La “filosofia della praxis” nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci

Fabio Frosini

f.frosini@uniurb.it

Summary: “Philosophy of praxis” is the concept used since 1932 by Antonio Gramsci in his Prison Notebooks (notebooks 10 and 11) as a substitute of “Marxism”. It is quite possible that one among the reasons for this conceptual choice was the circumspection of the prisoner Gramsci vis-à-vis the censor. However, as this article tries to show, all the conditions which make that substitution possible are already present in the period 1929-1932. Throughout that period, Gramsci elaborates an original reconsideration of Marxism, culminating in a proposal that he expressly announces as “philosophy of praxis”. The concept draws explicitly on the work of Antonio Labriola and is defined, in accordance with Labriola, as denoting the core of Marxist philosophy. Specifically, Gramsci argues that Marxist philosophy is born out of historical materialism, rather than other philosophical positions such as Idealism and Materialism. This article describes the genesis of the philosophy of praxis by means of a close reading of the Notebooks. Contrary to received wisdom, the article argues that this concept – albeit in a sketchy and rather vague way – is already present in 1930, with the subsequent two years being dedicated to defining it in every detail.

 
Premessa (di metodo)

La scienza non è il pensiero di questo o di quello, non questo o quel principio, ma è produzione attiva, continua di quel cervello collettivo che dicesi popolo, produzione impregnata di tutti gli elementi e le forze e gli interessi della vita.

(Francesco De Sanctis, La scienza e la vita)
 

Trattare della «filosofia della praxis» nei Quaderni del carcere potrebbe apparire un’impresa disperata. Infatti si può dire che il senso complessivo del marxismo di Gramsci è contenuto in questa denominazione, scelta da Gramsci non a caso, ma non inventata né da lui, né da Marx, bensí riconducibile a una precisa tradizione delle letture di Marx, una tradizione italiana (tornerò su questo punto). D’altra parte, è a mio (e non solo mio) avviso non solo opportuno, ma indispensabile dedicare uno studio a questa nozione caratterizzata da uno statuto all’apparenza peculiare, in quanto esso ci dà la possibilità di gettare uno sguardo dentro il macchinario propriamente teorico che fa muovere i concetti sulla scena dei Quaderni. La «filosofia della praxis», infatti, non è propriamente né un lemma (come può essere ad es. la coppia Stato/società civile), né il nome comune di una famiglia di lemmi (come può essere ad es. il grande tema degli intellettuali), ma è un’articolazione concettuale che si caratterizza per la sua capacità di produrre teoria, cioè di articolare o riarticolare concetti (lemmi)[1].

Detto questo, va aggiunto che i Quaderni possono essere affrontati anche da un punto di vista cronologico, e che anzi questo tipo di indagine, se non viene estremizzato in uno sguardo privo di appigli sistematici (e in fin dei conti inconsapevole delle implicazioni teoriche presenti in ogni singolo testo), è base e premessa imprescindibile a qualsiasi ricostruzione complessiva di questa opera (e di questo pensiero) cosí singolare. Dunque il tema della “filosofia della praxis”, nonostante la sua ampiezza e centralità, va anzitutto affrontato da un punto di vista ristretto, ossia come ricerca del modo in cui nel testo dei Quaderni compare dapprima, e si viene man mano affermando, l’uso di questa locuzione; a condizione tuttavia che questo approccio non perda di vista la dimensione sistematica del pensiero di Gramsci[2], e che si riduce in definitiva a ricordare che queste parole e locuzioni di cui tentiamo di ricostruire la storia sono dei concetti, e che può anche accadere che un concetto compaia talvolta celato sotto una veste linguistica difforme, che si tratterà allora, usando il buon senso, di riconoscere e segnalare[3]. Tenterò dunque, nelle pagine che seguono, di ricostruire il comparire e l’affermarsi della locuzione/concetto “filosofia della praxis”, tenendo però presente che ciò rinvia sempre a un orizzonte piú ampio di quello visibile di volta in volta grazie a questo tipo di approccio, un orizzonte che tenterò di integrare nella ricostruzione non come qualcosa di esterno, ma come la dimensione sistematica necessariamente inerente al peculiare statuto che la filosofia della praxis riceve nei Quaderni.

Questo contributo sarà pertanto una ricostruzione della storia della “filosofia della praxis” (intesa in senso ristretto) nei Quaderni, una storia, come si vedrà, che si esaurisce in definitiva in un numero di testi abbastanza ridotto, testi compresi nel periodo che va dall’autunno del 1930 al principio del 1932 (dal Q 4 al Q 8). A quell’altezza infatti il processo di progressiva definizione della filosofia della praxis in quanto fondamento filosofico del materialismo storico può dirsi compiuto, e avviene (anche per ragioni prudenziali, com’è noto) la sostituzione sistematica di questa espressione a «materialismo storico» e «marxismo»[4]. Di qui in avanti i tratti peculiari della filosofia della praxis si ritrovano tutti nel marxismo che Gramsci sviluppa, ma non piú in quella forma esplicita e argomentata che caratterizza la storia precedente. È per questo motivo che fare la storia della locuzione ci metterà a diretto contatto con la riflessione di Gramsci sulla sua particolarità, e dunque sulle specifiche ragioni che lo inducono a usarla, e cioè a presentare il marxismo in questa particolare variante. Questo condurrà a porre il problema dei punti di riferimento, ovvero dei precedenti teorici e terminologici della filosofia della praxis (le “fonti” di Gramsci), ciò che però non potrà essere sovrapposto alla ricostruzione filologica, ma sarà da essa dipendente.


Un’ultima osservazione. La locuzione “filosofia della praxis” (o “prassi”) non è coniata da Gramsci. Essa risale ad Antonio Labriola (1897) e, attraverso la traduzione e presentazione delle Tesi su Feuerbach da parte di Gentile (1899), si afferma nell’Italia tra i due secoli come una peculiare modalità in cui viene condensato il senso della filosofia di Marx. Dopo Gentile, molti altri si troveranno a dibattere sul tema (si pensi solamente a Rodolfo Mondolfo (1909) o a Giuseppe Capograssi (1933), e si troveranno a farlo in riferimento (simpatetico o meno) alla lettura gentiliana, piú ancora che a un’autonoma ricostruzione dei testi[5]. Scegliendo di porre il concetto di praxis al centro del proprio “ritorno a Marx”[6], Gramsci era perfettamente consapevole di iscrivere la propria riflessione in un solco ben determinato, che presentava peraltro al suo interno alternative rilevanti e anche drammatiche, ma che era in ogni modo già una scelta di campo precisa: una scelta a favore della tesi dell’autonomia filosofica del marxismo contro la sua riduzione a canone di interpretazione storica (Croce). E di fronte a questo non conta osservare che Gramsci non aveva a propria disposizione, in carcere, né il Discorrendo, né La filosofia di Marx, perché questi testi li conosceva benissimo e non aveva certo bisogno di sfogliarli di nuovo per prendere posizione rispetto a essi[7].

1. Il contesto dal «Primo quaderno» agli «Appunti di filosofia»

Dopo aver portato a termine il «Primo quaderno» (o poco prima), nel maggio 1930, Gramsci – oltre a proseguire il lavoro parallelo al Q 2, che si prolungherà per diversi anni – mette mano a due altri quaderni contemporaneamente, il 3 (che gli servirà a raccogliere le note miscellanee secondo il metodo già inaugurato nell’1) e il 4, dividendolo in due metà ed avviando la seconda con una sezione intitolata «Appunti di filosofia. Materialismo e idealismo. Prima serie» (c. 41r). Dunque, dopo aver precisato nel corso di quasi un anno (giugno 1929-maggio 1930) i margini e le motivazioni di fondo della propria ricerca, Gramsci procede a una suddivisione e primo ordinamento del lavoro, e inaugura una sezione dedicata esclusivamente alla filosofia. Tale sezione è cosí il primo (in senso cronologico)[8] spazio dei Quaderni a venir delimitato e ad acquisire un’autonomia fisica, molto prima, ovviamente, che sorgesse l’idea dei «quaderni speciali». È importante sottolineare questo punto, perché la maggior parte delle note raccolte in AF I-III confluirà nei Q 11 e 10, ma ciò accadrà in un contesto teorico mutato rispetto a quello iniziale.

Intanto, si può dire che AF I si pone in continuità rispetto alla voce «Teoria della storia» nell’elenco tematico del Q 1. L’obiettivo di ridefinire i contorni del marxismo come «teoria della storia»[9], cioè essenzialmente come concezione materialistica della storia in confronto da una parte con la volgarizzazione di Bucharin, dall’altra con le critiche di Croce, e in tale sua caratteristica come unica filosofia possibile dopo Hegel, è un’esigenza che scaturisce direttamente dalla meditazione del Q 1 sulla crisi di egemonia («crisi di autorità», americanismo, ecc.) e sulle correnti filosofiche contemporanee (pragmatismo, attualismo), con al centro la capacità di Croce di costituire un punto di riferimento per gli sforzi di costruzione di un nuovo universo ideale e ideologico di egemonia borghese. La convinzione che la «storia etico-politica» sia l’unica posizione filosofica contemporanea in grado di porsi coscientemente sullo stesso terreno del marxismo, quello dell’unità di filosofia e storia, è la linea di continuità tra il Q 1 e gli AF I.

Croce è per Gramsci il filosofo borghese che meglio di tutti ha compreso il valore del marxismo e il pericolo che esso rappresenta. È vero che in AF I i testi espressamente a lui dedicati sono relativamente pochi (anche se fondamentali, come 4,15, o molto significativi, come 4,22, entrambi intitolati «Croce e Marx»), ma è la stessa rete di categorie e di problemi attraversati da AF I a scaturire dal confronto con Croce sulla «teoria della storia». Già in questa fase, nella quale gli aspetti di differenziazione antitetica prevalgono su ogni altro, sono però presenti dei tratti che singolarmente avvicinano l’argomentazione a punti qualificanti del pensiero crociano, quasi che Gramsci intenda criticarlo facendo leva su di esso (o su parti di esso). Un breve appunto di AF I (il già citato 4,22) tira esplicitamente una linea di continuità tra le riflessioni dei quaderni 1 e 3, e quelle di AF I:

Croce e Marx. Il valore delle ideologie. I fenomeni della attuale decomposizione del parlamentarismo possono dare un esempio per la discussione sul valore delle soprastrutture e della morfologia sociale (quistione della crisi d’autorità ecc.: vedi note sparse) [Q 442].

Effettivamente, è il «valore delle soprastrutture» il tema che Gramsci sviluppa in AF I quale principale innovazione rispetto al vecchio materialismo storico; ma è proprio questo tema che egli vede sviluppato nel Croce della «storia etico-politica», la quale è cosí non soltanto un’arma contro il materialismo storico, ma anche, indissolubilmente, un tema filosofico con cui confrontarsi produttivamente. Ciò che intendo mostrare, è dunque che l’idea di una «filosofia della praxis» sorge fin dall’inizio – e viene poi coerentemente sviluppata – come fondazione filosofica del «valore delle soprastrutture», e quindi come alternativa radicale al pensiero di Croce e alla sua egemonia e, attraverso essi, alla «filosofia […] tradizionale» [1,132; Q 119] in genere.

2. I due piani della storia del marxismo (Croce, Weber, Luxemburg)

Gli «Appunti di filosofia» iniziano [4,1; Q 419-421] con un testo tecnico, fortemente filologico, in cui Gramsci propugna un rigoroso ritorno a Marx dietro i marxismi e dietro lo stesso Engels; e proseguono con una breve ma densa storia critica delle disavventure della filosofia marxista nel Novecento (4,3 [Q 421-425]: «Due aspetti del marxismo», da integrare con 3,31 [Q 308-310]: «Riviste tipo»[10]), colta sotto l’angolo visuale non solo del suo statuto teorico, ma al contempo come «momento della cultura moderna» che «in una certa misura ne ha determinato e fecondato le correnti» [Q 421]:

Il lavoro è molto complesso e delicato. Perché il marxismo ha avuto questa sorte, di apparire assimilabile, in alcuni suoi elementi, tanto agli idealisti che ai materialisti volgari? Bisognerebbe cercare i documenti di questa affermazione, ciò che significa fare la storia della cultura moderna dopo Marx e Engels [Q 422].

I due piani sono distinti. Nella storia della cultura il marxismo è risultato vincente, perché le varie revisioni e i vari assorbimenti piú o meno impliciti testimoniano della sua espansività. Certo questa espansività non è un processo meramente meccanico, ma rende conto al contempo delle capacità reattive del «vecchio mondo», come si legge in un testo di poco posteriore:

In realtà, il materialismo storico non ha bisogno di sostegni eterogenei: esso stesso è cosí robusto, che il vecchio mondo vi ricorre per fornire il suo arsenale di qualche arma piú efficace. Ciò significa che mentre il materialismo storico non subisce egemonie, incomincia esso stesso ad esercitare una egemonia sul vecchio mondo intellettuale [4,14; Q 435 s.].

Questa posizione è singolare, in quanto Gramsci è ben conscio, d’altra parte, del fatto che la storia del marxismo è in un certo senso un fallimento:

Il marxismo aveva due compiti: combattere le ideologie moderne nella loro forma piú raffinata e rischiarare le masse popolari, la cui cultura era medioevale. Questo secondo compito, che era fondamentale, ha assorbito tutte le forze, non solo «quantitativamente», ma «qualitativamente»; per ragioni «didattiche» il marxismo si è confuso con una forma di cultura un po’ superiore alla mentalità popolare, ma inadeguata per combattere le altre ideologie delle classi colte, mentre il marxismo originario era proprio il superamento della piú alta manifestazione culturale del suo tempo, la filosofia classica tedesca [Q 422 s.].[11]

Di qui, da una parte la necessità di porre la questione propriamente teorica, ma dall’altra, nella convinzione di Gramsci, la riformabilità del marxismo, la sua disponibilità a essere risollevato all’altezza del compito per il quale era nato, proprio perché la sua caduta è in fin dei conti un’«affermazione» e (per quanto di negativo contiene) una circostanza esteriore («didattica»). Acquista cosí significato la coppia, ripresa da Croce[12], «Riforma e Rinascimento», trattata in 4,3, e piú tardi – in 7,43-44 – elevata a modello «comprensivo» di interpretazione del «processo molecolare di affermazione di una nuova civiltà» [7,43; Q 891], e in particolare riferita all’Unione Sovietica («se si dovesse fare uno studio sull’Unione, il primo capitolo, o addirittura la prima sezione del libro, dovrebbe proprio sviluppare il materiale raccolto sotto questa rubrica “Riforma e Rinascimento”» [7,44; Q 893]). La questione viene cosí presentata in 7,43:

Si tratta, è vero, di lavorare alla elaborazione di una élite, ma questo lavoro non può essere staccato dal lavoro di educare le grandi masse, anzi le due attività sono in realtà una sola attività ed è appunto ciò che rende difficile il problema (ricordare l’articolo della Rosa sullo sviluppo scientifico del marxismo e sulle ragioni del suo arresto); si tratta insomma di avere una Riforma e un Rinascimento contemporaneamente [Q 892].

Il riferimento a Stillstand und Fortschritt im Marxismus (1903) della Luxemburg[13] era presente anche in 4,3 [Q 422] e in 3,31 [Q 309], dove serviva, esattamente come qui, a trovare un nesso tra i due piani: espansione quantitativa nella cultura e regressione qualitativa nella teoria. In quel testo la Luxemburg parla, in effetti, dei diversi momenti storici in cui vengono effettivamente “letti”, diventando attuali per il livello raggiunto dalle lotte operaie, i diversi libri del Capitale; ma Gramsci generalizza il discorso a tutto lo spazio della teoria:

I fondatori della filosofia nuova avrebbero precorso di molto le necessità del loro tempo e anche di quello successivo, avrebbero creato un arsenale con armi che ancora non giovavano perché anacronistiche e che solo col tempo sarebbero state ripulite.[14]

L’arresto nello sviluppo del marxismo trova cosí la sua ragione, e il prezzo pesante pagato alla sua diffusività si giustifica, in certo modo, nella prospettiva di uno strumentario teorico in anticipo, che è solo ora davvero possibile, dunque necessario, “ripulire”, in quanto, in presenza oramai di uno Stato operaio, «è veramente necessario creare un’alta cultura» [4,2; Q 425].

L’esposizione che precede può aver dato l’impressione della presenza, nell’approccio gramsciano, di un certo evoluzionismo, innegabile per il verso dal quale l’impostazione dipende dallo schema crociano Riforma/Rinascimento:

Rinascita-Riforma – Filosofia tedesca – Rivoluzione francese – laicismo liberalismo – storicismo – filosofia moderna – materialismo storico. Il materialismo storico è il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale, nella sua dialettica cultura popolare-alta cultura. Corrisponde alla Riforma + Rivoluzione francese, universalità + politica; attraversa ancora la fase popolare [Q 423 s.].

Cosa garantisce, in effetti, che da questa «fase popolare» il marxismo si risollevi effettivamente a una superiore elaborazione (che si colmi insomma il distacco tra Riforma e Rinascimento)? Da un punto di vista crociano la garanzia sta nella struttura metafisica dello Spirito, secondo la quale non vi è “egoismo” che non trovi prima o poi una superiore elaborazione “morale”. Gramsci eliminerà piú tardi qualsiasi apparenza di meccanicismo nel nesso Riforma-Rinascimento attraverso una duplice mossa teorica. In primo luogo, leggerà quel nesso alla luce della weberiana dialettica del calvinismo, che diventerà per lui un modello di comprensione storica universale, dunque capace di dare ragione anche degli sviluppi sovietici[15]. Ma la dialettica del calvinismo verrà da lui letta, a sua volta, come illustrazione del modello di spiegazione, ricavato in ultima analisi dalla Luxemburg, della «anticipazione teorica»: «C’è sempre una parte del tutto che è “sempre” dirigente e responsabile e la filosofia della parte precede sempre la filosofia del tutto come anticipazione teorica» [8,205; Q 1064][16], scrive riferendosi a «come è avvenuto [in Urss] il passaggio da una concezione meccanicistica a una concezione attivistica» [Q 1064]. Dunque quello che a Weber appare un ribaltamento paradossale, e a Croce un salto evolutivo, è finalmente identificato da Gramsci come attuarsi della dialettica filosofia-senso comune, intellettuali-popolo, che, se trova la propria radice in quella scintilla di attività, di “volitività” che è presente in ogni uomo (perché implicita nel gesto anche piú umile e degradato), non è d’altra parte sufficiente, di per sé, a garantire il processo dell’effettiva liberazione, che è invece compito della politica.

In questo modo l’uso del modello Riforma/Rinascimento perde qualsiasi connotazione fatalistica, e diventa possibile comprendere come possa darsi una necessità storica la cui realizzazione sia affidata alla prassi e la cui stessa possibilità sia fondata sulla natura della prassi in quanto radice della libertà (in quanto possibilità di un’effettiva liberazione). Ma va notato che quello che ho illustrato è l’esito (all’altezza del Q 8) di un percorso, i cui elementi sono presenti, accanto a quelli “crociani”, già nel 1930:

Si può dire della filosofia del marxismo ciò che la Luxemburg dice a proposito dell’economia: nel periodo romantico della lotta, dello Sturm und Drang popolare, si appunta tutto l’interesse sulle armi piú immediate, sui problemi di tattica politica. Ma dal momento che esiste un nuovo tipo di Stato, nasce concretamente il problema di una nuova civiltà e quindi la necessità di elaborare le concezioni piú generali, le armi piú raffinate e decisive. Ecco che Labriola deve essere rimesso in circolazione e la sua impostazione del problema filosofico deve essere fatta predominare. Questa è una lotta per la cultura superiore, la parte positiva della lotta per la cultura [3,31; Q 309].

Il richiamo al modello fornito dalla Luxemburg conduce a Labriola, cioè a una «lotta per la cultura superiore», lotta che deve essere combattuta, e che può pertanto anche essere perduta: lo Stato può bloccarsi alla fase del fatalismo, il marxismo rimanere a quella della Riforma senza Rinascimento.

3. Riattivare il concetto di «praxis» (Labriola, Engels)

Nel nome di Labriola occorre condurre la ricomposizione teorica dei disiecta membra del marxismo. Di lui si dice in 4,3 che è l’unico ad aver affermato «che il marxismo [...] è una filosofia indipendente e originale» [Q 422], “anticipando” cosí la fase “statale”. E in 3,31: «Il Labriola, affermando che la filosofia del marxismo è contenuta nel marxismo stesso, è il solo che abbia tentato di dare una base scientifica al materialismo storico» [Q 309], facendolo cioè uscire dallo statuto ambiguo del metodo storiografico (a cui lo riduce Croce con l’idea del “canone”) e conferendogli dignità di corpo di pensiero autosufficiente[17]. L’opera e la figura di Labriola andrebbero dunque riproposte, perché egli ha enunciato il problema formale dell’autosufficienza filosofica del marxismo, anticipando cosí di un trentennio i termini del problema? Questo è vero solo in parte, perché il riferimento di Gramsci è tutt’altro che formale. Infatti, parlando di un nucleo filosofico autosufficiente su cui far poggiare il marxismo, Gramsci sta pensando a un concetto preciso. Leggiamo ancora 4,3 [Q 424]:

Hegel, a cavallo della Rivoluzione francese e della Restaurazione, ha dialettizzato i due momenti della vita filosofica, materialismo e spiritualismo. I continuatori di Hegel hanno distrutto quest’unità, e si è ritornati al vecchio materialismo con Feuerbach e allo spiritualismo della destra hegeliana. Marx nella sua giovinezza ha rivissuto tutta questa esperienza: hegeliano, materialista feuerbacchiano, marxista, cioè ha rifatto l’unità distrutta in una nuova costruzione filosofica: già nelle tesi su Feuerbach appare nettamente questa sua nuova costruzione, questa sua nuova filosofia. Molti materialisti storici hanno rifatto per Marx ciò che era stato fatto per Hegel, cioè dall’unità dialettica sono ritornati al materialismo crudo, mentre, come detto, l’alta cultura moderna, idealista volgare, ha cercato di incorporare ciò che del marxismo le era indispensabile, anche perché questa filosofia moderna, a suo modo, ha cercato di dialettizzare anch’essa materialismo e spiritualismo, come aveva tentato Hegel e realmente fatto Marx.

A parte l’accenno all’alta cultura moderna che tiene conto di Marx, tentando di esorcizzare l’impatto critico del suo pensiero (il riferimento è evidentemente anzitutto a Croce), il modo in cui viene ricostruita la storia della filosofia tra Marx e Hegel riproduce fedelmente l’ottica delle Tesi su Feuerbach, che infatti vengono non solo citate, ma anche indicate come depositarie del nucleo della «nuova filosofia», cioè del superamento di idealismo e materialismo volgare nel concetto di praxis. Esattamente questo nesso (autosufficienza filosofica della “praxis” come superamento di idealismo e materialismo naturalistico, pur senza riferimento diretto alle Tesi) era stato posto da Labriola alla base della sua interpretazione del marxismo come filosofia nel Discorrendo[18]. E d’altra parte, sempre nel Discorrendo, Labriola aveva esplicitamente posto l’esigenza, d’accordo con Sorel, di «rimettere in campo il problema della filosofia in generale», notando che il materialismo storico sarebbe rimasto «come campato in aria, […] fino a quando non trovi modo di sviluppare la filosofia, che gli è propria, come quella che è insita ed immanente ai suoi assunti e alle sue premesse»[19]: un’impostazione del problema, questa, alla quale mi sembra riferirsi l’idea di «ortodossia» rivendicata da Gramsci poco piú avanti [4,14; Q 435]:

Da quanto si è detto sopra, il concetto di «ortodossia» deve essere rinnovato e riportato alle sue origini autentiche. L’ortodossia non deve essere ricercata in questo o quello dei discepoli di Marx, in quella o questa tendenza legata a correnti estranee al marxismo, ma nel concetto che il marxismo basta a se stesso, contiene in sé tutti gli elementi fondamentali, non solo per costruire una totale concezione del mondo, una totale filosofia, ma per vivificare una totale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una integrale, totale civiltà.

Si noti che proprio quel passo del Discorrendo («sviluppare la filosofia, che gli è propria, come quella che è insita ed immanente ai suoi assunti e alle sue premesse» ecc.) era stato citato da Giovanni Gentile all’inizio del saggio sulla «Filosofia della prassi» (1899), in cui si proponeva la prima traduzione italiana delle Tesi su Feuerbach quale documento «del pensiero genuino di Marx»[20] da addurre a critica della lettura labrioliana del concetto di praxis[21].

Quale ultimo tassello si consideri una variante instaurativa contenuta in 10,II,31 (testo C di 8,198, intitolato «Filosofia della Praxis», scritto nel febbraio 1932), che è una sorta di glossa a quanto scritto in 4,3:

Anche da questo punto appare come il Croce abbia saputo mettere bene a profitto il suo studio della filosofia della praxis. Cosa è infatti la tesi crociana dell’identità di filosofia e di storia se non un modo, il modo crociano, di presentare lo stesso problema posto dalle glosse al Feuerbach e confermato dall’Engels nel suo opuscolo su Feuerbach? Per Engels «storia» è pratica (l’esperimento, l’industria), per Croce Storia è ancora un concetto speculativo; cioè Croce ha rifatto a rovescio il cammino – dalla filosofia speculativa si era giunti a una filosofia «concreta e storica», la filosofia della praxis; il Croce ha ritradotto in linguaggio speculativo le acquisizioni progressive della filosofia della praxis e in questa ritraduzione è il meglio del suo pensiero [Q 1271].

E si noti che nel testo A, cioè 8,198 (una discussione del giudizio crociano sulle Tesi su Feuerbach), Gramsci faceva riferimento a una nota del volume sul Materialismo storico, in cui Croce riconosceva «esplicitamente come giustificata l’esigenza di costruire sul marxismo una “filosofia della praxis” posta da Antonio Labriola» [8,198; Q 1060][22]. In quella nota, dopo aver osservato nel testo che era possibile «dissertare della “dottrina della conoscenza secondo il Marx”», Croce scriveva:

Si vedano i pensieri del Marx, Ueber Feuerbach, del 1845, in appendice allo scritto dell’Engels, Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie […]; e cfr. […] Labriola, op. cit.[23], passim, e Gentile, l. c.[24], p. 391. Sotto questo aspetto (ossia restringendo l’affermazione alla dottrina della conoscenza) si potrebbe parlare col Labriola di un materialismo storico in quanto filosofia della praxis, ossia come modo particolare di concepire e di risolvere, anzi di superare il problema del pensiero e dell’essere. – La «filosofia della praxis» è ora studiata di proposito dal Gentile, nel citato volume [La filosofia di Marx].[25]

Riassumiamo: il Labriola del Discorrendo e l’Engels del Ludwig Feuerbach sono i punti di riferimento per lo sviluppo del nocciolo filosofico del marxismo in quanto filosofia della praxis (le Tesi su Feuerbach). Certo, citando e discutendo 8,198 (febbraio 1932) e 10,II,31 (giugno-agosto 1932) rischiamo di sovrapporre momenti temporalmente distinti della storia del pensiero di Gramsci, eppure nulla impedisce di pensare che 8,198 sia l’esplicitazione di qualcosa che era in sostanza già presente nell’avvio degli «Appunti di filosofia» (maggio 1930), sia per i già esaminati riferimenti a Labriola nella loro obbiettiva connessione con l’asserita centralità delle Tesi su Feuerbach; sia perché il loro sottotitolo, «Materialismo e idealismo», oltre che un riferimento a Labriola, allude anche ai primi due capitoli del Ludwig Feuerbach engelsiano (in appendice al quale, si ricordi, erano state pubblicate per la prima volta le Tesi nel 1888), in cui l’alternativa di materialismo e idealismo è discussa a fondo. D’altronde già in 4,28[26] [Q 455] una recensione di Giuseppe Tarozzi[27] a un libretto di Antonino Lovecchio (Filosofia della prassi e filosofia dello spirito[28]) aveva richiamato l’attenzione di Gramsci su tutto il dibattito che da Labriola, passando per Gentile e Croce, conduceva fino a Mondolfo, Adelchi Baratono e Alfredo Poggi.

Resta da chiedersi perché Gramsci faccia esclusivamente riferimento a Labriola, lasciando in secondo piano Engels (sul quale ha peraltro nei Quaderni dei giudizi nel complesso positivi)[29]. Credo che la ragione vada cercata proprio nel sottotitolo («Materialismo e idealismo») degli «Appunti». Gramsci, è vero, apprezza la definizione engelsiana della praxis come «l’esperimento e l’industria»[30] (si veda il già ricordato 10,II,31) come via per dissolvere le false antinomie della filosofia tradizionale. Ma la specifica accezione e trattazione gramsciana dell’opposizione di materialismo e idealismo è condotta nello spirito di Labriola (e delle Tesi su Feuerbach) e non in quello di Engels, il quale nella determinazione dello statuto filosofico del materialismo storico aveva sfruttato a fondo la distinzione tra materialismo come «visione generale del mondo basata su di una determinata versione del rapporto tra materia e spirito» (da accogliere), e la «forma particolare nella quale questa visione del mondo si espresse in un determinato grado dello sviluppo storico, nel XVIII secolo»[31] (da sottoporre a critica). E si noti che questa scelta di campo a favore del materialismo faceva coppia in Engels con la dichiarazione, contenuta nell’Antidühring, che la filosofia si era risolta nella «scienza positiva della natura e della storia»[32].

Gramsci non concorda con nessuna di queste due tesi, mentre trova importanti punti di accordo con la definizione che Labriola aveva dato del superamento di materialismo naturalistico e idealismo nella praxis, e anche con le obiezioni da lui mosse alla tesi engelsiana della fine della filosofia[33]. Infatti anche per Gramsci (e la sua lettura della Tesi 11 in 8,198/10,II,31 lo dimostra) la filosofia con Marx non è affatto esaurita, ma conosce un punto di non ritorno nel suo rapporto con la storia e la politica: è chiamata cioè a trasformarsi in filosofia della praxis o a reagire a questa trasformazione, come accade nelle migliori versioni della «filosofia intesa nel modo tradizionale» [1,132; Q 119]. In 4,11, intitolato «Problemi fondamentali del marxismo», questa congiuntura teorica viene enunciata in tutta la sua portata; vale perciò la pena riprodurlo per intero:

Problemi fondamentali del marxismo. Si fa (di solito) una confusione tra la cultura filosofica personale di Marx, cioè tra le correnti filosofiche e i grandi filosofi che Marx ha studiato e le origini o le parti costitutive del materialismo storico, e si cade nell’errore di ridurre la filosofia che sarebbe alla base del materialismo storico a questo o quel sistema[34]. Certamente è interessante [e necessario] ricercare e approfondire gli elementi della cultura filosofica di Marx, ma tenendo presente che parte essenziale del materialismo storico non è né lo spinozismo, né lo hegelismo, né il materialismo francese, ma precisamente ciò che non era contenuto se non in germe in tutte queste correnti e che Marx ha sviluppato, o di cui ha lasciato gli elementi di sviluppo; la parte essenziale del marxismo è nel superamento delle vecchie filosofie e anche nel modo di concepire la filosofia, ed è ciò che bisogna dimostrare e sviluppare sistematicamente. In sede teorica, il marxismo non si confonde e non si riduce a nessun’altra filosofia: esso non è solo originale in quanto supera le filosofie precedenti, ma è originale specialmente in quanto apre una strada completamente nuova, cioè rinnova da cima a fondo il modo di concepire la filosofia. In sede di ricerca storica si dovrà studiare da quali elementi Marx ha preso occasione per il suo filosofare, quali elementi ha incorporato rendendoli omogenei ecc.: allora si dovrà riconoscere che di questi elementi «originari» l’hegelismo è il piú importante relativamente, specialmente per il suo tentativo di superare le concezioni tradizionali di «idealismo» e «materialismo». Quando si dice che Marx adopera l’espressione «immanenza» in senso metaforico, non si dice nulla: in realtà Marx dà al termine «immanenza» un significato proprio, egli cioè non è un «panteista» nel senso metafisico tradizionale, ma è un «marxista» o un «materialista storico». Di questa espressione «materialismo storico» si è dato il maggior peso al primo membro, mentre dovrebbe esser dato al secondo: Marx è essenzialmente uno «storicista» ecc. [cors. miei].[35]

La riflessione sul nuovo significato da attribuire al vecchio termine «immanenza» – chiave di volta del nuovo modo di pensare, e spia della distanza rispetto al vecchio modo di fare filosofia – prosegue in 4,17:

L’espressione «immanenza» in Marx ha un preciso significato e questo occorreva definire: in realtà questa definizione sarebbe stata veramente «teoria». Marx continua la filosofia dell’immanenza, ma la depura da tutto il suo apparato metafisico e la conduce nel terreno concreto della storia. L’uso è metaforico solo nel senso che la concezione è stata superata, è stata sviluppata ecc. D’altronde l’immanenza di Marx è completamente una cosa nuova? O non se ne trovano tracce nella filosofia precedente? In Giordano Bruno, per esempio, credo si trovino tracce di una tale concezione. Conosceva Marx il Bruno? O questi elementi dal Bruno passarono nella filosofia classica tedesca? Tutti problemi da vedere concretamente [Q 438 s.; cors. mio].

Questo riferimento a Bruno come precedente possibile dell’immanenza nello specifico senso marxiano è molto interessante (e andrebbe indagata meglio nella sua possibile provenienza), ma non viene approfondita da Gramsci[36]. Il suo giudizio sul carattere «metaforico» del termine «immanenza» resta sospeso[37]. Del resto, egli era da sempre insoddisfatto della soluzione offerta a questo problema da Croce (cioè della sua critica a Hegel)[38], ma ritiene infine di poter individuare un vero e proprio precedente storico per il criterio dell’immanenza dal punto di vista della filosofia della praxis solo nella primavera del 1932, nei noti testi su David Ricardo: 8,128 [Q 1018 s.] e 10,II,9 [Q 1247]. A questo punto può infine definire lo storicismo crociano “teologico”, insistendo piú di quanto non avesse fatto in precedenza su questo suo lato regressivo. Questo accade in 8,224 [Q 1081 s.], intitolato «Teologia – metafisica – speculazione», e il giudizio viene ribadito e approfondito nel testo C [10,I,8; Q 1225 s.][39].

Si può infine notare che la rilettura di Ricardo come autore di una «innovazione filosofica» [Q 1247], che conclude nei Quaderni la ricerca del criterio dell’immanenza, oltre a legarsi nei fatti alla rapida nota su Bruno, ha altri due punti di riferimento: le Tesi su Feuerbach, dove Gramsci trova il termine Diesseitigkeit (Tesi 2), «immanenza», e lo traduce con «carattere terreno»[40]; e Niccolò Machiavelli, di cui Gramsci, in 5,127, scrive che

ha espresso una concezione del mondo originale, che si potrebbe anch’essa chiamare «filosofia della praxis» o «neo-umanesimo» in quanto non riconosce elementi trascendentali o immanentici (in senso metafisico) ma si basa tutta sull’azione concreta dell’uomo che per le sue necessità storiche opera e trasforma la realtà [Q 657].[41]

E Machiavelli, si noti, viene anche giudicato un precursore dei giacobini francesi [8,21; Q 953][42], cioè di quel «momento» che, accanto a Ricardo e a Hegel, è stato sintetizzato criticamente nel nuovo concetto di immanenza della filosofia della praxis [10,II,9; Q 1246 s.].

Immanenza e praxis si presentano in Gramsci come strettamente embricate[43]. Per questa ragione non è secondario ricordare un altro autore moderno a cui nei Quaderni si fa ricorso a questo proposito. Sto parlando di Giambattista Vico, a cui Gramsci non assegna un ruolo paragonabile a quello di Machiavelli, ma del quale dice, in 8,199 (dunque immediatamente dopo il già discusso 8,198, e poco prima di 8,128[44]), intitolato «Unità della teoria e della pratica»:

La proposizione del Vico «verum ipsum factum», che il Croce svolge nel senso idealistico che il conoscere sia un fare e che si conosce ciò che si fa […], da cui (nelle sue origini hegeliane e non nella derivazione crociana) certamente dipende il concetto del materialismo storico [Q 1060].

Se il passo ha aspetti poco chiari[45], univoca ne risalta però la ritornante, profonda insoddisfazione rispetto alla sistemazione crociana del problema dell’immanenza[46]. Ciò che infatti, al di là delle differenze, accomuna Machiavelli a Hegel, e in certa misura entrambi a Vico (altro il discorso da fare per Bruno), è la capacità di pensare la storia, di porsi il problema filosofico come un problema nascente dagli sconvolgimenti e dalle rivoluzioni, dalla prassi; e da questo, non da altro, deriva il loro immanentismo, o quegli elementi di immanentismo presenti nel loro pensiero (Vico).

4. «Filosofia dell’atto (praxis)» (Gentile, Mondolfo, Marx)

Riprendendo in mano il termine e il concetto di «praxis», Gramsci doveva dunque essere consapevole del carattere di sfida che la sua scelta veniva ad assumere. Tanto piú significativo è il contesto del suo apparire, con un diretto (anche se implicito) riferimento a quel «processo di spiritualizzazione dell’azione»[47] portato avanti da Gentile come momento filosofico di una guerra politica contro il socialismo[48]. In 4,37, replicando alla equiparazione, fatta da un autore della Civiltà cattolica, del «monismo idealista dello “Spirito”» al «monismo positivista della “Materia”»[49], Gramsci afferma:

Per la quistione della «obbiettività» della conoscenza secondo il materialismo storico, il punto di partenza deve essere l’affermazione di Marx (nell’introduzione alla Critica dell’economia politica, brano famoso sul materialismo storico) che «gli uomini diventano consapevoli (di questo conflitto) nel terreno ideologico» delle forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche. Ma questa consapevolezza è solo limitata al conflitto tra le forze materiali di produzione e i rapporti di produzione – come materialmente dice il testo marxiano – o si riferisce a ogni consapevolezza, cioè a ogni conoscenza? Questo è il problema: che può essere risolto con tutto l’insieme della dottrina filosofica del valore delle superstrutture ideologiche. Né il monismo materialista né quello idealista, né «Materia» né «Spirito» evidentemente, ma «materialismo storico», cioè attività dell’uomo (storia) [variante interlineare: spirito] in concreto, cioè applicata a una certa «materia» organizzata (forze materiali di produzione), alla «natura» trasformata dall’uomo. Filosofia dell’atto (praxis), ma non dell’«atto puro», ma proprio dell’atto «impuro», cioè reale nel senso profano della parola [4,37; Q 455].

Si noti che il testo è intitolato «Idealismo-positivismo», e, aggiunto a margine: «“Obbiettività” della conoscenza». Dunque Gramsci si confronta con un’alternativa tradizionale, e in questo contesto formula la questione gnoseologica, e la riformula (o almeno ritiene di riformularla) in modo nuovo, se le virgolette distanzianti (nel titolo e ripetute nel testo) che evidenziano «obbiettività» non sono casuali. Lo spunto offerto da padre Barbera viene insomma subito trasferito su un altro terreno: ciò che importa non è l’astratta contrapposizione di idealismo e materialismo, entrambi metafisici, ma il modo in cui sia possibile ricavare una posizione filosofica anch’essa, ma che si lasci alle spalle le alternative filosofiche tradizionali. Il terreno di riflessione è insomma quello che unisce e divide Labriola, Gentile e Mondolfo. È il terreno delle Tesi su Feuerbach.

Per dare un adeguato commento a 4,37 sarà opportuno partire dal riferimento all’atto, cioè da Gentile e dal suo confronto col concetto di praxis. L’obiezione principale da questi mossa a Marx era di aver voluto «accoppiare» dei «principii» inconciliabili, «quella forma (= prassi) con quel contenuto (= materia)»: se infatti «la materia per sé è inerte», è sempre necessaria una «forza» estranea ad essa, per cui «nonché conchiudere a un monismo materialistico, si riesce a un dualismo piú o meno platonico», che vanifica qualsiasi aspirazione da parte di Marx a guadagnare una dimensione di «immanenza»[50]. Che la «praxis» dovesse necessariamente opporsi, in quanto forma formante, a un contenuto ad essa esterno, Gentile lo ricava peraltro da una serie di disinvolte falsificazioni e forzature nella propria traduzione[51] che gli permettono di rovesciare il senso di gegenständlich in Marx, fino a farlo coincidere con la pura attività del pensiero in atto: «Il pensiero è reale, perché e in quanto pone l’oggetto. O il pensiero è, e pensa; o non pensa, e non è pensiero. Se pensa, fa. Dunque la realtà, l’oggettività del pensiero, è una conseguenza della sua natura stessa»[52]. Ne segue che se «la realtà [...] è una produzione soggettiva dell’uomo»[53], nel senso che quest’ultimo è «l’attività originaria che pone l’oggetto», tale attività del porre sarà al tempo stesso (secondo la tradizione dell’idealismo tedesco) un negare dialettico: il soggetto «nega sé ponendo l’oggetto, in quanto questa posizione è una determinazione singola della sua attività»[54]. La praxis non è dunque altro che una riedizione del «solito ritmo descritto già [...] dall’idealismo»[55] – tesi, antitesi, sintesi – ritmo identico pur nelle varie vesti ricevute presso i diversi pensatori.

Si spiega cosí la necessità di ‘sbagliare’ la traduzione dell’espressione «umwälzende Praxis» della Tesi 3 – alla lettera «praxis rovesciante» o «sovvertitrice»[56] – rendendola con «prassi rovesciata»[57] ovvero «prassi che si rovescia»[58]. Tale “rovesciamento” è infatti il modo nel quale il “posto” del pensiero-attività, fissatosi in una astratta determinazione e quindi resosi estraneo, ritorna o «reagisce» su di esso facendolo oggetto: «e ha luogo insomma una sintesi della causa con l’effetto»[59]. È una riduzione della praxis a Tathandlung, che riconduce Marx nell’alveo del dualismo metafisico classico di soggetto (sia pur «sensitivo») e oggetto. Inoltre lo stravolgimento della praxis “trasformatrice” in praxis “negata da sé stessa come autonegatasi” fa sí che il processo speculativo cosí messo in moto attinga la pienezza del suo svolgimento. Gentile può cosí formulare l’accusa di monismo non riuscito, perché prendente le mosse da un dualismo insuperabile: quello di un pensiero autoponentesi come realtà e della concorrente pretesa di fare di questo pensiero l’essenza del reale-materiale da esso prodotto, dunque del proprio opposto[60].

Il confronto di Gentile con Marx è in realtà un’autodefinizione precoce dell’attualismo: Gentile legge le Glosse strumentalmente, per definire il proprio pensiero[61]. Costruisce un’argomentazione alla quale non è possibile sfuggire, se non rifiutandone i presupposti. È per questo che solo un’indagine linguistica avrebbe potuto consentire di smontare il meccanismo mistificatorio da lui messo in piedi, e non si può sostenere che il principale suo interlocutore su questo terreno, Rodolfo Mondolfo, nonostante le sue sensibilità storiografica e finezza esegetica, vi sia riuscito[62]. Punto di partenza degli scritti del sostenitore dell’unione possibile (contro Croce, ma anche contro Gentile) di movimento operaio e filosofia marxista è infatti l’accettazione (sia prima che dopo la pubblicazione del testo critico delle Tesi su Feuerbach) dell’intera traduzione di Gentile, che egli modifica in dettagli irrilevanti[63], e sopratutto della sua interpretazione della «praxis rovesciata», resa da Mondolfo nella propria traduzione con «praxis che si rovescia». Quest’ultima viene considerata il nome o formula riassuntiva della «reciprocità [...] fra il conoscere e l’operare», che si converte incessantemente in «reciprocità» di «condizioni» e «presupposti»[64], vale a dire della vecchia coppia positivistica (cosí pesantemente attiva nel movimento socialista) di “ordine oggettivo” e “iniziativa umana”: «lo sviluppo storico risulta dalla confluenza e dal contrasto insieme di due elementi: le condizioni reali e la volontà umana»[65].

Una volta fissato questo dualismo, sarà impossibile riuscire a pensare l’unità dei due ordini, se non coprendo la difficoltà mediante escogitazioni verbali delle quali il «rovesciamento della praxis» è solo la piú evocativa[66]. Ma il punto da sottolineare è un altro e sta proprio nella ragione del carattere incessante – secondo Mondolfo – di quella conversione del prodotto del fare umano in condizione e ostacolo che gli si oppone. Si tratta in altre parole di capire perché, secondo Mondolfo, il «rovesciamento della praxis» sia necessario e indispensabile a partire dai presupposti interni alla sua argomentazione. La risposta è nell’affermazione che il rovesciamento della praxis costituisce «l’applicazione alla storia del motivo essenziale del naturalismo umanistico di Feuerbach»[67], «il bisogno»[68]:

Il Feuerbach, che si colloca ad un angolo visuale naturalistico, pone un rapporto fra l’uomo e il mondo esterno, il Marx e l’Engels, che si collocano ad un angolo visuale storico, pongono il rapporto della attività umana successiva di fronte ai resultati dell’attività precedente: il rapporto della praxis che si rovescia. [...] Il risultato dell’attività umana tende quasi a diventar condizione e legge della propria creatrice, il prodotto vuol quasi dominare il produttore.[69]

Ciò che da Feuerbach a Marx-Engels secondo Mondolfo cambia, è solo il nome del «bisogno» feuerbachiano il quale, nella sua essenza astorica, permane come mondo sociale esterno allo homo faber. Cosí è sufficiente, secondo Mondolfo, il semplice rapporto empirico di successione temporale (precedente/presente), per trasformare il prodotto in potenza che domina il produttore, laddove per Gentile era pur necessario un rapporto logico dialettico (il negarsi dell’essere nel nulla). Rispetto a Feuerbach viene a cambiare ben poco, nonostante il fatto che Mondolfo parli di «società» e mondo storico (senza però trarne alcuna conseguenza).

Si spiega cosí anche il singolare significato da lui assegnato al «rovesciamento della praxis», che diviene l’altro nome della «necessità»: «il passaggio dal regno della necessità a quello della libertà» equivale alla sostituzione, al cozzo cieco delle volontà singole, di una «volontà generale», che sia in grado di «commisurare i fini alle condizioni esistenti e proporseli solo entro questi limiti. Quindi anche nel regno della libertà la volontà degli uomini sarà condizionata dalla necessità storica, costituita dal rovesciamento della praxis»[70]. L’unico modo di combattere questo meccanismo eterno perché indissolubilmente legato al tempo è il divenir consapevoli, da parte degli uomini, del carattere di ‘prodotto’ di ciò che si presenta come un ente autonomo. Ma non essendo tale separazione reversibile neppure mediante la pratica rivoluzionaria, tutto si riduce a una «considerazione della storia come processo interiore dell’umanità»[71].

Mondolfo è accomunato a Gentile – nonostante le intenzioni esattamente contrarie – dalla concezione dualistica della praxis e dalla distruzione della storicità (nel movimento logico in Gentile, nella temporalità empirica in Mondolfo). Il dualismo di fondo, a sua volta, è la condizione di possibilità del «rovesciamento della praxis», che viene assunto come tentativo fallito di attingere il monismo (Gentile) o come il segno dell’eternità del dualismo (Mondolfo)[72].

Per aver ragione dell’interpretazione gentiliana delle Tesi era indispensabile un ritorno al testo originale. È ciò che (seguendo i precetti enunciati in 4,1) Gramsci fa traducendo nel Q 7 (a partire da c. 2r) diversi testi di Marx, tra i quali le Thesen über Feuerbach, da una raccolta in tedesco, ricevuta tra il marzo e il novembre 1930[73]. Il lavoro a AF I si protrae dalla fine di aprile all’ottobre-novembre 1930, mentre gli AF II vengono avviati, nel novembre 1930, a c. 51r dello stesso Q 7 usato per le traduzioni di Marx[74]. Per quanto riguarda i tempi, mentre è relativamente certo che le traduzioni vengono interrotte all’inizio dell’estate 1931, non vi sono elementi sicuri per stabilirne il momento d’avvio. Probabilmente esso precede l’inizio di AF II, dunque il novembre 1930, ma alcuni rinvii presenti in 4,37 lasciano ipotizzare una stretta relazione temporale tra questi testi e le prime due traduzioni (delle Thesen e del «Vorwort» del 1859)[75], se non addirittura una precedenza delle traduzioni: infatti il riferimento alle Tesi presente in 4,3, se non è indice sicuro di una rilettura recente, si potrebbe verosimilmente combinare con essa.

La traduzione di Gramsci è spesso insicura (come attestano le numerose varianti interlineari o parole sbarrate, oltre alle inesattezze[76]), ma afferra il nocciolo della posizione di Marx traducendo correttamente, nella Tesi 1, il passo relativo ai concetti di Gegenstand e gegenständlich, ridotti da Gentile e Mondolfo rispettivamente a «termine del pensiero» e a «ciò che pone l’oggetto», con «oggetto» e «attività oggettiva» [Q 2355]. La Diesseitigkeit («immanenza») della Tesi 2, resa da Gentile con «positività» e da Mondolfo con «oggettività», viene tradotta da Gramsci con «carattere terreno» [Q 2355], che – pur forzandone il senso col marcare una forte discontinuità tra tradizione immanentistica moderna e nuova filosofia di Marx[77] – è delle tre senz’altro la piú fedele al senso dell’originale.

Questo breve sondaggio è sufficiente a indicare il senso della rilettura di Gramsci: esso sta nel tentativo di afferrare il concetto di praxis nella sua carica dirompente rispetto al modo tradizionale di intendere la filosofia, e alla stessa alternativa tra materialismo e idealismo. Infatti il rifiuto dei due opposti «monismi», della «Materia» e dello «Spirito» presente in 4,37, e la definizione di un’impostazione alternativa nella praxis in quanto attività «in concreto» perché «applicata a una certa “materia” organizzata (forze materiali di produzione), alla “natura” trasformata dall’uomo» [Q 455], ha senso solo se ciò comporta un cambiamento di terreno, una concezione della storia e della storicità a partire dalla praxis, e non della praxis come tentativo di mettere in moto e unire i due opposti astratti e inconciliabili del soggetto e dell’oggetto[78]. Quando Gramsci ridefinisce l’atto-praxis come ciò che è «“impuro”, cioè reale nel senso profano della parola», vuole rinviare in questa direzione: atto «reale nel senso profano» vuole dire il lavoro, cioè «la cellula “storica” elementare» [4,47; Q 473][79]; reale, e dunque “vero”, è pertanto il lavoro nelle forme storiche, nei rapporti in cui è disposto di volta in volta[80]. Di qui risulta tutta l’importanza di un corretto intendimento del concetto di «rapporti sociali»[81]. Già in un testo precedente (4,32, su Bucharin) Gramsci aveva criticato «idealismo» e «materialismo volgare» che ipostatizzano, una volta come «spirito» e una volta come «materia», quel «“qualcosa”» in piú dato dall’esistenza della società, cioè il fatto che «ogni aggregato sociale è […] qualcosa in piú della somma dei suoi componenti» [Q 451]. Questo “qualcosa” è spiegato dal materialismo storico come forza produttiva derivante dalla divisione del lavoro, cioè dalla cooperazione sociale. Questo è il terreno della realtà impura, in quanto è per definizione una relazione e non una sostanza, o meglio è una relazione non tra sostanze, ma una relazione che costituisce i termini stessi da essa posti (e in quanto vengono posti) in relazione, e che in tal modo la costituiscono (ed è dunque sempre specifica e originale). «La realtà umana non è un’astrazione immanente nel singolo individuo. Nella sua realtà è l’insieme dei rapporti sociali»[82]: questa celebre affermazione, contenuta nella Tesi 6, è per Gentile del tutto priva di senso, mentre essa è il baricentro della lettura gramsciana, che parte dalla praxis non per giungere al soggetto attualistico, in cui immediatamente si identificano il singolo e la comunità[83], ma all’uomo come «blocco storico di elementi puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o materiali coi quali l’individuo è in rapporto attivo» [10,II,48; Q 1338]; e dunque all’intreccio (non l’identità, ma l’unità complessa) di soggettività e forma, di individuo e società, come qualcosa di costitutivo e non di secondario o di posteriore[84].

Proprio per questa ragione Gramsci può rifiutare non solo l’alternativa tra i due “monismi” (della Materia o dello Spirito), ma anche quella tra monismo (Gentile) e dualismo (Mondolfo), perché tutte queste posizioni restano “pure”, non comprendono cioè la realtà come unità complessa, come unità che si costituisce attraverso – e non nonostante – la differenza tra «uomini» e «ambiente»[85], perché «uomini» e «ambiente» non vengono intesi astrattamente, ma come, rispettivamente, «lavoro» entro determinati rapporti di produzione e «“natura” trasformata dall’uomo» [4,37; Q 455]. Questa natura trasformata non può per definizione essere una genericità, perché la sua trasformazione implica il lavoro, cioè la cooperazione sociale, la divisione del lavoro, l’umanità che organizza in determinati rapporti la riproduzione delle proprie condizioni materiali di esistenza. Dunque questa “natura” è sempre già mediata nella praxis – e pertanto nell’ideologia. In un testo precedente [4,25; Q 443] Gramsci stabilisce una differenza tra la «materia» in genere e la materia per il materialismo storico:

La materia non è […] considerata come tale, ma come socialmente e storicamente organizzata per la produzione, come rapporto umano. Il materialismo storico non studia una macchina per stabilirne la struttura fisico-chimico-meccanica dei suoi componenti naturali, ma in quanto è oggetto di produzione e di proprietà, in quanto in essa è cristallizzato un rapporto sociale e questo corrisponde a un determinato periodo storico.

Ciò non vuol dire che dietro o al di qua di questo «rapporto umano» non vi sia nulla, o che viceversa vi sia un’inconoscibile cosa in sé[86]. Piuttosto, implica la necessità di porsi la questione stessa gnoseologica in modo non speculativo (metafisico). Chiedersi cosa ci sia “dietro” ciò che conosciamo (cioè che praticamente trasformiamo), presuppone almeno implicitamente la possibilità di porsi da un punto di vista capace di prescindere dall’originaria correlatività pratico-sensibile dell’uomo, cioè dell’uomo sociale[87]. Al contrario, il criterio della praxis, che Gramsci chiama non a caso “storicismo” (perché praxis e storicità sono la stessa cosa), comprende la consapevolezza della storicità anche del proprio conoscere: la consapevolezza del suo carattere ideologico, cioè storico-sociale. Solo sapendosi fino in fondo ideologico, il nuovo storicismo – lo «storicismo “popolare”» – rappresenta «la liberazione da ogni “ideologismo”, la reale conquista del modo storico» [4,24; Q 443], perché riesce a spiegare sé stesso e le altre posizioni ideologiche nel loro valore e nei loro rispettivi limiti[88].
5. Ideologie e «“obbiettività” della conoscenza». Gramsci e Marx

Fin qui Gramsci ha riattivato il pensiero del giovane Marx al di qua della sua decomposizione ad opera degli interpreti marxisti e non. Ma a questo punto occorre fare riferimento a un passaggio in cui egli esplicitamente dichiara di discostarsi dalla lettera del testo di Marx. Prima ancora, però, va fatta una precisazione. In 4,37 Gramsci combina due testi di Marx ben distanti fra loro, sia temporalmente, sia anche dal punto di vista teorico. Il passo sulla praxis, cioè sulle Tesi su Feuerbach, è infatti preceduto da questo, che fa riferimento alla «Prefazione» a Per la critica dell’economia politica, del 1859:

Per la quistione della «obbiettività» della conoscenza secondo il materialismo storico, il punto di partenza deve essere l’affermazione di Marx (nell’introduzione alla Critica dell’economia politica, brano famoso sul materialismo storico) che «gli uomini diventano consapevoli (di questo conflitto) nel terreno ideologico» delle forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche. Ma questa consapevolezza è solo limitata al conflitto tra le forze materiali di produzione e i rapporti di produzione – come materialmente dice il testo marxiano – o si riferisce a ogni consapevolezza, cioè a ogni conoscenza? Questo è il problema: che può essere risolto con tutto l’insieme della dottrina filosofica del valore delle superstrutture ideologiche [Q 454 s.].

Questo accostamento ha già qualcosa di audace, dato che la «Prefazione» era stata tradizionalmente la principale prova a favore di una lettura evolutiva del processo rivoluzionario dal punto di vista di Marx. Si noti inoltre che nel tradurre questo testo Gramsci non segue l’ordine presente nell’antologia da cui lo riprende, ma rimonta i testi secondo un ordine che (almeno in parte) risulta comprensibile se si tiene conto della sua interpretazione: le Tesi (nell’antologia a pp. 54-57), quindi la «Prefazione» (pp. 43-46), quindi il cap. 1 («Bourgeois und Proletarier») del Manifesto (pp. 103-121), che reintitola «Teoria della Storia», quindi, dopo «Esigenze della politica tedesca prima del 1848» (pp. 122-124), Lavoro salariato e capitale (pp. 61-102), ecc. Come dire: la praxis, le ideologie, la lotta di classe, le radici della lotta di classe nelle condizioni di sfruttamento della forza-lavoro; ovvero: la praxis come categoria alla luce della quale leggere l’intero «materialismo storico» (è il titolo dato da Drahn al «Vorwort» e riprodotto da Gramsci nella sua traduzione). Questo è confermato in parte dalla traduzione[89], in parte dal modo in cui Gramsci ne riproduce a memoria i due principî fondamentali in apertura di 4,38 [Q 455], invertendoli e sostituendo «forze produttive» con «forme di vita»[90], in parte, infine, dal modo in cui lo accosta alle Tesi e lo interpreta in 4,37.

Nel «Vorwort» Marx, riprendendo un complesso ragionamento consegnato all’Ideologia tedesca, fissa una distinzione tra reale Basis (la «società civile»), Überbau (rapporti giuridici, forme dello Stato, ecc.) e forme ideologiche (forme riflesse nella coscienza), e che assegna alla prima la funzione di «presupposto» (nel senso dell’Ideologia tedesca), cioè di punto di partenza obbligato per una comprensione e spiegazione scientifica, razionale della storia. Di qui l’avvertenza: quando si «osservano» le epoche di rivoluzione, che sono determinate dal conflitto tra forze produttive sociali e rapporti di produzione, occorre accuratamente distinguere

il sovvertimento materiale nelle condizioni della produzione economica che deve essere constatato fedelmente col metodo delle scienze naturali e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche in una parola: le forme ideologiche, nel cui terreno gli uomini diventano consapevoli di questo conflitto e lo risolvono.[91]

Questo perché «l’anatomia della società civile è da ricercarsi nella economia politica», perché cioè esiste una scienza che permette di osservare il luogo in cui «prendono radice» le forme superstrutturali. Quale che sia lo statuto di questa scienza e il suo stesso carattere ideologico secondo Marx, è chiaro che nella strategia espositiva di questo passaggio marxiano la questione non è affatto relativa alle «forme ideologiche» e al loro possibile statuto, ma alla necessità di escluderle in quanto criterio di giudizio sugli accadimenti, perché questo criterio va ricercato nello studio della reale Basis. Quindi, già introducendo il richiamo al passo di Marx con le parole «per la quistione della “obbiettività” della conoscenza secondo il materialismo storico, il punto di partenza deve essere l’affermazione di Marx» ecc., Gramsci sta operando una forzatura, perché ritrova in quel passo ciò che Marx non vi ha affatto posto. Per Gramsci la questione è proprio quella del carattere conoscitivo (e in che forma, ed entro quali limiti) delle ideologie, mentre (ripeto: in quel passo) Marx ne parla per negare alle ideologie questo carattere.

A questo punto Gramsci inserisce un secondo strappo, domandandosi se «questa consapevolezza sia limitata al conflitto tra le forze materiali di produzione e i rapporti di produzione – come materialmente dice il testo marxiano – o si riferisce a ogni consapevolezza, cioè a ogni conoscenza». Cosa s’intende con questa estensione? L’annotazione che segue («Questo è il problema: che può essere risolto con tutto l’insieme della dottrina filosofica del valore delle superstrutture ideologiche») indica che Gramsci sta leggendo la «Prefazione» sulla base delle Tesi, il concetto di ideologia sulla base della riformulazione della questione della verità in termini di praxis, nel senso della Tesi 2: «È nell’attività pratica che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero» [Q 2355]. Le «determinate forme sociali della coscienza»[92] non possono essere osservate dall’esterno, ricostruite genealogicamente dai presupposti reali indagabili con lo strumentario dell’economia politica, perché le forme ideologiche sono forme di conoscenza reale, cioè forme pratiche di rapporto attivo con la realtà, e quindi con la realtà (nel senso di potenza e immanenza) si identificano. Fuori delle ideologie non c’è nulla, e di conseguenza il criterio dell’alternativa tra verità ed errore, tra vero e falso, tra praxis e speculazione andrà individuato dentro il «terreno»[93] delle ideologie e non fuori di esso[94].

6. Che cosa è la politica? Gramsci e Machiavelli (e Croce)

In un lungo testo B del Q 5 (127: «Machiavelli»), databile tra il novembre e il dicembre del 1930, e dunque di poco posteriore a 4,37, l’espressione «filosofia della praxis» compare per la prima volta in questa forma precisa, in un contesto però che rimanda chiaramente all’elaborazione già avvenuta in 4,37. Il testo è dedicato a discutere una «noticina di certo M. Azzalini» [Q 656] sul Segretario fiorentino «che può essere interessante come presentazione degli elementi tra cui si dibatte lo schematismo scientifico» [ibid.]. Ma Gramsci va presto ben oltre questo livello di discussione, presentando in positivo l’importanza della figura e dell’opera di Machiavelli dal punto di vista della filosofia della praxis:

Il Machiavelli ha scritto dei libri di «azione politica immediata», non ha scritto un’utopia in cui uno Stato già costituito, con tutte le sue funzioni e i suoi elementi costituiti, fosse vagheggiato. Nella sua trattazione, nella sua critica del presente, ha espresso dei concetti generali, che pertanto si presentano in forma aforistica e non sistematica, e ha espresso una concezione del mondo originale, che si potrebbe anch’essa chiamare «filosofia della praxis» o «neo-umanesimo» in quanto non riconosce elementi trascendentali o immanentici (in senso metafisico) ma si basa tutta sull’azione concreta dell’uomo che per le sue necessità storiche opera e trasforma la realtà [Q 657].

Proprio in quanto Machiavelli si è posto il compito di pensare la congiuntura politica attuale nella sua apertura alle possibilità di intervento umano, e non di prefigurare speculativamente le condizioni perfette del vivere politico, il suo pensiero è un modello di «filosofia della praxis». Egli si differenzia pertanto non solo da tutti gli scrittori di utopie politiche vere e proprie (More, Campanella ecc.), ma anche da quei peculiari ‘utopisti’ che sono i filosofi, proprio in quanto lega la propria riflessione al presente, alla pratica. Con ciò Gramsci non intende negare che Machiavelli sia filosofo e scienziato della politica. Anzi, egli lo è molto piú di altri in apparenza, dal punto di vista meramente formale, a lui superiori; ma lo è appunto in un senso tutto peculiare (e anzi in questa peculiarità è gran parte della sua eccezionalità): il suo pensiero teorico e la sua filosofia sono immersi nella concreta analisi del presente, e pertanto non solo rimangono materialmente a essa legati, ma si costituiscono anche metodologicamente in connessione con essa (e qui è il nesso con la filosofia della praxis)[95].

Ma vediamo meglio. Dal punto di vista teorico Gramsci distingue in Machiavelli due livelli: i «concetti generali», che vengono formulati nel pieno della «sua trattazione» e «critica del presente», e che «pertanto si presentano in forma aforistica e non sistematica» (questo è il livello di generalizzazione corrispondente all’arte e scienza della politica); e «una concezione del mondo originale, che si potrebbe anch’essa chiamare “filosofia della praxis” o “neo-umanesimo” in quanto non riconosce elementi trascendentali o immanentici (in senso metafisico) ma si basa tutta sull’azione concreta dell’uomo che per le sue necessità storiche opera e trasforma la realtà». Ma questa «concezione del mondo» non è materialmente distinta dalla «critica del presente», bensí in essa contenuta, in quanto agisce nell’intreccio strutturale, in Machiavelli, tra assenza di riferimenti metafisici (che da soli non bastano) e assunzione della praxis a orizzonte della riflessione; intendendo per praxis (secondo quanto specificato in 4,37, e qui ripreso) l’«azione concreta» riferita alle «necessità storiche», cioè non un agire puro, ma impuro nel senso che acquista il suo grado di realtà nella congiuntura in cui s’inserisce e dalle esigenze che aspira a portare a compimento[96].

5,127 dipende teoricamente da 4,37, ma il riferimento a Machiavelli è indipendente da esso: la sua motivazione è in 4,8 (intitolato «Machiavelli e Marx»), un testo che precede di qualche mese 4,37[97]. Esso è prezioso perché aiuta a capire meglio cosa voglia dire assumere l’azione concreta a orizzonte della riflessione. Anche lí si nota che Machiavelli ha «teorizzato una pratica», ma che questo fatto ha il valore schiettamente filosofico di una «rivoluzione intellettuale e morale»:

L’importanza storica e intellettuale delle scoperte del Machiavelli si può misurare dal fatto che esse sono ancora discusse e contraddette ancora al giorno d’oggi: ciò significa che la rivoluzione intellettuale e morale contenuta in nuce nelle dottrine del Machiavelli non si è ancora realizzata «manifestamente» come forma «pubblica» della cultura nazionale [4,8; Q 431].[98]

Questo nesso tra momento politico-pratico e momento filosofico viene esplicitato cosí:

Nel Machiavelli sono da vedere due elementi fondamentali: 1) l’affermazione che la politica è un’attività indipendente e autonoma che ha suoi principi e sue leggi diversi da quelli della morale e della religione in generale (questa posizione del Machiavelli ha una grande portata filosofica, perché implicitamente innova la concezione della morale e della religione, cioè innova tutta la concezione del mondo);

2) contenuto pratico e immediato dell’arte politica studiato e affermato con obbiettività realistica, in dipendenza dalla prima affermazione [ibid.; cors. mio].

Dunque il forte “realismo” pratico di Machiavelli discende direttamente – secondo Gramsci – dalla sua individuazione della politica come «attività indipendente e autonoma»: c’è un momento teorico (una scoperta, un’invenzione) che guida tutto il resto. Che qui Gramsci non stia semplicemente ripetendo il giudizio di Croce, è evidente dalla precisazione secondo cui questa determinazione concettuale della politica «implicitamente innova la concezione della morale e della religione, cioè innova tutta la concezione del mondo», e non è pertanto riducibile all’indipendenza della politica nei termini del “distinto” crociano. Mentre Croce sostiene che Machiavelli ha fatto una scoperta di valore filosofico in quanto ha enucleato le leggi distinte e autonome della politica; per Gramsci quell’individuazione ha valore filosofico perché implica un rivoluzionamento di tutta la concezione del mondo, una reinterpretazione anche della morale, della filosofia ecc., e in questo senso (e solo in questo senso) è la radice storica della filosofia della praxis[99]. Quando, pertanto, nello stesso testo, Gramsci nota (con un riferimento chiarissimo alle Tesi su Feuerbach 6 e 7) che «la innovazione fondamentale introdotta da Marx nella scienza politica e storica in confronto del Machiavelli è la dimostrazione che non esiste una “natura umana” fissa e immutabile» [4,8; Q 430 s.], sta in buona sostanza riducendo la distanza teorica tra Marx e Machiavelli a un unico particolare, anche se centrale[100], e sta assegnando a Machiavelli una centralità teorica sulla quale difficilmente si potrebbe esagerare.

La riflessione sul concetto di politica-praxis come centro di una nuova concezione della filosofia viene ripresa in 4,56 («Machiavelli e l’“autonomia del fatto politico”»[101]), in cui Gramsci si domanda:

Data l’autonomia della politica, quale rapporto dialettico tra essa e le altre manifestazioni storiche? Problema della dialettica in Croce e sua posizione di una «dialettica dei distinti» […]

L’arte, la morale, la filosofia «servono» alla politica, cioè si «implicano» nella politica, possono ridursi ad un momento di essa e non viceversa: la politica distrugge l’arte, la filosofia, la morale: si può affermare, secondo questi schemi, la priorità del fatto politico-economico, cioè la «struttura» come punto di riferimento e di «causazione» dialettica, non meccanica, delle superstrutture [Q 503].

Gramsci forza il pensiero di Croce, perché (in linea con quanto affermato in 4,7 e con quanto scrive nel coevo 5,127) legge contro Croce l’autonomia della politica come fondazione di una filosofia della praxis, cioè non come isolamento della politica-pratica ma come rifondazione dell’intera filosofia sopra il suo concetto. L’espressione problematica «dialettica dei distinti» è una sorta di segnale posto a indicare il dissidio che attraversa il pensiero crociano, tra il legame con la linea Machiavelli-Marx da una parte, e la neutralizzazione degli effetti di esso nel concetto di “distinzione”, dall’altra[102].

In un testo notevolmente posteriore (8,61, del febbraio 1932[103]), intitolato «Machiavelli», si trova un prolungamento significativo di questa meditazione. Qui Gramsci mette a confronto Croce e Machiavelli, criticando stavolta esplicitamente il primo per aver ridotto la politica alla figura della «passione-interesse», cioè a quel «momento che nelle glosse a Feuerbach si chiama “schmutzig-jüdisch”» [Q 977]. La ripresa dell’espressione della Tesi 1 non è casuale:

Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma egli non concepisce la attività umana stessa come attività oggettiva. Perciò nella Essenza del Cristianesimo egli considera solo il modo di procedere teoretico come quello schiettamente umano, mentre la praxis è concepita e stabilita solo nella sua raffigurazione sordidamente giudaica.[104]

Croce come Feuerbach, anche se nel primo non di praxis si tratta, ma della sua sola forma politica (cioè politico-economica). Resta però il fatto che è un residuo speculativo questa sua incapacità di cogliere il modo in cui la politica in quanto praxis si dispone rispetto a tutte le altre forme dello Spirito, che è invece l’oggetto della riflessione di Gramsci in 8,61:

La quistione: che cosa è la politica, cioè quale posto l’attività politica deve avere in una concezione del mondo sistematica (coerente e conseguente), in una filosofia della praxis, è la prima quistione da risolvere in una trattazione sul Machiavelli, perché è la quistione della filosofia come scienza. […] Il Croce si è fondato sulla sua distinzione di momenti dello Spirito, e sull’affermazione di un momento della pratica, di uno spirito pratico, autonomo e indipendente, sebbene legato circolarmente all’intera realtà con la mediazione della dialettica dei distinti. Dove tutto è pratica, in una filosofia della praxis, la distinzione non sarà tra momenti dello Spirito assoluto ma tra struttura e superstrutture, si tratterà di fissare la posizione dialettica dell’attività politica come distinzione nelle superstrutture […] In che senso si può parlare di identità di storia e politica e quindi che tutta la vita è politica. Come tutto il sistema delle superstrutture possa concepirsi come distinzioni della politica, e quindi introduzione del concetto di distinzione nella filosofia della praxis. Ma si può parlare di dialettica dei distinti? Concetto di blocco storico, cioè di unità tra la natura e lo spirito, unità di opposti e di distinti [8,61; Q 977; cors. miei].

Questo passo è molto complesso, e un suo commento ci porterebbe fuori strada rispetto al nostro tema. Mi limiterò perciò a sottolineare alcuni punti. Anzitutto, si noti che il concetto di «dialettica dei distinti» funziona qui da cerniera tra autonomia della politica e mediazione di questo momento in tutta la realtà. Inoltre, la definizione della «filosofia della praxis» come quella concezione per la quale «tutto è pratica» implica l’«identità di storia e politica» e quindi la concezione della politica come radice di «tutto il sistema delle superstrutture». Quindi per una filosofia della praxis (qui è il punto) la distinzione tra struttura e superstrutture si riconfigura come distinzione tra diverse forme della praxis, dove alla politica viene assegnata la priorità rispetto a tutte le altre.

Il punto è dunque la «dialettica dei distinti»: qualsiasi cosa significhi in riferimento a Croce, per Gramsci essa conduce al «concetto di blocco storico, cioè di unità tra la natura e lo spirito, unità di opposti e di distinti», cioè, in definitiva, alla comprensione del modo in cui l’unità delle superstrutture possa accompagnarsi al conflitto nella sfera della pratica politica (e, si può aggiungere, della pratica economica, del lavoro sfruttato, che è la forma radicale della praxis rivoluzionaria). Il blocco storico è un sinonimo per la costruzione di una volontà collettiva, sulla base di determinati rapporti di produzione conflittuali, nella sfera del concetto di egemonia. Mentre Croce vede solo il momento dell’unità (che per lui non è storica, ma è la storia), la filosofia della praxis vede il modo in cui l’unità viene di volta in volta costruita sul terreno della contraddizione, della scissione, della non-unità: contraddizione, lotta e non-unità sempre concrete, storiche. Si conferma cosí, anche a questa altezza, l’idea della filosofia della praxis come alternativa tanto ai monismi che ai dualismi, perché è la teoria del modo in cui il conflitto e le possibilità del suo superamento non solo possono essere compresenti, ma sono sempre strutturalmente coimplicati.

7. Politica e verità. Gramsci e Lenin (e Croce)

Il riferimento alla fissazione crociana sul momento dell’unità a scapito del conflitto, e quindi alla sua incapacità di comprendere la praxis (la politica) nella sua concretezza e complessità, è presente anche in 7,35[105], un testo scritto tra il febbraio e il novembre del 1931, e dunque di poco anteriore sia a 8,61 (discusso nel capitolo precedente), sia a 8,198 (discusso nel capitolo 3), entrambi del febbraio 1932. E anche qui, come negli altri due, si trova, accanto a un riferimento a Croce, una definizione di cosa sia una “filosofia della praxis”.

Il testo, intitolato «Materialismo e materialismo storico», prende le mosse dal noto detto feuerbachiano «l’uomo è quello che mangia»[106]. Esso era stato citato da Gentile nel suo saggio sulla «Filosofia della prassi» come compendio del materialismo filosofico (e quindi, a suo avviso, del materialismo storico)[107]. Gramsci ricorda, viceversa, come l’ancoramento del materialismo storico nel materialismo faccia perdere di vista proprio la specificità teorica di questa posizione. Esattamente come il materialismo storico non prende in considerazione la natura in quanto tale, ma la natura trasformata nel lavoro (e dunque entro forme di rapporti determinate), allo stesso modo non considera quello che l’uomo mangia se non «in quanto l’alimentazione è una delle espressioni dei rapporti sociali nel loro complesso, e ogni raggruppamento sociale ha una sua fondamentale alimentazione» [Q 884]. Ma compresa entro questo quadro teorico, l’alimentazione non può svolgere alcuna funzione causale. Infatti

allo stesso modo si può dire che l’«uomo è il suo appartamento», l’«uomo è il suo particolare modo di riprodursi cioè la sua famiglia», poiché l’alimentazione, l’abbigliamento, la casa, la riproduzione sono elementi della vita sociale in cui appunto in modo piú evidente e piú diffuso (cioè con estensione di massa) si manifesta il complesso dei rapporti sociali [Q 884].

«L’uomo è» dunque qualsiasi cosa, perché tutto il complesso di rapporti sociali contribuisce a definire il concetto di uomo. Ne consegue che l’uomo non «è» in particolare nessuno degli «elementi della vita sociale»: la funzione di “causa” viene nel materialismo storico dislocata nel suo stesso statuto. Essa non è piú né un fattore unico, né un complesso multifattoriale piú o meno sofisticato, ma sono le complesse forme di rapporti attivi/passivi che costituiscono la società. Dunque è solo afferrando il concetto di «rapporti sociali» – e quindi quello di praxis – che sarà possibile capire che cos’è l’uomo. Questo induce a rifiutare qualsiasi definizione semplice e unitaria della «natura umana», perché la forma di esistenza storica della natura umana, il genere umano, è sempre disposto in rapporti che realizzano la sua «natura» unitaria (il suo concetto) solo attraverso un rapporto dialettico tra due determinazioni opposte: «i rapporti sociali sono espressi da diversi gruppi di uomini che si presuppongono, la cui unità è dialettica, non formale. L’uomo è aristocratico in quanto è servo della gleba ecc.» [Q 885].

Siamo di fronte, come si vede, a un commento alla Tesi su Feuerbach 6, che ne sviluppa le implicazioni dal punto di vista del materialismo storico. Se «la realtà umana» è «l’insieme dei rapporti sociali», allora la storia dell’umanità, che è storia di lotte di classi, è il dispiegarsi della natura umana nelle determinazioni dialettiche a cui i rapporti sociali corrispondono. Questo conduce all’idea che, se non ha senso parlare di «uomo in generale» [Q 884], ha senso invece porsi il problema dell’unificazione del concetto di uomo, che potrà essere solo un’unificazione storica, concreta, cioè raggiunta sviluppando politicamente, praticamente, la struttura dialettica dei rapporti sociali.

A questo punto si legge un riferimento alla dialettica hegeliana come a quel sistema che, pur in forma speculativa (cioè pur sempre parlando di «spirito» unitario), ha afferrato cosa sia la storicità, perché ha legato la stessa forma del pensiero alla forma contraddittoria, conflittuale del divenire reale. L’invenzione della dialettica non è un procedimento formale, perché, al contrario, è reso possibile, secondo Gramsci, dal fatto che Hegel ha guardato alla storia, accogliendo nella filosofia in una certa misura anche il punto di vista dei subalterni[108]. Questo nesso è chiaramente enunciato in 4,3:

Nella storia della cultura, che è piú larga della storia della filosofia, ogni volta che la cultura popolare è affiorata, perché si attraversava una fase di rivolgimenti sociali e dalla ganga popolare si selezionava il metallo di una nuova classe, si è avuta una fioritura di «materialismo», viceversa le classi tradizionali si aggrappavano allo spiritualismo. Hegel, a cavallo della Rivoluzione francese e della Restaurazione, ha dialettizzato i due momenti della vita filosofica, materialismo e spiritualismo» [Q 424].

Ma dal nostro punto di vista interessa sopratutto 4,45 (ottobre-novembre 1930), intitolato «Struttura e superstrutture», in cui sono già tutti gli elementi presenti in 7,35, tranne uno, come subito si vedrà:

Tutta la filosofia finora esistita è nata [sic] ed è l’espressione delle contraddizioni intime della società: ma ogni sistema filosofico a sé preso non è l’espressione cosciente di queste contraddizioni, poiché questa espressione può essere data solo dall’insieme dei sistemi filosofici. Ogni filosofo è e non può non essere convinto di esprimere l’unità dello spirito umano, cioè l’unità della storia e della natura: altrimenti gli uomini non opererebbero, non creerebbero nuova storia, cioè le filosofie non potrebbero diventare «ideologie», non potrebbero nella pratica assumere la granitica compattezza fanatica delle «credenze popolari» che hanno il valore di «forze materiali». Hegel rappresenta, nella storia del pensiero filosofico, un posto a sé, perché, nel suo sistema, in un modo o nell’altro, pur nella forma di «romanzo filosofico», si riesce a comprendere cos’è la realtà, cioè si ha, in un solo sistema e in un solo filosofo, quella coscienza delle contraddizioni che prima era data dall’insieme dei sistemi, dall’insieme dei filosofi, in lotta tra loro, in contraddizione tra loro. In un certo senso, adunque, il materialismo storico è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, è la filosofia liberata da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni in cui lo stesso filosofo, individualmente inteso o inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni, ma pone se stesso come elemento della contraddizione, e eleva questo elemento a principio politico e d’azione. L’«uomo in generale» viene negato e tutti i concetti «unitari» staticamente vengono dileggiati e distrutti, in quanto espressione del concetto di «uomo in generale» o di «natura umana» immanente in ogni uomo [Q 471].

Nel testo C (11,62), che porta il titolo «Storicità della filosofia della prassi» (e nel quale «materialismo storico» è sostituito con «filosofia della prassi»), l’espressione «e eleva questo elemento a principio politico e d’azione» è sostituito dalla variante: «eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi di azione» [Q 1487]. Questa potrebbe essere la semplice precisazione di un concetto già presente nella prima versione, ma a me pare che sia un’aggiunta reale, che consiste nell’equiparare realmente conoscenza e azione, filosofia e politica nel concetto, pienamente precisato nel percorso dalla prima alla seconda stesura, di “filosofia della praxis” come equivalenza di filosofia e politica. Ciò che in effetti nel testo A era assente (e che invece è presente, come ora si vedrà, in 7,35), è un collegamento organico tra il concetto di praxis e quello di ideologia[109]. Infatti in 4,45 l’ideologia equivale al carattere unilaterale e unitario della filosofia, che per questo si può trasformare in “credenza popolare”, mentre il materialismo storico si dispone in uno spazio differente, al contempo, per cosí dire, piú in alto e piú in basso delle filosofie-ideologie: piú in basso, perché, in quanto consapevolezza del rapporto del sapere con la praxis, si schiera nella contraddizione reale e quindi assume consapevolmente un punto di vista di parte; piú in alto, perché questo è dovuto appunto a una consapevolezza teorica della contraddizione, cioè alla dialettica portata alla sua logica conseguenza (il compimento dello hegelismo).

Ne risulta per il materialismo storico uno statuto ambiguo: se esso tende a essere inteso e ad intendersi come ideologico, questo non viene però apertamente enunciato e argomentato. Gramsci nota in un testo di poco precedente (4,40, che verrà unito in seconda stesura a 4,45) che

come filosofia il materialismo storico afferma teoricamente che ogni «verità» creduta eterna e assoluta ha origini pratiche e ha rappresentato o rappresenta un valore provvisorio. Ma il difficile è far comprendere «praticamente» questa interpretazione per ciò che riguarda il materialismo storico stesso [Q 465].

Ne consegue che «praticamente […] anche il materialismo storico tende a diventare una ideologia nel senso deteriore, cioè una verità assoluta ed eterna» [Q 466].

Si può notare che se la filosofia deve enunciare la propria verità come assoluta ed eterna per poter acquisire la granitica compattezza della fede, ogni filosofia (con la parziale eccezione dello hegelismo) è una ideologia nel senso deteriore, e che pertanto il materialismo storico potrebbe essere un’ideologia in senso non deteriore, essendo un’ideologia non deteriore quella che è consapevole della propria transitorietà. Quest’ultima però è, lo si è visto, una consapevolezza teorica (la dialettica), e non un’ideologia. D’altra parte il problema di teoria e pratica, posto cosí, appare realmente insolubile: come è possibile mediare la consapevolezza critica della propria transitorietà con la «fanatica» e «unilaterale» saldezza di convincimenti necessaria all’agire? Ne risulta un’ambiguità, che all’altezza di 7,35 troviamo già sciolta, perché qui troviamo il criterio della praxis già integrato con il concetto di ideologia. Queste, che sono le due componenti presenti in 4,37, attraversano cosí tutto il periodo che dagli AF I conduce fino ai quaderni 10 e 11, e la ricerca del modo in cui siano integrabili è la ricerca stessa della definizione della filosofia della praxis in quanto mediazione concreta di ideologia e critica, pratica e teoria, politica e filosofia.

Torniamo un’ultima volta ancora alla variante 4,45/11,62: che cosa vuol dire che il filosofo della praxis «non solo comprende le contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi di azione», se non che l’essere «elemento della contraddizione» non è piú, a questa altezza, il momento della cecità agente, ma quello dell’agire che, proprio in quanto tale, è conoscenza, cioè costituzione di verità? In 7,35 è presente proprio questo momento teorico, che in 4,45 ancora non c’è[110]. Il passo decisivo dal punto di vista dell’unità organica di praxis e ideologia è quello, a cui ho già fatto cenno, in cui compare il riferimento a Hegel:

Che la dialettica hegeliana sia stata un [variante interlineare: l’ultimo] riflesso di questi grandi nodi storici e che la dialettica, da espressione delle contraddizioni sociali debba diventare, con la sparizione di queste contraddizioni, una pura dialettica concettuale, sarebbe alla base delle ultime filosofie a base utopistica come quella del Croce. Nella storia l’«uguaglianza» reale, cioè il grado di «spiritualità» raggiunto dal processo storico della «natura umana», si identifica nel sistema di associazioni «private e pubbliche», esplicite ed implicite, che si annodano nello «Stato» e nel sistema mondiale politico: si tratta di «uguaglianze» sentite come tali fra i membri di una associazione e di «diseguaglianze» sentite tra le diverse associazioni, uguaglianze e disuguaglianze che valgono in quanto se ne abbia coscienza individualmente e come gruppo. Si giunge cosí anche all’eguaglianza o equazione tra «filosofia e politica», tra pensiero e azione, cioè ad una filosofia della praxis. Tutto è politica, anche la filosofia o le filosofie (confronta note sul carattere delle ideologie) e la sola «filosofia» è la storia in atto, cioè è la vita stessa. In questo senso si può interpretare la tesi del proletariato tedesco erede della filosofia classica tedesca – e si può affermare che la teorizzazione e la realizzazione dell’egemonia fatta da Ilici è stata anche un grande avvenimento «metafisico» [7,35; Q 886].

Il criterio dell’unità della praxis come agire ideologico e come processo di costituzione della verità è qui indicato, come si vede, nel concetto di «egemonia» teorizzato e realizzato da Lenin. Esso è in lui evidentemente allo stato pratico, nel senso che la stessa riflessione teorica Lenin l’ha condotta sul terreno e con linguaggio politico. Quello che Gramsci fa qui, è invece darne una riflessione sul terreno e con linguaggio filosofico. In quanto concetto filosofico, l’egemonia è la teoria dell’unità dell’umano, cioè dell’unificazione dell’umanità, come processo pratico di soppressione delle contraddizioni nella concreta dinamica politica (associazioni, Stato, mondo), dinamica che è sempre lotta che, come tale, interpreta la contraddizione fondamentale della società divisa in classi. Le «uguaglianze e disuguaglianze […] valgono in quanto se ne abbia coscienza individualmente e come gruppo»: questa affermazione è tutto il contrario del pragmatismo, perché non istituisce un circolo tra prassi e credenza, ma tra prassi e conoscenza, nel senso che le uguaglianze e disuguaglianze vengono concretamente conosciute nella lotta; e vengono concretamente conosciute, perché la lotta è sempre, al contempo, credenza nell’unità della propria parte (fede) e relazione con le altre parti in conflitto (ragione). L’agire si accompagna sempre a una qualche forma di consapevolezza, perché investendosi nel conflitto, essendo disposto in uno dei termini della contraddizione, trasforma la realtà a partire dalla divisione, e quindi la conosce come divisa (fa esperienza dello sfruttamento) e come avente in sé le potenzialità della propria unificazione. Ma questa conoscenza non è astratta, non è mera virtualità individuale. Essa è fino in fondo politica, perché assume la forma concreta di rapporto tra la propria «associazione» e le altre «associazioni», assume cioè la forma della dinamica politica entro la società civile. Ma questa dinamica, viceversa, appartiene inestricabilmente anche al concetto di cultura, perché è attraverso dinamiche culturali, di conoscenza e di produzione di conoscenza, che avviene la lotta nella società civile[111].

Aver formulato (e praticato) l’egemonia significa aver intuito tutto questo: che filosofia e politica sono la stessa cosa, che cioè, dato che i rapporti di conoscenza sono rapporti politici, la lotta politica si svolge in modo decisivo entro la sfera della cultura; e che, di conseguenza, la superiorità storica di una classe si misura dalla sua capacità di farsi interprete di questo intreccio. Gramsci si riferisce, piú ancora che alla teoria dell’egemonia contenuta nel Che fare?, alle parole d’ordine della «cultura» e dell’«alfabetizzazione», lanciate da Lenin nei suoi ultimi scritti (1922-1924), le quali, accanto alla Nep, rappresentano la consapevolezza del fatto che – prima e piú dell’esercizio della forza – decisive per le sorti dello Stato sovietico sono le dinamiche culturali, di conoscenza, cioè il modo in cui le diverse classi parteciperanno attivamente o passivamente all’edificazione del socialismo. La costituzione di “verità” è quindi, secondo la filosofia della praxis, la costruzione dell’egemonia in quanto costruzione dell’uguaglianza reale, cioè dell’egemonia come unificazione politica e culturale, pratica e teorica del genere umano.

Come si vede, questa posizione è uno sviluppo conseguente della «dottrina filosofica del valore delle superstrutture ideologiche» già enunciata in linea generale in 4,37 [Q 455]. E infatti alla fine del testo successivo [4,38], dedicato ai «Rapporti tra struttura e superstrutture», Gramsci annota:

Questo concetto [di egemonia], data l’affermazione fatta piú sopra, che l’affermazione di Marx che gli uomini prendono coscienza dei conflitti economici nel terreno delle ideologie ha un valore gnoseologico e non psicologico e morale, avrebbe anch’esso pertanto un valore gnoseologico e sarebbe da ritenere perciò l’apporto massimo di Iliíc alla filosofia marxista, al materialismo storico, apporto originale e creatore. Da questo punto di vista Iliíc avrebbe fatto progredire il marxismo non solo nella teoria politica e nella economia, ma anche nella filosofia (cioè avendo fatto progredire la dottrina politica avrebbe fatto progredire anche la filosofia) [Q 464 s.].

In nuce, dunque, l’idea di unità di filosofia e politica c’è già in AF I. L’elemento nuovo presente in 7,35 è il modo in cui concretamente si mediano nella prassi ideologia e conoscenza, fede e verità. Questa novità riceve nei Quaderni un nome preciso. Lo svolgimento della «dottrina filosofica del valore delle superstrutture ideologiche» conosce infatti un punto di svolta quando inizia a confrontarsi produttivamente col concetto crociano di «religione» come «concezione del mondo con una norma di condotta conforme», come Gramsci si esprimerà in 10,II,31. Questo è, come ho già ricordato, il testo C di 8,198 («Filosofia della Praxis»), testo chiave per l’interpretazione gramsciana dell’undicesima Tesi su Feuerbach, interpretazione che egli accosta alla celebre conclusione del Ludwig Feuerbach sul proletariato tedesco come erede della filosofia classica tedesca. Questo rinvio al Ludwig Feuerbach è presente, come si è visto, anche in 7,35, e anche in 7,33 («Posizione del problema»), dedicato al rapporto tra Marx e Lenin. Qui Gramsci afferma che

la fondazione di una classe dirigente (cioè di uno Stato) equivale alla creazione di una Weltanschauung. L’espressione che il proletariato tedesco è l’erede della filosofia tedesca: come deve essere intesa – non voleva indicare Marx l’ufficio storico della sua filosofia divenuta teoria di una classe che sarebbe diventata Stato? Per Ilici questo è realmente avvenuto in un territorio determinato. Ho accennato altrove [4,38] all’importanza filosofica del concetto e del fatto di egemonia, dovuto a Ilici. L’egemonia realizzata significa la critica reale di una filosofia, la sua reale dialettica [Q 881 s.].

Il lapsus di Gramsci (l’attribuzione a Marx della frase di Engels) è significativo dell’unità, nella sua interpretazione, del concetto di egemonia, del passo engelsiano e della glossa marxiana[112]: l’egemonia ha a che fare con la reale dialettica di una filosofia, e quindi con il rivoluzionamento del suo statuto, con la sua trasformazione in una filosofia della praxis. Ora, come si è detto, il concetto crociano di “religione” rappresenta per Gramsci un punto di riferimento importante in questa ridefinizione dello statuto della filosofia, ridefinizione che in 10,II,31 (giugno-agosto 1932) appare già conclusa:

La tesi XI [...] non può essere interpretata come un gesto di ripudio di ogni sorta di filosofia, ma solo di fastidio per i filosofi e il loro psittacismo e l’energica affermazione di una unità tra teoria e pratica. Questa interpretazione delle Glosse al Feuerbach come rivendicazione di unità tra teoria e pratica, e quindi come identificazione della filosofia con ciò che il Croce chiama ora religione (concezione del mondo con una norma di condotta conforme) – ciò che poi non è che l’affermazione della storicità della filosofia fatta nei termini di un’immanenza assoluta, di una «terrestrità assoluta» – si può ancora giustificare con la famosa proposizione che «il movimento operaio tedesco è l’erede della filosofia classica tedesca» [Q 1270 s.; cors. mio].

Come si vede, religione per Croce equivale alla nuova filosofia (unità di teoria e pratica) per il Marx della Tesi 11: è una posizione molto forte, che si può giustificare pensando che quel concetto di religione riusciva realmente a mediare il momento della riflessione e quello dell’immediatezza passionale, l’ideologia-conoscenza e l’ideologia-fede, in quanto si collocava al livello della storia etico-politica (che Gramsci infatti non a caso equipara criticamente al concetto di egemonia), cioè della concreta mediazione tra istanza di direzione intellettuale e morale degli intellettuali, e istanza della lotta sul terreno della politica-economia.

Ma dal nostro punto di vista interessa notare che quel processo di assimilazione di religione a filosofia della praxis si avvia proprio nel Q 7, cioè nel luogo in cui dapprima si manifesta la mediazione concreta tra praxis e ideologia. Intanto, il riferimento presente proprio in 7,35 al rapporto Croce-Hegel presuppone già il concetto crociano di religione. Se infatti «alla base delle ultime filosofie a base utopistica come quella del Croce» c’è proprio la tesi secondo la quale «la dialettica hegeliana sia stata un [variante interlineare: l’ultimo] riflesso di questi grandi nodi storici e che la dialettica, da espressione delle contraddizioni sociali debba diventare, con la sparizione di queste contraddizioni, una pura dialettica concettuale», allora l’utopia crociana ha strettamente a che fare con il rapporto tra filosofia e ideologia, cioè con il rapporto tra concezione del mondo e mondo pratico-morale che questa Weltanschauung si propone di creare e cementare: il momento teoretico (concetto di distinzione) è immediatamente e consapevolmente una proposta politica. Certo, tutto questo è in Croce in forma distorta: il suo intento infatti non è quello di far esplodere il conflitto, ma di eluderlo. E infatti Gramsci gli attribuisce una sorta di ingenua meraviglia di fronte agli usi politici del proprio pensiero[113], ma questo nulla toglie alla profondità teorica del suo concetto di religione.

Si può seguire lungo il 1931-1932 l’affermarsi dell’uso della religione in questa accezione. In 7,84 (dicembre 1931) si dice, a proposito della «mistica», che questa, nell’accezione francese di «fanatismo permanente incoercibile alle dimostrazioni corrosive, […] non è altro che la “passione” di cui parla Croce o il “mito” di Sorel giudicato da cervelli cartesianamente logistici» [Q 915]. La politica-passione appare qui tendenzialmente sottratta a una lettura che la schiacci sul fanatismo, e infatti subito sotto Gramsci nota che «positivamente si parla di mistica […] per non usare i termini di religiosità o addirittura di “religione”», facendo scivolare cosí insensibilmente la «passione» verso l’unità di concezione del mondo e norma di condotta conforme. Chi non ha paura di usare direttamente il termine “religione” è invece Gramsci, che poco piú tardi (gennaio-febbraio 1932) scrive: «Una parte importante del moderno Principe è la quistione di una riforma intellettuale e morale, cioè la quistione religiosa o di una concezione del mondo» [8,21; Q 953].

A questa altezza l’unificazione di “religione” e “filosofia della praxis” è già avvenuta. Nell’aprile dello stesso anno viene esplicitato anche il nesso con l’egemonia: «Poiché “egemonia” significa un determinato sistema di vita morale [concezione della vita ecc.], ecco che la storia è storia “religiosa”, secondo il principio “Stato-Chiesa” del Croce» [8,227; Q 1084].

A questo punto la questione della filosofia della praxis si pone nei termini di una filosofia-egemonia sulla base dell’undicesima Tesi su Feuerbach:

L’«erede» continua il predecessore, ma lo continua «praticamente» poiché ha dedotto una volontà attiva, trasformatrice del mondo, dalla mera contemplazione e in questa attività pratica è contenuta anche la «conoscenza» che solo anzi nell’attività pratica è «reale conoscenza» e non «scolasticismo». Se ne deduce anche che il carattere della filosofia della praxis è specialmente quello di essere una concezione di massa, una cultura di massa e di massa che opera unitariamente, cioè che ha norme di condotta non solo universali in idea, ma «generalizzate» nella realtà sociale. E l’attività del filosofo «individuale» non può essere pertanto concepita che in funzione di tale unità sociale, cioè anch’essa come politica, come funzione di direzione politica [10,II,31; Q 1271][114].

La filosofia della praxis è una costruzione di egemonia proprio in quanto può solo esistere come filosofia di massa, «e di massa che opera unitariamente», che ha cioè costituito una verità-libertà, ha “eguagliato” le differenze riformando “religiosamente” le coscienze. L’esito di questa progressiva definizione di un concetto di “filosofia della praxis” è cosí la filosofia come unità di filosofia e senso comune, che è infatti la grande novità presente in AF III e che diventa il centro del quaderno 11. Il nesso di filosofia e senso comune, in quanto diventi costitutivo del concetto di filosofia, riassume tutto quel complesso di determinazioni tra praxis, conoscenza e ideologia, che sono venuto ricostruendo in queste pagine.

Il momento in cui il concetto di filosofia della praxis si intreccia con quello di filosofia e senso comune è 8,220, che si colloca a ridosso di 8,204, in cui per la prima volta compare l’idea di «Un’introduzione allo studio della filosofia»:

Una filosofia della prassi non può presentarsi inizialmente che in atteggiamento polemico, come superamento del modo di pensare preesistente. Quindi come critica del «senso comune» (dopo essersi basata sul senso comune per mostrare che «tutti» sono filosofi e che non si tratta di introdurre ex-novo una scienza nella vita individuale di tutti, ma di innovare e rendere «critica» un’attività preesistente) e della filosofia degli intellettuali, che è quella che dà luogo alla storia della filosofia [8,220; Q 1080].

Una volta avvenuta questa saldatura tra le due problematiche, non ha piú senso una riflessione separata sulla “filosofia della praxis”, e l’espressione passa a delimitare tutto lo spazio del marxismo cosí ridefinito[115].


Abbreviazioni utilizzate

Q: Quaderni del carcere, ed. critica a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi 19751, 19772

NT: «Note al testo», in Q 2443-3034 (Vol. 4)

DQ: «Descrizione dei quaderni», in Q 2367-2442

Q 8: (es.) quaderno 8

5,147: (es.) quaderno 5, paragrafo 147

Testo A, testo B, testo C: risp. testo di prima stesura, di stesura unica e di seconda stesura dei Quaderni [testi B possono essere sia testi scritti in quaderni miscellanei e non copiati in quaderni speciali, sia testi scritti direttamente in quaderni speciali]

AF I, II, III: risp. «Appunti di filosofia. Materialismo e idealismo. Prima serie», in Q 4; «Seconda serie», in Q 7; «Terza serie», in Q 8
 

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Note

[1] Tenendo conto di questa accezione della filosofia della praxis affronta il tema Badaloni (1981), che, con riferimento specifico alla filosofia della praxis, riprende e aggiorna la monografia precedente (1975).

[2] Di «pensiero profondamente e organicamente sistematico» a proposito dei Quaderni ha parlato R. Finelli (1999, 195).

[3] Il saggio di Maria Rosaria Romagnuolo (1987-1988), contiene un’accurata ricostruzione della storia dell’espressione “filosofia della praxis”, ma dimostra un’insufficiente capacità di comprendere le implicazioni teoriche della questione.

[4] Sull’uso dell’espressione «filosofia della praxis» cf V. Gerratana (1967, 256 s.). Contro un’assunzione unilaterale del criterio della riforma crittografica (cui Gerratana è peraltro del tutto estraneo) è stato giustamente osservato: «Se anche la sua [della denominazione filosofia della praxis] genesi fosse puramente “esterna”, rimarrebbe da spiegare perché Gramsci abbia scelto – come sostituto – una espressione di quel peso e di quel significato, cosí connotata (e proprio in quel momento)» (M. Ciliberto [1982, 311]).

[5] Cf su questa congiuntura E. Garin (1966, 211-221), e B. de Giovanni (1983).

[6] Mi riferisco evidentemente all’attitudine descritta in 4,1 [Q 419]: «Se si vuole studiare una concezione del mondo che non è stata mai dall’autore-pensatore esposta sistematicamente, occorre fare un lavoro minuzioso e condotto col massimo scrupolo di esattezza e di onestà scientifica» ecc.

[7] Su Gramsci e Labriola cf V. Gerratana (1972, 155-163 = cap. 2 su «Labriola e Gramsci»), e A. Bertondini (1959). Gramsci aveva con sé a Turi il IV saggio: Da un secolo all’altro (1925) (timbro Turi II, cioè il volume entrò tra il marzo 1929 e il novembre 1930). In memoria del Manifesto dei Comunisti (1902a), Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare (1902b), e Discorrendo di socialismo e di filosofia (1902c) Gramsci li possedeva invece prima dell’arresto, e sono infatti nel Fondo Gramsci, ma privi di timbri carcerari.

Su Gramsci e Gentile insiste (ma in modo sempre poco convincente) G. Bergami (1977, 82-84, 100-120), che pubblica utilmente l’elenco dei libri posseduti da Attilio Carena. Questi, intimo amico di Gramsci a Torino e che con lui condivideva molti interessi culturali, possedeva – oltre alla Filosofia di Marx (nella prima edizione: Pisa, Spoerri 1899, ma letta e postillata nel marzo 1920) – tutte le principali opere di Gentile (1977, 182). Assai suggestiva, anche in ciò che non può esserne condiviso, è la ricostruzione di L. Paggi (1970, 3-42 = cap. I).

[8] Contemporaneamente agli AF I Gramsci avvia (a c.1r del Q 4) «Il canto decimo dell’Inferno», destinato tuttavia a non trovare spazio in quaderni speciali. Per la cronologia faccio riferimento a G. Francioni (1984).

[9] Sebbene non venga mai usata come titolo di rubrica. Ma ciò può avere importanza soltanto alla luce di una considerazione formalistica dei Quaderni. Il nesso tra titoli di rubrica e contenuti non è affatto meccanico: si prenda ad. es. l’uso flessibile che sopratutto nella prima fase di lavoro Gramsci fa di «Riviste tipo» e «I nipotini di padre Bresciani».

[10] 4,3 è databile tra la fine di aprile e l’inizio di maggio 1930 (cf DQ 2384 e Francioni [1984, 42 s. e nota]), mentre 3,31 è di poco posteriore (giugno-luglio) (cf NT 2579).

[11] D’altronde anche 4,14 proseguiva cosí: «Ciò avviene in forme reciproche naturalmente, ma è appunto ciò che bisogna sventare. Il vecchio mondo, rendendo omaggio al materialismo storico cerca di ridurlo a un corpo di criteri subordinati, di secondo grado, da incorporare nella sua teoria generale, idealistica o materialistica: chi riduce a un ruolo simile il materialismo storico nel campo proprio di questa teoria, capitola implicitamente dinanzi agli avversari» [Q 436].

[12] B. Croce (1929, pp. 11 s.).

[13] È fortemente improbabile che Gramsci abbia avuto accesso a un esemplare del quotidiano berlinese, sul quale l’articolo della Luxemburg era uscito quando egli era dodicenne. Può però averlo letto, in traduzione francese, nella raccolta Karl Marx homme, penseur et révolutionnaire (1928, 70-77) (che però non è conservato tra i libri del carcere).

[14] 16,9 [Q 1857]. Il testo è la seconda stesura di 4,3, e il passo cit. è una variante instaurativa, quindi di molto posteriore. Esso però non fa che esplicitare quanto già presente nella prima stesura.

[15] «La forma classica di questi passaggi dalla concezione del mondo alla norma pratica di condotta, mi pare quella per cui dalla predestinazione calvinistica sorge uno dei maggiori impulsi all’iniziativa pratica che si sia avuto nella storia mondiale. Cosí ogni altra forma di determinismo a un certo punto si è sviluppata in spirito di iniziativa e in tensione estrema di volontà collettiva» [10,II,28; Q 1267; cors. mio]. Il passo cit. è una variante instaurativa. Nell’ultima parte di esso è evidente il riferimento al varo del primo piano quinquennale.

[16] Il giudizio è ripreso e perfezionato nella seconda stesura [11,12; Q 1389]: «Una parte della massa anche subalterna è sempre dirigente e responsabile e la filosofia della parte precede sempre la filosofia del tutto non solo come anticipazione teorica, ma come necessità attuale». Qui Gramsci riprende implicitamente la propria lettura del testo della Luxemburg, ma in genere tutta la propria teoria del valore gnoseologico delle superstrutture ideologiche (e quindi la rivalutazione che di questo concetto aveva condotto Labriola sopratutto in Del materialismo storico).

[17] Gramsci aveva già scritto di Labriola in modo simile nel gennaio 1918 (614 s.), quando affermò che le simpatie positivistiche «hanno fatto ristagnare la produzione intellettuale del socialismo italiano, che pure con gli scritti di Antonio Labriola aveva avuto un inizio cosí fulgido e pieno di promesse».

Sulla crucialità della figura di Labriola nella ridefinizione del marxismo come filosofia della praxis nei Quaderni insiste giustamente Ciliberto (1982, 272, 280, 282, 292, 311).

[18] La «filosofia della praxis […] è il midollo del materialismo storico. Questa è la filosofia immanente alle cose su cui filosofeggia. […] Dal lavoro, che è un conoscere operando, al conoscere come astratta teoria: e non da questo a quello. […] Il materialismo storico, ossia la filosofia della praxis, in quanto investe tutto l'uomo storico e sociale, come mette termine a ogni forma d’idealismo […], cosí è la fine anche del materialismo naturalistico» (Labriola [1973b, 702 s.]). Mi sono soffermato su queste corrispondenze tra Labriola e Gramsci in (1998), ripubblicato in forma ampliata (2001), in partic. nel cap. 2.III. Sulla «filosofia della praxis» di Labriola cf anche A. Tosel (1991, 27-37).

[19] Labriola (1973b, 703). E si veda anche p. 712, dove si criticano quelli «che han creduto di poter completare Marx, o con questa, o con quell’altra cosa»; pp. 712 s., dove, rivolgendosi a Sorel, Labriola afferma: «Voi molto giustamente portate la vostra attenzione su i caratteri differenziali del materialismo storico […] e non vi proponete il quesito se il signor Marx possa andare a braccetto del tale o tal altro filosofo, ma vi chiedete, invece, quale filosofia sia a questa dottrina necessariamente e obiettivamente implicita»; e p. 679: «Come va che […] tanti si sono affannati a completarlo [il marxismo], ora con Spencer, ora col positivismo in genere, ora con Darwin, ora con ogni altro ben di dio, […] mostrando […] di dimenticare due cose, che questa dottrina reca in se stessa le condizioni della sua propria filosofia ed è, cosí nella origine come nella sostanza, intimamente internazionale?».

[20] G. Gentile (1974, 64).

[21] E infatti Gentile, parafrasando Labriola, vi osservava polemicamente che «nessun’altra filosofia all’infuori del materialismo si potrà […] ritenere immanente nella concezione materialistica della storia» (1974, 68).

[22] Importante è anche 10,II,2 [Q 1241], un testo B dell’aprile 1932 (dunque di un paio di mesi posteriore a 8,198), dove Gramsci si domanda se nel porre «l’identità di storia e filosofia» Croce «ha preso […] l’abbrivo dalla filosofia della praxis di Antonio Labriola».

[23] Si riferisce al Discorrendo di socialismo e di filosofia.

[24] Si riferisce all’edizione in rivista, nel 1897, del primo dei due saggi («Una critica del materialismo storico») che andranno a comporre il volume La filosofia di Marx.

[25] B. Croce (1900, 101 n.) (la parte della nota dopo il trattino è evidentemente aggiunta da Croce al momento della raccolta in volume). Gramsci aveva con sé il libro fin dal suo arrivo a Turi.

[26] Agosto-settembre 1930.

[27] In L’Italia che scrive, XI (1928), n. 6, p. 156.

[28] Palmi, Zappone 1928.

[29] Una questione ulteriore riguarda Rodolfo Mondolfo, il quale anche aveva parlato (a cominciare dal 1909, con «Feuerbach e Marx» cit.) di marxismo come «filosofia della praxis», riprendendo Gentile e Labriola, e criticando entrambi. A rendere poco plausibile un ricorso di Gramsci ai suoi scritti ci sono, oltre a ragioni di ordine teorico (che discuterò nel prossimo capitolo), le scarse simpatie che egli dimostrò almeno a partire dal 1919 (cf Gramsci [1919]) per il filosofo del socialismo, entrambe confermate nei Quaderni. Cf 16,9 (var. instaurativa su 4,3): «Occorre lavorare in questo senso, sviluppando la posizione di Antonio Labriola, di cui i libri di Rodolfo Mondolfo non paiono (almeno per quanto si ricorda) un coerente svolgimento. Pare che il Mondolfo non abbia mai abbandonato completamente il fondamentale punto di vista del positivismo di alunno di Roberto Ardigò» [Q 1855 s.].

[30] Cf F. Engels (1962, 276). Gramsci possedeva – ma non aveva con sé in carcere – una traduzione italiana di questa operetta nell’edizione delle Opere di Marx, Engels e Lassalle curata da Ettore Ciccotti (1922, Vol. IV, 14; che riproduce, conservando la paginazione originale, l’ed. Roma, Mongini 1902, tradotta dal Ciccotti). Tuttavia vi è una discrepanza, perché Mongini traduce: «è la pratica, propriamente l’esperienza e l’industria» (1922, IV, 14), mentre Engels scrive: «ist die Praxis, nämlich das Experiment und die Industrie» (1962, 276). Gramsci sembra cioè tener conto del testo tedesco, o di una traduzione piú fedele, che però non compaiono tra i libri di Turi.

[31] F. Engels (1962, 278).

[32] F. Engels (1985, 28). Anche quest’opera, spesso discussa nei Quaderni, è tra i libri che Gramsci possedeva prima dell’arresto, ma non ebbe a disposizione in carcere. Si veda in passo in Marx-Engels-Lassalle (1922, VIII, 20; che riproduce, conservando la paginazione originale, l’ed. Roma, Mongini 1911, tradotta da N. Lombardi Pignatari).

[33] Cf Labriola (1973b, 717 e ss. [dove si cita e si discute il passo dell’Antidühring relativo alla fine della filosofia] e 693 [«Engels, […] chiuso com’era nella persuasione, che ciò che egli giustamente chiamava filosofia classica fosse giunta alla sua dissoluzione in Feuerbach, scrivendo l’Antidühring mostrò noncuranza, dirò francamente eccessiva, per la filosofia contemporanea»]).

[34] Cf già in 4,1, a proposito di Marx: «Occorre seguire, prima di tutto, il processo di sviluppo intellettuale del pensatore, per ricostruirlo secondo gli elementi divenuti stabili e permanenti, cioè che sono stati realmente assunti dall’autore come pensiero proprio, diverso e superiore al “materiale” precedentemente studiato e per il quale egli può aver avuto, in certi momenti, simpatia, fino ad averlo accettato provvisoriamente ed essersene servito per il suo lavoro critico o di ricostruzione storica o scientifica» [Q 419].

[35] Cf l’ancor piú radicale 4,34 [Q 452 s.], in cui si lamenta non piú il peso relativo da attribuire a uno dei due membri dell’espressione «materialismo storico», ma la denominazione nel suo complesso: un «vocabolo» vecchio che vela la novità di «qualche cosa veramente nuova» (Gramsci cita una frase di Napoleone ad Alessandro Volta). Il rinvio all’uso metaforico della parola «immanenza» è a N. I. Bucharin (1983, 43) (dove però questo viene detto della «teleologia»).

[36] Nel testo C [11,28; Q 1439] il riferimento a Bruno viene leggermente ampliato: «Pare che in Giordano Bruno, per esempio, ci siano molte tracce di una tale concezione nuova; i fondatori della filosofia della praxis conoscevano il Bruno. Lo conoscevano e rimangono tracce di opere del Bruno postillate da loro». Gerratana annota: «Non è chiaro a quale fonte Gramsci abbia attinto tale conferma, insieme alla notizia dell’esistenza di opere di Bruno postillate da Marx. Entrambe le affermazioni non sono, del resto, comprovate alla luce dell’attuale stato degli studi marxiani» [NT 2899]. Si confronti comunque quanto Gramsci afferma qui, con una sua considerazione posteriore sulla religione del Pulci (17,3; agosto 1933 secondo G. Francioni, L’officina gramsciana cit.): «È da vedere se lo spiritismo e la magia non sono necessariamente la forma che doveva prendere il naturalismo e il materialismo di quell’epoca, cioè la reazione al trascendente cattolico o la prima forma di immanenza primitiva e rozza» (Q 1909).

Invece l’affermazione relativa al passaggio del pensiero bruniano nella filosofia classica tedesca è evidentemente ricavata da Bertrando Spaventa (1972, 509-523). Si noti comunque che Spaventa valorizza in Bruno proprio la priorità assegnata al fare: «Il gran pregio di Bruno è aver detto: essere è fare; essere è causare» (1972, 520), rovesciando cosí l’ordine scolastico di essenza e operazione. Ma è un cenno generico, che si accompagna all’affermazione che «in Bruno ci è ancora l’ente estramondano o soprannaturale del vecchio mondo, sebbene ridotto a minime proporzioni» (1972, 518). Tuttavia in un altro testo, a quello precedente, dedicato all’etica del Nolano, Spaventa presenta il concetto bruniano di «lavoro» come unità di pensiero e «fatica», e in tal modo fondamento di una morale moderna in quanto autonoma (B. Spaventa [1928, 125-156, qui 128, 144-148, 152 s.]).

[37] Cf 7,36 [Q 886 s.].

[38] Cf la lettera del 25/3/1929: «Un buon libro su Hegel è anche quello del Croce, purché si ricordi, che in esso Hegel e la filosofia hegeliana fanno un passo avanti e due indietro: viene superata la metafisica, ma si ritorna indietro nella quistione dei rapporti tra il pensiero e la realtà naturale e storica» (1965, 266). Mentre si capisce che cosa sia il “superamento dalla metafisica” hegeliana, meno chiaro risulta il secondo punto. Forse Gramsci si riferisce alla capacità del sistema hegeliano di pensare la storicità della coscienza, cosa che Croce ‘supera’ nell’eternità delle quattro forme dello spirito.

[39] Si noti che 8,128 («Scienza economica», su Ricardo e Marx, nella sezione miscellanea) e 8,224 (su Croce, in AF III) sono coevi: entrambi dell’aprile 1932. Il giudizio sul carattere “teologico” dello storicismo crociano è mediato dalle considerazioni sul suo carattere “utopistico” e, come tale, in ultima istanza religioso. Cf 7,35 [Q 886], scritto tra il febbraio e il novembre del 1931 (analizzerò questo testo nel cap. 7). Inoltre 8,222 contiene un rinvio a 8,128, che dunque precede (come ipotizzato in questa interpretazione), anche se di pochissimo, 8,224. Pertanto: è il fatto di aver finalmente individuato un punto di riferimento per l’immanenza storicistica di Marx nell’economia politica ricardiana, ciò che stimola Gramsci a mettere a tema il carattere trascendente e teologico dell’idealismo crociano. 8,224 è un primo approccio, che sensibilmente riformula, proprio perché lo riferisce in modo inedito a Croce, quanto era stato accennato in 8,204 [Q 1064]: «Trascendenza, immanenza, storicismo assoluto. Significato e importanza della storia della filosofia». Il tema torna in 8,235 [Q 1088]: «Oltre la serie “trascendenza, teologia, speculazione – filosofia speculativa”, l’altra serie “trascendenza, immanenza, storicismo speculativo – filosofia della praxis”. Sono da rivedere e da criticare tutte le teorie storicistiche di carattere speculativo»; il passo prosegue con il riferimento alla necessità di un Anti-Croce. Nel successivo 8,237 Gramsci torna a riflettere sul concetto di «“necessità” storica […] nel senso storico-concreto», e si appella all’idea, derivata dal metodo economico ricardiano del “posto che”, dell’«esistenza di una premessa efficiente, che sia diventata operosa come una “credenza popolare” nella coscienza collettiva» [Q 1089]. Nella seconda stesura di 8,235, infine, il giudizio sull’idealismo è ancora piú duro: «La “speculazione” (in senso idealistico) non ha introdotto una trascendenza di nuovo tipo nella riforma filosofica caratterizzata dalle concezioni immanentistiche?» [11,51; Q 1477].

[40] Cf il cap. seguente.

[41] Su questo testo cf infra, cap. 6. Si potrebbe dunque parlare, con Gramsci, di una linea filosofica Machiavelli-Bruno-Ricardo-Marx sotto il segno di un pensiero al contempo non trascendente e non metafisico (e quindi immanente in un senso originale anche rispetto all’immanentismo moderno).

[42] Su questo giudizio controverso cf la valutazione equilibrata di R. Medici (1990, 190-201).

[43] Cf N. Badaloni (1988, 36-39).

[44] 8,199 risale infatti al febbraio del 1932.

[45] Si dovrebbe forse leggere «origini vichiane»? In questo caso andrebbe inteso come un implicito rinvio alla menzione che Marx fa di questo principio, in quanto metodo d’indagine materialistico, nel Primo libro del Capitale (1962, 393n.; trad. it. 1974, 414n.). Ma forse Gramsci sta qui pensando alla tesi spaventiana della «circolazione». In ogni modo, nel testo C [11,54; Q 1482] quell’espressione scompare: «La proposizione di G. B. Vico “verum ipsum factum” tanto discussa e variamente interpretata […] e che il Croce svolge nel senso idealistico che il conoscere sia un fare e che si conosce ciò che si fa, in cui “fare” ha un particolare significato, tanto particolare che poi significa niente altro che “conoscere”, cioè si risolve in una tautologia (concezione che tuttavia deve essere messa in relazione colla concezione propria della filosofia della prassi)». In C il giudizio (negativo) non verte direttamente sul principio vichiano, ma sulla sua interpretazione speculativa da parte di Croce. È stato infatti scritto, credo giustamente, che «il disinteresse di Gramsci per la filosofia di G. B. Vico può dirsi solo formale, in quanto, sostanzialmente, con l’accettare la concezione del Labriola, Gramsci veniva ad assumere anche quella parte del vichismo che era intervenuta nella formazione del Labriola stesso» (Bertondini [1959, 173]). Entro questi termini si può dire che concordi con questa tesi anche Ciliberto (1982), che nelle «varianti vichiane» riconosce invece una presa di distanza di Gramsci dall’intera «tradizione italiana».

[46] Anche altrove (4,56; Q 504) Vico, sia pure giudicato portatore – a differenza di Hegel – di una «pura speculazione astratta», è nominato nel contesto di una contrapposizione tra Croce (e Gentile) e Hegel (il passo è citato infra, alla nota 102). Un’analisi accurata di 8,199 e delle varianti rispetto al testo C (11,54) è in Ciliberto (1982, 289-291). Ivi, pp. 268-282, anche un’analisi di 4,56 e delle varianti rispetto a 10,II,41.X.

[47] L. Piccioni (1983, 25).

[48] Cf Piccioni (1983, 19 s.), e N. De Domenico (1980, 130 s.).

[49] M. Barbera (1929) [NT 2641].

[50] Sull’interpretazione marxiana di Gentile cf G. Marramao (1971, 182-195), N. De Domenico (1980), A. Tosel (1991, 73-85). Dettagliata ma tendenziosa è l’esposizione di A. Signorini (1966, 71-116; in partic. 78-93), mentre Ugo Spirito (1954) riproduce come corretta l’esegesi gentiliana delle Glosse (pp. 26-37), sottolineando (anche contro le esplicite asserzioni di Gentile) come nella prassi cosí riletta fosse «già un qualche germe dell’atto puro» (p. 42).

[51] «Gegenstand» viene reso con «termine del pensiero»; la frase «nicht aber als menschliche sinnliche Tätigkeit, Praxis, nicht subjektiv» con «e non già come attività sensitiva umana, come prassi, e soggettivamente» (invece di: «non soggettivamente»); all’espressione «gegenständliche Tätigkeit», «attività oggettiva», Gentile appone la nota: «Cioè, come attività che faccia, ponga, crei l’oggetto sensibile», ecc. (Gentile [1974, 68 s.]).

[52] Gentile (1974, 82). Su questo punto cf De Domenico (1980, 134 s.).

[53] Gentile (1974, 78).

[54] Gentile (1974, 86).

[55] Gentile (1974, 85).

[56] Nell’edizione Engels. L’edizione critica posteriore (1932) ristabilí la lezione marxiana (che destituiva di senso l’intero problema interpretativo) di «revolutionäre Praxis». È ovvio peraltro che già «umwälzende Praxis» avrebbe potuto (quindi dovuto) essere tradotta correttamente. Infatti Ettore Ciccotti, nella sua edizione del Ludovico Feuerbach (Roma, Mongini 1906, riprodotta nel Vol. IV delle Opere di Marx, Engels e Lassalle [1922, IV, 41]) traduce con «pratica rivoluzionaria».

Si noti che Bucharin già nel 1931 era a conoscenza della variante contenuta nel testo critico, e che Gramsci poté leggere in inglese (ma diverso tempo dopo aver tradotto le Thesen) questo passo: «revolutionäre Praxis di Marx, umwälzende Praxis di Engels» (1977, 371). Ma non rettificò la propria traduzione, che segue su questo punto la traccia gentiliana: Gramsci traduce infatti «umwälzende Praxis» con «rovesciamento della praxis». Si potrebbe vedere qui un’influenza di Gentile, ma sia il complesso della traduzione di Gramsci, sia il modo in cui usa l’espressione «rovesciamento della praxis» nei Quaderni – come sinonimo di rivoluzione – fanno piuttosto pensare a una deriva linguistica riempita di un contenuto concettuale nuovo e indipendente, nello spirito della restante interpretazione delle Tesi.

[57] Gentile (1974, 69).

[58] Gentile (1974, 85).

[59] Ibid.

[60] Cf una stringente ricostruzione del ‘montaggio’ gentiliano in quanto strategia espositiva nel saggio di De Domenico (1980).

[61] Questo giudizio, con valutazioni opposte, è in Spirito (1954), e Tosel (1991, 81).

[62] Cf in questa direzione le rapide osservazioni di E. Garin (1983, 225 e n.); e il confronto (parziale) condotto da Marramao (1971, 204 s.).

[63] La si veda in Mondolfo (1968a, 10 s.).

[64] Mondolfo (1968a, 63).

[65] Mondolfo (1968a, 61).

[66] Cf le giuste osservazioni critiche di C. Luporini (1973, 1605 s.).

[67] Mondolfo (1968a, 61).

[68] Mondolfo (1968b, 94).

[69] Mondolfo (1968b, 94 s.).

[70] Mondolfo (1968c, 113).

[71] Mondolfo (1968d, 135).

[72] Nel 1933 Giuseppe Capograssi approfondirà criticamente queste posizioni, negando che tra «prassi che rovescia» e «prassi che si rovescia» sussista differenza alcuna, in quanto per la prassi marxistica attività e mondo coincidono, e il mondo «è attività e niente altro» (1933, 92 s.). Il rivoluzionamento esterno non è dunque che la faccia esteriore della rivoluzione dell’«esperienza», rivoluzione che peraltro (a differenza di quanto ritengono i russi) non «è opera dell’intelligenza e del pensiero riflesso» ma, ben piú in profondo, della «esperienza», della «azione elementare» indisponibile a un controllo intellettuale (ivi, p. 94; il riferimento al piano quinquennale è molto chiaro). In questo modo si giungeva a una sorta di attualismo marxistico, che rimane però egualmente estraneo a Gramsci.

[73] K. Marx (1919). Il testo delle Thesen riportato in questo libro è quello di Engels. Il momento di entrata del volume è ricavato dai contrassegni carcerari.

[74] Cf DQ 2384, 2392, e Francioni (1984, 141, 142, 59 s.).

[75] Cfr. NT 2644 per la datazione di 4,38. 4,37-4,38 delineano un passaggio dal problema della praxis a quello del nesso base-sovrastruttura, che è identico alla scelta compiuta da Gramsci nell’avviare la traduzione, il cui ordine non corrisponde infatti a quello del libro. Le Thesen (trad. a cc. 2r-3r) si trovano a pp. 54-57, il Vorwort (trad. a cc. 3r-4r) è a pp. 43-46.

[76] Ad es. nella Tesi 9 Sinnlichkeit è tradotto con «realtà», e deve trattarsi di una banale svista.

[77] È questa, d’altronde, la lettura gramsciana di Marx.

[78] In un testo coevo (autunno 1930) compare un uso molto simile della Tesi 1 come critica definitiva delle false opposizioni tipiche della filosofia tradizionale. In 5,39 [Q 572] Gramsci annota: «È interessante un brano di Roberto Ardigò in cui si dice che occorre lodare il Bergson per il suo volontarismo. Ma che significa ciò? Non è una confessione dell’impotenza della propria filosofia a spiegare il mondo, se occorre rivolgersi a un sistema opposto per trovare l’elemento necessario per la vita pratica? Questo punto di Ardigò […] deve essere messo in rapporto con le Tesi su Feuerbach di Marx e dimostra appunto di quanto Marx avesse superato la posizione filosofica del materialismo volgare».

[79] In questo testo il riferimento è all’affermazione, contenuta nell’Antidühring, secondo la quale (Gramsci cita a memoria) «l’oggettività del mondo fisico è dimostrata dalle ricerche successive degli scienziati». Gramsci commenta: «Io penso che […] Engels voglia affermare il caso tipico in cui si stabilisce il processo unitario del reale, cioè attraverso l’attività pratica, che è la mediazione dialettica tra l’uomo e la natura, cioè la cellula “storica” elementare» [Q 473]. Il testo esatto è: «L’unità reale del mondo consiste nella sua materialità, e questa è dimostrata non da alcune frasi cabalistiche, ma da uno sviluppo lungo e laborioso della filosofia e delle scienze naturali» (1985, 48). Piú tardi (in 11,17) la frase è citata letteralmente: «l’unità del mondo consiste nella sua materialità dimostrata… dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali» [Q 1415]; ma anche in questo caso (come supra, in nota 32) c’è una discrepanza tra la citazione gramsciana, fedele all’originale (che non risulta egli abbia avuto a Turi) e la traduzione di Lombardi Pignatari cit.: cf Marx-Engels-Lassalle (1922, VIII, 38): «La reale unità del mondo consiste nella sua materialità […] dimostrata […] da una lunga e duratura evoluzione della filosofia e della scienza naturale».

[80] Nella versione C di 4,37 la filosofia della praxis viene definita, con variante instaurativa-sostitutiva: «Filosofia dell’atto (prassi, svolgimento) ma non dell’atto “puro”, bensì proprio dell’atto “impuro”, reale nel senso più profano e mondano della parola» [11,64; Q 1492]. «Mondano» rinvia evidentemente al «carattere terreno» della Tesi 2 nella traduzione di Gramsci, e alla «terrestrità assoluta» di 10,II,31 [Q 1270] e di 11,27 [Q 1437].

[81] Tesi 6. Darò sempre il testo nella traduzione di Gramsci [Q 2357].

[82] Tesi 6 [Q 2357].

[83] Cf su questo punto F. Valentini (1966, 125 s.).

[84] Ha ben scritto Nicola Badaloni (1988, 36) che in Gramsci «la soggettività è qualcosa di diverso da quella dell’idealismo perché l’uomo è traversato dai problemi, reagisce su di essi, ma non li fonda in modo immediato». Sul confronto di Gramsci con Gentile attorno alla definizione della praxis si vedano (nella stessa direzione di Badaloni) D. Losurdo (1990) e A. Tosel (1991, 114-121).

[85] Tesi 3 [Q 2356].

[86] Gramsci traduce la problematica della «cosa in sé» in quella della «invenzione», cioè dell’imposizione pratica di nuove verità nel mondo della cultura, cioè nell’ideologia (10,II,42 [Q 1328 s.]: «La conoscenza filosofica come atto pratico, di volontà»). La sua riflessione sul «noumeno» kantiano è comunque insistita e non univoca: cf 10,II,40 [Q 1290 s.], 10,II,46 [Q 1333], 11,30 [Q 1442 s.].

[87] Probabilmente l’obiezione a Lukács in 4,43 [Q 469] va letta alla luce del pericolo di ricadere nel «dualismo» se non si fissa nella praxis quell’unità concreta di uomo e natura che è la “storia”. Ha ben scritto Cesare Luporini (1958, 457) che Gramsci «non pensa neppur lontanamente a negare l’esistenza» della «unità (o comunità) biologica dell’uomo […] bensí la sua incidenza rilevante nella storia umana».

[88] Cf anche 4,11 [Q 433]: «Marx è essenzialmente uno “storicista” ecc.», e la variante instaurativa nel testo C 11,27 [Q 1437]: «La filosofia della praxis è lo “storicismo” assoluto, la mondanizzazione e terrestrità assoluta del pensiero, un umanesimo assoluto della storia».

[89] «[…] kurz, ideologischen Formen, worin sich die Menschen dieses Konfiktes bewußt werden und ihn ausfechten» (Marx [1964, 9]) viene reso con: «in una parola: le forme ideologiche, nel cui terreno gli uomini diventano consapevoli di questo conflitto e lo risolvono» [Q 2359]; dove il termine «terreno», assente nell’originale, conferisce alle superstrutture un’autonomia funzionale e una consistenza che non hanno nel testo di Marx. Inoltre rendere «ausfechten» con «risolvere» non è sbagliato (Labriola aveva tradotto con «compiere» [1973a, 500]), ma è una forte sottolineatura del carattere “realizzante” (cioè conoscitivo) delle ideologie.

[90] Cf N. Badaloni (1977, 22-24). Sul modo in cui Gramsci legge (e “riscrive”) la «Prefazione» cf anche le tesi, non tutte condivisibili, di L. Paggi (1984b, 462-464).

[91] «Il materialismo storico» («Prefazione» del 1859) nella traduzione di Gramsci [Q 2359].

[92] «Il materialismo storico» [Q 2358].

[93] «Il materialismo storico» [Q 2359].

[94] Da questo punto di vista è importante 8,207 (che va accostato al precedente 8,206 e a 8,211, entrambi sul termine “materialismo”). In 8,207 [Q 1065] Gramsci si sofferma criticamente sulle due affermazioni della «Prefazione» relative alla «anatomia» della società civile e al fatto che non si può giudicare un uomo da ciò che egli pensa di sé stesso, vedendo in entrambe delle metafore da relativizzare nella consapevolezza della loro origine storica. Si noti che entrambe queste «metafore» si riferiscono alla possibilità di un approccio scientifico alla realtà storico-sociale. Questa valutazione critica è approfondita nella seconda stesura [11,50; Q 1473-1475].

[95] Sulla vicinanza alla pratica come tratto caratterizzante il pensiero di Machiavelli ha insistito in modo convincente Louis Althusser (1999, 33-36).

[96] Individuando in Machiavelli un fondatore del concetto di immanenza intesa come autosufficienza del mondo terreno e umano, Gramsci obbedisce con tutta evidenza a suggestioni desanctisiane. Cf F. De sanctis (1983, 594, 598, 602-604, 606 s., 512, 634, 636 e sopratutto 638): «Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è l’uomo considerato come un essere autonomo e bastante a sé stesso, che ha nella sua natura i sui fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua grandezza e della sua decadenza, come uomo e come società». Su Gramsci e De Sanctis cf, tra i tanti titoli possibili, i lucidi interventi di V. Gerratana (1952) e C. Muscetta (1991); mentre sul Machiavelli di De Sanctis si veda G. Procacci (1995, 414-419).

[97] È infatti datato da Francioni (1984) al maggio 1930.

[98] Cf ancora il De Sanctis (1983, 635): «Anche oggi, quando uno straniero vuol dire un complimento all’Italia, la chiama patria di Dante e di Savonarola, e tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo chiamarci figli di Machiavelli».

[99] Cf le osservazioni a questo proposito di Medici (1990, 188-190), che nota come Gramsci riattinga il Machiavelli desanctisiano contro la riduzione crociana della politica a «distinto». Si veda anche anche L. Paggi (1984a, 391 [«La tesi del Machiavelli scopritore dell’autonomia della scienza politica rappresentava in realtà una ritraduzione speculativa dei risultati piú importanti raggiunti dalla critica desanctisiana»], 392 [«Della definizione crociana della politica come “scienza autonoma” Gramsci accetterà sempre la componente laica e progressista, di lotta contro ogni forma ritornante di gesuitismo»], 410-413, 421 s.).

[100] Si potrebbe notare con Gramsci che, se Machiavelli circoscrive ed àncora la riflessione all’orizzonte della praxis, ridefinisce anche, almeno implicitamente e potenzialmente, il concetto di uomo sulla stessa base. E in effetti le considerazioni contenute nei Quaderni sulla storicità del pensiero del Segretario (sul suo esprimere le esigenze dell’epoca e dell’intera Europa, sul suo «giacobinismo precoce» [8,21; Q 953]) vanno in questa direzione.

[101] Datato da Francioni (1984) al novembre 1930.

[102] Per questa ragione Gramsci annota subito sotto: «Vedere le obiezioni non verbalistiche della scuola del Gentile al Croce; risalire allo Hegel: è “completamente” esatta la riforma dello hegelismo compiuta da Croce-Gentile? Non hanno essi reso piú “astratto” lo Hegel? non ne hanno tagliato via la parte piú realistica, piú storicistica? e non è proprio da questa parte invece che è nato essenzialmente il marxismo?» [4,56; Q 504]. Parlando di «parte […] piú storicistica» di Hegel Gramsci allude evidentemente al suo tentativo di andare oltre idealismo e materialismo (cf 4,11). Le «obiezioni non verbalistiche della scuola del Gentile al Croce» sono quelle formulate da Arnaldo Volpicelli (1927-1928), che infatti adopera l’espressione «dialettica dei distinti» (da qui la trae Gramsci: essa infatti non compare mai in Croce), e fa notare appunto il dissidio tra istanza dialettica della contraddizione e istanza positivistica della distinzione.

[103] Esso è peraltro contemporaneo al già ricordato 8,198, intitolato «Filosofia della Praxis», in cui, citando Croce, si discute la legittimità di questa denominazione sulla base di Antonio Labriola.

[104] Tesi 1 [Q 2355].

[105] Naturalmente quando si parla di “incapacità” s’intende un’insufficienza strutturale del pensiero crociano, legata alla sua natura speculativa e «teologica» (si vedano i già citati 8,224/10,I,8), e non un’inadeguatezza soggettiva. Ma s’intende, allo stesso tempo, la funzionalità, anch’essa strutturale, di speculazione e configurazione di una strategia neo-egemonica in chiave di «rivoluzione passiva» (su cui si veda ora P. Voza [2001]). Essa è quindi una posizione nient’affatto caratterizzata da un atteggiamento meramente negativo. Questa complessa ambivalenza del pensiero crociano emerge chiaramente dal modo in cui viene introdotto in 7,35.

[106] Questa frase si trova nello scritto Il mistero del sacrificio, o: L’uomo è ciò che mangia, del 1862. Nella letteratura divulgativa socialista dell’epoca era spesso citata.

[107] G. Gentile (1974, 68).

[108] Sottolinea questo punto L. Sichirollo (1958). E si veda, per il modo in cui Gramsci elabora il concetto di dialettica, M. Martelli (1980), e ora G. Prestipino (2001).

[109] Dico “organico”, perché in qualche modo il nesso c’è già al principio di AF I, ma nella forma di un compito da svolgere (si ricordi 4,37: «Questo è il problema: che può essere risolto con tutto l’insieme della dottrina filosofica del valore delle superstrutture ideologiche»).

[110] Non credo sia un caso che in 7,37 [Q 887], che lo segue da vicino, Gramsci annoti: «Cercare dove e in quali sensi Goethe ha affermato: “Come può un uomo raggiungere l’autocoscienza? Con la contemplazione? Certamente no, ma con l’azione”».

[111] In questa direzione interpretativa si muovono le ricostruzioni di Finelli (1999, 189 [«ridefinizione […] del criterio del vero e del falso»] e 194), e di A. Tosel (1999, 143): «Ma allora quale può essere il criterio di una tale verità, se non si vuole rinunciare alla distinzione vero/falso o identificarla con il criterio relativista e pragmatista del solo successo? […] Il vero storico ha sempre la dimensione di una potenza costitutiva di una soggettività collettiva». E cf anche p. 144.

[112] Si legga infatti anche 10,II,2 (testo B): «La proposizione che il proletariato tedesco è l’erede della filosofia classica tedesca contiene appunto l’identità tra storia e filosofia; cosí la proposizione che i filosofi hanno finora solo spiegato il mondo e che ormai si tratta di trasformarlo» [Q 1241].

[113] Cf 6,112 [Q 782]: «Passato e presente. L’utopia crociana. […] Il Croce crede di fare della “scienza pura”, della pura “storia”, della pura “filosofia”, ma in realtà fa dell’“ideologia”, offre strumenti pratici di azione a determinati gruppi politici; poi si maraviglia che essi non siano stati “compresi” come “scienza pura” ma “distolti” dal loro fine proprio che era puramente scientifico». Questo testo è stato scritto tra il marzo e l’agosto del 1931, quindi è quasi coevo a 7,35 (febbraio-novembre). Cf anche 10,I,10 [Q 1231]: Croce «crede di trattare una filosofia e tratta una ideologia», mostrando nei fatti come «neppure dal suo punto di vista» sia possibile distinguere filosofia da ideologia, cioè «dimostrando praticamente che la distinzione è impossibile, che non si tratta di due categorie, ma di una stessa categoria storica e che la distinzione è solo di grado».

[114] Questo passo è una variante instaurativa.

[115] Anche il concetto di religione viene assorbito in questa nuova impostazione. Cf 10,II,17 (testo B): «Cosa occorra intendere per filosofia, per filosofia di un’epoca storica, e quale sia l’importanza e il significato delle filosofie dei filosofi in ognuna di tali epoche storiche. Assunta la definizione che B. Croce dà della religione, cioè di una concezione del mondo che sia diventata norma di vita, poiché norma di vita non si intende in senso libresco ma attuata nella vita pratica, la maggior parte degli uomini sono filosofi in quanto operano praticamente e nel loro pratico operare (nelle linee direttive della loro condotta) è contenuta implicitamente una concezione del mondo, una filosofia. La storia della filosofia come si intende comunemente, cioè la storia delle filosofie dei filosofi, è la storia dei tentativi e delle iniziative ideologiche di una determinata classe di persone per mutare, correggere, perfezionare le concezioni del mondo esistenti in ogni determinata epoca e per mutare quindi le conformi e relative norme di condotta, ossia per mutare la attività pratica nel suo complesso» ecc. [Q 1255; cors. mio].