacuare il resto. Ad ogni modo io,
      d'accordo con Sforza, aderii volentieri alla richiesta di
      Belgrado, e fu stabilito che il convegno dei plenipotenziari
      avrebbe avuto luogo a Santa Margherita. 
      
      Intanto io e Sforza, insieme anche a Bonomi ministro della guerra,
      avevamo esaminato accuratamente l'intero problema, ed avevamo
      fissati i punti seguenti:
      1.° Una frontiera terrestre sicura, che non poteva essere, come si
      era tentato nei vari progetti antecedenti, una semplice correzione
      della linea di Wilson. Il confine doveva essere al Monte Nevoso,
      ed includerlo, saldandosi ai massicci montuosi settentrionali
      secondo una linea prossima a quella del Patto di Londra,
      escludendo solo quei territori che non fossero indispensabili alla
      nostra difesa;
      2.° Indipendenza dello Stato di Fiume (Corpus separatimi) senza
      ingerenze o controllo della Società delle Nazioni. Tale Stato
      doveva risultare contiguo al territorio italiano, o adottando il
      confine del Patto di Londra, o attribuendo allo Stato di Fiume
      alcuni dei territori intermedi;
      3.° Annessione all'Italia delle isole di Cherso e di Lussino;
      4.° Rinuncia a favore della Jugoslavia delle altre isole e della
      Dalmazia del Patto di Londra, ad eccezione di Zara, con inoltre
      garanzie per la cultura italiana, e col diritto dei dalmati di
      optare per la cittadinanza italiana, conservando il loro domicilio
      ed i loro beni.
      
      Nel caso che i negoziati fossero falliti, sarebbe seguita una
      azione decisa da parte nostra, per l'annessione dei territori
      sopra indicati, e col mantenimento della occupazione militare, in
      virtù dell'armistizio, delle isole e della Dalmazia, e con la
      dichiarazione che saremmo stati pronti a negoziare la sorte
      definitiva di quei territori in relazione al riconoscimento
      internazionale della indipendenza di Fiume.
      
      Le linee di questo programma furono poi da noi esposte nel
      Consiglio dei Ministri, ed ebbero l'unanime approvazione; tutti
      convenendo che, a parte Zara, non convenisse di insistere per la
      Dalmazia, l'immensa maggioranza della sua popolazione non
      essendo  italiana.
      
      Prima che i delegati jugoslavi venissero a Santa Margherita, non
      ci fu alcun scambio di idee, né di domande, né direttamente né a
      mezzo di intermediari di qualunque genere, fra una parte e
      l'altra. La delegazione jugoslava che arrivò in Italia per la data
      convenuta, era composta dei signori Vesnic, Trumbic e Stoianovich;
      per l'Italia c'eravamo io, Sforza e Bonomi. Prima andarono Sforza
      e Bonomi, io riservandomi d'intervenire se dalle prime
      conversazioni apparisse la possibilità di giungere ad un accordo.
      Ed infatti partii appena essi mi telegrafarono che le cose
      parevano bene avviate, e la delegazione jugoslava sinceramente
      volonterosa di giungere ad una soluzione. I negoziati procedettero
      infatti assai rapidamente. 
      
      Arrivando ed intervenendo nel dibattito, io sostenni
      immediatamente la necessità di non lasciare
      che la discussione divagasse, e di venire subito alle questioni
      precise. La seconda giornata dopo il mio arrivo, i negoziati
      cominciarono alle nove del mattino; lavorammo tutto il giorno, ed
      alla sera si arrivò alla conclusione. Io volli che si procedesse
      senz'altro alla compilazione del trattato, che fu firmato alle due
      dopo mezzanotte. La discussione fu molto serrata, ma pure sempre
      amichevole. Uno dei fattori che concorse maggiormente a tale
      rapido raggiungimento dell'accordo, fu la convinzione, che era in
      entrambe le parti, della convenienza di stabilire fra i due paesi
      rapporti commerciali molto intimi; in quanto la Jugoslavia poteva
      trovare sul mercato italiano un largo sfogo della sua abbondante
      produzione agricola, e noi potevamo rifornirla di prodotti
      industriali, e specialmente di macchinario ferroviario e per
      l'agricoltura. Quando ci separammo, Vesnic mi disse: — Le farà
      molto piacere di apprendere che anche qui abbiamo ricevute delle
      premure di Millerand perchè arrivassimo ad una conclusione. —
      
      Il testo del Trattato fu redatto in italiano, poi in serbo; però
      io insistetti che dovesse fare testo la versione italiana; perchè
      i delegati serbi conoscevano benissimo l'italiano, mentre il serbo
      non era conosciuto da alcuno di noi.
      
      Concluso il Trattato di Rapallo, che fu approvato-dal Parlamento
      ed accolto con soddisfazione dalla grandissima maggioranza
      dell'opinione pubblica, bisognava eseguirlo; e ciò importava
      anzitutto che Fiume si costituisse come Stato indipendente, e
      quindi ne uscisse un Comando che era italiano e non fiumano. 
      
      Avevo già dichiarato, in discorsi pubblici, il mio rammarico che
      la Conferenza di Parigi avesse rifiutato di riconoscere il
      carattere italiano di Fiume, e di soddisfarne le aspirazioni; e
      nei negoziati di Rapallo mi ero proposto ed ero riuscito a
      salvarne l'indipendenza contro l'assegnazione che nel Trattato di
      Londra ne era stata fatta alla Croazia. I miei sentimenti in
      proposito non erano dubbi; ed io avevo potuto comprendere l'atto
      compiuto dal D'Annunzio e dai suoi compagni con l'occupazione di
      Fiume in un momento in cui la sua sorte pareva minacciata. Ma
      quell'atto aveva però un lato oscuro e deplorevole per le
      infrazioni che aveva portato alla disciplina dell'esercito,
      inducendo dei soldati a venire meno al loro giuramento ed al loro
      dovere; e qui va ricordato che il più glorioso condottiero
      popolare della nostra storia, Garibaldi, anche quando credette,
      nel fervore della ricostituzione nazionale dell'Italia, di dovere
      compiere un' azione distinta ed anche contraria a quella a cui il
      Governo era obbligato per i suoi impegni e le necessità
      internazionali, non fece mai appello all'esercito, e non volle mai
      che la compagine morale dell'esercito fosse in alcun modo offesa.
      
      
      Il D'Annunzio ed i suoi, d'altra parte, una volta occupata Fiume,
      non si tennero entro i limiti degli scopi che al primo momento li
      avevano mossi ed avevano procurato loro l'approvazione di molta
      parte dell'opinione pubblica, irritata pel modo con cui la
      questione di Fiume era stata trattata nella Conferenza della pace,
      e fermamente decisa a non consentire che quella città italiana
      cadesse nelle mani dei croati, con violazione dei diritti che
      erano ad essa riconosciuti anche nel regime imperiale
      austroungarico; ma avevano concepito ed annunziati, più o meno
      apertamente, ogni sorta di grandiosi e fantastici progetti, sia di
      politica internazionale, sia nei riguardi della politica interna
      italiana; mentre, per rifornirsi di mezzi e di armi, avevano di
      fatto consumata una quantità di atti illegali, rasentanti la
      pirateria. 
      
      In tali condizioni Fiume era diventata un centro di turbamento per
      la vita italiana, ed anzi di pericolo, anche per l'enorme quantità
      di armi e munizioni che vi erano state adunate; basti dire che
      quando noi la occupammo, solo nella prima settimana ne caricammo
      diciotto piroscafi per trasportarli a Pola e si continuò anche
      dopo, per parecchio tempo, a scoprirvi depositi clandestini.
      
      Io dunque, sia per gli impegni presi col Trattato
di Rapallo,
      divenuto, dopo la approvazione del Parlamento, un solenne impegno
      internazionale, sia per
ovviare a nuovi pericoli, avevo il preciso
      dovere
di agire e di ristabilire a Fiume una situazione
normale.
      Il pericolo più imminente, di cui avemmo
poi sentore, era che il
      D'Annunzio e i suoi precipitassero le cose compiendo un atto di
      aggressione
verso la Jugoslavia; il che avrebbe involta
      l'Italia
in nuovi guai e nella peggiore delle umiliazioni;
 perchè
      niente vi è di più umiliante per un paese, e niente può più
      gravemente ferire la sua dignità, che il dimostrarsi incapace di
      tenere fede ai propri impegni internazionali, ed il venir meno
      alle norme dei diritti delle genti.
      
      Io sperai per qualche tempo che queste ragioni decisive sarebbero
      state comprese e sentite dal D'Annunzio, e che la situazione
      avrebbe potuto risòlversi senza che io dovessi compiere un
      doloroso dovere ricorrendo alla forza. E contavo che, dopo i
      risultati raggiunti a Rapallo, fra l'altro col conseguimento di un
      confine che dava all'Italia, nel giudizio dello Stato Maggiore
      dell'esercito, la piena sicurezza, il D'Annunzio, ascoltando il
      consiglio dei suoi amici più autorevoli, non avrebbe turbata la
      concordia del paese, che si mostrava sempre più necessaria per il
      nostro prestigio fra le nazioni, e per l'urgente opera di
      ricostruzione morale ed economica. Ed infatti questi migliori
      amici del D'Annunzio, fra cui l'Ammiraglio Millo che era allora
      governatore di Zara, fecero a questo scopo del loro meglio. Il
      Millo, richiesto dal D'Annunzio stesso, l'incontrò in mare ed ebbe
      con lui una lunga conversazione, dissuadendolo sopratutto dal
      tentare una qualche azione in Dalmazia, di cui in quei giorni era
      corsa la voce; ma neanche egli riuscì ad ottenere precise
      assicurazioni o a rendersi chiaramente conto delle sue intenzioni.
      
      
      Anche alcuni dei compagni che erano stati seco alla spedizione di
      Fiume, se ne uscirono dichiarando di riconoscere che 
      col  Trattato  di  Rapallo  i destini di Fiume
      erano ragionevolmente salvaguardati. Il governo fu pure richiesto
      di fare il possibile per rispondere alle domande che D'Annunzio
      avanzasse per i bisogni di Fiume dal punto di vista economico, e
      per questo riguardo io detti pieno affidamento.
      
      Ma tutto questo a nulla valse; e si mettevano avanti sempre nuove
      pretese o questioni, intese a condurre le cose per le lunghe e a
      intorbidire la situazione. Si giocò sopratutto sulla questione di
      Porto Baros. Ora io avevo dovuto riconoscere che Porto Baros era
      fuori dal Corpus separatum di Fiume, nel cui statuto noi avevamo
      l'appoggio diplomatico e storico alla nostra tesi della
      indipendenza della città; e che Porto Baros apparteneva
      effettivamente ai croati, ai quali serviva pel commercio del
      legname; ed in questo senso io avevo fatto nelle dichiarazioni
      davanti alla Commissione parlamentare degli esteri. Ma del resto
      tutto questo era una quisquiglia; il problema dovendosi
      considerare sotto un aspetto ben più alto. 
      
      Il porto di Fiume aveva un grande valore per i paesi del
      retroterra, e specie per la Croazia e per l'Ungheria, come lo
      sbocco più prossimo e naturale per il loro, movimento commerciale;
      ma viceversa il porto per sé stesso sarebbe stato morto, senza la
      disposizione dei paesi del retroterra a servirsene, e senza l'uso
      delle ferrovie che a quei paesi appartenevano. Era dunque il caso
      di interessi reciproci, che avrebbero trovato la loro
      soddisfazione in un accordo fatto con spirito cordiale e con
      larghe vedute. La vita di Fiume è nel suo porto, ed era quindi
      precipuo interesse dei fiumani di evitare qualunque rottura su
      questioni secondarie, e trovare coi popoli del retroterra un largo
      accordo di carattere commerciale, ed evitare fra l'altro che essi
      cercassero altri sbocchi o si procurassero un altro porto.
      
      Quando compresi che oramai era inutile cercare di indurre alla
      persuasione il D'Annunzio e i suoi compagni della necessità e del
      dovere di inchinarsi alle disposizioni del Trattato di Rapallo, e
      di permettere che esse fossero eseguite riguardo a Fiume, dovetti,
      con mio rammarico, decidermi ad agire. Io quindi detti incarico al
      Generale Caviglia, che aveva il comando delle truppe della regione
      Giulia, di fare comprendere definitivamente al D'Annunzio che il
      Trattato doveva essere eseguito, e che egli e i suoi dovevano
      sgomberare da Fiume. Ritardare più oltre questa esecuzione sarebbe
      riuscito ad avvilire l'Italia agli occhi del mondo. 
      
      Alla Camera ed al Senato vi fu una certa agitazione fra i deputati
      combattenti e nazionalisti, e si formò una commissione per recarsi
      a Fiume a persuadere il D'Annunzio a non opporsi ormai
      all'esecuzione del Trattato. Questa missione si mise prima in
      contatto meco, offrendo la sua opera per evitare incidenti certo
      dolorosi per tutti; ma io, pure apprezzando Io spirito da cui era
      mossa, dovetti dichiarare che non potevo dare ad essa alcun
      incarico, in quanto l'incaricato del Governo era il Generale
      Caviglia, la cui autorità e la cui libertà d'azione, nei termini
      assegnati, non dovevano essere in alcun modo diminuiti. Anzi,
      perchè non nascesse nessun dubbio, e ad evitare qualunque
      equivoco, io telegrafai al Caviglia per avvertirlo che i deputati
      e senatori che si recavano a Fiume facevano ciò per conto proprio
      e con la propria responsabilità personale e non avevano alcun
      incarico, ne dal Governo, né dal Parlamento. Questo mio
      telegramma, a scanso di ogni equivoco, io partecipai ai deputati
      che andavano a Fiume.
      
      Pur troppo essi pure non riuscirono a smuovere dai suoi propositi
      il D'Annunzio, il quale, come apparve poi dopo, si era fatta
      qualche illusione che l'esercito e la marina non avrebbero agito
      contro di lui, o che almeno vi sarebbero state defezioni, e che
      l'opinione pubblica si sarebbe commossa ed agitata in suo favore.
      Nulla invece di ciò avvenne: i soldati e i marinai d'Italia
      compirono, come sempre, austeramente il loro dovere, non ostante
      il rammarico di dovere agire contro dei loro concittadini e
      commilitoni; e l'opinione pubblica, anche nella maggioranza di
      coloro che avevano innanzi approvata l'opera del D'Annunzio, non
      lo seguì affatto in questa sua ultima azione. Segno codesto che in
      tutti era l'intima convinzione che essa, in quella sua ultima fase
      di opposizione alla volontà del paese, espressa nel Governo e nel
      Parlamento, ed agli impegni del Trattato, non rispondeva più agli
      interessi ed alla dignità della Nazione.
    
      
      La restaurazione finanziaria dello Stato — Necessità di
        cominciare col colpire la ricchezza — La nominatività dei titoli
        e i creditori dello Stato — La legge sul pane e l'ostruzionismo
        socialista — L'occupazione delle fabbriche e la condotta del
        governo — Azione di polizia ed azione politica — I progetti di
        controllo delle fabbriche — La crisi industriale — Perchè
        indissi le elezioni e il loro risultato — Dissoluzione della
        maggioranza e la crisi.
      
      Il compito del Ministero da me presieduto in questo fortunoso e
      difficile periodo del dopo guerra, oltre la soluzione delle
      questioni di politica estera, e cioè dell'Albania, dei confini con
      la Jugoslavia e di Fiume, comprendeva, secondo ho già accennato,
      numerose questioni di politica interna, la cui soluzione, o almeno
      l'avviamento ad essa, non era meno urgente per la salute del
      paese. Erano questioni di ordine, di finanza e di rapporti fra le
      classi sociali, strettamente connesse le une alle altre, e che
      richiedevano quindi un'azione parallela e contemporanea, non
      essendo presumibile di risolvere una di esse senza tenere conto
      delle altre e lasciandole pel momento sospese. La più grave ed
      urgente di tali questioni era, per me, quella delle finanze dello
      Stato, il cui bilancio aveva una perdita di non meno di
      quattordici miliardi. Se non si rimediava a un tale stato di cose,
      riducendo in notevole parte tale enorme deficit, si sarebbe andati
      rapidamente incontro al fallimento; o ad evitarlo si sarebbe
      dovuto ricorrere ad un continuo aumento della circolazione, già
      larghissima in confronto a quella di avanti la guerra, con la
      immancabile conseguenza del rinvilio della moneta e di una crisi
      generale della economia nazionale, come mostra l'esempio dei paesi
      vinti che si sono lasciati scivolare per questa china pericolosa,
      nella quale a un certo punto non è più possibile fermarsi. 
      
      Uno dei fattori più gravi nello spareggio del bilancio era
      costituito dal prezzo politico del pane, che imponeva allo Stato
      una perdita di sei miliardi all'anno; ma era pure evidente che
      nessun governo avrebbe potuto affrontare con vera autorità morale
      questo problema che toccava le masse, se non avesse prima
      dimostrata la sua capacità a imporre i sacrifizii, necessarii al
      bilancio dello Stato, alle classi più fortunate, e specialmente a
      coloro che avevano fatta la loro fortuna nella guerra; questo
      esempio di giustizia sociale essendo necessario per acquetare le
      masse, e togliere gli argomenti più impressionanti alla propaganda
      dei loro agitatori.
      
      Per queste considerazioni, nell'opera legislativa intesa a
      restaurare nei limiti del possibile le finanze dello Stato, alla
      legge che doveva condurre all'abolizione del prezzo politico del
      pane, io feci precedere i progetti intesi a colpire la ricchezza.
      E il Parlamento, ritornando finalmente alla sua più alta funzione,
      rispose nel modo più soddisfacente ai miei scopi. Tutti quei
      progetti, che più sopra ho enumerati, furono infatti discussi fra
      il giugno, il luglio, e la prima metà di agosto ed approvati, e
      non solo dai gruppi costituzionali che avevano la loro
      rappresentanza nel governo, ma anche dal partito socialista, che
      pure nei sei mesi precedenti si era mostrato insofferente di
      qualunque seria discussione. 
      
      Più tardi, quando anche la legge sul pane fu approvata, ed il
      disavanzo del bilancio ridotto a meno di un terzo di quello che io
      avevo trovato assumendo il potere, si cominciò a lamentare che i
      provvedimenti da me proposti e che avevano ottenuta la quasi
      unanime approvazione del Parlamento, in entrambi i suoi rami,
      fossero troppo gravosi, ed una campagna fu iniziata specialmente
      contro la nominatività dei titoli, non ancora in gran parte
      applicata, per la evidente preoccupazione dei detentori di tale
      forma di ricchezza, di trovarsi poi obbligati a pagare l'imposta
      sul reddito, quella sul capitale e quella sulle successioni, alle
      quali con l'espediente dei titoli al portatore, erano fino allora
      in gran parte sfuggiti. 
      
      Codesta preoccupazione è figlia dell'ignoranza, in quanto mostrava
      e mostra che costoro, pure di non sottomettersi, a vantaggio dello
      Stato, ad un certo sacrifizio, non si peritano di andare incontro
      a danni ben maggiori, se non alla totale rovina. Nessuno dovrebbe
      essere infatti più interessato alla salute del bilancio dello
      Stato che i detentori dei suoi titoli, cioè i suoi creditori;
      perchè, a prescindere dalla ipotesi del fallimento, se si fosse
      prolungata una condizione di cose, nella quale lo Stato si fosse
      trovato costretto a provvedere al disavanzo mediante l'aumento
      continuo della circolazione, ne sarebbe seguito un correlativo
      rinvilio della moneta, che avrebbe ridotto a poco o niente il
      valore della ricchezza a reddito fisso, quale è appunto la
      ricchezza costituita da crediti, sia verso lo Stato che verso i
      privati, nella forma di titoli, ipoteche ed obbligazioni. 
      
      In Inghilterra, dove la quasi totalità dei valori privati o di
      Stato sono nominativi, e non possono quindi sfuggire all'imposta
      sul reddito, mirabilmente congegnata, quella imposta durante la
      guerra e dopo fu portata a percentuali che arrivano sino al
      sessanta per cento. Ma mediante quel sistema, che ha rapidamente
      assicurato il pareggio al bilancio, il valore della moneta inglese
      è stato presso a che interamente salvato, con vantaggio appunto
      dei detentori di titoli pubblici, che pagano le imposte come gli
      altri, ma ricevono i loro interessi in una moneta non deprezzata.
      Non occorre una eccezionale perizia finanziaria per rendersi conto
      di come sia più vantaggioso pagare dal trenta al cinquanta per
      cento d'imposta allo Stato, e ricevere da esso gli interessi in
      moneta alla pari, che sfuggire all'imposta ed essere viceversa
      pagato con moneta che perda, come ora la nostra, il settantacinque
      per cento del suo valore.
      
      L'interesse dello Stato e l'interesse dei suoi creditori sono
      strettamente connessi; per cui costoro, anziché cercare di non
      adempiere i loro obblighi di contribuenti, dovrebbero essere i
      primi a dare l'esempio del dovere compiuto, per potere poi
      esigere, anche a sicurezza del proprio capitale, l'adempimento
      degli obblighi tributari da parte di tutti.
      
      La legge sul pane fu da me presentata quando la Camera si riaperse
      nel novembre, con lo scopo che si arrivasse a sopprimere ogni
      intervento statale nella produzione e vendita del pane, ed a
      ristabilire pei cereali e la loro macinazione la piena libertà di
      commercio. Il progetto era congegnato in modo che l'aumento del
      prezzo del pane, che sarebbe derivato da tale ritorno alla
      libertà, avvenisse gradatamente, perchè il divario era in quel
      momento altissimo, e per colmarlo il prezzo avrebbe dovuto essere
      di un colpo pressoché triplicato. Ma una notevole parte del costo
      del frumento d'importazione, che costituiva circa la metà del
      fabbisogno, veniva dai noli marittimi, ancora assai alti; e si
      aveva quindi la ragionevole persuasione che col miglioramento dei
      mezzi di trasporto, dei quali vi era un enorme tonnellaggio in
      costruzione in tutti i cantieri del mondo, il costo dei noli
      dovesse rapidamente abbassarsi, con una correlativa diminuzione
      nel prezzo dei cereali; come poi è avvenuto. 
      
      E intanto, per coprire la differenza transitoria, che non poteva
      prolungarsi, secondo i calcoli fatti, oltre un anno, nel mio
      progetto si stabilivano alcune imposte speciali, la più importante
      delle quali era quella sul vino; parendomi giusto e conveniente
      che chi, anche nelle classi popolari, volesse usare ed anche
      abusare di un genere di lusso, quale è il vino, dovesse
      contribuire a diminuire il costo di quella che è la base
      dell'alimentazione per tutti.
      
      La discussione di questa legge fu assai lunga. Vi era, a proposito
      del prezzo del pane, una duplice compromissione: quella che il
      Ministero precedente si era lasciato imporre dai socialisti, sotto
      forma di ordine del giorno, accettato dal governo e votato dalla
      Camera, che impegnava a non mutare il prezzo del pane se non con
      legge approvata dal Parlamento; impegno che io avevo ereditato e
      che per ogni verso era conveniente mantenere, perchè la
      discussione e l'approvazione parlamentare avrebbe aiutato assai a
      disarmare, o a togliere forza a quella opposizione che vi potesse
      essere nelle classi popolari; l'altra, che i socialisti, con la
      politica eccessivamente demagogica a cui si erano lasciati andare
      nel dopoguerra, avevano assunta verso le masse. 
      
      Quegli impegni e quelle compromissioni non avevano nemmeno
      un'ombra di ragionevolezza; volere mantenere il prezzo del pane di
      prima della guerra con una moneta svalutata, quando in ragione
      appunto di tale svalutazione i salari erano stati presso che
      ovunque più che quadruplicati, sarebbe equivalso a pretendere di
      dare il pane, prima della guerra, al prezzo di quindici centesimi
      al chilo, cioè per due terzi gratis. Ora, se le distribuzioni
      gratuite di grano e farina si potevano fare qualche volta alle
      popolazioni povere delle città antiche o delle repubbliche
      cittadine medievali; non ci poteva essere chi non sentisse
      l'assurdità, anzi l'impossibilità economica di tali disposizioni
      per un paese di quaranta milioni di abitanti.
      
      Quel socialismo granario delle repubbliche cittadine di un tempo,
      aveva la sua base sui tributi riscossi dai popoli soggetti; ma lo
      Stato italiano, per pagare il pane gratuito avrebbe dovuto
      stabilire tributi interni, che sarebbero ricaduti su tutti
      egualmente, creando un semplice circolo vizioso, con di più il
      danno degli inevitabili sprechi di tali amministrazioni a cui lo
      Stato non è assolutamente adatto. Tali ragioni erano perfettamente
      comprese dagli stessi capi socialisti più serii; ma essi poco
      potevano fare contro la deliberazione dell'ostruzionismo presa
      dalla direzione del Partito; in obbedienza alla quale ogni
      deputato socialista era impegnato a presentare un ordine del
      giorno ed a svolgerlo e sostenerlo con un lungo discorso. 
      
      Ma l'ostruzionismo può essere una valida arma di lotta quando
      abbia dietro di sé ragioni serie e salde convinzioni; quando
      invece esso non è che un artificio ed un pretesto, alla lunga non
      riesce a sostenersi. Ed infatti l'ostruzionismo socialista contro
      la legge del pane, fu lungo, in ragione al numero grande di
      oratori iscritti a parlare contro, ma non energico; ed a vincerlo
      bastò molta pazienza da parte del governo e dei partiti che lo
      sostenevano. Con l'approvazione di quella legge il bilancio dello
      Stato fu sgravato di sei miliardi, e con gli altri miliardi
      forniti dalle nuove imposte sui guadagni di guerra, sulla
      ricchezza e sul lusso, e le riduzioni di spese, il disavanzo, che
      minacciava di travolgere l'intera amministrazione statale, fu
      ridotto a circa quattro miliardi e mezzo, ai quali poteva
      sopperire per un certo tempo il risparmio normale del paese. 
      
      Se l'opera di risanamento del bilancio dello Stato fosse poi stata
      continuata con pari energia, le condizioni della nostra finanza
      sarebbero ora assai migliori; ma pur troppo i piccoli interessi
      riuscirono a prendere il sopravvento sui grandi interessi del
      paese.
      
      Qualche settimana dopo la chiusura del Parlamento, che fra il
      maggio e la metà d'agosto aveva lavorato con efficacia ad un
      programma di restaurazione e di giustizia, imponendo quasi una non
      patteggiata collaborazione agli stessi socialisti, si ebbe, nel
      settembre del 1920, l'episodio cosiddetto della occupazione delle
      fabbriche, che causò impressione vivissima non solo all'interno,
      ma anche all'estero, e fu considerato quasi come l'inizio di un
      grandioso movimento rivoluzionario, consapevolmente condotto. In
      realtà quell'occupazione, con tutti i suoi episodi concomitanti,
      non rappresentò che lo sfogo supremo di quella situazione,
      rivoluzionaria sì, ma disordinata, che si era lasciata formare
      sotto il precedente Ministero. E che nell'occupazione delle
      fabbriche ci fosse una vera preparazione a scopo rivoluzionario,
      per parte almeno dei suoi più immediati istigatori, fu poi provato
      dal fatto che, dopo terminata l'occupazione furono sequestrate in
      molte delle fabbriche occupate, ed in ogni parte del paese, oltre
      a parecchie migliaia di fucili e rivoltelle e bombe a mano ed armi
      bianche di ogni genere, circa cento tonnellate di cheddite e di
      nitroglicerina. 
      
      Ed essendo da presumersi che molta parte delle armi e degli
      esplosivi fossero portati via nello sgombero, che fu compiuto
      dagli operai volontariamente e senza contrasti, quel notevole
      residuo così abbandonato può dare la misura della mole di quella
      preparazione. A un certo momento, durante l'occupazione, in un
      convegno indetto a Milano dalle varie organizzazioni socialiste,
      fu apertamente discusso se il movimento dovesse essere spinto ad
      una decisiva azione rivoluzionaria, e fu fortuna che prevalesse il
      buon senso, specie da parte delle organizzazioni che
      rappresentavano in modo più genuino le masse lavoratrici, evitando
      al paese episodi sanguinosi.
      
      L'occupazione delle fabbriche, per il modo con cui era avvenuta,
      presentava al governo tutta una serie di problemi, immediati e
      lontani; da quelli di semplice polizia a quelli di politica
      sociale. Gli operai che avevano effettuata l'occupazione, in ogni
      parte d'Italia, ma prevalentemente nella zona industriale della
      Lombardia, del Piemonte e della Liguria, non erano meno di
      seicentomila; e l'occupazione, provocata da una intempestiva
      minaccia di serrata da parte di alcuni industriali, che non
      avevano bene misurata la situazione ed i suoi pericoli, era basata
      sul concetto, da parte della massa degli operai, di poter essi
      gestire ed utilizzare le fabbriche senza intervento di capitalisti
      e dirigenti; mentre i caporioni comunisti si ripromettevano di
      fare uscire da quel movimento la vera e propria rivoluzione
      sociale, come era avvenuto in Russia, contrastati però in ciò dai
      socialisti laboristi più moderati, che in recenti visite avevano
      già potuto rendersi conto della reale situazione russa e dei mali
      infiniti che quella rivoluzione aveva inflitto non solo ai vinti,
      ma anche a quelli che parevano i vincitori. 
      
      Io ebbi, sino dal primo momento, la chiara e precisa convinzione
      che l'esperimento non avrebbe potuto a meno di dimostrare agli
      operai l'impossibilità di raggiungere quel fine, mancando ad essi
      capitali, istruzione tecnica ed organizzazione commerciale, specie
      per l'acquisto delle materie prime e per la vendita dei prodotti
      che pure fossero riusciti a fabbricare. Per tale aspetto dunque
      questo episodio rappresentava per me, in altre forme e condizioni,
      la ripetizione del famoso esperimento dello sciopero generale del
      1904, che aveva prodotto tanto spavento, per poi dimostrare la
      propria inanità; ed io ero fermamente convinto che il governo
      dovesse anche questa volta condursi come si era condotto allora;
      lasciare cioè che l'esperimento si compiesse sino a un certo
      punto, perchè gli operai avessero modo di convincersi della
      inattuabilità dei loro propositi, ed ai caporioni fosse tolto il
      modo di rovesciare su altri la responsabilità del fallimento.
      Questa convenienza politica più larga e lontana coincideva del
      resto con le convenienze immediate di polizia. 
      
      Io fui allora accusato di non essere ricorso all'uso della forza
      pubblica per fare rispettare la legge ed impedire la violazione
      del diritto privato; di non avere, insomma, né
      impedito
l'occupazione delle fabbriche da parte degli operai,
nò
      provveduto a cacciarli in ogni modo dopo che
l'occupazione era
      avvenuta. Ma ammettendo anche
che io fossi riuscito ad occupare le
      fabbriche prima
degli operai, ciò che sarebbe stato per lo meno
      assai diffìcile considerata la ampiezza e universalità
del
      movimento; mi sarei poi trovato nella assai poco
comoda condizione
      di avere pressoché la totalità della
forza pubblica di polizia,
      Guardie regie e Carabinieri, chiusi nelle fabbriche; senza quindi
      i mezzi di
mantenere l'ordine fuori delle fabbriche, cioè
      nelle
strade e nelle piazze nelle quali gli operai si sarebbero,
      rovesciati, ed avrei in tal modo fatto precisamente il gioco dei
      rivoluzionarii, che non avrebbero
domandato niente di meglio. Se
      poi, più tardi, fossi
ricorso alla forza pubblica per costringere
      gli operai a lasciare le fabbriche occupate, ne sarebbe nato
un
      vasto e sanguinoso conflitto, e con ogni probabilità le masse
      operaie che le occupavano, prima di
cederle alla forza pubblica le
      avrebbero devastate.
      
      Quindi, tanto le ragioni politiche quanto quelle economiche, e le
      convenienze immediate e quelle lontane,
coincidevano a consigliare
      quella linea di condotta
che io ho allora seguita. Quella mia
      condotta sul momento suscitò grandi allarmi e preoccupazioni;
      ed
ebbi pressioni di ogni genere perchè adottassi misure più
      energiche e mettessi fine con la forza ad
uno stato di cose che si
      considerava assai pericoloso.  
      
      A cose finite ebbi poi la soddisfazione che gran parte di quegli
      stessi che mi spingevano per quella via, riconobbero che quella da
      me seguita era la sola che potesse ricondurre alla tranquillità;
      con l'ulteriore vantaggio di togliere agli stessi operai molte
      illusioni pericolose inducendoli a cominciare a diffidare delle
      parole lusinghiere di chi li spingeva ad esperimenti che avevano
      dati risultati ad essi dannosi. Ho poi saputo con sicurezza che
      chi deplorò più vivamente la mia condotta, furono appunto quegli
      agitatori che avevano calcolato di prendere le mosse
      dall'occupazione delle fabbriche per arrivare ad un movimento
      rivoluzionario generale.
      
      Non occorse molto tempo perchè gli operai ed i loro capi più
      autorevoli e ragionevoli si rendessero conto che la posizione da
      essi assunta non poteva essere mantenuta; che le fabbriche venute
      in quel modo nelle loro mani, senza direzione tecnica ed
      amministrativa, e senza rapporti col mercato, non servivano a
      nulla; e in alcuni casi si ebbero curiosi episodi che confermavano
      questa dimostrazione; gli operai tentando di rapire nelle loro
      case quei direttori ed industriali che avevano voluto mettere
      fuori delle officine, per obbligarli a riassumere la direzione. Ma
      la situazione non poteva prolungarsi, e gli stessi dirigenti degli
      operai presero l'iniziativa e fecero passi per venire ad una
      soluzione, con lo sgombero delle fabbriche occupate. Le trattative
      a tale fine furono condotte fra i rappresentanti della
      Confederazione del lavoro da una parte, e quelli della
      Confederazione degli "industriali dall'altra; e furono iniziate a
      Torino personalmente da me, con l'intervento dei due prefetti di
      Torino e Milano, senatori Taddei e Lusignoli, e furono poi
      concluse a Roma, in una lunga riunione, i cui risultati furono da
      me riassunti col prò memoria seguente:
      
      «— Premesso che la Confederazione Generale del Lavoro ha formulata
      la richiesta di modificare i rapporti finora intercorsi fra datori
      di lavoro ed operai, in modo che questi ultimi, — traverso i loro
      Sindacati — siano investiti della possibilità di un controllo
      sulla industria, motivandola con l'affermazione che con simile
      controllo è suo proposito di conseguire un miglioramento dei
      rapporti disciplinari fra datori e prenditori d'opera ed un
      aumento della produzione, al quale è a sua volta subordinata una
      fervida ripresa della  vita economica  del  paese;
      «Premesso che la Confederazione Generale della Industria non si
      oppone a sua volta che venga fatto l'esperimento di introdurre un
      controllo per categorie di industrie, ai fini di cui sopra;
      «Il Presidente del Consiglio dei Ministri prende atto di questo
      accordo e decreta:
      «Viene costituita una Commissione paritetica, formata da sei
      membri nominati dalla Confederazione Generale della Industria e
      sei dalla Confederazione Generale del Lavoro, fra cui due tecnici
      o impiegati per parte, la quale formuli quelle proposte che
      possano servire al Governo per la presentazione di un Progetto di
      Legge, allo scopo di organizzare le industrie sulla base
      dell'intervento degli operai al controllo tecnico e finanziario, o
      all'amministrazione dell'azienda.    
      «La stessa Commissione proporrà le norme per risolvere le
      questioni relative alla osservanza dei regolamenti e
      all'assunzione e al licenziamento della mano d'opera.
      «Il personale riprenderà il suo posto. —»
      
      I rappresentanti degli operai avevano insistito con molta energia
      su questo principio che l'operaio fosse messo in grado di
      controllare in qualche modo l'andamento della industria, per
      accertarsi sopratutto che la sua rimunerazione fosse proporzionata
      ai guadagni che l'industria conseguiva; ed anche i più avveduti
      fra gli industriali, che sentivano già avvicinarsi la grave crisi
      industriale che ha poi colpito tutto il mondo, e che sapevano che
      le industrie generalmente non avrebbero potuto rispondere nel
      futuro immediato alle continue domande di aumento dei salari, e
      neppure mantenere i salari vigenti, non vedevano di mal'occhio che
      agli operai fosse dato il modo di constatare quale fosse veramente
      la condizione delle industrie.
      
      La Commissione fu poi composta; ma, come non era difficile
      prevedere, le due parti non riuscirono ad accordarsi su un
      progetto comune, e finirono per presentare due progetti fondati su
      principii diversi; gli operai per una parte sforzandosi di
      estendere il principio del controllo e gli industriali di
      limitarlo. Siccome io avevo assunto l'impegno di investire il
      Parlamento dell'arduo e complesso problema, nella mancanza di un
      progetto nel quale le due parti si fossero accordate, compilai io
      stesso un disegno di legge che fu subito presentato alla Camera,
      ed al quale io aggiunsi come allegati i progetti presentati dalle
      due parti, ed inoltre un terzo, compilato dal Partito popolare
      sullo stesso argomento, e fondato sul principio della
      partecipazione degli operai agli utili dell'azienda, senza però
      alcun accenno di controllo. A questo riguardo però io avevo
      osservato che quando si ammette il principio che l'operaio abbia
      diritto ad una quota degli utili, non gli si può negare di
      controllare quale sia il vero utile a cui ha diritto di
      partecipare, diventando egli in qualche modo un azionista. 
      
      Questo progetto presentato alla Camera, secondo l'impegno che io
      avevo assunto, fu però lasciato in disparte, e neanche il partito
      socialista ebbe più ad insistere per la sua discussione. Il che si
      spiega con la grave crisi industriale, la quale, già assai
      avanzata pure nei maggiori paesi industriali, quali l'Inghilterra
      e gli Stati Uniti, cominciò a farsi sentire in Italia appunto
      nella seconda metà del 1920, e si è poi sempre più incrudita. 
      
      Le organizzazioni operaie dovettero riconoscere la realtà di
      questa crisi, che non potrà essere superata che fra lunghi anni,
      col riassetto generale dell'economia mondiale; e preoccuparsi, più
      che delle tendenze ideali, dei problemi immediati della
      disoccupazione e della riduzione delle giornate di lavoro, con
      conseguente diminuzione di salari. 
      
      A mio avviso, il concetto del controllo o di un più diretto
      interessamento degli operai nelle vicende delle industrie in cui
      sono occupati, non ha nulla di rivoluzionario, e non è che una
      estensione dei rapporti che intercedono anche attualmente fra
      sindacati operai ed industriali per il regolamento dei contratti
      di lavoro e per la determinazione della misura dei salari; ma
      l'introduzione o l'estensione di riforme di tale carattere nella
      vita economica richiedono condizioni floride e non già tempi di
      crisi, più adatti a promuovere agitazioni e aspirazioni vaghe, che
      a fornire  gli  elementi  per  solide 
      costruzioni.
      
      Dopo la firma del Trattato di Rapallo, che con l'assetto
      definitivo delle nostre frontiere, lasciato sospeso nella
      Conferenza di Parigi, compiva l'unità nazionale entro i confini
      segnati dalla natura, s'imponeva al governo il dovere di chiamare
      i cittadini delle nuove Provincie a partecipare pienamente alla
      vita politica della nazione, eleggendo i loro rappresentanti al
      Parlamento.
      
      A questo fine si poteva giungere in due modi; o facendo elezioni
      parziali per le nuove Provincie, chiamando i loro rappresentanti a
      fare parte della Camera eletta nelle altre provincie del Regno coi
      Comizii del 1919; o indicendo elezioni generali che chiamassero
      contemporaneamente l'intero popolo italiano a determinare
      l'indirizzo politico, economico, culturale ed amministrativo che
      doveva essere dato al paese nel nuovo periodo storico che col
      grande avvenimento del compimento della unità nazionale si
      iniziava. Questo secondo modo appariva più degno, ed era inoltre
      confortato dai precedenti. 
      
      Nel 1866 si erano veramente fatte elezioni parziali, dopo
      l'annessione del Veneto, alla fine di novembre; ma poi soli tre
      mesi dopo la Camera, che pure non aveva che un anno e quattro mesi
      di vita, era stata sciolta, ed erano state indette elezioni
      generali, con che le nuove Provincie avevano avuto l'inconveniente
      di due elezioni politiche a tre mesi di distanza. E quattro anni
      più tardi, per l'occasione dell'annessione di Roma, si indissero
      le elezioni generali. Ma a queste considerazioni di carattere
      storico e morale, se ne aggiungevano altre di carattere politico,
      di più sostanziale importanza. 
      
      Le elezioni del 1919 erano state tenute in condizioni estremamente
      sfavorevoli, quando, sia per le difficoltà interne, sia per gli
      scacchi subiti nella Conferenza della pace, all'entusiasmo della
      vittoria era succeduto un grave periodo di agitazioni e di
      malcontento. Nell'autunno del 1919 l'Italia era ancora impegnata
      in guerra nell'Albania; la nostra posizione nell'Adriatico
      appariva debole e precaria, tanto che c'era da temere che gravi
      difficoltà di ordine internazionale, che non si era riusciti a
      superare, ci imponessero una soluzione del problema dei nostri
      confini orientali contraria ai nostri più vitali interessi; a
      Fiume si era creata una situazione che minacciava di dare origine
      a nuovi conflitti;  lo Stato  era sempre  sul 
      piede di  guerra.
      perchè vi era armistizio, non pace; e questa condizione di cose
      imponeva alla sua volta un regime di monopolio e di ingerenze
      statali di così vaste proporzioni da sopprimere quasi ogni libertà
      commerciale; infine la finanza dello Stato, con un disavanzo di
      almeno quattordici miliardi, poneva innanzi al Paese lo spettro
      del fallimento, con le terribili conseguenze che ne sarebbero
      derivate dalla completa svalutazione della moneta, dal fantastico
      aumento del costo della vita, dalla caduta di Istituti di credito
      e delle principali industrie; disastri questi che avrebbero
      colpito tutte le classi sociali, ma sopratutto, e in modo più
      duro, le classi lavoratrici. 
      
      Ed infatti codesta situazione, materiale e morale, del paese, ebbe
      appunto la sua espressione nella Camera uscita da quelle elezioni;
      non tanto pel gran numero dei deputati dei partiti estremi che
      erano stati eletti, quanto per lo spirito generale da cui era
      dominata, come apparve dalla sua stessa prima seduta pel discorso
      della Corona, che risultò in una affermazione tracotante degli
      elementi sovversivi, senza che gli elementi costituzionali si
      mostrassero disposti e pronti a presentare una energica
      resistenza.
      
      Le condizioni generali del paese in un anno e mezzo di tempo erano
      naturalmente mutate. Per il problema albanese si era ritornati
      alla nostra migliore tradizione, intesa ad assicurare le
      indipendenza dell'Albania, senza mire di dominio; il trattato di
      Rapallo ci aveva alfine data la pace, assegnando all'Italia i suoi
      confini naturali ed iniziando una politica di cordiali rapporti
      non solo coi jugoslavi, ma anche con gli altri popoli che avevano
      formato parte della Monarchia asburgese; la situazione di Fiume
      era stata risolta, assicurandone l'indipendenza e l'italianità ed
      eliminando i pericoli che potevano sorgere dalla irregolare
      posizione in cui quella città si era trovata per oltre un anno e
      mezzo. 
      
      All'interno lo stato di pace con tutte le sue conseguenze aveva
      ormai sostituito lo stato di guerra; al regime del monopolio
      statale succedendo quello della piena libertà commerciale. Infine,
      mercè l'eliminazione del sistema del prezzo politico del pane, e
      con l'applicazione delle imposte sui profitti di guerra, sulla
      ricchezza e sul lusso, il disavanzo del bilancio era disceso da
      quattordici a poco più di quattro miliardi; ad una cifra cioè che
      con la rigida applicazione delle imposte vigenti, con migliori
      ordinamenti che ne rendessero più efficace la riscossione, e con
      una forte politica di economie si aveva ragione di sperare che
      potesse in  un  tempo  non  remoto 
      essere   pareggiata.
      
      Era sempre stato, nel passato, mio fermo concetto che ogni
      legislatura debba compiere il ciclo consentito dallo Statuto, per
      poter così svolgere il programma pel quale il Paese ha affidato ai
      deputati la sua rappresentanza; ed a questo concetto io avevo
      sempre conformata la pratica nella mia opera di governo. Le
      ragioni sopradette mi persuasero però della convenienza, anzi
      della necessità, nel caso attuale, di derogare da tale pratica, e
      di chiamare, alla distanza di circa un anno, e mezzo dalle
      elezioni precedenti, il
      paese a manifestare le proprie tendenze politiche nelle
      condizioni di cose notevolmente mutate; tanto più che per certi
      problemi che io consideravo di primo ordine, e che erano parte
      integrale del programma con cui avevo assunto il governo, quale il
      problema della libertà della scuola e dell'esame di Stato, si
      erano manifestate, fra gli stessi partiti costituzionali dal cui
      appoggio il governo dipendeva, contrarietà ed incertezze che solo
      dal responso dei comizii generali potevano essere risolte. 
      
      Il programma col quale il governo si presentò alle elezioni non
      era che un proseguimento di quello annunciato e in parte attuato
      nei mesi precedenti, con più particolari richiami alle necessità
      di riforme nell'amministrazione dello Stato e ad una politica
      sociale intesa ad aprire nuovi campi di attività ed a dare nuovi
      mezzi di graduale elevazione alle masse popolari. Per lo
      svolgimento della lotta elettorale, considerando che la più grave
      debolezza dei partiti costituzionali liberali stava nel loro
      frazionamento, in confronto alla unione e compattezza dei
      socialisti e dei popolari, io consigliai la formazione di blocchi
      in cui tutte le forze dei vecchi, partiti liberali e democratici
      fossero raccolte.
      
      Le elezioni furono indette per il 15 maggio. Negli ultimi giorni
      non mi fu più possibile occuparmi del mio ufficio perchè colpito
      da atroce sventura, la morte di mia moglie Rosa Sobrero già da
      tempo malata, che morì il 10 maggio a Torre Pellice, dopo 52 anni
      di matrimonio passati nella più completa concordia. La stima
      universale che essa godeva per il suo elevato carattere diede
      luogo alle più commoventi manifestazioni di sincero cordoglio.
      
      Contro le elezioni si erano dichiarati violentemente i socialisti
      e il un gruppo di deputati che facevano capo all'on. Nitti,
      pronunciando perfino minaccie contro la Corona. Fra l'altro era
      stato addotto come argomento per ritardare le elezioni, le
      condizioni alquanto turbate di alcune provincie; ma a mio avviso
      la irrequietudine, che si manifestava appunto in episodi
      riprovevoli e dolorosi, era una ragione di più per accelerarle,
      perchè la manifestazione solenne della volontà del paese è la più
      grande delle forze morali per imporre a tutti di cessare dalle
      violenze ed inchinarsi alla legge. 
      
      Ad elezioni compiute, quegli stessi che le avevano deprecate
      credettero di trovare nei loro risultati la conferma della
      giustezza del loro punto di vista, in quanto che tali risultali
      non rappresentavano spostamenti di numeri tali da mutare
      decisamente la situazione. Tale giudizio era però assolutamente
      erroneo; né io mi ero ne proposto né aspettato un capovolgimento
      della situazione in tale senso, a cui fra l'altro si opponeva il
      sistema elettorale della proporzionale, che pare appunto sia stato
      inteso sopratutto, da parte dei suoi ideatori, ad impedire tali
      bruschi e radicali mutamenti, che venivano qualificati come
      rivoluzioni parlamentari, a cui appunto si prestava troppo,
      secondo loro, il sistema maggioritario. 
      
      Infatti, in confronto di quelle del novembre 1919 le elezioni del
      maggio  1921, dettero,  su circa otto milioni di
      votanti, uno spostamento di oltre mezzo milione di voti dai
      partiti sovversivi a quelli costituzionali; proporzione certo
      assai alta in così breve volgere di tempo, e che col sistema
      maggioritario e il collegio uninominale sarebbe stata sufficiente
      a ridurre di più della metà il numero dei deputati socialisti,
      comunisti e repubblicani eletti nei Comizi antecedenti; mentre
      tale spostamento di voti, col sistema proporzionale non poteva
      portare che allo spostamento da venti a trenta seggi, quale
      appunto si ebbe. 
      
      Ma, specie con l'uso di tale sistema, il risultato elettorale non
      va misurato solo col numero dei seggi guadagnati o perduti dai
      varii partiti, ma anche col carattere generale della nuova Camera
      che ne deriva. Ora indubbiamente la Camera eletta nel maggio del
      1921, riuscì ed apparve subito assai diversa, nel suo spirito, da
      quella uscita dalle elezioni del 1919. A parte la perdita di
      ventiquattro seggi da parte dei socialisti e comunisti, si ebbe in
      quelle elezioni un notevole miglioramento nella qualità degli
      eletti. In quelle elezioni entrò pure nel parlamento, con un
      manipolo di una trentina di deputati, la più parte giovani ed
      animati da spiriti combattivi, il partito fascista; ciò che io
      considerai cosa vantaggiosa, perchè il fascismo costituendo ormai
      una reale forza nel paese, era bene avesse la sua rappresentanza
      parlamentare, secondo il mio antico concetto che tutte le forze
      del paese devono essere rappresentate nel Parlamento e trovarvi il
      loro sfogo.
      
      Complessivamente la nuova Camera rappresentò anzi tutto una
      rianimazione delle forze costituzionali, che nella Camera
      precedente, specie nei primi mesi, erano apparse assai disanimate.
      
      La nuova Camera fu convocata per l'11 giugno, pel discorso della
      Corona, che ribadì nelle sue linee generali il programma che io
      avevo annunciato assumendo il governo un anno innanzi.
      
      Nei giorni seguenti si venne ad una discussione generale, nella
      quale il governo si trovò di contro, oltre i socialisti e gli
      altri elementi di costante opposizione, che gli rimproveravano le
      elezioni e la costituzione dei blocchi, anche i nazionalisti e la
      destra, che lo attaccavano per la politica estera e specie per la
      meschina questione di Porto Baros. Venuti ad un voto di fiducia,
      il governo ottenne una maggioranza di trentaquattro voti,
      infirmata però da una dichiarazione fatta dall'on. Girardini a
      nome del gruppo della Democrazia sociale, il quale, pure votando
      pel governo, faceva delle riserve sul significato del suo voto.
      Ora, è stata sempre mia abitudine di contare i voti di favore,
      dati con limitazioni e riserve, come dei voti contrari, quali essi
      diventano sempre, prima o poi, in una qualche successiva
      votazione, perchè chi vota con riserva ha già ragioni o la
      disposizione a votare contro. Nel caso attuale poi, il governo che
      io presiedevo essendo un governo di coalizione costituzionale,
      formato essenzialmente per l'attuazione di un programma, era
      evidente che il distacco di gruppi costituzionali importanti,
      toglieva ad esso l'autorità necessaria per compiere l'opera che si
      era proposta.
      
      Nei giorni che avevano preceduto il voto, io mi ero poi trovato
      personalmente in contatto con rappresentanti o porta voce dei
      varii gruppi costituzionali, dai quali avevo avuto vive premure
      perchè mi decidessi ad un rimpasto del Ministero. Io ho già
      espresso, in queste mie memorie, la mia ripugnanza a tale sistema
      dei rimpasti, che non mi è mai apparso ne politicamente utile, né
      leale verso i miei collaboratori. Nei Ministeri che ho presieduti
      io sono sempre stato, in tutto e per tutto, senza riserve e
      limitazioni, consenziente e solidale con la politica svolta dai
      miei colleghi, e non ho mai ammesso che si possa esimere il capo
      del governo delle responsabilità che toccano i suoi colleghi; ciò
      che non sarebbe nemmeno suo onore, perchè farebbe supporre che
      questi colleghi agiscano contro la sua volontà o a sua insaputa.
      Tutte queste ragioni, come erano valse per il passato, valsero
      anche questa volta a farmi dichiarare esplicitamente e formalmente
      a coloro che insistevano, esprimendomi fiducia personale, che io
      salvassi la situazione mediante un rimpasto, che ciò non intendevo
      di fare; aggiungendo che la politica del Ministro degli esteri,
      del quale più specialmente si chiedeva la sostituzione, era stata
      condotta in tutte le sue parti in pieno accordo con me. 
      
      Aggiungo che se anche io avessi accettata come sufficiente, per
      restare al governo, quella maggioranza apparente di treutaquattro
      voti, avrei poco dopo incontrato un altro ostacolo, tale da
      determinare da solo la crisi ministeriale.
      
      Io avevo presentato un disegno di legge, approvato ad unanimità
      dal Consiglio dei Ministri, coi quale chiedevo i pieni poteri per
      effettuare la riforma burocratica, resa necessaria per le
      condizioni del bilancio, per l'enorme numero di impiegati e di
      istituti inutili, e per la convenienza di dare maggiore efficacia
      e più sicuro indirizzo a molti servizii pubblici. A far ciò
      ritenevo indispensabili i pieni poteri, unico mezzo per superare
      la resistenza degli interessi di classe degli impiegati, e degli
      interessi locali, ai quali i deputati difficilmente possono
      resistere, e che uniti nella resistenza creano nella situazione
      parlamentare difficoltà invincibili. Io comprendevo perfettamente
      che il Ministero, quando avesse compiuta seriamente tale opera,
      avrebbe dovuto lasciare il potere con molte maledizioni di
      interessi privati offesi, ma, convìnto di rendere un servizio al
      paese, ero deciso ad affrontare così grave responsabilità. Però in
      quei giorni la direzione del partito popolare aveva deciso di
      negare al Ministero i pieni poteri, e l'opposizione già era
      incominciata nella Commissione incaricata di esaminare quel
      disegno di legge. Ora, senza il voto dei deputati popolari il
      disegno di legge non poteva essere approvato; e senza i pieni
      poteri una riforma seria era, a mio avviso, impossibile. Data una
      tale situazione, se anche la crisi non fosse avvenuta subito dopo
      il voto della
      Camera, sarebbe avvenuta pochi giorni dopo sulla questione della
      burocrazia, lasciando ai successori definitivamente compromessa la
      questione stessa.
      
      Quindi, la mattina dopo il voto, io convocai il Consiglio dei
      Ministri, ed osservai che dopo il distacco della destra e le
      riserve della democrazia sociale, il Gabinetto non poteva
      evidentemente contare più su una sicura maggioranza parlamentare,
      che gli desse modo di esplicare il concreto programma di riforme
      richiesto dalla situazione generale, economica e politica del
      paese. I miei colleghi approvarono unanimamente la mia
      interpretazione della situazione e le conseguenti decisioni, e
      dopo quindici minuti il Consiglio fu sciolto.
      
      Io mi recai immediatamente da Sua Maestà, a cui riferii le
      decisioni prese dal gabinetto di presentare le dimissioni. Ed alle
      tre dei pomeriggio il Ministero si presentò alla Camera, dove io
      lessi la seguente dichiarazione: — «Ho l'onore di annunciare alla
      Camera che, in seguito al voto di ieri, il Ministero ha
      considerato che la piccola maggioranza riportata dal Ministero,
      maggioranza il cui valore politico è diminuito da riserve fatte
      nel corso della discussione, non dà al governo la forza necessaria
      per affrontare le gravi questioni che si devono risolvere; e
      quindi ha presentate a Sua Maestà le dimissioni. Sua Maestà si è
      riservata di deliberare». — 
      
      Quando mi recai al Senato a ripetere tale dichiarazione, fui
      accolto dall'alto consesso con un applauso quasi unanime, che, lo
      confesso, mi fu di grande soddisfazione.
      
      Nei giorni seguenti mi furono rinnovate da ogni parte premure
      perchè io assumessi l'incarico della formazione del nuovo
      Ministero; ma mantenni il mio rifiuto, ed indicai al Re gli on. De
      Nicola e Bonomi, il quale ultimo formò poi effettivamente il nuovo
      governo.
      
      Nell'ultima adunanza del Consiglio dei Ministri,
tenuta il 1.°
      luglio 1921, avanti la consegna del governo al nuovo Ministero, i
      miei Colleghi mi presentarono, con grande cortesia, una specie di
      ben
servito, scritto da Benedetto Croce, e recante la loro
firma,
      e col quale mi è grato chiudere queste memorie della mia
      vita.    
      
      «Al nostro illustre Presidente, in questa ultima riunione del
      Consiglio dei Ministri, non abbiamo bisogno di dire con quanto
      desiderio ci separiamo da lui. Il nostro sentimento risponde a
      quello di tutto il popolo italiano, che in questi giorni mostra
      con mirabile unanimità di sapere ricordare e riverire. Ma ha anche
      qualcosa di particolare e di proprio: l'orgoglio di essere stati,
      in un periodo difficile e storico della vita nazionale, suoi
      collaboratori.»
      
      Raineri — Croce — Luigi Rossi — Facto. — Giulio Alessio — Sechi —
      Peano — Carlo Sforza — Luigi Fera — Pasqualino Vassallo — Marcello
      Soleri — Antonio Labriola — G. Micheli — Giulio Rodino.