Articoli su A.Oriani


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01 giugno 1989

Nicola Tranfaglia   

ALFREDO E I SUOI NIPOTI

CHI era Alfredo Oriani? Se provassimo a porre questa domanda anche a quelli delle nuove generazioni che studiano all'università letteratura o politica, fuori dalla Romagna, in cui visse lo scrittore nato a Faenza nel 1852 e morto a Casola Valsenio, provincia di Ravenna, nel 1909, con alle spalle una produzione, tra racconti, romanzi, saggi, pamphlet, che avrebbe riempito ben trenta volumi quando uscì l'opera omnia, pochi saprebbero rispondere. Eppure fino a pochi anni fa l'orianesimo era abbastanza diffuso tra giornalisti e studiosi cresciuti durante il regime fascista, che avevano fatto parte indifferentemente della sua ala rivoluzionaria o della fronda, trasformatasi in opposizione nei tardi anni Trenta e nei primi anni Quaranta. E non a caso: tra i letterati del post-Risorgimento, Oriani era stato uno di quelli che si erano posti con maggior continuità e insistenza il problema della storia d' Italia come biografia nazionale: aveva scavato all'indietro per cogliere le radici dei problemi e delle contraddizioni che avevano caratterizzato le vicende pre e postunitarie, ricavandone una critica ambigua, ma proprio in quanto tale adatta a tutte le utilizzazioni. Si pensi solo al fatto che la pregiudiziale antimonarchica e la critica al Risorgimento come rivoluzione mancata e vittoria moderata, sarebbero diventati cavalli di battaglia sia dell'ala rivoluzionaria ed estremista del movimento fascista, sia dell'opposizione antifascista (in tutte le correnti di sinistra).

D'altra parte, se Oriani ne La lotta politica in Italia (forse la sua opera più nota e, per certi aspetti, la più riuscita) aveva sostenuto sia pure con una retorica insopportabile tesi come queste, in altre (come ne La rivolta ideale o Fino a Dogali) aveva insistito sull'unità della storia d' Italia da Roma fino al XIX secolo, e aveva sognato la costruzione di quell'impero che proprio Mussolini avrebbe fatto sorgere sui colli fatali dell'Urbe. Non c' è dunque da stupirsi se quasi contemporaneamente Mussolini, ancora socialista, e nazionalisti come Corradini e Federzoni ne evocassero la figura e l' opera per chiamare gli italiani alla lotta contro la classe dirigente liberale e (nel caso dei nazionalisti) alla grandezza imperiale. Che cosa si vuol dire con questo? Semplicemente che la critica allo Stato liberale e alla prosa giolittiana fu (come Salvemini riconobbe nel secondo dopoguerra introducendo il volume dell' americano Salomone sull' Età giolittiana, ristampato in questi giorni dalla Nuova Italia) un bagaglio comune della destra e della sinistra nel crepuscolo di quell'età; e che un personaggio di letterato-politico come Alfredo Oriani sembrava prestarsi magnificamente alla monumentalizzazione in un senso o nell' altro: sia pure con un' indubbia forzatura rispetto all' ambiguità, e dunque anche alla complessità, della sua opera di scrittore e di polemista.

Ma Mussolini e i nazionalisti, non appena conquistato il potere nell'ottobre 1922, furono lesti ad appropriarsi del personaggio e del mito nato intorno a lui, bisognosi come erano di creare i precursori del regime: quelli che una collana editoriale sorta nel 1927 avrebbe definito i prefascisti, confondendo in un unico mucchio personaggi diversissimi, da Francesco Ferrucci a Enrico Corradini, da Giovanni dalle Bande Nere a Gabriele D' Annunzio, dai fratelli Bandiera a Ippolito Nievo. Oriani, come abbiamo detto, si prestava assai bene all'operazione, solo che si fosse messo la sordina a motivi non secondari della sua opera, come la fede repubblicana. Bisogna dire che in questo tipo di monumentalizzazioni Mussolini eccelleva, anche perché non aveva nessuna difficoltà a sorvolare su sue precedenti affermazioni di segno contrario. Così se nel 1915 il futuro duce aveva esaltato sul Popolo d' Italia la fede antimonarchica di Oriani e la sua critica spietata alla politica estera triplicista dei Savoia, nove anni dopo affermava che se Oriani fosse ancora tra i vivi, avrebbe preso il suo posto all'ombra dei gloriosi gagliardetti del Littorio e ne esaltava l' opera di anticipatore del Fascismo, di esaltatore delle energie italiane, tacendo prudentemente su quegli aspetti centrali della sua opera che avrebbero fatto a pugni con la diarchia monarchia-fascismo instauratasi in Italia all'indomani della marcia su Roma.
Né si fermava a questa generica esaltazione: nell'aprile 1924, accogliendo l' invito di un fascista bolognese, lo stesso Mussolini promuoveva e guidava la marcia al Cardello (ultima dimora di Oriani) delle camicie nere romagnole, dichiarava il Cardello monumento nazionale e creava qualche anno dopo l' Ente Casa di Oriani che doveva costituire il centro di un culto del precursore, praticato con cerimonie e manifestazioni a vari livelli: a cominciare dall'edizione dell' Opera Omnia dello scrittore pubblicata dall'editore Cappelli e formalmente curata da Mussolini stesso. In questo senso non si trattava come osserva a ragione Giampasquale Santomassimo, autore di un denso saggio introduttivo all'utile volume di Massimo Baioni su Il fascismo e Alfredo Oriani (Longo editore, pagg. 330, lire 30.000) solo di un' operazione propagandistica, ma dal bisogno profondo di trovare nel passato i fili di una continuità che spiegasse e giustificasse il cammino che separa il Risorgimento dal regime fascista, e più indietro ancora. Del resto, come osserva ancora Santomassimo, l' invenzione della tradizione non è un procedimento che si possa ascrivere al fascismo più che ad altri movimenti e regimi, o alla destra piuttosto che alla sinistra.

Ci troviamo invece, in casi come questi, di fronte a un' esigenza fondamentale dei moderni regimi di massa; e studiare un mito come quello di Oriani e delle sue applicazioni durante il ventennio fascista significa poter ricostruire (in modo forse più penetrante che volgendo l' attenzione alle manifestazioni direttamente ideologiche del regime) l'universo di valori cui il fascismo si richiamò nella sua ascesa come negli anni del maggior successo, e distinguere anche al suo interno gli accenti diversi con cui a quel mito si richiamano le differenti tendenze del movimento. Diverso è, per fare un esempio, il modo in cui Oriani viene trattato da intellettuali come Giovanni Gentile e Alfredo Rocco. Per il primo, che concepisce il fascismo come lo sbocco del Risorgimento, lo scrittore romagnolo è uno dei molti critici del parlamentarismo liberaldemocratico; per il secondo, che vede nel fascismo la diretta continuazione del Risorgimento, rimuovendo il periodo servile posto tra i due, Oriani è un gigante che lotta solitario contro il suo tempo. In altri termini, per l'ala moderata del fascismo, di cui il filosofo idealista fa parte, Oriani è uno dei tanti precursori, e non il più importante. Per l'ala radicale cui appartiene il giurista creatore dello Stato fascista, invece, lo scrittore ha un posto di assoluto rilievo.

Del resto, la tradizione fascista si stabilizza soltanto negli anni Trenta e anche allora conserva margini di ambivalenza e di vaghezza di provvisorietà. Nel 1928, ad esempio, un letterato nazionalfascista come il torinese Vittorio Cian decide di fissare una sorta di sistemazione critica dei precursori, distinguendoli in remoti (e ci mette chissà perché Dante Alighieri), vicini o prossimi (e ci mette Napoleone Bonaparte!), infine gli immediati o necessari, e qui prendono posto Carducci, Crispi, Oriani, Corradini e Federzoni. Manca non a caso D' Annunzio che a Cian non piace e che non è gradito neppure al duce, il quale pure ne ha saccheggiato riti e modalità di approccio alle masse.

Oriani peraltro, come la ricerca di Baioni dimostra assai bene, fu tra i precursori quello più e meglio utilizzato dai regimi negli anni Venti e Trenta. Ed è agevole capire perché: rispetto ad altri personaggi magari più importanti ma più lontani il suo mito aveva maggior presa perché si riferiva a una vicenda (la critica e la lotta contro lo Stato liberale) di cui tanto Mussolini quanto la maggior parte dei leaders fascisti erano stati partecipi prima di conquistare il potere. Non solo: a differenza di altri, non c' era nessuno che potesse rivendicarne un' eredità in qualche modo dissonante o concorrente rispetto alla soluzione fascista. E questo era il caso, al contrario, di un personaggio come Gabriele D' Annunzio, ingabbiato al Vittoriale ma pur sempre espressione di una possibile soluzione nazionalsindacale in qualche modo concorrente di quella mussoliniana.

Di qui l' ininterrotta fortuna del mito di Oriani durante tutto il ventennio, malgrado la diversa interpretazione della sua opera che oppositori del fascismo (basta pensare a Piero Gobetti e alla sua Rivoluzione liberale) avevano tentato di proporre negli anni Venti e ancora nei primi anni della dittatura. Soltanto con il crollo fascista la figura dello scrittore romagnolo fu liberata dalle incrostazioni propagandistiche e cominciò ad essere studiata per quello che effettivamente era stata. Ma Oriani conserva qualche attualità? si chiederà oggi il lettore. Posso rassicurarlo: interessante per capire l' Italia liberale e l'uso che ne fece il fascismo, oggi la sua opera non ci dice nulla di nuovo o di attuale. E contiene, ahimé, molta retorica.

da http://archiviostorico.corriere.it

21 agosto 2002

L' uomo che mise d' accordo Mussolini e Gramsci

Giovanni Belardelli

L' immagine prevalente di Alfredo Oriani, a centocinquant' anni dalla nascita (il 22 agosto 1852 a Faenza), è ancora oggi quella di un autore tutto sommato marginale, che ebbe influenza soltanto o quasi come elaboratore di temi nazionalisti e colonialisti ripresi poi dal fascismo. Si tratta però di un' immagine falsa. Certamente il regime diede vita a un vero e proprio culto di Oriani. Ma che la sua influenza sia stata assai più ampia lo dimostra il fatto che di lui diedero giudizi molto positivi anche Gramsci e Gobetti. Quella di Oriani fu una fortuna postuma. Nel 1892 poté pubblicare solo a sue spese La lotta politica in Italia, un' ambiziosa ricostruzione storica che conteneva anche l' esame delle deficienze che, secondo il suo autore, avevano caratterizzato il Risorgimento. Ma del libro nessuno si accorse. Sorte non molto migliore toccò ai suoi romanzi. Proprio la mancanza di attenzione da parte dei contemporanei determinò in Oriani certe pose da genio incompreso e quel suo modo perennemente accigliato e offeso di guardare all' Italia del tempo. Le cose cominciarono a cambiare nel 1909, con l' elogiativo saggio che gli dedicò Croce, arruolandolo nella battaglia antipositivista e neoidealista che stava conducendo. Ma Oriani morì solo pochi mesi dopo quello scritto. Sulla via aperta da Croce si affollarono subito gli esponenti delle avanguardie letterarie del tempo, a cominciare dai collaboratori della Voce di Prezzolini, tanto che il 1912-13 fu definito «l' anno di Oriani». Nei testi dello scrittore romagnolo molti giovani intellettuali ritrovavano un giudizio analogo al loro sulla «decadenza ideale» che aveva colpito la giovane nazione italiana. Ma vi trovavano anche l' individuazione delle cause di tale decadenza nei modi in cui l' unificazione del Paese si era compiuta. Per Oriani quella italiana del 1859-60 era stata infatti una rivoluzione a metà, poiché il nuovo Stato non era nato per opera del popolo ma attraverso il «sopruso eroico» di minoranze audaci e consapevoli, aiutate da «incidenze e coincidenze straniere». Di lui gli intellettuali «vociani» apprezzavano la concezione eroica della politica, la critica della democrazia livellatrice e materialista, l' esortazione alla ripresa di una «rivoluzione italiana» troppo presto interrotta: tutte idee che ben si sposavano con il loro rifiuto della «prosaica» Italia giolittiana e con il vago senso di inquietudine e di ribellione dal quale essi erano animati. La rivoluzione veniva intesa da Oriani essenzialmente come una «rivolta ideale» (così suonava il titolo di un suo scritto uscito nel 1908), nella quale un ruolo decisivo sarebbe dovuto spettare proprio alle avanguardie intellettuali. Per uscire dalla decadenza presente Oriani invitava l' Italia a divenire consapevole della propria «missione» internazionale: ciò rappresentava, nello stesso tempo, l' ultima eco di un' idea mazziniana (le opere di Oriani sono piene di espressioni prese di peso da Mazzini) e la traduzione di aspirazioni e concetti propri dell' età dell' imperialismo. Uno dei caratteri precipui degli scritti storico-politici di Oriani, ciò che ne fondava l' intima ambiguità, che faceva di lui un autore per intenderci insieme di destra e di sinistra, stava appunto nella circostanza che lo scrittore romagnolo traghettava l' eredità mazziniana e garibaldina, in cui si era formato, nell' epoca nuova dei nazionalismi aggressivi. Attraverso la sua interpretazione del Risorgimento e dell' Italia unita Oriani influenzò come forse nessun altro il modo in cui tutto il «sovversivismo» italiano del primo ' 900 (le avanguardie intellettuali e i politici rivoluzionari di opposto colore) guardò alla storia nazionale, concepita come un fiume il cui corso dovesse essere raddrizzato a forza. Mussolini confessò più volte, prima da socialista e poi da fascista, di essere un «lettore assiduo e devoto» di Oriani. Gobetti scrisse: «Tra i nostri padri egli è stato il solo a insegnarci l' idea della storia». Fu anche per la suggestione di un «padre» del genere che egli poté concepire un liberalismo tanto confuso da poter includere perfino Lenin e Marx. Nei Quaderni del carcere di Gramsci il nome di Oriani ricorreva spesso. Degli scritti del romagnolo varie cose a lui non piacevano; sottolineava tuttavia come andassero studiati con attenzione per la posizione sinceramente «nazional-popolare» che vi era presente. Proprio le fortune postume di Oriani confermano dunque un carattere di fondo della nostra storia: il fatto cioè che il fascismo, il gobettismo, il comunismo gramsciano affondavano una parte delle loro radici nel medesimo humus culturale primonovecentesco. Forse è proprio l' imbarazzo, ancora oggi, a riconoscere una tale circostanza ciò che impedisce a molti di vedere in Oriani una figura certamente più complessa e più influente di quanto non appaia dalla vecchia immagine che ne fa soltanto il «precursore» di Mussolini.

http://www.romagnanoi.it/news/cultura-eventi/

Giovanni Zaccherini

05/Novembre/2012

Sì, molta parte del pensiero politico di Alfredo Oriani fu alla base dell’ideologia fascista e Mussolini se ne appropriò a ragion veduta: questa la tesi di Rodolfo Sideri in “La Rivoluzione Ideale di Alfredo Oriani”, appena uscito per le “edizioni Settimo Sigillo”.  Premesso che l’opera più significativa del pensiero politico del “solitario del Cardello”,  “La lotta politica in Italia” è, secondo Sideri, non tanto una storia della politica, ma una politica della storia, l’autore ne esamina alcuni punti fondamentali, trasfusi poi nella “rivoluzione conservatrice” del Fascismo.
Primo fra tutti, la sfiducia nella democrazia rappresentativa liberale e la certezza che la storia sia opera di minoranze attive; il nazionalismo e l’ auspicio che l’Italia potesse e dovesse avere un ruolo importante nel consesso europeo ed internazionale;  il colonialismo, con la pretesa di una missione civilizzatrice in plaghe ancora “barbariche”; il laicismo, in funzione di uno stato autonomo dalla Chiesa; la difesa dell’istituto familiare tradizionale e la negazione del divorzio, non tanto per ragioni di carattere etico o confessionale, ma perché pericoloso per la procreazione e l’educazione dei futuri cittadini.
Ma Oriani, più che  ideologo e  storiografo, fu romanziere e acuto osservatore della realtà e della società e le sue tesi furono spesso caratterizzate da feconde contraddizioni che aprirono spiragli innovativi su momenti chiave della storia italiana: ad esempio, il “Risorgimento”. Come si poteva, infatti, rivendicare un ruolo aggressivo della nostra nazione, quando il suo non lontano processo fondativo non era stato che  “l’eroico sopruso di una minoranza intellettuale sulla passività recalcitrante delle masse”? Non solo, ma delle stesse esaltate figure dell’unificazione,  viene salvato il solo Garibaldi, mentre i politici e gli amministratori che avrebbero dovuto continuare e realizzare le premesse e le promesse risorgimentali, avevano sprofondato la neonata nazione in un pantano di ignoranza e corruzione.
Oriani ebbe anche l’intuito di capire come le soluzioni per la struttura del nuovo stato: centralismo o federalismo, fossero entrambe problematiche e come, se da una parte avrebbe potuto prevalere l’egoismo dei vecchi stati regionali, dall’altra la “piemontesizzazione” stava cancellando consuetudini e statuti spesso più civili e avanzati dei nuovi. A questo proposito, fu uno dei primi e più coraggiosi “revisionisti” del cosiddetto “brigantaggio” meridionale e pur condannandolo come un moto di retroguardia e dettato da un “patriottismo di municipio … ignorante, aspro, inconciliabile”, sottolineò che aveva messo nella rivolta “una poesia capace di rinnovare i prodigi del valore garibaldino” costringendo i “piemontesi” “ a una guerra di sterminio così orribile di ferocia  che si dovette e si deve ancora nasconderla alla storia”.
Certo, tutto questo non poteva essere ammesso o far parte del patrimonio ideologico del Fascismo, anche perché, un movimento politico che si basava su certezze apodittiche, non poteva lasciar spazio a dubbi e demitizzazioni, d’altra parte, anche all’interno degli stessi intellettuali mussoliniani, ci fu chi vide con sospetto l’esaltazione del ruolo profetico dello scrittore di Casola Valsenio, come scrisse Giulio Bruno Bianchi, che negava che potesse essere considerato un prefascista : “Il fascismo non ama né i solitari, né gli spiriti irati, né i tormentatori di sé: Oriani, con le sue lunghe gambe, non andrebbe a passo nei ranghi ...”

da www.literary.it/dati/literary

Antonietta Benagiano

L'hegeliano contro corrente da rileggere

Alfredo Oriani il dimenticato

“Voi avete sentito che la mia opera è vera, potente, forse la giudicate troppo potente, temete che il pubblico possa seguirla. Ebbene, il pubblico mi seguirà, perché la via che io batto è fatale, perché per ora sono solo a batterla”.
Queste parole di Alfredo Oriani (Faenza 1852, Casola Valsenio 1909), dalle quali traspare una forte autostima, appaiono segno di una personalità indubbiamente proiettata verso grandi realizzazioni. Dovettero piacere molto a Benito Mussolini, come La rivolta ideale, dove Oriani sosteneva la necessità di uno stato forte. Così, almeno post mortem venne esaltato, infatti fu proprio il Duce ad interessarsi a che fosse pubblicata l’Opera omnia e gli fosse anche eretto a Roma un monumento sul Colle Oppio.
Varie le celebrazioni nel corso del 2009, ed hanno fatto la parte del leone il centenario del Futurismo e il ventennale della caduta del muro di Berlino. Così sono passate quasi sotto silenzio altre ricorrenze, anche il centenario dalla morte di Alfredo Oriani, poeta e scrittore poco noto alle nuove generazioni.

Lo spirito, lì dov’è, l’avrà sentito come altra ingiustizia verso la sua scrittura, pari a quella sperimentata al tempo della esistenza terrena, durante la quale non poche furono le frustrazioni che accentuarono in lui certi aspetti del carattere. Aveva infatti amato e rincorso una notorietà che, almeno nelle forme attese, non gli era arrivata, forse anche perché, a differenza di D’Annunzio, indubbiamente di ben altra tempra ma pure gran maestro nel far parlare di sé, non era molto abile nel mettersi in mostra. Sappiamo bene quanto contino le strategie per rendersi visibili ed acquisire quella notorietà che soprattutto oggi, nel predominio della immagine – ma non solo –, viene spesso attribuita al di là dello stesso valore. Sta anche in ciò la differenza della società attuale.
Alfredo Oriani, terzogenito di una "famiglia aristocratica di campagna ma senza lustro vero", (Lettere), visse una infanzia non calorosa di affetti, perciò crebbe scontroso e solitario. Frequentò il Collegio San Luigi a Bologna, proseguì gli studi a Roma presso la Pontificia Sapienza e si laureò poi in Giurisprudenza a Napoli, ma ai tribunali preferì la frequentazione di salotti letterari e politici, particolarmente quello di Laura Minghetti, moglie dello statista, dove conobbe Angelo Camillo de Meis, docente di Storia della Medicina all’Università di Bologna ma amante anche di approfondimenti filosofici – Hegel in modo particolare –, di conversazioni con l’amico Spaventa che considerava suo maestro.

De Meis trasmise al giovane Oriani l’amore per il pensiero hegeliano che sarebbe rimasto fermo in lui e lo avrebbe reso insensibile all’imperante positivismo e darwinismo.

Siamo nella seconda metà dell’Ottocento con un romanticismo e idealismo ormai alle spalle, con fervori reazionari contrari all’idealismo ed un orientamento verso la metafisica naturalistica che bolla di apriorismo e quasi di teologismo tutta la metafisica postkantiana.

Oriani si forgiò, invece, ad un idealismo che non avrebbe abbandonato mai e sarebbe rifluito nella concezione della storia, ritenuta impossibile da tracciarsi senza un disegno, senza ammettere un principio. Ogni popolo, dal punto di vista storico, è per lui un attore che recita una scena per poi ritirarsi, ed ogni stato è l’individualità di un popolo. La storia non può quindi ricostruirsi senza una linea filosofica, e quella che si coglie nelle sue opere storiche risente indubbiamente del filosofo di Stoccarda.
Croce, il primo a porre in rilievo Alfredo Oriani nel Saggio del 1908, considerando la filosofia metodologia della storia, delucidazione dei concetti direttivi dell’interpretazione storica, identificando quindi filosofia e storia, questa come processo ideale ed eterno, non può, proprio in virtù di ciò, non manifestare apprezzamento verso le opere storiche dello scrittore faentino. Trascura infatti la raccolta poetica Monotonie – l’aveva del resto bollata lo stesso autore –, tratta brevemente il narratore, pur sostenendo che il romanziere non è inferiore allo storico, stronca i romanzi giovanili (Memorie inutili, Al di là, No…) che avevano dato l’impressione di uno scrittore “di tendenze malsane, d’idee confuse, di forma gonfia e arruffata”, considera quelli della maturità.
Le prime esperienze, intrise del torbido di moda anche se non prive di spunti interessanti, non adeguatamente curate nell’impianto ed eccessivamente retoriche, nocquero alle pubblicazioni successive più equilibrate e interessanti, sia alle raccolte di racconti (La bicicletta, Oro,incenso,mirra) sia ai romanzi più importanti (La disfatta, Gelosia, Vortice, Olocausto), dove i personaggi appaiono, a nostro avviso, ben delineati, le situazioni esposte con sobrietà di scrittura, talora con pathos.

Giustamente Croce evidenzia La disfatta che considera “il più ricco d’idee che abbia la contemporanea letteratura italiana”, con “il mondo del suo sogno: una società di spiriti nobilissimi, donne dall’intelletto alto e dal cuore sensibile, uomini che sono filosofi, artisti, esploratori, scienziati, dei quali intende le ansie e le lotte, gli abbattimenti e i voli”.
La disfatta è solo apparentemente un fallimento della vita se il personaggio De Nittis, pur nel pieno di una solitudine che gli si presenta come vuoto devastante, riesce a trovare ancora uno scopo nella ricerca del mistero.
Ma Croce si sofferma maggiormente sulle opere storiche (Fino a Dogali, La lotta politica in Italia, La rivolta ideale), afferma che v’è ne La lotta politica in Italia il concetto di libertà, vista come principio e scopo della storia, e riporta la concezione di Stato come “individualità di un popolo, capace di sentire sé stesso nella contraddizione della propria continuità e nella opposizione con gli altri popoli”. Gli dà merito di essere “scrittore e polemista assai logico”, pur se “non è un logico”, “moralista acuto”, ma non “filosofo della morale”, di essere quindi addentro ai concetti hegeliani e di ripeterli, ma di non essere costruttore di un sistema filosofico. Anzi talora annuncia delle perplessità sulla comprensione piena di Hegel, poiché gli sembra che Oriani non deprivi del tutto la storia del mistero storico.

La filosofia della storia non gli nasce, scrive il filosofo, “dalle viscere stesse del Logo”, e riporta quanto avvertito dallo stesso Oriani ed espresso nella premessa a La rivolta ideale: “Noi chiamiamo leggi della natura le apparenze costanti dei suoi fenomeni, e, guardando nella storia, siamo costretti a scegliere le sue verità nei fatti e nelle forme che non vi mutano; poi, la bellezza e la giustizia, irresistibili nell’istinto, diventano l’inconsapevole norma dei nostri giudizi, l’illusione e insieme la certezza del nostro ideale”.

La rivolta ideale è, a nostro avviso, l’opera storica che, nella rivisitazione della Unità d’Italia di prossima celebrazione, andrebbe riletta e posta all’attenzione per la visione al di sopra di ideologie mazziniane, federaliste e monarchiche, di cui analizza i limiti. Oriani, oltre a ribadire la pecca di una rivoluzione non “opera di popolo” ma “sopruso eroico della sua minoranza, aiutata da incidenze e coincidenze straniere”, a condannare una Destra che si era “improvvisata una nazione nella libertà” mentre realizzava soprusi e attuava il suo giacobinismo, annuncia chiaramente quel che si era verificato nell’accettazione forzata della monarchia, il peggioramento delle condizioni di taluni stati preunitari.
Noi pensiamo alla decadenza del Sud dopo l’Unità, al sorgere della Questione Meridionale, prima inesistente, alle industrie e al primato del Sud precedente, alla sua moneta stabile, a certi documenti mai posti all’attenzione, ai travisamenti della storiografia ufficiale.

Pensiamo a quel che Oriani aveva previsto sarebbe stato della monarchia, il suo futuro respingimento.
La rivolta da lui auspicata è da intendersi come una “nuova aristocrazia” da realizzarsi con tutti i gruppi sociali, una nobilitazione di vita e storia nelle forme, in una non mutazione della essenza. E’ indubbiamente una rivolta speciale che parte dalla interiorità di ciascuno per divenire attuazione di forme nuove con cui soltanto può nobilitarsi il cammino umano.
Mussolini, esaltandolo come precursore del fascismo, indusse Croce a frenare ogni eccesso nel nuovo saggio del 1935, dove con maggiore forza viene annunciato che il merito di Oriani storiografo sta in una opposizione intellettuale ai suoi tempi imbevuti di positivismo, quello del romanziere in un animo poetico.
Anche il Duce gli nocque se, nonostante l’attenzione di Croce, Gobetti, Serra e Gramsci, seguirà poi un tempo di silenzio fino a Spadolini, cui faranno seguito altri.
Alfredo Oriani, che per il carattere intransigente e spigoloso visse inoltre difficili vicende familiari nella villa paterna “Il Cardello” – venne abbandonato da tutti, anche dalla sorella –, ricercava, come abbiamo detto, la notorietà e, deluso dalla scarsa risonanza delle sue pubblicazioni, si diede alla carriera politica, pure questa senza gran successo per la sua intransigenza che non lo fece approdare in Parlamento – ebbe un diverbio con Crispi e lo piantò in asso alla stazione –, per cui rimase semplice consigliere al Comune di Faenza.
Neppure il teatro, ultimo tentativo di stabilire un contatto diretto con il grande pubblico attraverso drammi (La logica della vita, Ultimo atto…), tragedie (L’invincibile, Gli ultimi barbari, Sul limite…) e con una commedia (Momo) gli diede il bramato successo.
Precocemente invecchiato, verrà gratificato negli ultimi anni dall’attività giornalistica con testate di prestigio (“Corriere della Sera”, “La Stampa”, “Giornale d’Italia”…), anche se la collaborazione non fu facile perché non ammetteva il minimo cambiamento nei testi.
Per Papini il giornalista Oriani “fu grandissimo. Quella sua potenza di risalire dal fatto piccolo all’idea grande, dal momento effimero al più remoto passato, al più fantastico futuro… vi rifulge incredibilmente, come se volesse dare, negli ultimi anni, le sue prove più eroiche”.
Ma è grandissimo anche nelle opere storiche quando l’analisi va al di là della retorica della storiografia ufficiale asservita al potere.
Purtroppo ancora travisa la realtà di certa nostra storia.

da www.fiammacanicatti.it

MARZIO DELLA VENERE

ALFREDO ORIANI. IL PROFETA DIMENTICATO

"Più gli anni passano, più le generazioni si susseguono e più splende questo astro, luminoso, anche quando i tempi sembravano oscuri. Nei tempi in cui la politica del piede di casa sembrava il capolavoro della saggezza umana Alfredo Oriani sognò l'impero; in tempi in cui si credeva alla pace universale perpetua, Alfredo Oriani avvertì che grandi bufere erano imminenti le quali avrebbero sconvolto i popoli di tutto il mondo; in tempi in cui i nostri dirigenti esibivano la loro debolezza più o meno congenita, Alfredo Oriani fu esaltatore di tutte le energie della razza". Con queste parole Benito Mussolini, rivolgendosi ai giovani universitari fascisti in occasione della celebre Marcia sul Cardello, commemorava il 27 aprile 1924 la figura e l'opera di Alfredo Oriani, il geniale e sfortunato cantore di un'Italia per la terza volta unificata, ormai avviata verso la modernizzazione e soprattutto pienamente tornata d'ufficio nel firmamento delle potenze che contano.
Morto nel 1909 all'età di 57 anni, Oriani non avrebbe avuto la ventura di assistere a tutto questo, ma nelle sue pagine aveva più volte adombrato, quasi in una sorta di visione estatica, sia pure lucida e coerente, quella grandezza nazionale che in epoca fascista sarebbe divenuta realtà a tutti gli effetti. All'Italietta decadente e corrotta liberal-giolittiana si era sostituita l'Italia del Duce, che sui valori orianei della forza e della gerarchia spirituale fondava la propria ragion d'essere. L'interesse di Mussolini per Oriani fu sempre vivo e costante e non è interpretabile, come vanamente si è tentato di fare, con la comune "romagnolità" dei due personaggi (predappiese l'uno, faentino l'altro). Il Duce in persona volle farsi curatore, per i tipi dell'editore Cappelli, dell'obera omnia di Oriani, che fu integralmente pubblicata in dieci anni al ritmo di un volume all'anno. E fu ancora lui a stabilire che la casa dello scrittore, sita nella frazione di Casola Valsenio (il famoso "Cardello"), divenisse monumento nazionale. E non fu certo Mussolini a opporsi quando Oriani venne a essere inserito tra i nomi di De Sanctis e Carducci in tutte le antologie scolastiche. Oriani era stato il profeta della Terza Italia, un grande scrittore e un degno precursore dell'Italia romana e fascista. Era più che doveroso che la Patria, riconoscente, gli tributasse il meritato omaggio, anche se postumo.
LA VITA E LE OPERE
Breve e infelice la vita di Alfredo Oriani, povera di eventi di particolare rilievo e costellata invece da malumori e avversità. Nato a Faenza nel 1852 da Luigi e da Clementina Bertoni, crebbe in un contesto familiare non proprio rassicurante e idilliaco, a contatto con un padre che intendeva educarlo in maniera inflessibile e una madre dal temperamento arcigno e caparbio, che mai nutrì un affetto spiccato per il ragazzo, anche perchè violentemente traumatizzata dalla morte precoce del primogenito Ercole, per il quale erano andate esaurite tutte le "scorte" di amore materno di cui era stata capace. Senza sua colpa specifica, il giovanotto si ritrovò così rinchiuso in collegio a Bologna, dove la sua intelligenza pronta e vivace gli permise di conseguire a tempo di record la licenza liceale; e nel 1868 si trasferì a Roma per laurearsi in giurisprudenza, al fine di assecondare i progetti del padre che miravano a fare di lui il più valente avvocato della provincia forlivese.
Nel 1872 fu a Napoli, dove ottenne la laurea, ma al suo rientro al Cardello -infliggendo un duro colpo alle ambizioni paterne- decise di relegare in soffitta i codici e le procedure per dedicarsi alle lettere. In quel luogo trascorse tutta la vita, senza una donna e senza amici, solitario e meditabondo come un asceta. Tentò in verità di darsi alla politica e lo fece con un discreto successo, dal momento che tenne la carica di consigliere provinciale a Faenza per diversi anni, ma non gli riuscì di farsi eleggere deputato al Parlamento nazionale e questa sconfitta esacerbò ulteriormente il suo animo già tormentato, contribuendo a rafforzare l'isolamento al quale si era in un certo senso condannato, tanto che i concittadini lo chiamavano, con l'irridente franchezza tipica delle genti contadine, "el mal del Cardel'. Deluso dalla vita e da quanto lo attorniava, e già da tempo sofferente di cuore, si spense nel 1909 nel letto di casa, ben ventisette anni prima che, dal balcone di Palazzo Venezia a Roma, il Capo delle Camicie Nere proclamasse urbis et orbis l'avvento di quell'Impero italiano che era stato l'autentico filo conduttore di tutta la riflessione orianea.
Spirito turbolento e irrequieto, Oriani ebbe l'indubbio merito, in tempi non sospetti, di stigmatizzare l'Italiuzza meschina e materialista del suo tempo, schiava dei maneggi dei politicanti e colpevolmente dimentica delle glorie passate e della sua tradizione millenaria. In antitesi al culto del profitto officiato dai sacerdoti del capitalismo e alle rivendicazioni sovversive dei socialisti, egli sognava un'Italia forte e libera collocata nel suo ruolo storico naturale, cioè tra le grandi potenze, auspicava una collaborazione tra le parti sociali (quella stessa che sarà alla radice del corporativismo fascista) che ponesse fine alla lotta di classe, agognava un governo decisionista in grado di tenere a freno le clientele e gli interessi sempre più smodati dei partiti. Sono motivi facilmente rintracciabili anche nelle sue opere teatrali, come La logica della vita, Ultimo atto, L'invincibile, Gli ultimi barbari e Incredulità, che a prima vista si presentano come uno strano intreccio di romanticismo e verismo, ma che in realtà contengono in nuce gli embrioni di quella potente sintesi analitica che costituirà il pregio maggiore delle grandi produzioni orianee, quali La lotta politica in Italia e soprattutto Rivolta ideale. Fu anche romanziere prolifico {Al di là, Sullo scoglio, Il nemico, Olocausto, Gelosia, La disfatta, Vortice) e apprezzato, già a pochi anni di distanza dalla morte, anche se la storiografia letteraria preferisce insistere sul tema del "povero Oriani dimenticato da tutti" e poi improvvisamente innalzato sugli scudi dalla "propaganda" fascista, che non avrebbe potuto lasciarsi sfuggire la ghiotta occasione di individuare un precursore del nazionalismo novecentesco tra i migliri scrittori di fine Ottocento.
Un testo per certi versi a sé stante è il racconto Fino a Dogali (1887), che trae spunto dall'eccidio dei cinquecento valorosi soldati capitanati da De Cristoforis, ma l'esaltazione lirica di quei caduti e la strenua critica all'imbelle operato del governo Depretis funge solo da pretesto per portare a compimento un'acuta analisi dei grandi problemi dell'Italia postunitaria. La lotta politica in Italia (1890) ne è perciò il logico sviluppo e la piena sistemazione, perchè è in questa sede che l'autore ripercorre con maestria le principali vicende italiane dal 476, anno della caduta dell'Impero d'Occidente, all'evo contemporaneo. La tesi centrale del libro è la "rivoluzione tradita" del Risorgimento, misurata dal fatto -secondo Oriani- che alla grande epopea risorgimentale, ricca di fermenti ideali e nobili aspirazioni, ha fatto seguito l'indecoroso spettacolo dell'Italietta trasformista e poi giolittiana, ipocrita e passivamente ignava come mai era apparsa nella sua storia. E' oltretutto evidente che La lotta politica non è esente da lacune o contraddizioni, come è stato spesso sottolineato dalla zelante critica di ispirazione marxista, ma non c'è nel complesso lacuna o contraddizione che possa inficiarne la legittimità delle accuse e il valore dell'opera. E' qui che Oriani insegna agli italiani il rispetto della propria memoria storica, è qui che rammenta loro il significato della tradizione di un popolo che è stato creatore di civiltà per il mondo intero, ed è qui che mette l'accento sul carattere fatale e ineluttabile della sua gloria futura.
Ma il capolavoro orianeo è indiscutibilmente Rivolta ideale (1906), libro tra i più esecrabili e indigesti per gli "intellettuali" sinistrorsi del '900 e proprio per questo particolarmente caro a Benito Mussolini. Con una visione serena e al contempo maestosa degna degli antichi vati, Oriani ha qui descritto quasi nei dettagli quella che poi sarà la realtà dell'Italia fascista, passando in rassegna tutti i temi salienti della futura dottrina dello Stato e del pensiero del fascismo: dalla fatalità della guerra alla necessità dell'impero, dalla negazione del socialismo e tanto più del comunismo al principio di autorità e di gerarchia, dal senso sacro dell'onore alla fedeltà alla causa superiore della Nazione, non c'è aspetto ideologico, culturale o pedagogico del fascismo successivo che egli non abbia tratteggiato con estrema perizia e incredibile preveggenza. In quello stesso libro ebbe modo di scrivere: "Ci vogliono vent'anni perchè L'Italia attraversi tutta la palude della falsa democrazia e del vile realismo economico e torni ad avere coscienza del suo cammino". Vent'anni dopo, i conti son presto fatti, si era nel 1926, vale a dire nel pieno della costruzione dell'Italia del Duce. E tuttavia vi è chi, a proposito della Marcia sul Cardello sostenuta da Mussolini nel 1924, ancora si ostina a discutere delle presunte "incomprensioni" e "distorsioni" che degli scritti orianei che il fascismo avrebbe alimentato per impadronirsi delle credenziali di un illustre ascendente.
LA COMPLESSITÀ' DEL PENSIERO DI ORIANI
Per la Destra italiana del Novecento, Oriani rappresentò una vera e propria "fabbrica di idee", o anche di miti se si preferisce, a patto di riconoscere al termine "mito" non il significato volgare e mediocre dei giorni nostri, ma quello primigenio e incorruttibile di "eterno presente", capace di racchiudere un valore atemporale e metastorico, non soggetto alle oscillazioni del divenire ma prezioso e benefico in ogni epoca, al di là delle contingenze e dell'incessante succedersi delle generazioni. Nazionalista e "fascista" assai prima che nascessero l'ANI e i Fasci italiani di Combattimento, storico assennato e giudizioso al punto da guadagnarsi la stima crociana (poi rinnegata per ragioni politiche, dopo che fu chiaro che Oriani era ormai considerato un apostolo del fascismo), narratore di talento e prestigio (i romanzi Gelosia, Vortice e Olocausto lo collocavano, tra il 1900 e il 1920, accanto ad artisti del calibro di Hugo, Dostoevskij e Barbusse in fatto di notorietà e di copie vendute), Alfredo Oriani fu tuttavia soprattutto un grande idealista, innamorato del sacro suolo d'Italia e in polemica contro tutti i nemici, più o meno reali e più o meno insidiosi, della grandezza del Paese. Si è detto, e qualcuno ancora ribadisce senza pudore per trasparenti motivazioni di ordine "ideologico", che le sue ricostruzioni storiche peccano di omissioni e incertezze, che la prosa dei romanzi è retorica e sovrabbondante, che taluni giudizi da lui formulati sono angusti o lapidari, dimenticando che lacunosità e tortuosità sono presenti persino in storici come Erodoto e Tucidide, che lo stile dei racconti della seconda metà del XIX secolo è all'incirca lo stesso per tutti gli autori decisi a indirizzarsi verso il "grosso pubblico", che nessun altro studioso dell'età risorgimentale ha saputo mantenere la medesima equidistanza e solarità di giudizio con cui Oriani ha esaminato il percorso culminato nella proclamazione del Regno d'Italia. Uno storico di formazione laica e repubblicana come Spadolini non ha esitato a definirlo "il massimo interprete del Risorgimento", colui che meglio di chiunque altro ha saputo ridisegnare, nella Lotta politica in Italia, le fasi successive della ricostruzione nazionale senza propendere né per i Savoia né per le dominazioni straniere, ed evitando il rischio di scivolare nel comodo provincialismo da campanile.
La sua concezione della vita fu virile e pessimistica, in quanto fondata sui valori tradizionali dell'onore e della patria, della fierezza della stirpe e della famiglia, del duro lavoro nei campi e nelle officine, nel rispetto della natura e nella convivenza civile: valori antichi quanto il mondo stesso, sui quali e con i quali grandi e luminose civiltà si erano edificate ed erano vissute (e quella romano-italica era stata una delle più importanti), e che ora risultavano ignobilmente annacquati, corrosi, respinti tanto dal gretto utilitarismo mercantilistico espresso dal mondo borghese, quanto dall'incombenza sempre più famelica e senza limiti dell'eversione socialista. Oriani pertanto ne ha per tutti, imprenditori e nemici del popolo, preti e affamatori, socialisti e politici illusionisti, anche se il suo obiettivo primario rimane Giolitti, da lui classificato come "il più distruttore, spiritualmente, che l'Italia abbia mai avuto". Giudizio sintomatico come pochi altri per intendere la personalità dello scrittore faentino, perchè è nell'avverbio posto tra le due virgole ("spiritualmente") che si cela il senso profondo di tutta la sua attività di polemista e di studioso della storia d'Italia. Quello che interessa Oriani, quello che lo sgomenta e lo disorienta più di qualsiasi innovazione pseudoscientifica o di broglio elettorale, è la morte lenta e irreversibile dello Spirito della Nazione, ormai decretata dall'egemonia delle èlites finanziarie e industriali e stimolata dall'espansione inarrestabile delle idee marxiste tra i ceti popolari. Pur se si illudono di opporsi al dominio della borghesia - e di ciò Oriani è fermamente convinto - i socialisti non sono che i figli naturali e i legittimi eredi di una democrazia superficiale e materialista, lontana dal popolo e dalle sue effettive esigenze, inetta, bigotta, ipocrita e falsa come solo chi non ha altro nume che il denaro può essere. Ma siccome "Hobbes ha ragione", dirà in Memorie inutili, "e la società è la guerra di tutti contro tutti: guai ai piccoli e ai deboli", nessuna speranza può venire al popolo dall'estensione del suffragio o dall'insurrezione delle fabbriche, miti malsani e moderni costruiti ad arte dalla falsa coscienza borghese e dall'ancor più disonesta propaganda socialista. I piccoli e i deboli, gli onesti e i sinceri, i veri italiani che producono e soffrono, saranno inesorabilmente schiacciati tra il martello della ribellione classista e l'incudine dello sfruttamento capitalista, a meno che non riusciranno a mettersi in cammino, al seguito di una nuova aristocrazia spirituale che abbia a cuore non il proprio vile tornaconto ma l'interesse supremo della Patria, e che sia a sua volta guidata da un Capo, da un autentico leader, da una figura carismatica che non tarderà ad arrivare, considerato l'attuale disordine.
E' qui tutta la complessità estrema della riflessione orianea, che va ben oltre il momento della pars destruens della demolizione delle convenzioni e dei luoghi comuni del "progressismo": smantellato tutto ciò che era da smantellare, egli localizza con un tono che non si può qualificare se non attraverso l'aggettivo "profetico" le soluzioni della pars costruens. Dopo aver prospettato un quadro di rovine (quello del mondo borghese contemporaneo, dove persino la scienza è brutta, volgare, rozza e inumana), Oriani passa a indicare i rimedi e le rettifiche, che consistono nella rivolta degli ideali e nel primato della volontà sulle istanze mercantilistiche.
Tutto lo stile di Oriani è profetico e forse è questa la ragione per la quale la critica letteraria incontra tante e tali difficoltà nell'interpretare la sua opera e nel catalogare la sua scrittura. Si può a buon diritto parlare di un vero e proprio linguaggio oracolare, rarissimo da reperire in qualunque altro autore, con le sole eccezioni di Sorel e D'Annunzio. Ma un linguaggio, superfluo sottolinearlo, fortemente "fuori moda" in anni tristi come quelli che stiamo attraversando, saturi di conformismo ideologico e talk show al cloroformio. Motivo in più per tornare a Oriani, alla sua pagina mossa e nervosa, previdente e appassionata, alla sua onestà che non tollera i compromessi di alcun genere, al suo legame interiore e profondo con la Tradizione. Da non intendersi in senso evoliano, evidentemente, ma anche questa meritevole di comparire con la T maiuscola: della Tradizione Romano-Italica pur sempre si tratta.
RIVOLTA IDEALE
Il clou dell'argomentazione orianea, lo si è detto, è raggiunto nella Rivolta ideale, in cui vengono esibite le soluzioni per il problema-Italia, che dovranno giocoforza scaturire da una rinnovata aristocrazia del pensiero in grado di fare piazza pulita di tutte le molteplici aberrazioni prodotte dal liberalismo del tardo Ottocento. Per Oriani, l'aristocrazia non è altro, storicamente, che una superiorità dello spirito organizzata dalla volontà nel comando. In ogni tempo, e in ogni gruppo umano, l'eccellenza di alcuni individui permise loro di dominare gli altri, che nella loro obbedienza barattavano la propria libertà con la protezione ricevuta. Ecco il motivo per il quale le prime aristocrazie furono religiose e guerriere, avendo esse il compito di garantire ai deboli la serenità interiore e un aiuto efficace nella dura lotta per la vita. L'istinto della razza e le necessità storiche generavano così nell'aristocrazia una classe responsabile della vita di tutti e depositaria delle sue tradizioni: era sempre l'aristocrazia a pensare e decidere per sé e per gli altri, a rappresentare la patria e i costumi religiosi, a organizzare i clan, le famiglie, il lavoro. Oggi malauguratamente l'aristocrazia non esiste più, avendo perduto -a vantaggio delle chiacchiere parlamentari e della piazza- la sua funzione di comando e di stimolo, ed è utopistico sperare che possa in qualche modo venir fuori un nuovo patriziato da quella classe affaristica e borghese che tanto ha lottato per spodestare l’ancien regime. Un aristocratico libertino dedito all'ozio e ai vizi non è un aristocratico, poiché non coordina e non dirige il popolo dall'alto. Per rinnovare la funzione aristocratica, occorre ridarle una coscienza che ne fortifichi il carattere e non il reddito e metta in azione l'attitudine al comando e all'organizzazione. Questo perchè un'aristocrazia è il corpo scelto di una nazione, oppure non è nulla. L'Italia contemporanea non ha più alcuna élite e i suoi grandi nomi riempiono soltanto le cronache mondane e quelle dello sport, il che significa ricchezza senza eccessivi problemi, lusso senza personalità, forma senza contenuto. Nell'assenza dell'aristocrazia l'umanità si dibatte confusa e sconnessa, avanza senza sapere dove, guarda in alto e trova il cielo vuoto, non ha fede e invoca una nuova rivelazione, crede di essere libera e non sa comandare neanche a se stessa, più ricca che in passato e più miserabile che mai. Il trionfo dell'industria doveva fatalmente portare a questo stato di cose, in quanto l'era industriale ha un unico ideale, la ricchezza, e non ammette nient'altro. La formula del guadagno a tutti i costi ha invaso tutti gli ordini della società e livellato tutte le opere, perchè tutti vogliono sempre e solo guadagnare, dall'imprenditore più benestante al più ottuso dei bottegai. Ciò ha segnato l'apoteosi dell'ignoranza, della materia, della volgarità, e lo si vede benissimo nella religione arroccata in difesa dei suoi privilegi, nella filosofia (dove viene celebrato il più deplorevole dei sistemi, quello positivista), nell'arte sempre più goffa e stravagante,nella cultura becera e provinciale, nella società rozza e isterica.
Profittando delle circostanze propizie, l'Italia ha realizzato nell'Ottocento una straordinaria rivoluzione, quella che ha condotto all'unità territoriale del Paese, e lo ha fatto con pochi uomini e ancor meno mezzi. Ma si è trattato di una rivoluzione monca e imperfetta, proprio perchè non è stata concepita né attuata dal popolo. Il compito che attende gli italiani del Novecento non potrà allora che essere quello di fare finalmente una grande Italia, con il concorso e la cooperazione di tutti. Ma nessuna grande Italia potrà mai sorgere in uno Stato come quello liberale e democratico, che non sa e non intende distinguere tra razza, popolo e nazione, che ignora o finge di ignorare che lo Stato è l'individualità di un popolo, è la sintesi compiuta del suo diritto, della sua religione, della sua morale e della sua storia sociale e culturale. Prima ancora di pervenire, con il codice delle leggi, alla più alta e matura consapevolezza di sé, lo Stato già esiste in uno spirito che si compone degli istinti caratteristici della stirpe e di talune differenze variabili da etnia a etnia, e che già pienamente formano lo spirito della nazione. Lo scarto tra i diversi spiriti nazionali si misura essenzialmente in base alla potenza dell'ideale e all'originalità della sua espressione: questa è la ragione per la quale non tutti i popoli sono uguali, e non tutte le civiltà prodotte hanno lo stesso valore di fronte alla storia.
Le orride teorie positivistiche dell'Ottocento, prosegue Oriani, hanno a tal punto inorgoglito il fiacco e amorfo individuo del nostro tempo da indurlo a pensare che la sua potenza - che può apparire tale solo in superficie - sia di fatto illimitata, per cui in nome della chimera-libertà egli non è più disposto ad accettare la benché minima restrizione al suo raggio d'azione. Ma non tutto può essere concesso e non a tutti, regola questa che si insegna ai bambini sin dal corso della prima infanzia.Il più grande e urgente problema di questo secolo non è la libertà, ma l'autorità, è il rispetto delle norme e di chi le fa applicare, è la necessità di gestire la cosa pubblica nell'interesse della collettività e non dei potentati economici. Le tossine sparse a piene mani dalla demagogia populista democratica e dall'eversione marxista hanno purtroppo a tal punto contaminato il pensiero dell'europeo moderno da spingerlo, senza che ne arrossisca, a rifiutare ogni residuo vincolo con la Tradizione dei suoi avi, a reputare ingiusto e arbitrario il principio d'autorità  e di  gerarchia,  a  considerare ignobile il passato delle nazioni,  caratterizzato da "schiavismo", oppressione della donna, tirannide e così via. Anche l'imperialismo oggi gode di pessima fama, a causa della prevalenza del fattore mercantilistico che ha trasformato le generose terre d'Asia e d'Africa in terre di conquista per i mercati occidentali. Ma questa per lo scrittore è solo la versione degenerata e putrida dell'imperialismo industriale rampollo della ribellione borghese del Settecento, e non si può dimenticare con troppa facilità che invece l'imperialismo vanta origini nobili e profonde, essendo nato da una passione antica e degna di venerazione, che è quella che mira alla più sacra e ambiziosa meta della storia: l'unità e la totale pacificazione del genere umano, da potersi ottenere solo nel grande impero universale vagheggiato da tutti gli uomini degni di fregiarsi di questo appellativo.
Quale dovrà dunque essere, in un contesto siffatto, il compito che attende ogni vero italiano? Essere forti per diventare grandi, questo per Oriani è il dovere: espandersi, conquistare spiritualmente e materialmente, con l'emigrazione, con i trattati, con i commerci, con l'industria, con la scienza, con la religione, con l'arte, con la guerra. Ritirarsi dalla grande competizione internazionale è impossibile, e questo significa che bisognerà trionfarvi. L'avvenire sarà di coloro che non lo avranno temuto, perchè la fortuna e la storia da sempre sorridono ai forti che sono capaci di soggiogarle. Anziché seguire allora le strampalate teorie del femminismo e del socialismo, che esigerebbero la donna uguale all'uomo (che è un assurdo anche in termini biologici) e il proletariato uguale alla borghesia (che è un assurdo anche in termini economici), l'Italia dovrà subito porsi il problema di allevare un popolo nuovo, giovane, ardente, in grado di presentarsi puntuale all'appuntamento con la storia, dal momento che l'ora della rivolta ideale sta finalmente per scoccare. Cos'è la "rivolta ideale", in definitiva, secondo il punto di vista dello scrittore faentino? "Non falsare la lotta umana con inutili espedienti di legge", egli afferma nella parte conclusiva del sesto capitolo dell'opera, "lasciare libero l'individuo per imporgli tutte le responsabilità: non pretendere di sostituire la religione colla scienza, la concorrenza colla cooperazione, la famiglia col libero amore, la patria col cosmopolitismo, la gloria colla celebrità: volere nell'uomo tutto l'uomo, colle angosce della sua fede, coll'eroismo della sua carità, col calcolo della sua ragione, col suo istinto e col suo genio, che fanno di tutte le generazioni un uomo solo: proclamare che la verità è soltanto nell'ideale ma dentro un mistero, nel quale il dolore mette una voce e il pensiero un lampo: amare nella speranza del bene, quando la gioventù sorride; amare nella pietà del male, quando la vecchiezza non sa nemmeno più piangere: salire a tutte le bellezze, credere a tutte le virtù, consentire tutti i sacrifici offrendosi intero alla vita e accettando la morte come un premio: ecco la rivolta ideale":
A farsi carico della conduzione della rivolta ideale dovrà essere la nuova aristocrazia italiana dello spirito, chiamata a prendere il posto dell'antica oligarchia guerriera e sacerdotale. L'aristocrazia autentica infatti non muore mai. "L'aristocrazia è immortale.
La superiorità, che prepara il carattere aristocratico, comincia nella natura degli individui: è una eccellenza, che li rende diversi dalla folla e da essa facilmente riconoscibili: quindi per segreta affinità elettiva s'adunano, la loro medesima uguaglianza li gradua, le differenze di attitudini suggeriscono le gerarchie, l'unità dell'opera li fonde e la sua durata consolida il loro ordine".
PENSIERINO CONCLUSIVO
Nei Quaderni dal carcere, l'intellettuale comunista Antonio Gramsci scrisse questo giudizio su Alfredo Oriani: "Occorre studiare Oriani come il rappresentante più onesto e appassionato per la grandezza nazionale-popolare italiana, fra gli intellettuali italiani della vecchia generazione": Questo elogio del mal del Cardel ha mandato su tutte le furie l'intellettuale comunista Alberto Asor Rosa, che nella Storia d'Italia edita da Einaudi si è chiesto, con suo profondo rammarico, perchè mai il padre fondatore del PCI abbia stilato un parere così positivo del profeta del fascismo. Non sarà che Gramsci aveva intuito che l'idea di popolo coltivata da Oriani fosse la più vera e la più schietta, lontana com'era dalle fisime barricadere della "lotta di classe" dei seguaci di Karl Marx?

http://www.istitutostudistoricigaribaldi.it

Riccardo Scarpa: L'ideale "garibaldino" di Alfredo Oriani

L’opera di pochi pensatori e letterati potrebbe essere definita suscettibile di riflessioni attuali quanto i saggi storiografici e politici od i romanzi d’Alfredo Oriani, addormentatosi un secolo fa, il 18 di ottobre del 1909, cinquantasettenne, nel suo Cardello di Casola Valsenio. Idealista nella temperie del primo positivismo, all’oggi, estremo crepuscolo delle ideologie, sistemi di pensiero strumentali alla propaganda politicante, la sua Rivolta Ideale, cioè per l’idea in sé che si deve eticamente attuare, potrebbe essere l’alternativa al sopravvivere giorno per giorno. Le sue pagine sul Risorgimento, nella Lotta politica in Italia, furono tra le prime riletture critiche al di là delle celebrazioni, che suscitarono dibattito e dovrebbero essere oggetto d’una rilettura quanto mai utile nell’attuale fase nazionale, tutte centrate come sono sul contrasto fra “federali” ed unitarî, nel senso che quei termini ebbero ed hanno nella polemica partitica in Italia, dove vengono chiamati colla prima espressione coloro che esatta terminologia costituzionale indicherebbe ovunque come “confederali” ed anti unionisti.

Centrale nel pensiero storiografico d’Alfredo Oriani è la figura di Giuseppe Garibaldi, eroica in quanto incarnazione d’un tipo ideale. Infatti in Oriani l’Ideale si fa realtà storica attraverso lo svolgimento d’un ciclo di Pensiero, Volontà, Azione e forma realizzata, che si manifesta appieno nel Risorgimento, in cui il pensiero unitario mazziniano si sarebbe insterilito nel settarismo, l’azione diplomatica dei moderati avrebbe corso il rischio di smembrarsi nel localismo confederale, se non fosse intervenuta la Volontà realistica dei “garibaldini”: innanzitutto dell’Eroe, unitario già in America, e poi di Francesco Crispi, nella costruzione dello Stato repubblicano in forma Monarchica, con cui il Risorgimento fu coronato dall’acume di Vittorio Emanuele II e dal cuore di Umberto I, ed all’Oriani in allora parve anche dalle tendenze di Vittorio Emanuele III.

L’Istituto Internazionale di Studî “Giuseppe Garibaldi” s’è assunto l’onere di onorare ufficialmente nella Capitale la figura d’uno spirito garibaldino come Alfredo Oriani, con una rivolta ideale che sia di Lui degna e inversamente proporzionale alla diminuzione di senso di cui ha sofferto la sua opera nella lettura datane nella seconda metà del novecento. Ad Alfredo Oriani non giovò, in quel periodo storico, l’attenzione di cui lo fece segno Benito Mussolini, che indicò nel ferrarese un maestro del suo pensiero e del quale volle curare personalmente l’edizione dell’opera omnia; d’altra parte l’incultura diffusa non permise alla memoria dell’Oriani neppure di giovarsi dell’analoga considerazione che nutrì per lui Piero Gobetti, che del fascismo fu oppositore e martire ed avrebbe voluto essere, qualora avesse avuto il tempo di completare l’opera sua, con Risorgimento senza eroi e Rivoluzione liberale, il continuatore proprio di Lotta politica in Italia nella propria epoca, come giustamente notò Giovanni Spadolini, ed è tipicamente orianiano nello stile del periodare e nel tono del vocabolario, mutuazioni che s’acquistano solo con una continua ed appassionata frequentazione d’un autore.
Il Prof. Avv. Riccardo Scarpa, membro del Consiglio Direttivo Centrale di questo Istituto, è altresì docente di Storia delle dottrine politiche nell’Università degli Studî di Roma “La Sapienza”, di Sociologia dei fenomeni politici e Sociologia politica e del diritto nell’Università degli studî “RomaTre”.