Articoli su A.Oriani
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01 giugno 1989
Nicola Tranfaglia
ALFREDO E I SUOI NIPOTI
CHI era Alfredo Oriani? Se provassimo a porre questa domanda anche a
quelli delle nuove generazioni che studiano all'università
letteratura o politica, fuori dalla Romagna, in cui visse lo
scrittore nato a Faenza nel 1852 e morto a Casola Valsenio,
provincia di Ravenna, nel 1909, con alle spalle una produzione, tra
racconti, romanzi, saggi, pamphlet, che avrebbe riempito ben trenta
volumi quando uscì l'opera omnia, pochi saprebbero
rispondere. Eppure fino a pochi anni fa l'orianesimo era abbastanza
diffuso tra giornalisti e studiosi cresciuti durante il regime
fascista, che avevano fatto parte indifferentemente della sua ala
rivoluzionaria o della fronda, trasformatasi in opposizione nei
tardi anni Trenta e nei primi anni Quaranta. E non a caso: tra i
letterati del post-Risorgimento, Oriani era stato uno di quelli che
si erano posti con maggior continuità e insistenza il
problema della storia d' Italia come biografia nazionale: aveva
scavato all'indietro per cogliere le radici dei problemi e delle
contraddizioni che avevano caratterizzato le vicende pre e
postunitarie, ricavandone una critica ambigua, ma proprio in quanto
tale adatta a tutte le utilizzazioni. Si pensi solo al fatto che la
pregiudiziale antimonarchica e la critica al Risorgimento come
rivoluzione mancata e vittoria moderata, sarebbero diventati cavalli
di battaglia sia dell'ala rivoluzionaria ed estremista del movimento
fascista, sia dell'opposizione antifascista (in tutte le correnti di
sinistra).
D'altra parte, se Oriani ne La lotta politica in Italia (forse la
sua opera più nota e, per certi aspetti, la più
riuscita) aveva sostenuto sia pure con una retorica insopportabile
tesi come queste, in altre (come ne La rivolta ideale o Fino a
Dogali) aveva insistito sull'unità della storia d' Italia da
Roma fino al XIX secolo, e aveva sognato la costruzione di
quell'impero che proprio Mussolini avrebbe fatto sorgere sui colli
fatali dell'Urbe. Non c' è dunque da stupirsi se quasi
contemporaneamente Mussolini, ancora socialista, e nazionalisti come
Corradini e Federzoni ne evocassero la figura e l' opera per
chiamare gli italiani alla lotta contro la classe dirigente liberale
e (nel caso dei nazionalisti) alla grandezza imperiale. Che cosa si
vuol dire con questo? Semplicemente che la critica allo Stato
liberale e alla prosa giolittiana fu (come Salvemini riconobbe nel
secondo dopoguerra introducendo il volume dell' americano Salomone
sull' Età giolittiana, ristampato in questi giorni dalla
Nuova Italia) un bagaglio comune della destra e della sinistra nel
crepuscolo di quell'età; e che un personaggio di
letterato-politico come Alfredo Oriani sembrava prestarsi
magnificamente alla monumentalizzazione in un senso o nell' altro:
sia pure con un' indubbia forzatura rispetto all' ambiguità,
e dunque anche alla complessità, della sua opera di scrittore
e di polemista.
Ma Mussolini e i nazionalisti, non appena conquistato il potere
nell'ottobre 1922, furono lesti ad appropriarsi del personaggio e
del mito nato intorno a lui, bisognosi come erano di creare i
precursori del regime: quelli che una collana editoriale sorta nel
1927 avrebbe definito i prefascisti, confondendo in un unico mucchio
personaggi diversissimi, da Francesco Ferrucci a Enrico Corradini,
da Giovanni dalle Bande Nere a Gabriele D' Annunzio, dai fratelli
Bandiera a Ippolito Nievo. Oriani, come abbiamo detto, si prestava
assai bene all'operazione, solo che si fosse messo la sordina a
motivi non secondari della sua opera, come la fede repubblicana.
Bisogna dire che in questo tipo di monumentalizzazioni Mussolini
eccelleva, anche perché non aveva nessuna difficoltà a
sorvolare su sue precedenti affermazioni di segno contrario.
Così se nel 1915 il futuro duce aveva esaltato sul Popolo d'
Italia la fede antimonarchica di Oriani e la sua critica spietata
alla politica estera triplicista dei Savoia, nove anni dopo
affermava che se Oriani fosse ancora tra i vivi, avrebbe preso il
suo posto all'ombra dei gloriosi gagliardetti del Littorio e ne
esaltava l' opera di anticipatore del Fascismo, di esaltatore delle
energie italiane, tacendo prudentemente su quegli aspetti centrali
della sua opera che avrebbero fatto a pugni con la diarchia
monarchia-fascismo instauratasi in Italia all'indomani della marcia
su Roma.
Né si fermava a questa generica esaltazione: nell'aprile
1924, accogliendo l' invito di un fascista bolognese, lo stesso
Mussolini promuoveva e guidava la marcia al Cardello (ultima dimora
di Oriani) delle camicie nere romagnole, dichiarava il Cardello
monumento nazionale e creava qualche anno dopo l' Ente Casa di
Oriani che doveva costituire il centro di un culto del precursore,
praticato con cerimonie e manifestazioni a vari livelli: a
cominciare dall'edizione dell' Opera Omnia dello scrittore
pubblicata dall'editore Cappelli e formalmente curata da Mussolini
stesso. In questo senso non si trattava come osserva a ragione
Giampasquale Santomassimo, autore di un denso saggio introduttivo
all'utile volume di Massimo Baioni su Il fascismo e Alfredo Oriani
(Longo editore, pagg. 330, lire 30.000) solo di un' operazione
propagandistica, ma dal bisogno profondo di trovare nel passato i
fili di una continuità che spiegasse e giustificasse il
cammino che separa il Risorgimento dal regime fascista, e più
indietro ancora. Del resto, come osserva ancora Santomassimo, l'
invenzione della tradizione non è un procedimento che si
possa ascrivere al fascismo più che ad altri movimenti e
regimi, o alla destra piuttosto che alla sinistra.
Ci troviamo invece, in casi come questi, di fronte a un' esigenza
fondamentale dei moderni regimi di massa; e studiare un mito come
quello di Oriani e delle sue applicazioni durante il ventennio
fascista significa poter ricostruire (in modo forse più
penetrante che volgendo l' attenzione alle manifestazioni
direttamente ideologiche del regime) l'universo di valori cui il
fascismo si richiamò nella sua ascesa come negli anni del
maggior successo, e distinguere anche al suo interno gli accenti
diversi con cui a quel mito si richiamano le differenti tendenze del
movimento. Diverso è, per fare un esempio, il modo in cui
Oriani viene trattato da intellettuali come Giovanni Gentile e
Alfredo Rocco. Per il primo, che concepisce il fascismo come lo
sbocco del Risorgimento, lo scrittore romagnolo è uno dei
molti critici del parlamentarismo liberaldemocratico; per il
secondo, che vede nel fascismo la diretta continuazione del
Risorgimento, rimuovendo il periodo servile posto tra i due, Oriani
è un gigante che lotta solitario contro il suo tempo. In
altri termini, per l'ala moderata del fascismo, di cui il filosofo
idealista fa parte, Oriani è uno dei tanti precursori, e non
il più importante. Per l'ala radicale cui appartiene il
giurista creatore dello Stato fascista, invece, lo scrittore ha un
posto di assoluto rilievo.
Del resto, la tradizione fascista si stabilizza soltanto negli anni
Trenta e anche allora conserva margini di ambivalenza e di vaghezza
di provvisorietà. Nel 1928, ad esempio, un letterato
nazionalfascista come il torinese Vittorio Cian decide di fissare
una sorta di sistemazione critica dei precursori, distinguendoli in
remoti (e ci mette chissà perché Dante Alighieri),
vicini o prossimi (e ci mette Napoleone Bonaparte!), infine gli
immediati o necessari, e qui prendono posto Carducci, Crispi,
Oriani, Corradini e Federzoni. Manca non a caso D' Annunzio che a
Cian non piace e che non è gradito neppure al duce, il quale
pure ne ha saccheggiato riti e modalità di approccio alle
masse.
Oriani peraltro, come la ricerca di Baioni dimostra assai bene, fu
tra i precursori quello più e meglio utilizzato dai regimi
negli anni Venti e Trenta. Ed è agevole capire perché:
rispetto ad altri personaggi magari più importanti ma
più lontani il suo mito aveva maggior presa perché si
riferiva a una vicenda (la critica e la lotta contro lo Stato
liberale) di cui tanto Mussolini quanto la maggior parte dei leaders
fascisti erano stati partecipi prima di conquistare il potere. Non
solo: a differenza di altri, non c' era nessuno che potesse
rivendicarne un' eredità in qualche modo dissonante o
concorrente rispetto alla soluzione fascista. E questo era il caso,
al contrario, di un personaggio come Gabriele D' Annunzio,
ingabbiato al Vittoriale ma pur sempre espressione di una possibile
soluzione nazionalsindacale in qualche modo concorrente di quella
mussoliniana.
Di qui l' ininterrotta fortuna del mito di Oriani durante tutto il
ventennio, malgrado la diversa interpretazione della sua opera che
oppositori del fascismo (basta pensare a Piero Gobetti e alla sua
Rivoluzione liberale) avevano tentato di proporre negli anni Venti e
ancora nei primi anni della dittatura. Soltanto con il crollo
fascista la figura dello scrittore romagnolo fu liberata dalle
incrostazioni propagandistiche e cominciò ad essere studiata
per quello che effettivamente era stata. Ma Oriani conserva qualche
attualità? si chiederà oggi il lettore. Posso
rassicurarlo: interessante per capire l' Italia liberale e l'uso che
ne fece il fascismo, oggi la sua opera non ci dice nulla di nuovo o
di attuale. E contiene, ahimé, molta retorica.
da http://archiviostorico.corriere.it
21 agosto 2002
L' uomo che mise d' accordo Mussolini e Gramsci
Giovanni Belardelli
L' immagine prevalente di Alfredo Oriani, a centocinquant' anni
dalla nascita (il 22 agosto 1852 a Faenza), è ancora oggi
quella di un autore tutto sommato marginale, che ebbe influenza
soltanto o quasi come elaboratore di temi nazionalisti e
colonialisti ripresi poi dal fascismo. Si tratta però di un'
immagine falsa. Certamente il regime diede vita a un vero e proprio
culto di Oriani. Ma che la sua influenza sia stata assai più
ampia lo dimostra il fatto che di lui diedero giudizi molto positivi
anche Gramsci e Gobetti. Quella di Oriani fu una fortuna postuma.
Nel 1892 poté pubblicare solo a sue spese La lotta politica
in Italia, un' ambiziosa ricostruzione storica che conteneva anche
l' esame delle deficienze che, secondo il suo autore, avevano
caratterizzato il Risorgimento. Ma del libro nessuno si accorse.
Sorte non molto migliore toccò ai suoi romanzi. Proprio la
mancanza di attenzione da parte dei contemporanei determinò
in Oriani certe pose da genio incompreso e quel suo modo
perennemente accigliato e offeso di guardare all' Italia del tempo.
Le cose cominciarono a cambiare nel 1909, con l' elogiativo saggio
che gli dedicò Croce, arruolandolo nella battaglia
antipositivista e neoidealista che stava conducendo. Ma Oriani
morì solo pochi mesi dopo quello scritto. Sulla via aperta da
Croce si affollarono subito gli esponenti delle avanguardie
letterarie del tempo, a cominciare dai collaboratori della Voce di
Prezzolini, tanto che il 1912-13 fu definito «l' anno di
Oriani». Nei testi dello scrittore romagnolo molti giovani
intellettuali ritrovavano un giudizio analogo al loro sulla
«decadenza ideale» che aveva colpito la giovane nazione
italiana. Ma vi trovavano anche l' individuazione delle cause di
tale decadenza nei modi in cui l' unificazione del Paese si era
compiuta. Per Oriani quella italiana del 1859-60 era stata infatti
una rivoluzione a metà, poiché il nuovo Stato non era
nato per opera del popolo ma attraverso il «sopruso
eroico» di minoranze audaci e consapevoli, aiutate da
«incidenze e coincidenze straniere». Di lui gli
intellettuali «vociani» apprezzavano la concezione
eroica della politica, la critica della democrazia livellatrice e
materialista, l' esortazione alla ripresa di una «rivoluzione
italiana» troppo presto interrotta: tutte idee che ben si
sposavano con il loro rifiuto della «prosaica» Italia
giolittiana e con il vago senso di inquietudine e di ribellione dal
quale essi erano animati. La rivoluzione veniva intesa da Oriani
essenzialmente come una «rivolta ideale» (così
suonava il titolo di un suo scritto uscito nel 1908), nella quale un
ruolo decisivo sarebbe dovuto spettare proprio alle avanguardie
intellettuali. Per uscire dalla decadenza presente Oriani invitava
l' Italia a divenire consapevole della propria
«missione» internazionale: ciò rappresentava,
nello stesso tempo, l' ultima eco di un' idea mazziniana (le opere
di Oriani sono piene di espressioni prese di peso da Mazzini) e la
traduzione di aspirazioni e concetti propri dell' età dell'
imperialismo. Uno dei caratteri precipui degli scritti
storico-politici di Oriani, ciò che ne fondava l' intima
ambiguità, che faceva di lui un autore per intenderci insieme
di destra e di sinistra, stava appunto nella circostanza che lo
scrittore romagnolo traghettava l' eredità mazziniana e
garibaldina, in cui si era formato, nell' epoca nuova dei
nazionalismi aggressivi. Attraverso la sua interpretazione del
Risorgimento e dell' Italia unita Oriani influenzò come forse
nessun altro il modo in cui tutto il «sovversivismo»
italiano del primo ' 900 (le avanguardie intellettuali e i politici
rivoluzionari di opposto colore) guardò alla storia
nazionale, concepita come un fiume il cui corso dovesse essere
raddrizzato a forza. Mussolini confessò più volte,
prima da socialista e poi da fascista, di essere un «lettore
assiduo e devoto» di Oriani. Gobetti scrisse: «Tra i
nostri padri egli è stato il solo a insegnarci l' idea della
storia». Fu anche per la suggestione di un «padre»
del genere che egli poté concepire un liberalismo tanto
confuso da poter includere perfino Lenin e Marx. Nei Quaderni del
carcere di Gramsci il nome di Oriani ricorreva spesso. Degli scritti
del romagnolo varie cose a lui non piacevano; sottolineava tuttavia
come andassero studiati con attenzione per la posizione sinceramente
«nazional-popolare» che vi era presente. Proprio le
fortune postume di Oriani confermano dunque un carattere di fondo
della nostra storia: il fatto cioè che il fascismo, il
gobettismo, il comunismo gramsciano affondavano una parte delle loro
radici nel medesimo humus culturale primonovecentesco. Forse
è proprio l' imbarazzo, ancora oggi, a riconoscere una tale
circostanza ciò che impedisce a molti di vedere in Oriani una
figura certamente più complessa e più influente di
quanto non appaia dalla vecchia immagine che ne fa soltanto il
«precursore» di Mussolini.
http://www.romagnanoi.it/news/cultura-eventi/
Giovanni Zaccherini
05/Novembre/2012
Sì, molta parte del pensiero politico di Alfredo Oriani fu
alla base dell’ideologia fascista e Mussolini se ne appropriò
a ragion veduta: questa la tesi di Rodolfo Sideri in “La Rivoluzione
Ideale di Alfredo Oriani”, appena uscito per le “edizioni Settimo
Sigillo”. Premesso che l’opera più significativa del
pensiero politico del “solitario del Cardello”, “La lotta
politica in Italia” è, secondo Sideri, non tanto una storia
della politica, ma una politica della storia, l’autore ne esamina
alcuni punti fondamentali, trasfusi poi nella “rivoluzione
conservatrice” del Fascismo.
Primo fra tutti, la sfiducia nella democrazia rappresentativa
liberale e la certezza che la storia sia opera di minoranze attive;
il nazionalismo e l’ auspicio che l’Italia potesse e dovesse avere
un ruolo importante nel consesso europeo ed internazionale; il
colonialismo, con la pretesa di una missione civilizzatrice in
plaghe ancora “barbariche”; il laicismo, in funzione di uno stato
autonomo dalla Chiesa; la difesa dell’istituto familiare
tradizionale e la negazione del divorzio, non tanto per ragioni di
carattere etico o confessionale, ma perché pericoloso per la
procreazione e l’educazione dei futuri cittadini.
Ma Oriani, più che ideologo e storiografo, fu
romanziere e acuto osservatore della realtà e della
società e le sue tesi furono spesso caratterizzate da feconde
contraddizioni che aprirono spiragli innovativi su momenti chiave
della storia italiana: ad esempio, il “Risorgimento”. Come si
poteva, infatti, rivendicare un ruolo aggressivo della nostra
nazione, quando il suo non lontano processo fondativo non era stato
che “l’eroico sopruso di una minoranza intellettuale sulla
passività recalcitrante delle masse”? Non solo, ma delle
stesse esaltate figure dell’unificazione, viene salvato il
solo Garibaldi, mentre i politici e gli amministratori che avrebbero
dovuto continuare e realizzare le premesse e le promesse
risorgimentali, avevano sprofondato la neonata nazione in un pantano
di ignoranza e corruzione.
Oriani ebbe anche l’intuito di capire come le soluzioni per la
struttura del nuovo stato: centralismo o federalismo, fossero
entrambe problematiche e come, se da una parte avrebbe potuto
prevalere l’egoismo dei vecchi stati regionali, dall’altra la
“piemontesizzazione” stava cancellando consuetudini e statuti spesso
più civili e avanzati dei nuovi. A questo proposito, fu uno
dei primi e più coraggiosi “revisionisti” del cosiddetto
“brigantaggio” meridionale e pur condannandolo come un moto di
retroguardia e dettato da un “patriottismo di municipio … ignorante,
aspro, inconciliabile”, sottolineò che aveva messo nella
rivolta “una poesia capace di rinnovare i prodigi del valore
garibaldino” costringendo i “piemontesi” “ a una guerra di sterminio
così orribile di ferocia che si dovette e si deve
ancora nasconderla alla storia”.
Certo, tutto questo non poteva essere ammesso o far parte del
patrimonio ideologico del Fascismo, anche perché, un
movimento politico che si basava su certezze apodittiche, non poteva
lasciar spazio a dubbi e demitizzazioni, d’altra parte, anche
all’interno degli stessi intellettuali mussoliniani, ci fu chi vide
con sospetto l’esaltazione del ruolo profetico dello scrittore di
Casola Valsenio, come scrisse Giulio Bruno Bianchi, che negava che
potesse essere considerato un prefascista : “Il fascismo non ama
né i solitari, né gli spiriti irati, né i
tormentatori di sé: Oriani, con le sue lunghe gambe, non
andrebbe a passo nei ranghi ...”
da www.literary.it/dati/literary
Antonietta Benagiano
L'hegeliano contro corrente da rileggere
Alfredo Oriani il dimenticato
“Voi avete sentito che la mia opera è vera, potente, forse la
giudicate troppo potente, temete che il pubblico possa seguirla.
Ebbene, il pubblico mi seguirà, perché la via che io
batto è fatale, perché per ora sono solo a batterla”.
Queste parole di Alfredo Oriani (Faenza 1852, Casola Valsenio 1909),
dalle quali traspare una forte autostima, appaiono segno di una
personalità indubbiamente proiettata verso grandi
realizzazioni. Dovettero piacere molto a Benito Mussolini, come La
rivolta ideale, dove Oriani sosteneva la necessità di uno
stato forte. Così, almeno post mortem venne esaltato, infatti
fu proprio il Duce ad interessarsi a che fosse pubblicata l’Opera
omnia e gli fosse anche eretto a Roma un monumento sul Colle Oppio.
Varie le celebrazioni nel corso del 2009, ed hanno fatto la parte
del leone il centenario del Futurismo e il ventennale della caduta
del muro di Berlino. Così sono passate quasi sotto silenzio
altre ricorrenze, anche il centenario dalla morte di Alfredo Oriani,
poeta e scrittore poco noto alle nuove generazioni.
Lo spirito, lì dov’è, l’avrà sentito come altra
ingiustizia verso la sua scrittura, pari a quella sperimentata al
tempo della esistenza terrena, durante la quale non poche furono le
frustrazioni che accentuarono in lui certi aspetti del carattere.
Aveva infatti amato e rincorso una notorietà che, almeno
nelle forme attese, non gli era arrivata, forse anche perché,
a differenza di D’Annunzio, indubbiamente di ben altra tempra ma
pure gran maestro nel far parlare di sé, non era molto abile
nel mettersi in mostra. Sappiamo bene quanto contino le strategie
per rendersi visibili ed acquisire quella notorietà che
soprattutto oggi, nel predominio della immagine – ma non solo –,
viene spesso attribuita al di là dello stesso valore. Sta
anche in ciò la differenza della società attuale.
Alfredo Oriani, terzogenito di una "famiglia aristocratica di
campagna ma senza lustro vero", (Lettere), visse una infanzia non
calorosa di affetti, perciò crebbe scontroso e solitario.
Frequentò il Collegio San Luigi a Bologna, proseguì
gli studi a Roma presso la Pontificia Sapienza e si laureò
poi in Giurisprudenza a Napoli, ma ai tribunali preferì la
frequentazione di salotti letterari e politici, particolarmente
quello di Laura Minghetti, moglie dello statista, dove conobbe
Angelo Camillo de Meis, docente di Storia della Medicina
all’Università di Bologna ma amante anche di approfondimenti
filosofici – Hegel in modo particolare –, di conversazioni con
l’amico Spaventa che considerava suo maestro.
De Meis trasmise al giovane Oriani l’amore per il pensiero hegeliano
che sarebbe rimasto fermo in lui e lo avrebbe reso insensibile
all’imperante positivismo e darwinismo.
Siamo nella seconda metà dell’Ottocento con un romanticismo e
idealismo ormai alle spalle, con fervori reazionari contrari
all’idealismo ed un orientamento verso la metafisica naturalistica
che bolla di apriorismo e quasi di teologismo tutta la metafisica
postkantiana.
Oriani si forgiò, invece, ad un idealismo che non avrebbe
abbandonato mai e sarebbe rifluito nella concezione della storia,
ritenuta impossibile da tracciarsi senza un disegno, senza ammettere
un principio. Ogni popolo, dal punto di vista storico, è per
lui un attore che recita una scena per poi ritirarsi, ed ogni stato
è l’individualità di un popolo. La storia non
può quindi ricostruirsi senza una linea filosofica, e quella
che si coglie nelle sue opere storiche risente indubbiamente del
filosofo di Stoccarda.
Croce, il primo a porre in rilievo Alfredo Oriani nel Saggio del
1908, considerando la filosofia metodologia della storia,
delucidazione dei concetti direttivi dell’interpretazione storica,
identificando quindi filosofia e storia, questa come processo ideale
ed eterno, non può, proprio in virtù di ciò,
non manifestare apprezzamento verso le opere storiche dello
scrittore faentino. Trascura infatti la raccolta poetica Monotonie –
l’aveva del resto bollata lo stesso autore –, tratta brevemente il
narratore, pur sostenendo che il romanziere non è inferiore
allo storico, stronca i romanzi giovanili (Memorie inutili, Al di
là, No…) che avevano dato l’impressione di uno scrittore “di
tendenze malsane, d’idee confuse, di forma gonfia e arruffata”,
considera quelli della maturità.
Le prime esperienze, intrise del torbido di moda anche se non prive
di spunti interessanti, non adeguatamente curate nell’impianto ed
eccessivamente retoriche, nocquero alle pubblicazioni successive
più equilibrate e interessanti, sia alle raccolte di racconti
(La bicicletta, Oro,incenso,mirra) sia ai romanzi più
importanti (La disfatta, Gelosia, Vortice, Olocausto), dove i
personaggi appaiono, a nostro avviso, ben delineati, le situazioni
esposte con sobrietà di scrittura, talora con pathos.
Giustamente Croce evidenzia La disfatta che considera “il più
ricco d’idee che abbia la contemporanea letteratura italiana”, con
“il mondo del suo sogno: una società di spiriti nobilissimi,
donne dall’intelletto alto e dal cuore sensibile, uomini che sono
filosofi, artisti, esploratori, scienziati, dei quali intende le
ansie e le lotte, gli abbattimenti e i voli”.
La disfatta è solo apparentemente un fallimento della vita se
il personaggio De Nittis, pur nel pieno di una solitudine che gli si
presenta come vuoto devastante, riesce a trovare ancora uno scopo
nella ricerca del mistero.
Ma Croce si sofferma maggiormente sulle opere storiche (Fino a
Dogali, La lotta politica in Italia, La rivolta ideale), afferma che
v’è ne La lotta politica in Italia il concetto di
libertà, vista come principio e scopo della storia, e riporta
la concezione di Stato come “individualità di un popolo,
capace di sentire sé stesso nella contraddizione della
propria continuità e nella opposizione con gli altri popoli”.
Gli dà merito di essere “scrittore e polemista assai logico”,
pur se “non è un logico”, “moralista acuto”, ma non “filosofo
della morale”, di essere quindi addentro ai concetti hegeliani e di
ripeterli, ma di non essere costruttore di un sistema filosofico.
Anzi talora annuncia delle perplessità sulla comprensione
piena di Hegel, poiché gli sembra che Oriani non deprivi del
tutto la storia del mistero storico.
La filosofia della storia non gli nasce, scrive il filosofo, “dalle
viscere stesse del Logo”, e riporta quanto avvertito dallo stesso
Oriani ed espresso nella premessa a La rivolta ideale: “Noi
chiamiamo leggi della natura le apparenze costanti dei suoi
fenomeni, e, guardando nella storia, siamo costretti a scegliere le
sue verità nei fatti e nelle forme che non vi mutano; poi, la
bellezza e la giustizia, irresistibili nell’istinto, diventano
l’inconsapevole norma dei nostri giudizi, l’illusione e insieme la
certezza del nostro ideale”.
La rivolta ideale è, a nostro avviso, l’opera storica che,
nella rivisitazione della Unità d’Italia di prossima
celebrazione, andrebbe riletta e posta all’attenzione per la visione
al di sopra di ideologie mazziniane, federaliste e monarchiche, di
cui analizza i limiti. Oriani, oltre a ribadire la pecca di una
rivoluzione non “opera di popolo” ma “sopruso eroico della sua
minoranza, aiutata da incidenze e coincidenze straniere”, a
condannare una Destra che si era “improvvisata una nazione nella
libertà” mentre realizzava soprusi e attuava il suo
giacobinismo, annuncia chiaramente quel che si era verificato
nell’accettazione forzata della monarchia, il peggioramento delle
condizioni di taluni stati preunitari.
Noi pensiamo alla decadenza del Sud dopo l’Unità, al sorgere
della Questione Meridionale, prima inesistente, alle industrie e al
primato del Sud precedente, alla sua moneta stabile, a certi
documenti mai posti all’attenzione, ai travisamenti della
storiografia ufficiale.
Pensiamo a quel che Oriani aveva previsto sarebbe stato della
monarchia, il suo futuro respingimento.
La rivolta da lui auspicata è da intendersi come una “nuova
aristocrazia” da realizzarsi con tutti i gruppi sociali, una
nobilitazione di vita e storia nelle forme, in una non mutazione
della essenza. E’ indubbiamente una rivolta speciale che parte dalla
interiorità di ciascuno per divenire attuazione di forme
nuove con cui soltanto può nobilitarsi il cammino umano.
Mussolini, esaltandolo come precursore del fascismo, indusse Croce a
frenare ogni eccesso nel nuovo saggio del 1935, dove con maggiore
forza viene annunciato che il merito di Oriani storiografo sta in
una opposizione intellettuale ai suoi tempi imbevuti di positivismo,
quello del romanziere in un animo poetico.
Anche il Duce gli nocque se, nonostante l’attenzione di Croce,
Gobetti, Serra e Gramsci, seguirà poi un tempo di silenzio
fino a Spadolini, cui faranno seguito altri.
Alfredo Oriani, che per il carattere intransigente e spigoloso visse
inoltre difficili vicende familiari nella villa paterna “Il
Cardello” – venne abbandonato da tutti, anche dalla sorella –,
ricercava, come abbiamo detto, la notorietà e, deluso dalla
scarsa risonanza delle sue pubblicazioni, si diede alla carriera
politica, pure questa senza gran successo per la sua intransigenza
che non lo fece approdare in Parlamento – ebbe un diverbio con
Crispi e lo piantò in asso alla stazione –, per cui rimase
semplice consigliere al Comune di Faenza.
Neppure il teatro, ultimo tentativo di stabilire un contatto diretto
con il grande pubblico attraverso drammi (La logica della vita,
Ultimo atto…), tragedie (L’invincibile, Gli ultimi barbari, Sul
limite…) e con una commedia (Momo) gli diede il bramato successo.
Precocemente invecchiato, verrà gratificato negli ultimi anni
dall’attività giornalistica con testate di prestigio
(“Corriere della Sera”, “La Stampa”, “Giornale d’Italia”…), anche se
la collaborazione non fu facile perché non ammetteva il
minimo cambiamento nei testi.
Per Papini il giornalista Oriani “fu grandissimo. Quella sua potenza
di risalire dal fatto piccolo all’idea grande, dal momento effimero
al più remoto passato, al più fantastico futuro… vi
rifulge incredibilmente, come se volesse dare, negli ultimi anni, le
sue prove più eroiche”.
Ma è grandissimo anche nelle opere storiche quando l’analisi
va al di là della retorica della storiografia ufficiale
asservita al potere.
Purtroppo ancora travisa la realtà di certa nostra storia.
da www.fiammacanicatti.it
MARZIO DELLA VENERE
ALFREDO ORIANI. IL PROFETA DIMENTICATO
"Più gli anni passano, più le generazioni si
susseguono e più splende questo astro, luminoso, anche quando
i tempi sembravano oscuri. Nei tempi in cui la politica del piede di
casa sembrava il capolavoro della saggezza umana Alfredo Oriani
sognò l'impero; in tempi in cui si credeva alla pace
universale perpetua, Alfredo Oriani avvertì che grandi bufere
erano imminenti le quali avrebbero sconvolto i popoli di tutto il
mondo; in tempi in cui i nostri dirigenti esibivano la loro
debolezza più o meno congenita, Alfredo Oriani fu esaltatore
di tutte le energie della razza". Con queste parole Benito
Mussolini, rivolgendosi ai giovani universitari fascisti in
occasione della celebre Marcia sul Cardello, commemorava il 27
aprile 1924 la figura e l'opera di Alfredo Oriani, il geniale e
sfortunato cantore di un'Italia per la terza volta unificata, ormai
avviata verso la modernizzazione e soprattutto pienamente tornata
d'ufficio nel firmamento delle potenze che contano.
Morto nel 1909 all'età di 57 anni, Oriani non avrebbe avuto
la ventura di assistere a tutto questo, ma nelle sue pagine aveva
più volte adombrato, quasi in una sorta di visione estatica,
sia pure lucida e coerente, quella grandezza nazionale che in epoca
fascista sarebbe divenuta realtà a tutti gli effetti.
All'Italietta decadente e corrotta liberal-giolittiana si era
sostituita l'Italia del Duce, che sui valori orianei della forza e
della gerarchia spirituale fondava la propria ragion d'essere.
L'interesse di Mussolini per Oriani fu sempre vivo e costante e non
è interpretabile, come vanamente si è tentato di fare,
con la comune "romagnolità" dei due personaggi (predappiese
l'uno, faentino l'altro). Il Duce in persona volle farsi curatore,
per i tipi dell'editore Cappelli, dell'obera omnia di Oriani, che fu
integralmente pubblicata in dieci anni al ritmo di un volume
all'anno. E fu ancora lui a stabilire che la casa dello scrittore,
sita nella frazione di Casola Valsenio (il famoso "Cardello"),
divenisse monumento nazionale. E non fu certo Mussolini a opporsi
quando Oriani venne a essere inserito tra i nomi di De Sanctis e
Carducci in tutte le antologie scolastiche. Oriani era stato il
profeta della Terza Italia, un grande scrittore e un degno
precursore dell'Italia romana e fascista. Era più che
doveroso che la Patria, riconoscente, gli tributasse il meritato
omaggio, anche se postumo.
LA VITA E LE OPERE
Breve e infelice la vita di Alfredo Oriani, povera di eventi di
particolare rilievo e costellata invece da malumori e
avversità. Nato a Faenza nel 1852 da Luigi e da Clementina
Bertoni, crebbe in un contesto familiare non proprio rassicurante e
idilliaco, a contatto con un padre che intendeva educarlo in maniera
inflessibile e una madre dal temperamento arcigno e caparbio, che
mai nutrì un affetto spiccato per il ragazzo, anche
perchè violentemente traumatizzata dalla morte precoce del
primogenito Ercole, per il quale erano andate esaurite tutte le
"scorte" di amore materno di cui era stata capace. Senza sua colpa
specifica, il giovanotto si ritrovò così rinchiuso in
collegio a Bologna, dove la sua intelligenza pronta e vivace gli
permise di conseguire a tempo di record la licenza liceale; e nel
1868 si trasferì a Roma per laurearsi in giurisprudenza, al
fine di assecondare i progetti del padre che miravano a fare di lui
il più valente avvocato della provincia forlivese.
Nel 1872 fu a Napoli, dove ottenne la laurea, ma al suo rientro al
Cardello -infliggendo un duro colpo alle ambizioni paterne- decise
di relegare in soffitta i codici e le procedure per dedicarsi alle
lettere. In quel luogo trascorse tutta la vita, senza una donna e
senza amici, solitario e meditabondo come un asceta. Tentò in
verità di darsi alla politica e lo fece con un discreto
successo, dal momento che tenne la carica di consigliere provinciale
a Faenza per diversi anni, ma non gli riuscì di farsi
eleggere deputato al Parlamento nazionale e questa sconfitta
esacerbò ulteriormente il suo animo già tormentato,
contribuendo a rafforzare l'isolamento al quale si era in un certo
senso condannato, tanto che i concittadini lo chiamavano, con
l'irridente franchezza tipica delle genti contadine, "el mal del
Cardel'. Deluso dalla vita e da quanto lo attorniava, e già
da tempo sofferente di cuore, si spense nel 1909 nel letto di casa,
ben ventisette anni prima che, dal balcone di Palazzo Venezia a
Roma, il Capo delle Camicie Nere proclamasse urbis et orbis
l'avvento di quell'Impero italiano che era stato l'autentico filo
conduttore di tutta la riflessione orianea.
Spirito turbolento e irrequieto, Oriani ebbe l'indubbio merito, in
tempi non sospetti, di stigmatizzare l'Italiuzza meschina e
materialista del suo tempo, schiava dei maneggi dei politicanti e
colpevolmente dimentica delle glorie passate e della sua tradizione
millenaria. In antitesi al culto del profitto officiato dai
sacerdoti del capitalismo e alle rivendicazioni sovversive dei
socialisti, egli sognava un'Italia forte e libera collocata nel suo
ruolo storico naturale, cioè tra le grandi potenze, auspicava
una collaborazione tra le parti sociali (quella stessa che
sarà alla radice del corporativismo fascista) che ponesse
fine alla lotta di classe, agognava un governo decisionista in grado
di tenere a freno le clientele e gli interessi sempre più
smodati dei partiti. Sono motivi facilmente rintracciabili anche
nelle sue opere teatrali, come La logica della vita, Ultimo atto,
L'invincibile, Gli ultimi barbari e Incredulità, che a prima
vista si presentano come uno strano intreccio di romanticismo e
verismo, ma che in realtà contengono in nuce gli embrioni di
quella potente sintesi analitica che costituirà il pregio
maggiore delle grandi produzioni orianee, quali La lotta politica in
Italia e soprattutto Rivolta ideale. Fu anche romanziere prolifico
{Al di là, Sullo scoglio, Il nemico, Olocausto, Gelosia, La
disfatta, Vortice) e apprezzato, già a pochi anni di distanza
dalla morte, anche se la storiografia letteraria preferisce
insistere sul tema del "povero Oriani dimenticato da tutti" e poi
improvvisamente innalzato sugli scudi dalla "propaganda" fascista,
che non avrebbe potuto lasciarsi sfuggire la ghiotta occasione di
individuare un precursore del nazionalismo novecentesco tra i
migliri scrittori di fine Ottocento.
Un testo per certi versi a sé stante è il racconto
Fino a Dogali (1887), che trae spunto dall'eccidio dei cinquecento
valorosi soldati capitanati da De Cristoforis, ma l'esaltazione
lirica di quei caduti e la strenua critica all'imbelle operato del
governo Depretis funge solo da pretesto per portare a compimento
un'acuta analisi dei grandi problemi dell'Italia postunitaria. La
lotta politica in Italia (1890) ne è perciò il logico
sviluppo e la piena sistemazione, perchè è in questa
sede che l'autore ripercorre con maestria le principali vicende
italiane dal 476, anno della caduta dell'Impero d'Occidente, all'evo
contemporaneo. La tesi centrale del libro è la "rivoluzione
tradita" del Risorgimento, misurata dal fatto -secondo Oriani- che
alla grande epopea risorgimentale, ricca di fermenti ideali e nobili
aspirazioni, ha fatto seguito l'indecoroso spettacolo dell'Italietta
trasformista e poi giolittiana, ipocrita e passivamente ignava come
mai era apparsa nella sua storia. E' oltretutto evidente che La
lotta politica non è esente da lacune o contraddizioni, come
è stato spesso sottolineato dalla zelante critica di
ispirazione marxista, ma non c'è nel complesso lacuna o
contraddizione che possa inficiarne la legittimità delle
accuse e il valore dell'opera. E' qui che Oriani insegna agli
italiani il rispetto della propria memoria storica, è qui che
rammenta loro il significato della tradizione di un popolo che
è stato creatore di civiltà per il mondo intero, ed
è qui che mette l'accento sul carattere fatale e ineluttabile
della sua gloria futura.
Ma il capolavoro orianeo è indiscutibilmente Rivolta ideale
(1906), libro tra i più esecrabili e indigesti per gli
"intellettuali" sinistrorsi del '900 e proprio per questo
particolarmente caro a Benito Mussolini. Con una visione serena e al
contempo maestosa degna degli antichi vati, Oriani ha qui descritto
quasi nei dettagli quella che poi sarà la realtà
dell'Italia fascista, passando in rassegna tutti i temi salienti
della futura dottrina dello Stato e del pensiero del fascismo: dalla
fatalità della guerra alla necessità dell'impero,
dalla negazione del socialismo e tanto più del comunismo al
principio di autorità e di gerarchia, dal senso sacro
dell'onore alla fedeltà alla causa superiore della Nazione,
non c'è aspetto ideologico, culturale o pedagogico del
fascismo successivo che egli non abbia tratteggiato con estrema
perizia e incredibile preveggenza. In quello stesso libro ebbe modo
di scrivere: "Ci vogliono vent'anni perchè L'Italia
attraversi tutta la palude della falsa democrazia e del vile
realismo economico e torni ad avere coscienza del suo cammino".
Vent'anni dopo, i conti son presto fatti, si era nel 1926, vale a
dire nel pieno della costruzione dell'Italia del Duce. E tuttavia vi
è chi, a proposito della Marcia sul Cardello sostenuta da
Mussolini nel 1924, ancora si ostina a discutere delle presunte
"incomprensioni" e "distorsioni" che degli scritti orianei che il
fascismo avrebbe alimentato per impadronirsi delle credenziali di un
illustre ascendente.
LA COMPLESSITÀ' DEL PENSIERO DI ORIANI
Per la Destra italiana del Novecento, Oriani rappresentò una
vera e propria "fabbrica di idee", o anche di miti se si preferisce,
a patto di riconoscere al termine "mito" non il significato volgare
e mediocre dei giorni nostri, ma quello primigenio e incorruttibile
di "eterno presente", capace di racchiudere un valore atemporale e
metastorico, non soggetto alle oscillazioni del divenire ma prezioso
e benefico in ogni epoca, al di là delle contingenze e
dell'incessante succedersi delle generazioni. Nazionalista e
"fascista" assai prima che nascessero l'ANI e i Fasci italiani di
Combattimento, storico assennato e giudizioso al punto da
guadagnarsi la stima crociana (poi rinnegata per ragioni politiche,
dopo che fu chiaro che Oriani era ormai considerato un apostolo del
fascismo), narratore di talento e prestigio (i romanzi Gelosia,
Vortice e Olocausto lo collocavano, tra il 1900 e il 1920, accanto
ad artisti del calibro di Hugo, Dostoevskij e Barbusse in fatto di
notorietà e di copie vendute), Alfredo Oriani fu tuttavia
soprattutto un grande idealista, innamorato del sacro suolo d'Italia
e in polemica contro tutti i nemici, più o meno reali e
più o meno insidiosi, della grandezza del Paese. Si è
detto, e qualcuno ancora ribadisce senza pudore per trasparenti
motivazioni di ordine "ideologico", che le sue ricostruzioni
storiche peccano di omissioni e incertezze, che la prosa dei romanzi
è retorica e sovrabbondante, che taluni giudizi da lui
formulati sono angusti o lapidari, dimenticando che
lacunosità e tortuosità sono presenti persino in
storici come Erodoto e Tucidide, che lo stile dei racconti della
seconda metà del XIX secolo è all'incirca lo stesso
per tutti gli autori decisi a indirizzarsi verso il "grosso
pubblico", che nessun altro studioso dell'età risorgimentale
ha saputo mantenere la medesima equidistanza e solarità di
giudizio con cui Oriani ha esaminato il percorso culminato nella
proclamazione del Regno d'Italia. Uno storico di formazione laica e
repubblicana come Spadolini non ha esitato a definirlo "il massimo
interprete del Risorgimento", colui che meglio di chiunque altro ha
saputo ridisegnare, nella Lotta politica in Italia, le fasi
successive della ricostruzione nazionale senza propendere né
per i Savoia né per le dominazioni straniere, ed evitando il
rischio di scivolare nel comodo provincialismo da campanile.
La sua concezione della vita fu virile e pessimistica, in quanto
fondata sui valori tradizionali dell'onore e della patria, della
fierezza della stirpe e della famiglia, del duro lavoro nei campi e
nelle officine, nel rispetto della natura e nella convivenza civile:
valori antichi quanto il mondo stesso, sui quali e con i quali
grandi e luminose civiltà si erano edificate ed erano vissute
(e quella romano-italica era stata una delle più importanti),
e che ora risultavano ignobilmente annacquati, corrosi, respinti
tanto dal gretto utilitarismo mercantilistico espresso dal mondo
borghese, quanto dall'incombenza sempre più famelica e senza
limiti dell'eversione socialista. Oriani pertanto ne ha per tutti,
imprenditori e nemici del popolo, preti e affamatori, socialisti e
politici illusionisti, anche se il suo obiettivo primario rimane
Giolitti, da lui classificato come "il più distruttore,
spiritualmente, che l'Italia abbia mai avuto". Giudizio sintomatico
come pochi altri per intendere la personalità dello scrittore
faentino, perchè è nell'avverbio posto tra le due
virgole ("spiritualmente") che si cela il senso profondo di tutta la
sua attività di polemista e di studioso della storia
d'Italia. Quello che interessa Oriani, quello che lo sgomenta e lo
disorienta più di qualsiasi innovazione pseudoscientifica o
di broglio elettorale, è la morte lenta e irreversibile dello
Spirito della Nazione, ormai decretata dall'egemonia delle
èlites finanziarie e industriali e stimolata dall'espansione
inarrestabile delle idee marxiste tra i ceti popolari. Pur se si
illudono di opporsi al dominio della borghesia - e di ciò
Oriani è fermamente convinto - i socialisti non sono che i
figli naturali e i legittimi eredi di una democrazia superficiale e
materialista, lontana dal popolo e dalle sue effettive esigenze,
inetta, bigotta, ipocrita e falsa come solo chi non ha altro nume
che il denaro può essere. Ma siccome "Hobbes ha ragione",
dirà in Memorie inutili, "e la società è la
guerra di tutti contro tutti: guai ai piccoli e ai deboli", nessuna
speranza può venire al popolo dall'estensione del suffragio o
dall'insurrezione delle fabbriche, miti malsani e moderni costruiti
ad arte dalla falsa coscienza borghese e dall'ancor più
disonesta propaganda socialista. I piccoli e i deboli, gli onesti e
i sinceri, i veri italiani che producono e soffrono, saranno
inesorabilmente schiacciati tra il martello della ribellione
classista e l'incudine dello sfruttamento capitalista, a meno che
non riusciranno a mettersi in cammino, al seguito di una nuova
aristocrazia spirituale che abbia a cuore non il proprio vile
tornaconto ma l'interesse supremo della Patria, e che sia a sua
volta guidata da un Capo, da un autentico leader, da una figura
carismatica che non tarderà ad arrivare, considerato
l'attuale disordine.
E' qui tutta la complessità estrema della riflessione
orianea, che va ben oltre il momento della pars destruens della
demolizione delle convenzioni e dei luoghi comuni del
"progressismo": smantellato tutto ciò che era da smantellare,
egli localizza con un tono che non si può qualificare se non
attraverso l'aggettivo "profetico" le soluzioni della pars
costruens. Dopo aver prospettato un quadro di rovine (quello del
mondo borghese contemporaneo, dove persino la scienza è
brutta, volgare, rozza e inumana), Oriani passa a indicare i rimedi
e le rettifiche, che consistono nella rivolta degli ideali e nel
primato della volontà sulle istanze mercantilistiche.
Tutto lo stile di Oriani è profetico e forse è questa
la ragione per la quale la critica letteraria incontra tante e tali
difficoltà nell'interpretare la sua opera e nel catalogare la
sua scrittura. Si può a buon diritto parlare di un vero e
proprio linguaggio oracolare, rarissimo da reperire in qualunque
altro autore, con le sole eccezioni di Sorel e D'Annunzio. Ma un
linguaggio, superfluo sottolinearlo, fortemente "fuori moda" in anni
tristi come quelli che stiamo attraversando, saturi di conformismo
ideologico e talk show al cloroformio. Motivo in più per
tornare a Oriani, alla sua pagina mossa e nervosa, previdente e
appassionata, alla sua onestà che non tollera i compromessi
di alcun genere, al suo legame interiore e profondo con la
Tradizione. Da non intendersi in senso evoliano, evidentemente, ma
anche questa meritevole di comparire con la T maiuscola: della
Tradizione Romano-Italica pur sempre si tratta.
RIVOLTA IDEALE
Il clou dell'argomentazione orianea, lo si è detto, è
raggiunto nella Rivolta ideale, in cui vengono esibite le soluzioni
per il problema-Italia, che dovranno giocoforza scaturire da una
rinnovata aristocrazia del pensiero in grado di fare piazza pulita
di tutte le molteplici aberrazioni prodotte dal liberalismo del
tardo Ottocento. Per Oriani, l'aristocrazia non è altro,
storicamente, che una superiorità dello spirito organizzata
dalla volontà nel comando. In ogni tempo, e in ogni gruppo
umano, l'eccellenza di alcuni individui permise loro di dominare gli
altri, che nella loro obbedienza barattavano la propria
libertà con la protezione ricevuta. Ecco il motivo per il
quale le prime aristocrazie furono religiose e guerriere, avendo
esse il compito di garantire ai deboli la serenità interiore
e un aiuto efficace nella dura lotta per la vita. L'istinto della
razza e le necessità storiche generavano così
nell'aristocrazia una classe responsabile della vita di tutti e
depositaria delle sue tradizioni: era sempre l'aristocrazia a
pensare e decidere per sé e per gli altri, a rappresentare la
patria e i costumi religiosi, a organizzare i clan, le famiglie, il
lavoro. Oggi malauguratamente l'aristocrazia non esiste più,
avendo perduto -a vantaggio delle chiacchiere parlamentari e della
piazza- la sua funzione di comando e di stimolo, ed è
utopistico sperare che possa in qualche modo venir fuori un nuovo
patriziato da quella classe affaristica e borghese che tanto ha
lottato per spodestare l’ancien regime. Un aristocratico libertino
dedito all'ozio e ai vizi non è un aristocratico,
poiché non coordina e non dirige il popolo dall'alto. Per
rinnovare la funzione aristocratica, occorre ridarle una coscienza
che ne fortifichi il carattere e non il reddito e metta in azione
l'attitudine al comando e all'organizzazione. Questo perchè
un'aristocrazia è il corpo scelto di una nazione, oppure non
è nulla. L'Italia contemporanea non ha più alcuna
élite e i suoi grandi nomi riempiono soltanto le cronache
mondane e quelle dello sport, il che significa ricchezza senza
eccessivi problemi, lusso senza personalità, forma senza
contenuto. Nell'assenza dell'aristocrazia l'umanità si
dibatte confusa e sconnessa, avanza senza sapere dove, guarda in
alto e trova il cielo vuoto, non ha fede e invoca una nuova
rivelazione, crede di essere libera e non sa comandare neanche a se
stessa, più ricca che in passato e più miserabile che
mai. Il trionfo dell'industria doveva fatalmente portare a questo
stato di cose, in quanto l'era industriale ha un unico ideale, la
ricchezza, e non ammette nient'altro. La formula del guadagno a
tutti i costi ha invaso tutti gli ordini della società e
livellato tutte le opere, perchè tutti vogliono sempre e solo
guadagnare, dall'imprenditore più benestante al più
ottuso dei bottegai. Ciò ha segnato l'apoteosi
dell'ignoranza, della materia, della volgarità, e lo si vede
benissimo nella religione arroccata in difesa dei suoi privilegi,
nella filosofia (dove viene celebrato il più deplorevole dei
sistemi, quello positivista), nell'arte sempre più goffa e
stravagante,nella cultura becera e provinciale, nella società
rozza e isterica.
Profittando delle circostanze propizie, l'Italia ha realizzato
nell'Ottocento una straordinaria rivoluzione, quella che ha condotto
all'unità territoriale del Paese, e lo ha fatto con pochi
uomini e ancor meno mezzi. Ma si è trattato di una
rivoluzione monca e imperfetta, proprio perchè non è
stata concepita né attuata dal popolo. Il compito che attende
gli italiani del Novecento non potrà allora che essere quello
di fare finalmente una grande Italia, con il concorso e la
cooperazione di tutti. Ma nessuna grande Italia potrà mai
sorgere in uno Stato come quello liberale e democratico, che non sa
e non intende distinguere tra razza, popolo e nazione, che ignora o
finge di ignorare che lo Stato è l'individualità di un
popolo, è la sintesi compiuta del suo diritto, della sua
religione, della sua morale e della sua storia sociale e culturale.
Prima ancora di pervenire, con il codice delle leggi, alla
più alta e matura consapevolezza di sé, lo Stato
già esiste in uno spirito che si compone degli istinti
caratteristici della stirpe e di talune differenze variabili da
etnia a etnia, e che già pienamente formano lo spirito della
nazione. Lo scarto tra i diversi spiriti nazionali si misura
essenzialmente in base alla potenza dell'ideale e
all'originalità della sua espressione: questa è la
ragione per la quale non tutti i popoli sono uguali, e non tutte le
civiltà prodotte hanno lo stesso valore di fronte alla
storia.
Le orride teorie positivistiche dell'Ottocento, prosegue Oriani,
hanno a tal punto inorgoglito il fiacco e amorfo individuo del
nostro tempo da indurlo a pensare che la sua potenza - che
può apparire tale solo in superficie - sia di fatto
illimitata, per cui in nome della chimera-libertà egli non
è più disposto ad accettare la benché minima
restrizione al suo raggio d'azione. Ma non tutto può essere
concesso e non a tutti, regola questa che si insegna ai bambini sin
dal corso della prima infanzia.Il più grande e urgente
problema di questo secolo non è la libertà, ma
l'autorità, è il rispetto delle norme e di chi le fa
applicare, è la necessità di gestire la cosa pubblica
nell'interesse della collettività e non dei potentati
economici. Le tossine sparse a piene mani dalla demagogia populista
democratica e dall'eversione marxista hanno purtroppo a tal punto
contaminato il pensiero dell'europeo moderno da spingerlo, senza che
ne arrossisca, a rifiutare ogni residuo vincolo con la Tradizione
dei suoi avi, a reputare ingiusto e arbitrario il principio
d'autorità e di gerarchia, a
considerare ignobile il passato delle nazioni, caratterizzato
da "schiavismo", oppressione della donna, tirannide e così
via. Anche l'imperialismo oggi gode di pessima fama, a causa della
prevalenza del fattore mercantilistico che ha trasformato le
generose terre d'Asia e d'Africa in terre di conquista per i mercati
occidentali. Ma questa per lo scrittore è solo la versione
degenerata e putrida dell'imperialismo industriale rampollo della
ribellione borghese del Settecento, e non si può dimenticare
con troppa facilità che invece l'imperialismo vanta origini
nobili e profonde, essendo nato da una passione antica e degna di
venerazione, che è quella che mira alla più sacra e
ambiziosa meta della storia: l'unità e la totale
pacificazione del genere umano, da potersi ottenere solo nel grande
impero universale vagheggiato da tutti gli uomini degni di fregiarsi
di questo appellativo.
Quale dovrà dunque essere, in un contesto siffatto, il
compito che attende ogni vero italiano? Essere forti per diventare
grandi, questo per Oriani è il dovere: espandersi,
conquistare spiritualmente e materialmente, con l'emigrazione, con i
trattati, con i commerci, con l'industria, con la scienza, con la
religione, con l'arte, con la guerra. Ritirarsi dalla grande
competizione internazionale è impossibile, e questo significa
che bisognerà trionfarvi. L'avvenire sarà di coloro
che non lo avranno temuto, perchè la fortuna e la storia da
sempre sorridono ai forti che sono capaci di soggiogarle.
Anziché seguire allora le strampalate teorie del femminismo e
del socialismo, che esigerebbero la donna uguale all'uomo (che
è un assurdo anche in termini biologici) e il proletariato
uguale alla borghesia (che è un assurdo anche in termini
economici), l'Italia dovrà subito porsi il problema di
allevare un popolo nuovo, giovane, ardente, in grado di presentarsi
puntuale all'appuntamento con la storia, dal momento che l'ora della
rivolta ideale sta finalmente per scoccare. Cos'è la "rivolta
ideale", in definitiva, secondo il punto di vista dello scrittore
faentino? "Non falsare la lotta umana con inutili espedienti di
legge", egli afferma nella parte conclusiva del sesto capitolo
dell'opera, "lasciare libero l'individuo per imporgli tutte le
responsabilità: non pretendere di sostituire la religione
colla scienza, la concorrenza colla cooperazione, la famiglia col
libero amore, la patria col cosmopolitismo, la gloria colla
celebrità: volere nell'uomo tutto l'uomo, colle angosce della
sua fede, coll'eroismo della sua carità, col calcolo della
sua ragione, col suo istinto e col suo genio, che fanno di tutte le
generazioni un uomo solo: proclamare che la verità è
soltanto nell'ideale ma dentro un mistero, nel quale il dolore mette
una voce e il pensiero un lampo: amare nella speranza del bene,
quando la gioventù sorride; amare nella pietà del
male, quando la vecchiezza non sa nemmeno più piangere:
salire a tutte le bellezze, credere a tutte le virtù,
consentire tutti i sacrifici offrendosi intero alla vita e
accettando la morte come un premio: ecco la rivolta ideale":
A farsi carico della conduzione della rivolta ideale dovrà
essere la nuova aristocrazia italiana dello spirito, chiamata a
prendere il posto dell'antica oligarchia guerriera e sacerdotale.
L'aristocrazia autentica infatti non muore mai. "L'aristocrazia
è immortale.
La superiorità, che prepara il carattere aristocratico,
comincia nella natura degli individui: è una eccellenza, che
li rende diversi dalla folla e da essa facilmente riconoscibili:
quindi per segreta affinità elettiva s'adunano, la loro
medesima uguaglianza li gradua, le differenze di attitudini
suggeriscono le gerarchie, l'unità dell'opera li fonde e la
sua durata consolida il loro ordine".
PENSIERINO CONCLUSIVO
Nei Quaderni dal carcere, l'intellettuale comunista Antonio Gramsci
scrisse questo giudizio su Alfredo Oriani: "Occorre studiare Oriani
come il rappresentante più onesto e appassionato per la
grandezza nazionale-popolare italiana, fra gli intellettuali
italiani della vecchia generazione": Questo elogio del mal del
Cardel ha mandato su tutte le furie l'intellettuale comunista
Alberto Asor Rosa, che nella Storia d'Italia edita da Einaudi si
è chiesto, con suo profondo rammarico, perchè mai il
padre fondatore del PCI abbia stilato un parere così positivo
del profeta del fascismo. Non sarà che Gramsci aveva intuito
che l'idea di popolo coltivata da Oriani fosse la più vera e
la più schietta, lontana com'era dalle fisime barricadere
della "lotta di classe" dei seguaci di Karl Marx?
http://www.istitutostudistoricigaribaldi.it
Riccardo Scarpa: L'ideale "garibaldino" di Alfredo Oriani
L’opera di pochi pensatori e letterati potrebbe essere definita
suscettibile di riflessioni attuali quanto i saggi storiografici e
politici od i romanzi d’Alfredo Oriani, addormentatosi un secolo fa,
il 18 di ottobre del 1909, cinquantasettenne, nel suo Cardello di
Casola Valsenio. Idealista nella temperie del primo positivismo,
all’oggi, estremo crepuscolo delle ideologie, sistemi di pensiero
strumentali alla propaganda politicante, la sua Rivolta Ideale,
cioè per l’idea in sé che si deve eticamente attuare,
potrebbe essere l’alternativa al sopravvivere giorno per giorno. Le
sue pagine sul Risorgimento, nella Lotta politica in Italia, furono
tra le prime riletture critiche al di là delle celebrazioni,
che suscitarono dibattito e dovrebbero essere oggetto d’una
rilettura quanto mai utile nell’attuale fase nazionale, tutte
centrate come sono sul contrasto fra “federali” ed unitarî,
nel senso che quei termini ebbero ed hanno nella polemica partitica
in Italia, dove vengono chiamati colla prima espressione coloro che
esatta terminologia costituzionale indicherebbe ovunque come
“confederali” ed anti unionisti.
Centrale nel pensiero storiografico d’Alfredo Oriani è la
figura di Giuseppe Garibaldi, eroica in quanto incarnazione d’un
tipo ideale. Infatti in Oriani l’Ideale si fa realtà storica
attraverso lo svolgimento d’un ciclo di Pensiero, Volontà,
Azione e forma realizzata, che si manifesta appieno nel
Risorgimento, in cui il pensiero unitario mazziniano si sarebbe
insterilito nel settarismo, l’azione diplomatica dei moderati
avrebbe corso il rischio di smembrarsi nel localismo confederale, se
non fosse intervenuta la Volontà realistica dei
“garibaldini”: innanzitutto dell’Eroe, unitario già in
America, e poi di Francesco Crispi, nella costruzione dello Stato
repubblicano in forma Monarchica, con cui il Risorgimento fu
coronato dall’acume di Vittorio Emanuele II e dal cuore di Umberto
I, ed all’Oriani in allora parve anche dalle tendenze di Vittorio
Emanuele III.
L’Istituto Internazionale di Studî “Giuseppe Garibaldi”
s’è assunto l’onere di onorare ufficialmente nella Capitale
la figura d’uno spirito garibaldino come Alfredo Oriani, con una
rivolta ideale che sia di Lui degna e inversamente proporzionale
alla diminuzione di senso di cui ha sofferto la sua opera nella
lettura datane nella seconda metà del novecento. Ad Alfredo
Oriani non giovò, in quel periodo storico, l’attenzione di
cui lo fece segno Benito Mussolini, che indicò nel ferrarese
un maestro del suo pensiero e del quale volle curare personalmente
l’edizione dell’opera omnia; d’altra parte l’incultura diffusa non
permise alla memoria dell’Oriani neppure di giovarsi dell’analoga
considerazione che nutrì per lui Piero Gobetti, che del
fascismo fu oppositore e martire ed avrebbe voluto essere, qualora
avesse avuto il tempo di completare l’opera sua, con Risorgimento
senza eroi e Rivoluzione liberale, il continuatore proprio di Lotta
politica in Italia nella propria epoca, come giustamente notò
Giovanni Spadolini, ed è tipicamente orianiano nello stile
del periodare e nel tono del vocabolario, mutuazioni che
s’acquistano solo con una continua ed appassionata frequentazione
d’un autore.
Il Prof. Avv. Riccardo Scarpa, membro del Consiglio Direttivo
Centrale di questo Istituto, è altresì docente di
Storia delle dottrine politiche nell’Università degli
Studî di Roma “La Sapienza”, di Sociologia dei fenomeni
politici e Sociologia politica e del diritto nell’Università
degli studî “RomaTre”.