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di R. Pertici
Nacque a San Severino Marche il 25 nov. 1857 da Nicola,
perito-geometra, e da Filomena Scalamonti, discendente da
un'illustre famiglia anconetana. Studiò nel seminario
vescovile della città natale e poi al liceo di Macerata. Nel
1876 s'iscrisse alla facoltà romana di lettere e filosofia,
conseguendo, nel 1878, il diploma di licenza (che chiudeva i primi
due anni di corso e abilitava all'insegnamento nelle scuole
secondarie inferiori) con una tesi su Manzoni e Diderot. La monaca
di Monza e La religieuse, data poi alle stampe a Milano nel 1884.
Abbandonò tuttavia gli studi universitari prima della laurea
e sempre si dichiarò un "autodidatta" (cfr. L'Archivio
Gonzaga di Mantova. La corrispondenza familiare, amministrativa e
diplomatica dei Gonzaga, Milano [ma Verona] 1922, p. 5). Assai
più importante fu per lui l'incontro con alcuni coetanei,
soprattutto con R. Renier, d'origine veneta ma marchigiano
d'adozione, che dirigeva ad Ancona il periodico letterario Preludio,
al quale il L. iniziò a collaborare nel 1880, e poi anche con
F. Novati, discepolo a Pisa di A. D'Ancona. Questi due giovani
fondarono e diressero dal 1883 il Giornale storico della letteratura
italiana e il L. partecipò intensamente ai primi anni della
nuova rivista, su cui si compì il suo apprendistato
scientifico.
La "scuola storica" e il metodo critico-erudito furono l'orizzonte
culturale all'interno del quale sempre si mosse nei suoi studi
letterari e poi in quelli storici. I primi riguardarono soprattutto
Pietro Aretino, Teofilo Folengo e specialmente la vita della corte
dei Gonzaga fra Quattro e Cinquecento: assai stretta fu la
collaborazione con Renier, con cui firmò una serie di
ricerche sulla figura di Isabella d'Este duchessa di Mantova e le
sue relazioni con poeti, artisti e letterati. La maggior parte di
questi lavori si avvalse della sua crescente familiarità con
l'Archivio Gonzaga custodito allora nell'Archivio del Comune di
Mantova, di cui - dopo il suo trasferimento in questa città -
divenne assiduo esploratore (curò poi il suo passaggio
all'Archivio di Stato, quando ne divenne direttore).
Il L. intraprese da subito anche un'intensa attività
giornalistica, sempre connotata da una tendenza schiettamente
conservatrice: fu redattore di diversi giornali marchigiani,
finché il 4 apr. 1882, su invito del mantovano G. Finzi, un
ex mazziniano passato alla Destra e allora deputato di Pesaro,
passò a dirigere la Gazzetta di Mantova.
Nella città lombarda il movimento patriottico-mazziniano
aveva avuto carattere spiccatamente rivoluzionario ed erano spesso
ex mazziniani ed ex garibaldini a guidare ora le prime
organizzazioni contadine, che avrebbero portato alle agitazioni de
"la boje!" del 1885: fra questi era L. Castellazzo, già
garibaldino e "internazionalista", nonché alta carica
massonica. Egli era stato coinvolto nei processi austriaci del 1852,
che si erano conclusi con le condanne a morte di Belfiore: G. Finzi,
anche lui implicato in quelle vicende, era fermamente convinto che
questo tragico esito fosse la conseguenza proprio delle sue
delazioni.
Quando il 21 sett. 1884 Castellazzo fu eletto deputato a Grosseto,
Finzi e il L. scatenarono sulla Gazzetta di Mantova una
violentissima polemica per impedirne la convalida, ma senza
successo.
La vicenda, in cui si intrecciavano rancori antichi e lotte
politiche recenti, lasciò nel L. tracce decisive: l'interesse
storiografico per i processi e le condanne del 1852-53,
l'animosità antimassonica e una lunga serie di scontri con la
democrazia radicale lombarda e il suo leader, F. Cavallotti. La sua
futura attività di storico sarebbe stata sempre mossa da
un'inesausta volontà polemica, che aveva un preciso obiettivo
politico: quello di ridimensionare il ruolo svolto dalle correnti
democratiche nel Risorgimento o di privilegiarne alcuni esponenti
(come avverrà per G. Mazzini), staccandoli quasi dal loro
mondo.
La sua vita giornalistica fu assai tempestosa per polemiche,
processi e duelli. Fra i processi, il più clamoroso fu quello
intentatogli per diffamazione da F. Cavallotti nel 1893, in cui il
L. fu condannato; per sottrarsi alla prigione, nell'agosto
espatriò, stabilendosi a Vienna. Fu un'altra svolta: nei
cinque anni che visse nella capitale austriaca (1893-98) egli
continuò a svolgere la propria attività giornalistica,
come corrispondente del Corriere della sera, ma abbandonò
gradualmente il giornalismo politico. Soprattutto mutarono i suoi
interessi di studioso: si tuffò nelle biblioteche e nello
Haus-, Hof- und Staatsarchiv di Vienna e intraprese una serie di
nuove ricerche, dapprima sul Rinascimento, poi sempre più
decisamente sul Risorgimento. Non erano mancate, anche negli anni
precedenti, sue incursioni nella storia sette-ottocentesca (Francesi
e giacobini a Mantova dal 1797 al 1799, Mantova 1890, dal tono
fortemente antigiacobino), ma è a Vienna che nasce il L.
"risorgimentista", l'autore dei lavori su Giuseppe Acerbi e la
"Biblioteca Italiana" (poi in Studi e bozzetti di storia letteraria
e politica, Milano 1910), Le cinque giornate di Milano nelle
narrazioni di fonte austriaca (Roma 1899), Antonio Salvotti e i
processi del Ventuno (ibid. 1901), Radetzky (Bergamo 1901), Il
processo Pellico-Maroncelli secondo gli atti ufficiali segreti
(Milano 1903).
Il L., da subito colpito dalla ben diversa valutazione che le fonti
austriache davano di fatti e uomini del Risorgimento italiano,
lanciò nei suoi lavori il canone metodologico dell'audiatur
et altera pars, introducendo un profondo cambiamento nel campo degli
studi risorgimentali, che molto contribuì a superarne il
carattere memorialistico o agiografico. Tuttavia non giunse quasi
mai a un corretto e maturo giudizio storico: nei suoi lavori resta
sempre evidente lo squilibrio fra l'importanza dei documenti
presentati e la capacità di valutarli storicamente (B. Croce,
Raccolte di fatti e giudizio storico, in La Critica, XXXI [1933],
pp. 79 s.).
Dopo la tragica morte di Cavallotti, il L. chiese la grazia (28
giugno 1898) e poté rientrare in Italia. Il 16 dic. 1898 il
Consiglio superiore degli archivi lo chiamava all'unanimità
alla direzione dell'Archivio di Stato di Mantova (benché egli
non avesse una precedente carriera archivistica) e il 15 genn. 1899
il L. prendeva possesso della sede.
Negli anni successivi venne gradualmente assumendo una posizione di
notevole rilievo negli studi risorgimentali, diventando il massimo
esponente di quella tendenza filologico-critica che cercava di dar
loro una base scientifica, soprattutto attraverso l'esame
sistematico delle fonti archivistiche, non solo italiane, ma anche
austriache, tedesche e britanniche, e la loro edizione (specie di
carteggi).
Il frutto più importante di questi anni fu I martiri di
Belfiore e il loro processo. Narrazione storica documentata, Milano
1905, che conobbe poi diverse edizioni rivedute e corrette fino a
quella postuma del 1951.
La fama di cui il L. godeva alla vigilia della prima guerra mondiale
(una testimonianza è in G.M. Trevelyan, Autobiography,
London-New York 1949, p. 33) era dovuta anche alla ripresa
dell'attività giornalistica come collaboratore, dopo il 1901,
della nascente "terza pagina" del Corriere della sera e della sua
rivista mensile La Lettura.
Qui il L. mostrò alcune delle sue qualità migliori in
una lunga serie di recensioni di libri di storia non soltanto
italiani (leggeva agevolmente il tedesco, il francese e l'inglese) e
in numerosi "bozzetti" e ritratti, scritti con notevole acume e
scioltezza (molti sono raccolti nei Profili biografici e bozzetti
storici, Milano 1906, e nei due volumi di Studi e bozzetti di storia
letteraria e politica, cit.).
Il rapporto col Corriere entrò in crisi fra il 1914 e il
1915: da sempre antirredentista (G. Licata, Storia del Corriere
della sera, Milano 1976, p. 157), egli disapprovò la scelta
interventista di L. Albertini, tanto che, nella primavera
successiva, interruppe la collaborazione al quotidiano milanese, che
avrebbe ripreso solo nel 1926 (cfr. le lettere di Albertini al L.
del 24 e 28 sett. 1914, e a F. Ruffini del 24 maggio 1915, in L.
Albertini, Epistolario 1911-1926, Milano 1968, I, pp. 281 s., 285,
361 s.). Il triplicismo del L. scaturiva da una piena adesione al
mondo germanico e alla sua cultura variamente "conservatrice", cui
aveva dedicato negli anni precedenti alcuni dei suoi saggi migliori,
come quello su Le lettere di Bismarck a sua moglie (poi in Profili
biografici e bozzetti storici, cit.). Il suo patriottismo, tuttavia,
gli impedì di appartarsi negli anni di guerra: licenziando
alla fine del 1915 la terza edizione de I martiri di Belfiore, la
dedicava "all'esercito nazionale che il sogno dei Martiri gloriosi
sta traducendo in realtà sfolgorante" e assai intenso fu
l'impegno suo e della moglie Marianna Mazzi (sposata il 15 ott.
1888) nell'assistenza ai soldati feriti (Pei feriti degli Ospedali
militari di Mantova (1915-1919). Resoconto di A. Luzio, Mantova
1919).
Alla fine del 1917, dopo la rotta di Caporetto, il L. dovette curare
il trasferimento dell'Archivio Gonzaga a Torino, per sottrarlo
all'eventuale invasione austriaca. Si trattò di un'altra
svolta nella sua vita: sarebbe infatti rimasto nella ex capitale
come soprintendente dell'Archivio di Stato dal 1( ag. 1918 fino al
collocamento a riposo (1( apr. 1931). Il contatto con la ingente
documentazione risorgimentale contenuta nella nuova sede introdusse
novità importanti anche nel suo lavoro di storico. Già
membro della Commissione cavouriana, da allora ne divenne
sostanzialmente l'arbitro, tracciando il programma dell'edizione dei
carteggi di Cavour (in Nuova Antologia, 1( luglio 1920). Il frutto
più importante dei primi anni torinesi fu la trilogia
mazziniana, che, con una serie di documenti di grandissimo valore,
innovò sostanzialmente la conoscenza della giovinezza e della
prima attività politica di Mazzini: La madre di Giuseppe
Mazzini. Carteggio inedito del 1834-1839 (Torino 1919); Giuseppe
Mazzini carbonaro. Nuovi documenti dagli archivi di Milano e Torino
(ibid. 1920) e Carlo Alberto e Giuseppe Mazzini. Studi e ricerche di
storia del Risorgimento (ibid. 1923), comprendente una prima parte
dedicata a Carlo Alberto e i processi politici del 1821-1834, e una
seconda di Studi mazziniani.
Con questo volume iniziava quell'apologetica rivalutazione di Carlo
Alberto, che poi il L. avrebbe portato avanti in svariati articoli e
che avrebbe costituito uno fra i tratti più notevoli della
storiografia risorgimentale "di regime" nel ventennio successivo (A.
Omodeo, Difesa del Risorgimento, Torino 1951, pp. 156 s.). Un
Mazzini antimaterialista e ostile alla mentalità massonica,
Carlo Alberto e anche Napoleone III erano stati per il L. gli
artefici del moto risorgimentale: questa visione lo induceva a un
ridimensionamento del ruolo di Cavour, operato spesso
implicitamente, per esempio rivalutando i suoi avversari politici,
come U. Rattazzi dopo il 1858 (Aspromonte e Mentana, Firenze 1935).
Nei primi anni torinesi il L. assistette alla nascita e all'avvento
del fascismo, da cui non fu subito conquistato: ancora nella
primavera del 1925 rimase estraneo alla "guerra dei due manifesti",
non firmando né quello di G. Gentile, né quello di
Croce. La sua adesione al nuovo regime si manifestò
soprattutto dopo la legge del 12 genn. 1925 contro le associazioni
segrete (in pratica contro la massoneria), la cui relazione
preliminare volle ripubblicata in appendice al secondo volume di La
massoneria e il Risorgimento italiano (Bologna 1925).
L'opera, che aveva avuto una lunga gestazione, appariva come una
vera e propria demolizione della setta condotta con un intento
polemico messo in evidenza da molti recensori (N. Rosselli, Saggi
sul Risorgimento e altri scritti, Torino 1946, pp. 335-346; A.
Omodeo, Difesa del Risorgimento, cit., pp. 447-450).
Negli anni successivi il L. divenne uno fra gli esponenti più
in vista dell'establishment storiografico del regime: nel 1929, al
momento della fondazione dell'Accademia d'Italia, egli che era
già socio di quella dei Lincei (corrispondente dal 10 ott.
1919, nazionale dal 25 nov. 1920) ne divenne membro e, dal 1932 al
1939, vicepresidente. Testimonianza della posizione raggiunta furono
i due volumi che gli furono offerti dagli archivisti italiani al
momento del suo pensionamento (Ad A. L. gli Archivi di Stato
italiani. Miscellanea di studi storici, Firenze 1933). Tuttavia il
vecchio polemista mantenne sempre un notevole fair play nei
confronti di non pochi storici antifascisti, spesso più o
meno esplicitamente critici verso la sua opera.
Lodò in due recensioni il Mazzini e Bakounine di N. Rosselli
(cfr. Riv. stor. italiana, XLIV [1927], pp. 180-189, nonché
Corriere della sera, 2 marzo 1927), segnalò con entusiasmo un
saggio di M. Ruini su P. Rossi (ibid., 27 nov. 1929); nel 1934, come
presidente della commissione per il premio sulla storia della Nuova
Antologia, assegnò il premio a N. Valeri; nel 1938 insistette
con C. Spellanzon perché accettasse il premio Mussolini
dell'Accademia d'Italia per la sua Storia del Risorgimento. Di
fronte al rifiuto di Spellanzon di accettare un premio intitolato al
"duce", riuscì a fargliene attribuire uno di incoraggiamento
di 5000 lire (Annuario della R. Accademia d'Italia, X-XII [1937-40],
p. 435; per il retroscena, cfr. la lettera di C. Spellanzon a E.
Rossi, Ussate-Velate [Milano], 1( marzo 1951, in L. Einaudi - E.
Rossi, Carteggio (1925-1961), a cura di G. Busino - S. Martinotti
Dorigo, Torino 1988, p. 394).
Fu invece oggetto di fiere rampogne da parte di Omodeo, che lo
accusò di rendergli praticamente impossibile - specie dopo la
sua stroncatura di Aspromonte e Mentana (A. Omodeo, Difesa del
Risorgimento, cit., pp. 573-590) - la consultazione dei documenti
cavouriani (Id., L'opera politica del conte di Cavour, Milano-Napoli
1968, pp. 425 s.).
Dopo il pensionamento il L. ritornò a Mantova, dove trascorse
l'ultima parte della sua vita, in cui tornò agli studi su F.
Orsini (Felice Orsini ed Emma Herwegh. Nuovi documenti, Firenze
1937), che sviluppavano la biografia pubblicata alla vigilia della
prima guerra mondiale (Felice Orsini. Saggio biografico, Milano
1914), e soprattutto agli studi verdiani, anche qui riprendendo suoi
antichi e radicati interessi (Per Giuseppe Verdi, Roma 1940).
Il L. aveva manifestato nei decenni precedenti sentimenti piuttosto
filosemiti (I martiri di Belfiore e il loro processo, cit., pp.
164-168) e ancora il 19 febbr. 1932 aveva chiesto al duce se "per
equità" non fossero da accogliere nell'Accademia d'Italia
"israeliti di fama insigne, soprattutto nelle discipline
fisico-matematiche", senza tuttavia assicurare loro una
"rappresentanza [(] eccessiva, per prevenire i pericoli di [(]
proselitismo semitico" (A. Capristo, L'esclusione degli ebrei
dall'Accademia d'Italia, in La Rassegna mensile di Israel, LXVII
[2001], p. 12). Dopo l'entrata in vigore delle leggi razziali,
accettò di far parte, senza peraltro partecipare ai suoi
brevi lavori, della Commissione per lo studio dei problemi della
razza istituita presso l'Accademia e in una lettera al presidente L.
Federzoni esaltò "la grandiosa e mirabile e generosa
legislazione del regime fascista, che disciplina la scabrosa urgente
questione ebraica" (Id., La Commissione per lo studio dei problemi
della razza istituita presso la R. Accademia d'Italia: note e
documenti, ibid., LXIII [1997], p. 98). Come presidente della classe
di scienze morali e storiche fu poi incaricato di contribuire alla
"bonifica del libro", secondo le indicazioni dell'apposita
commissione istituita presso il ministero della Cultura popolare.
L'obiettivo principale della selezione da lui coordinata furono i
volumi degli antifascisti delle origini, peraltro già
largamente assenti dal mercato librario, mentre la questione della
razza fu messa in secondo piano e si cercò di "scaricarla"
sulla classe di scienze fisiche (G. Fabre, L'elenco. Censura
fascista, editoria e autori ebrei, Torino 1998, pp. 179-182).
In una serie di articoli pubblicati nel Corriere della sera dal
settembre 1940 al gennaio 1941 volle dare una giustificazione
storico-ideologica all'intervento italiano a fianco della Germania
in chiave prevalentemente antinglese e propose all'Accademia
d'Italia di farsi promotrice di "una serie di pubblicazioni le quali
[(] svolgano le supreme ragioni della nostra guerra, distruggendo la
leggenda del liberalismo e della equità con cui l'Inghilterra
ha velato la sua politica rapace e feroce" (cit. in G. Turi, Lo
Stato educatore. Politica e intellettuali nell'Italia fascista,
Roma-Bari 2002, p. 118). Dopo l'armistizio, i giornali scrissero
"che, rivestitosi di non so qual divisa, pigliò -
ottantaquattrenne - [(] parte a certe manifestazioni repubblichine"
(A. Cajumi, Pensieri di un libertino, Torino 1970, p. 290).
Restò membro dell'Accademia d'Italia, alle cui rare sedute,
tuttavia, non pare abbia partecipato. Dopo la fine della guerra fu
radiato da quella dei Lincei (4 genn. 1946) per il contegno tenuto
nel periodo fascista.
Il L. morì a Mantova il 22 ag. 1946, senza che la sua
scomparsa destasse echi diffusi.