Summary: “Philosophy of praxis” is the concept used since 1932 by
Antonio Gramsci in his Prison Notebooks (notebooks 10 and 11) as a
substitute of “Marxism”. It is quite possible that one among the
reasons for this conceptual choice was the circumspection of the
prisoner Gramsci vis-à-vis the censor. However, as this
article tries to show, all the conditions which make that
substitution possible are already present in the period 1929-1932.
Throughout that period, Gramsci elaborates an original
reconsideration of Marxism, culminating in a proposal that he
expressly announces as “philosophy of praxis”. The concept draws
explicitly on the work of Antonio Labriola and is defined, in
accordance with Labriola, as denoting the core of Marxist
philosophy. Specifically, Gramsci argues that Marxist philosophy is
born out of historical materialism, rather than other philosophical
positions such as Idealism and Materialism. This article describes
the genesis of the philosophy of praxis by means of a close reading
of the Notebooks. Contrary to received wisdom, the article argues
that this concept – albeit in a sketchy and rather vague way – is
already present in 1930, with the subsequent two years being
dedicated to defining it in every detail.
Premessa (di metodo)
La scienza non è il pensiero di questo o di quello, non
questo o quel principio, ma è produzione attiva, continua di
quel cervello collettivo che dicesi popolo, produzione impregnata di
tutti gli elementi e le forze e gli interessi della vita.
(Francesco De Sanctis, La scienza e la vita)
Trattare della «filosofia della praxis» nei Quaderni del
carcere potrebbe apparire un’impresa disperata. Infatti si
può dire che il senso complessivo del marxismo di Gramsci
è contenuto in questa denominazione, scelta da Gramsci non a
caso, ma non inventata né da lui, né da Marx,
bensí riconducibile a una precisa tradizione delle letture di
Marx, una tradizione italiana (tornerò su questo punto).
D’altra parte, è a mio (e non solo mio) avviso non solo
opportuno, ma indispensabile dedicare uno studio a questa nozione
caratterizzata da uno statuto all’apparenza peculiare, in quanto
esso ci dà la possibilità di gettare uno sguardo
dentro il macchinario propriamente teorico che fa muovere i concetti
sulla scena dei Quaderni. La «filosofia della praxis»,
infatti, non è propriamente né un lemma (come
può essere ad es. la coppia Stato/società civile),
né il nome comune di una famiglia di lemmi (come può
essere ad es. il grande tema degli intellettuali), ma è
un’articolazione concettuale che si caratterizza per la sua
capacità di produrre teoria, cioè di articolare o
riarticolare concetti (lemmi)[1].
Detto questo, va aggiunto che i Quaderni possono essere affrontati
anche da un punto di vista cronologico, e che anzi questo tipo di
indagine, se non viene estremizzato in uno sguardo privo di appigli
sistematici (e in fin dei conti inconsapevole delle implicazioni
teoriche presenti in ogni singolo testo), è base e premessa
imprescindibile a qualsiasi ricostruzione complessiva di questa
opera (e di questo pensiero) cosí singolare. Dunque il tema
della “filosofia della praxis”, nonostante la sua ampiezza e
centralità, va anzitutto affrontato da un punto di vista
ristretto, ossia come ricerca del modo in cui nel testo dei Quaderni
compare dapprima, e si viene man mano affermando, l’uso di questa
locuzione; a condizione tuttavia che questo approccio non perda di
vista la dimensione sistematica del pensiero di Gramsci[2], e che si
riduce in definitiva a ricordare che queste parole e locuzioni di
cui tentiamo di ricostruire la storia sono dei concetti, e che
può anche accadere che un concetto compaia talvolta celato
sotto una veste linguistica difforme, che si tratterà allora,
usando il buon senso, di riconoscere e segnalare[3]. Tenterò
dunque, nelle pagine che seguono, di ricostruire il comparire e
l’affermarsi della locuzione/concetto “filosofia della praxis”,
tenendo però presente che ciò rinvia sempre a un
orizzonte piú ampio di quello visibile di volta in volta
grazie a questo tipo di approccio, un orizzonte che tenterò
di integrare nella ricostruzione non come qualcosa di esterno, ma
come la dimensione sistematica necessariamente inerente al peculiare
statuto che la filosofia della praxis riceve nei Quaderni.
Questo contributo sarà pertanto una ricostruzione della
storia della “filosofia della praxis” (intesa in senso ristretto)
nei Quaderni, una storia, come si vedrà, che si esaurisce in
definitiva in un numero di testi abbastanza ridotto, testi compresi
nel periodo che va dall’autunno del 1930 al principio del 1932 (dal
Q 4 al Q 8). A quell’altezza infatti il processo di progressiva
definizione della filosofia della praxis in quanto fondamento
filosofico del materialismo storico può dirsi compiuto, e
avviene (anche per ragioni prudenziali, com’è noto) la
sostituzione sistematica di questa espressione a «materialismo
storico» e «marxismo»[4]. Di qui in avanti i
tratti peculiari della filosofia della praxis si ritrovano tutti nel
marxismo che Gramsci sviluppa, ma non piú in quella forma
esplicita e argomentata che caratterizza la storia precedente.
È per questo motivo che fare la storia della locuzione ci
metterà a diretto contatto con la riflessione di Gramsci
sulla sua particolarità, e dunque sulle specifiche ragioni
che lo inducono a usarla, e cioè a presentare il marxismo in
questa particolare variante. Questo condurrà a porre il
problema dei punti di riferimento, ovvero dei precedenti teorici e
terminologici della filosofia della praxis (le “fonti” di Gramsci),
ciò che però non potrà essere sovrapposto alla
ricostruzione filologica, ma sarà da essa dipendente.
Un’ultima osservazione. La locuzione “filosofia della praxis” (o
“prassi”) non è coniata da Gramsci. Essa risale ad Antonio
Labriola (1897) e, attraverso la traduzione e presentazione delle
Tesi su Feuerbach da parte di Gentile (1899), si afferma nell’Italia
tra i due secoli come una peculiare modalità in cui viene
condensato il senso della filosofia di Marx. Dopo Gentile, molti
altri si troveranno a dibattere sul tema (si pensi solamente a
Rodolfo Mondolfo (1909) o a Giuseppe Capograssi (1933), e si
troveranno a farlo in riferimento (simpatetico o meno) alla lettura
gentiliana, piú ancora che a un’autonoma ricostruzione dei
testi[5]. Scegliendo di porre il concetto di praxis al centro del
proprio “ritorno a Marx”[6], Gramsci era perfettamente consapevole
di iscrivere la propria riflessione in un solco ben determinato, che
presentava peraltro al suo interno alternative rilevanti e anche
drammatiche, ma che era in ogni modo già una scelta di campo
precisa: una scelta a favore della tesi dell’autonomia filosofica
del marxismo contro la sua riduzione a canone di interpretazione
storica (Croce). E di fronte a questo non conta osservare che
Gramsci non aveva a propria disposizione, in carcere, né il
Discorrendo, né La filosofia di Marx, perché questi
testi li conosceva benissimo e non aveva certo bisogno di sfogliarli
di nuovo per prendere posizione rispetto a essi[7].
1. Il contesto dal «Primo quaderno» agli «Appunti
di filosofia»
Dopo aver portato a termine il «Primo quaderno» (o poco
prima), nel maggio 1930, Gramsci – oltre a proseguire il lavoro
parallelo al Q 2, che si prolungherà per diversi anni – mette
mano a due altri quaderni contemporaneamente, il 3 (che gli
servirà a raccogliere le note miscellanee secondo il metodo
già inaugurato nell’1) e il 4, dividendolo in due metà
ed avviando la seconda con una sezione intitolata «Appunti di
filosofia. Materialismo e idealismo. Prima serie» (c. 41r).
Dunque, dopo aver precisato nel corso di quasi un anno (giugno
1929-maggio 1930) i margini e le motivazioni di fondo della propria
ricerca, Gramsci procede a una suddivisione e primo ordinamento del
lavoro, e inaugura una sezione dedicata esclusivamente alla
filosofia. Tale sezione è cosí il primo (in senso
cronologico)[8] spazio dei Quaderni a venir delimitato e ad
acquisire un’autonomia fisica, molto prima, ovviamente, che sorgesse
l’idea dei «quaderni speciali». È importante
sottolineare questo punto, perché la maggior parte delle note
raccolte in AF I-III confluirà nei Q 11 e 10, ma ciò
accadrà in un contesto teorico mutato rispetto a quello
iniziale.
Intanto, si può dire che AF I si pone in continuità
rispetto alla voce «Teoria della storia» nell’elenco
tematico del Q 1. L’obiettivo di ridefinire i contorni del marxismo
come «teoria della storia»[9], cioè
essenzialmente come concezione materialistica della storia in
confronto da una parte con la volgarizzazione di Bucharin,
dall’altra con le critiche di Croce, e in tale sua caratteristica
come unica filosofia possibile dopo Hegel, è un’esigenza che
scaturisce direttamente dalla meditazione del Q 1 sulla crisi di
egemonia («crisi di autorità», americanismo,
ecc.) e sulle correnti filosofiche contemporanee (pragmatismo,
attualismo), con al centro la capacità di Croce di costituire
un punto di riferimento per gli sforzi di costruzione di un nuovo
universo ideale e ideologico di egemonia borghese. La convinzione
che la «storia etico-politica» sia l’unica posizione
filosofica contemporanea in grado di porsi coscientemente sullo
stesso terreno del marxismo, quello dell’unità di filosofia e
storia, è la linea di continuità tra il Q 1 e gli AF
I.
Croce è per Gramsci il filosofo borghese che meglio di tutti
ha compreso il valore del marxismo e il pericolo che esso
rappresenta. È vero che in AF I i testi espressamente a lui
dedicati sono relativamente pochi (anche se fondamentali, come 4,15,
o molto significativi, come 4,22, entrambi intitolati «Croce e
Marx»), ma è la stessa rete di categorie e di problemi
attraversati da AF I a scaturire dal confronto con Croce sulla
«teoria della storia». Già in questa fase, nella
quale gli aspetti di differenziazione antitetica prevalgono su ogni
altro, sono però presenti dei tratti che singolarmente
avvicinano l’argomentazione a punti qualificanti del pensiero
crociano, quasi che Gramsci intenda criticarlo facendo leva su di
esso (o su parti di esso). Un breve appunto di AF I (il già
citato 4,22) tira esplicitamente una linea di continuità tra
le riflessioni dei quaderni 1 e 3, e quelle di AF I:
Croce e Marx. Il valore delle ideologie. I fenomeni della attuale
decomposizione del parlamentarismo possono dare un esempio per la
discussione sul valore delle soprastrutture e della morfologia
sociale (quistione della crisi d’autorità ecc.: vedi note
sparse) [Q 442].
Effettivamente, è il «valore delle
soprastrutture» il tema che Gramsci sviluppa in AF I quale
principale innovazione rispetto al vecchio materialismo storico; ma
è proprio questo tema che egli vede sviluppato nel Croce
della «storia etico-politica», la quale è
cosí non soltanto un’arma contro il materialismo storico, ma
anche, indissolubilmente, un tema filosofico con cui confrontarsi
produttivamente. Ciò che intendo mostrare, è dunque
che l’idea di una «filosofia della praxis» sorge fin
dall’inizio – e viene poi coerentemente sviluppata – come fondazione
filosofica del «valore delle soprastrutture», e quindi
come alternativa radicale al pensiero di Croce e alla sua egemonia
e, attraverso essi, alla «filosofia […] tradizionale»
[1,132; Q 119] in genere.
2. I due piani della storia del marxismo (Croce, Weber, Luxemburg)
Gli «Appunti di filosofia» iniziano [4,1; Q 419-421] con
un testo tecnico, fortemente filologico, in cui Gramsci propugna un
rigoroso ritorno a Marx dietro i marxismi e dietro lo stesso Engels;
e proseguono con una breve ma densa storia critica delle
disavventure della filosofia marxista nel Novecento (4,3 [Q
421-425]: «Due aspetti del marxismo», da integrare con
3,31 [Q 308-310]: «Riviste tipo»[10]), colta sotto
l’angolo visuale non solo del suo statuto teorico, ma al contempo
come «momento della cultura moderna» che «in una
certa misura ne ha determinato e fecondato le correnti» [Q
421]:
Il lavoro è molto complesso e delicato. Perché il
marxismo ha avuto questa sorte, di apparire assimilabile, in alcuni
suoi elementi, tanto agli idealisti che ai materialisti volgari?
Bisognerebbe cercare i documenti di questa affermazione, ciò
che significa fare la storia della cultura moderna dopo Marx e
Engels [Q 422].
I due piani sono distinti. Nella storia della cultura il marxismo
è risultato vincente, perché le varie revisioni e i
vari assorbimenti piú o meno impliciti testimoniano della sua
espansività. Certo questa espansività non è un
processo meramente meccanico, ma rende conto al contempo delle
capacità reattive del «vecchio mondo», come si
legge in un testo di poco posteriore:
In realtà, il materialismo storico non ha bisogno di sostegni
eterogenei: esso stesso è cosí robusto, che il vecchio
mondo vi ricorre per fornire il suo arsenale di qualche arma
piú efficace. Ciò significa che mentre il materialismo
storico non subisce egemonie, incomincia esso stesso ad esercitare
una egemonia sul vecchio mondo intellettuale [4,14; Q 435 s.].
Questa posizione è singolare, in quanto Gramsci è ben
conscio, d’altra parte, del fatto che la storia del marxismo
è in un certo senso un fallimento:
Il marxismo aveva due compiti: combattere le ideologie moderne nella
loro forma piú raffinata e rischiarare le masse popolari, la
cui cultura era medioevale. Questo secondo compito, che era
fondamentale, ha assorbito tutte le forze, non solo
«quantitativamente», ma «qualitativamente»;
per ragioni «didattiche» il marxismo si è confuso
con una forma di cultura un po’ superiore alla mentalità
popolare, ma inadeguata per combattere le altre ideologie delle
classi colte, mentre il marxismo originario era proprio il
superamento della piú alta manifestazione culturale del suo
tempo, la filosofia classica tedesca [Q 422 s.].[11]
Di qui, da una parte la necessità di porre la questione
propriamente teorica, ma dall’altra, nella convinzione di Gramsci,
la riformabilità del marxismo, la sua disponibilità a
essere risollevato all’altezza del compito per il quale era nato,
proprio perché la sua caduta è in fin dei conti
un’«affermazione» e (per quanto di negativo contiene)
una circostanza esteriore («didattica»). Acquista
cosí significato la coppia, ripresa da Croce[12],
«Riforma e Rinascimento», trattata in 4,3, e piú
tardi – in 7,43-44 – elevata a modello «comprensivo» di
interpretazione del «processo molecolare di affermazione di
una nuova civiltà» [7,43; Q 891], e in particolare
riferita all’Unione Sovietica («se si dovesse fare uno studio
sull’Unione, il primo capitolo, o addirittura la prima sezione del
libro, dovrebbe proprio sviluppare il materiale raccolto sotto
questa rubrica “Riforma e Rinascimento”» [7,44; Q 893]). La
questione viene cosí presentata in 7,43:
Si tratta, è vero, di lavorare alla elaborazione di una
élite, ma questo lavoro non può essere staccato dal
lavoro di educare le grandi masse, anzi le due attività sono
in realtà una sola attività ed è appunto
ciò che rende difficile il problema (ricordare l’articolo
della Rosa sullo sviluppo scientifico del marxismo e sulle ragioni
del suo arresto); si tratta insomma di avere una Riforma e un
Rinascimento contemporaneamente [Q 892].
Il riferimento a Stillstand und Fortschritt im Marxismus (1903)
della Luxemburg[13] era presente anche in 4,3 [Q 422] e in 3,31 [Q
309], dove serviva, esattamente come qui, a trovare un nesso tra i
due piani: espansione quantitativa nella cultura e regressione
qualitativa nella teoria. In quel testo la Luxemburg parla, in
effetti, dei diversi momenti storici in cui vengono effettivamente
“letti”, diventando attuali per il livello raggiunto dalle lotte
operaie, i diversi libri del Capitale; ma Gramsci generalizza il
discorso a tutto lo spazio della teoria:
I fondatori della filosofia nuova avrebbero precorso di molto le
necessità del loro tempo e anche di quello successivo,
avrebbero creato un arsenale con armi che ancora non giovavano
perché anacronistiche e che solo col tempo sarebbero state
ripulite.[14]
L’arresto nello sviluppo del marxismo trova cosí la sua
ragione, e il prezzo pesante pagato alla sua diffusività si
giustifica, in certo modo, nella prospettiva di uno strumentario
teorico in anticipo, che è solo ora davvero possibile, dunque
necessario, “ripulire”, in quanto, in presenza oramai di uno Stato
operaio, «è veramente necessario creare un’alta
cultura» [4,2; Q 425].
L’esposizione che precede può aver dato l’impressione della
presenza, nell’approccio gramsciano, di un certo evoluzionismo,
innegabile per il verso dal quale l’impostazione dipende dallo
schema crociano Riforma/Rinascimento:
Rinascita-Riforma – Filosofia tedesca – Rivoluzione francese –
laicismo liberalismo – storicismo – filosofia moderna – materialismo
storico. Il materialismo storico è il coronamento di tutto
questo movimento di riforma intellettuale e morale, nella sua
dialettica cultura popolare-alta cultura. Corrisponde alla Riforma +
Rivoluzione francese, universalità + politica; attraversa
ancora la fase popolare [Q 423 s.].
Cosa garantisce, in effetti, che da questa «fase
popolare» il marxismo si risollevi effettivamente a una
superiore elaborazione (che si colmi insomma il distacco tra Riforma
e Rinascimento)? Da un punto di vista crociano la garanzia sta nella
struttura metafisica dello Spirito, secondo la quale non vi è
“egoismo” che non trovi prima o poi una superiore elaborazione
“morale”. Gramsci eliminerà piú tardi qualsiasi
apparenza di meccanicismo nel nesso Riforma-Rinascimento attraverso
una duplice mossa teorica. In primo luogo, leggerà quel nesso
alla luce della weberiana dialettica del calvinismo, che
diventerà per lui un modello di comprensione storica
universale, dunque capace di dare ragione anche degli sviluppi
sovietici[15]. Ma la dialettica del calvinismo verrà da lui
letta, a sua volta, come illustrazione del modello di spiegazione,
ricavato in ultima analisi dalla Luxemburg, della
«anticipazione teorica»: «C’è sempre una
parte del tutto che è “sempre” dirigente e responsabile e la
filosofia della parte precede sempre la filosofia del tutto come
anticipazione teorica» [8,205; Q 1064][16], scrive riferendosi
a «come è avvenuto [in Urss] il passaggio da una
concezione meccanicistica a una concezione attivistica» [Q
1064]. Dunque quello che a Weber appare un ribaltamento paradossale,
e a Croce un salto evolutivo, è finalmente identificato da
Gramsci come attuarsi della dialettica filosofia-senso comune,
intellettuali-popolo, che, se trova la propria radice in quella
scintilla di attività, di “volitività” che è
presente in ogni uomo (perché implicita nel gesto anche
piú umile e degradato), non è d’altra parte
sufficiente, di per sé, a garantire il processo
dell’effettiva liberazione, che è invece compito della
politica.
In questo modo l’uso del modello Riforma/Rinascimento perde
qualsiasi connotazione fatalistica, e diventa possibile comprendere
come possa darsi una necessità storica la cui realizzazione
sia affidata alla prassi e la cui stessa possibilità sia
fondata sulla natura della prassi in quanto radice della
libertà (in quanto possibilità di un’effettiva
liberazione). Ma va notato che quello che ho illustrato è
l’esito (all’altezza del Q 8) di un percorso, i cui elementi sono
presenti, accanto a quelli “crociani”, già nel 1930:
Si può dire della filosofia del marxismo ciò che la
Luxemburg dice a proposito dell’economia: nel periodo romantico
della lotta, dello Sturm und Drang popolare, si appunta tutto
l’interesse sulle armi piú immediate, sui problemi di tattica
politica. Ma dal momento che esiste un nuovo tipo di Stato, nasce
concretamente il problema di una nuova civiltà e quindi la
necessità di elaborare le concezioni piú generali, le
armi piú raffinate e decisive. Ecco che Labriola deve essere
rimesso in circolazione e la sua impostazione del problema
filosofico deve essere fatta predominare. Questa è una lotta
per la cultura superiore, la parte positiva della lotta per la
cultura [3,31; Q 309].
Il richiamo al modello fornito dalla Luxemburg conduce a Labriola,
cioè a una «lotta per la cultura superiore»,
lotta che deve essere combattuta, e che può pertanto anche
essere perduta: lo Stato può bloccarsi alla fase del
fatalismo, il marxismo rimanere a quella della Riforma senza
Rinascimento.
3. Riattivare il concetto di «praxis» (Labriola, Engels)
Nel nome di Labriola occorre condurre la ricomposizione teorica dei
disiecta membra del marxismo. Di lui si dice in 4,3 che è
l’unico ad aver affermato «che il marxismo [...] è una
filosofia indipendente e originale» [Q 422], “anticipando”
cosí la fase “statale”. E in 3,31: «Il Labriola,
affermando che la filosofia del marxismo è contenuta nel
marxismo stesso, è il solo che abbia tentato di dare una base
scientifica al materialismo storico» [Q 309], facendolo
cioè uscire dallo statuto ambiguo del metodo storiografico (a
cui lo riduce Croce con l’idea del “canone”) e conferendogli
dignità di corpo di pensiero autosufficiente[17]. L’opera e
la figura di Labriola andrebbero dunque riproposte, perché
egli ha enunciato il problema formale dell’autosufficienza
filosofica del marxismo, anticipando cosí di un trentennio i
termini del problema? Questo è vero solo in parte,
perché il riferimento di Gramsci è tutt’altro che
formale. Infatti, parlando di un nucleo filosofico autosufficiente
su cui far poggiare il marxismo, Gramsci sta pensando a un concetto
preciso. Leggiamo ancora 4,3 [Q 424]:
Hegel, a cavallo della Rivoluzione francese e della Restaurazione,
ha dialettizzato i due momenti della vita filosofica, materialismo e
spiritualismo. I continuatori di Hegel hanno distrutto
quest’unità, e si è ritornati al vecchio materialismo
con Feuerbach e allo spiritualismo della destra hegeliana. Marx
nella sua giovinezza ha rivissuto tutta questa esperienza:
hegeliano, materialista feuerbacchiano, marxista, cioè ha
rifatto l’unità distrutta in una nuova costruzione
filosofica: già nelle tesi su Feuerbach appare nettamente
questa sua nuova costruzione, questa sua nuova filosofia. Molti
materialisti storici hanno rifatto per Marx ciò che era stato
fatto per Hegel, cioè dall’unità dialettica sono
ritornati al materialismo crudo, mentre, come detto, l’alta cultura
moderna, idealista volgare, ha cercato di incorporare ciò che
del marxismo le era indispensabile, anche perché questa
filosofia moderna, a suo modo, ha cercato di dialettizzare anch’essa
materialismo e spiritualismo, come aveva tentato Hegel e realmente
fatto Marx.
A parte l’accenno all’alta cultura moderna che tiene conto di Marx,
tentando di esorcizzare l’impatto critico del suo pensiero (il
riferimento è evidentemente anzitutto a Croce), il modo in
cui viene ricostruita la storia della filosofia tra Marx e Hegel
riproduce fedelmente l’ottica delle Tesi su Feuerbach, che infatti
vengono non solo citate, ma anche indicate come depositarie del
nucleo della «nuova filosofia», cioè del
superamento di idealismo e materialismo volgare nel concetto di
praxis. Esattamente questo nesso (autosufficienza filosofica della
“praxis” come superamento di idealismo e materialismo naturalistico,
pur senza riferimento diretto alle Tesi) era stato posto da Labriola
alla base della sua interpretazione del marxismo come filosofia nel
Discorrendo[18]. E d’altra parte, sempre nel Discorrendo, Labriola
aveva esplicitamente posto l’esigenza, d’accordo con Sorel, di
«rimettere in campo il problema della filosofia in
generale», notando che il materialismo storico sarebbe rimasto
«come campato in aria, […] fino a quando non trovi modo di
sviluppare la filosofia, che gli è propria, come quella che
è insita ed immanente ai suoi assunti e alle sue
premesse»[19]: un’impostazione del problema, questa, alla
quale mi sembra riferirsi l’idea di «ortodossia»
rivendicata da Gramsci poco piú avanti [4,14; Q 435]:
Da quanto si è detto sopra, il concetto di
«ortodossia» deve essere rinnovato e riportato alle sue
origini autentiche. L’ortodossia non deve essere ricercata in questo
o quello dei discepoli di Marx, in quella o questa tendenza legata a
correnti estranee al marxismo, ma nel concetto che il marxismo basta
a se stesso, contiene in sé tutti gli elementi fondamentali,
non solo per costruire una totale concezione del mondo, una totale
filosofia, ma per vivificare una totale organizzazione pratica della
società, cioè per diventare una integrale, totale
civiltà.
Si noti che proprio quel passo del Discorrendo («sviluppare la
filosofia, che gli è propria, come quella che è insita
ed immanente ai suoi assunti e alle sue premesse» ecc.) era
stato citato da Giovanni Gentile all’inizio del saggio sulla
«Filosofia della prassi» (1899), in cui si proponeva la
prima traduzione italiana delle Tesi su Feuerbach quale documento
«del pensiero genuino di Marx»[20] da addurre a critica
della lettura labrioliana del concetto di praxis[21].
Quale ultimo tassello si consideri una variante instaurativa
contenuta in 10,II,31 (testo C di 8,198, intitolato «Filosofia
della Praxis», scritto nel febbraio 1932), che è una
sorta di glossa a quanto scritto in 4,3:
Anche da questo punto appare come il Croce abbia saputo mettere bene
a profitto il suo studio della filosofia della praxis. Cosa è
infatti la tesi crociana dell’identità di filosofia e di
storia se non un modo, il modo crociano, di presentare lo stesso
problema posto dalle glosse al Feuerbach e confermato dall’Engels
nel suo opuscolo su Feuerbach? Per Engels «storia»
è pratica (l’esperimento, l’industria), per Croce Storia
è ancora un concetto speculativo; cioè Croce ha
rifatto a rovescio il cammino – dalla filosofia speculativa si era
giunti a una filosofia «concreta e storica», la
filosofia della praxis; il Croce ha ritradotto in linguaggio
speculativo le acquisizioni progressive della filosofia della praxis
e in questa ritraduzione è il meglio del suo pensiero [Q
1271].
E si noti che nel testo A, cioè 8,198 (una discussione del
giudizio crociano sulle Tesi su Feuerbach), Gramsci faceva
riferimento a una nota del volume sul Materialismo storico, in cui
Croce riconosceva «esplicitamente come giustificata l’esigenza
di costruire sul marxismo una “filosofia della praxis” posta da
Antonio Labriola» [8,198; Q 1060][22]. In quella nota, dopo
aver osservato nel testo che era possibile «dissertare della
“dottrina della conoscenza secondo il Marx”», Croce scriveva:
Si vedano i pensieri del Marx, Ueber Feuerbach, del 1845, in
appendice allo scritto dell’Engels, Ludwig Feuerbach und der Ausgang
der klassischen deutschen Philosophie […]; e cfr. […] Labriola, op.
cit.[23], passim, e Gentile, l. c.[24], p. 391. Sotto questo aspetto
(ossia restringendo l’affermazione alla dottrina della conoscenza)
si potrebbe parlare col Labriola di un materialismo storico in
quanto filosofia della praxis, ossia come modo particolare di
concepire e di risolvere, anzi di superare il problema del pensiero
e dell’essere. – La «filosofia della praxis» è
ora studiata di proposito dal Gentile, nel citato volume [La
filosofia di Marx].[25]
Riassumiamo: il Labriola del Discorrendo e l’Engels del Ludwig
Feuerbach sono i punti di riferimento per lo sviluppo del nocciolo
filosofico del marxismo in quanto filosofia della praxis (le Tesi su
Feuerbach). Certo, citando e discutendo 8,198 (febbraio 1932) e
10,II,31 (giugno-agosto 1932) rischiamo di sovrapporre momenti
temporalmente distinti della storia del pensiero di Gramsci, eppure
nulla impedisce di pensare che 8,198 sia l’esplicitazione di
qualcosa che era in sostanza già presente nell’avvio degli
«Appunti di filosofia» (maggio 1930), sia per i
già esaminati riferimenti a Labriola nella loro obbiettiva
connessione con l’asserita centralità delle Tesi su
Feuerbach; sia perché il loro sottotitolo,
«Materialismo e idealismo», oltre che un riferimento a
Labriola, allude anche ai primi due capitoli del Ludwig Feuerbach
engelsiano (in appendice al quale, si ricordi, erano state
pubblicate per la prima volta le Tesi nel 1888), in cui
l’alternativa di materialismo e idealismo è discussa a fondo.
D’altronde già in 4,28[26] [Q 455] una recensione di Giuseppe
Tarozzi[27] a un libretto di Antonino Lovecchio (Filosofia della
prassi e filosofia dello spirito[28]) aveva richiamato l’attenzione
di Gramsci su tutto il dibattito che da Labriola, passando per
Gentile e Croce, conduceva fino a Mondolfo, Adelchi Baratono e
Alfredo Poggi.
Resta da chiedersi perché Gramsci faccia esclusivamente
riferimento a Labriola, lasciando in secondo piano Engels (sul quale
ha peraltro nei Quaderni dei giudizi nel complesso positivi)[29].
Credo che la ragione vada cercata proprio nel sottotitolo
(«Materialismo e idealismo») degli
«Appunti». Gramsci, è vero, apprezza la
definizione engelsiana della praxis come «l’esperimento e
l’industria»[30] (si veda il già ricordato 10,II,31)
come via per dissolvere le false antinomie della filosofia
tradizionale. Ma la specifica accezione e trattazione gramsciana
dell’opposizione di materialismo e idealismo è condotta nello
spirito di Labriola (e delle Tesi su Feuerbach) e non in quello di
Engels, il quale nella determinazione dello statuto filosofico del
materialismo storico aveva sfruttato a fondo la distinzione tra
materialismo come «visione generale del mondo basata su di una
determinata versione del rapporto tra materia e spirito» (da
accogliere), e la «forma particolare nella quale questa
visione del mondo si espresse in un determinato grado dello sviluppo
storico, nel XVIII secolo»[31] (da sottoporre a critica). E si
noti che questa scelta di campo a favore del materialismo faceva
coppia in Engels con la dichiarazione, contenuta
nell’Antidühring, che la filosofia si era risolta nella
«scienza positiva della natura e della storia»[32].
Gramsci non concorda con nessuna di queste due tesi, mentre trova
importanti punti di accordo con la definizione che Labriola aveva
dato del superamento di materialismo naturalistico e idealismo nella
praxis, e anche con le obiezioni da lui mosse alla tesi engelsiana
della fine della filosofia[33]. Infatti anche per Gramsci (e la sua
lettura della Tesi 11 in 8,198/10,II,31 lo dimostra) la filosofia
con Marx non è affatto esaurita, ma conosce un punto di non
ritorno nel suo rapporto con la storia e la politica: è
chiamata cioè a trasformarsi in filosofia della praxis o a
reagire a questa trasformazione, come accade nelle migliori versioni
della «filosofia intesa nel modo tradizionale» [1,132; Q
119]. In 4,11, intitolato «Problemi fondamentali del
marxismo», questa congiuntura teorica viene enunciata in tutta
la sua portata; vale perciò la pena riprodurlo per intero:
Problemi fondamentali del marxismo. Si fa (di solito) una confusione
tra la cultura filosofica personale di Marx, cioè tra le
correnti filosofiche e i grandi filosofi che Marx ha studiato e le
origini o le parti costitutive del materialismo storico, e si cade
nell’errore di ridurre la filosofia che sarebbe alla base del
materialismo storico a questo o quel sistema[34]. Certamente
è interessante [e necessario] ricercare e approfondire gli
elementi della cultura filosofica di Marx, ma tenendo presente che
parte essenziale del materialismo storico non è né lo
spinozismo, né lo hegelismo, né il materialismo
francese, ma precisamente ciò che non era contenuto se non in
germe in tutte queste correnti e che Marx ha sviluppato, o di cui ha
lasciato gli elementi di sviluppo; la parte essenziale del marxismo
è nel superamento delle vecchie filosofie e anche nel modo di
concepire la filosofia, ed è ciò che bisogna
dimostrare e sviluppare sistematicamente. In sede teorica, il
marxismo non si confonde e non si riduce a nessun’altra filosofia:
esso non è solo originale in quanto supera le filosofie
precedenti, ma è originale specialmente in quanto apre una
strada completamente nuova, cioè rinnova da cima a fondo il
modo di concepire la filosofia. In sede di ricerca storica si
dovrà studiare da quali elementi Marx ha preso occasione per
il suo filosofare, quali elementi ha incorporato rendendoli omogenei
ecc.: allora si dovrà riconoscere che di questi elementi
«originari» l’hegelismo è il piú
importante relativamente, specialmente per il suo tentativo di
superare le concezioni tradizionali di «idealismo» e
«materialismo». Quando si dice che Marx adopera
l’espressione «immanenza» in senso metaforico, non si
dice nulla: in realtà Marx dà al termine
«immanenza» un significato proprio, egli cioè non
è un «panteista» nel senso metafisico
tradizionale, ma è un «marxista» o un
«materialista storico». Di questa espressione
«materialismo storico» si è dato il maggior peso
al primo membro, mentre dovrebbe esser dato al secondo: Marx
è essenzialmente uno «storicista» ecc. [cors.
miei].[35]
La riflessione sul nuovo significato da attribuire al vecchio
termine «immanenza» – chiave di volta del nuovo modo di
pensare, e spia della distanza rispetto al vecchio modo di fare
filosofia – prosegue in 4,17:
L’espressione «immanenza» in Marx ha un preciso
significato e questo occorreva definire: in realtà questa
definizione sarebbe stata veramente «teoria». Marx
continua la filosofia dell’immanenza, ma la depura da tutto il suo
apparato metafisico e la conduce nel terreno concreto della storia.
L’uso è metaforico solo nel senso che la concezione è
stata superata, è stata sviluppata ecc. D’altronde
l’immanenza di Marx è completamente una cosa nuova? O non se
ne trovano tracce nella filosofia precedente? In Giordano Bruno, per
esempio, credo si trovino tracce di una tale concezione. Conosceva
Marx il Bruno? O questi elementi dal Bruno passarono nella filosofia
classica tedesca? Tutti problemi da vedere concretamente [Q 438 s.;
cors. mio].
Questo riferimento a Bruno come precedente possibile dell’immanenza
nello specifico senso marxiano è molto interessante (e
andrebbe indagata meglio nella sua possibile provenienza), ma non
viene approfondita da Gramsci[36]. Il suo giudizio sul carattere
«metaforico» del termine «immanenza» resta
sospeso[37]. Del resto, egli era da sempre insoddisfatto della
soluzione offerta a questo problema da Croce (cioè della sua
critica a Hegel)[38], ma ritiene infine di poter individuare un vero
e proprio precedente storico per il criterio dell’immanenza dal
punto di vista della filosofia della praxis solo nella primavera del
1932, nei noti testi su David Ricardo: 8,128 [Q 1018 s.] e 10,II,9
[Q 1247]. A questo punto può infine definire lo storicismo
crociano “teologico”, insistendo piú di quanto non avesse
fatto in precedenza su questo suo lato regressivo. Questo accade in
8,224 [Q 1081 s.], intitolato «Teologia – metafisica –
speculazione», e il giudizio viene ribadito e approfondito nel
testo C [10,I,8; Q 1225 s.][39].
Si può infine notare che la rilettura di Ricardo come autore
di una «innovazione filosofica» [Q 1247], che conclude
nei Quaderni la ricerca del criterio dell’immanenza, oltre a legarsi
nei fatti alla rapida nota su Bruno, ha altri due punti di
riferimento: le Tesi su Feuerbach, dove Gramsci trova il termine
Diesseitigkeit (Tesi 2), «immanenza», e lo traduce con
«carattere terreno»[40]; e Niccolò Machiavelli,
di cui Gramsci, in 5,127, scrive che
ha espresso una concezione del mondo originale, che si potrebbe
anch’essa chiamare «filosofia della praxis» o
«neo-umanesimo» in quanto non riconosce elementi
trascendentali o immanentici (in senso metafisico) ma si basa tutta
sull’azione concreta dell’uomo che per le sue necessità
storiche opera e trasforma la realtà [Q 657].[41]
E Machiavelli, si noti, viene anche giudicato un precursore dei
giacobini francesi [8,21; Q 953][42], cioè di quel
«momento» che, accanto a Ricardo e a Hegel, è
stato sintetizzato criticamente nel nuovo concetto di immanenza
della filosofia della praxis [10,II,9; Q 1246 s.].
Immanenza e praxis si presentano in Gramsci come strettamente
embricate[43]. Per questa ragione non è secondario ricordare
un altro autore moderno a cui nei Quaderni si fa ricorso a questo
proposito. Sto parlando di Giambattista Vico, a cui Gramsci non
assegna un ruolo paragonabile a quello di Machiavelli, ma del quale
dice, in 8,199 (dunque immediatamente dopo il già discusso
8,198, e poco prima di 8,128[44]), intitolato «Unità
della teoria e della pratica»:
La proposizione del Vico «verum ipsum factum», che il
Croce svolge nel senso idealistico che il conoscere sia un fare e
che si conosce ciò che si fa […], da cui (nelle sue origini
hegeliane e non nella derivazione crociana) certamente dipende il
concetto del materialismo storico [Q 1060].
Se il passo ha aspetti poco chiari[45], univoca ne risalta
però la ritornante, profonda insoddisfazione rispetto alla
sistemazione crociana del problema dell’immanenza[46]. Ciò
che infatti, al di là delle differenze, accomuna Machiavelli
a Hegel, e in certa misura entrambi a Vico (altro il discorso da
fare per Bruno), è la capacità di pensare la storia,
di porsi il problema filosofico come un problema nascente dagli
sconvolgimenti e dalle rivoluzioni, dalla prassi; e da questo, non
da altro, deriva il loro immanentismo, o quegli elementi di
immanentismo presenti nel loro pensiero (Vico).
4. «Filosofia dell’atto (praxis)» (Gentile, Mondolfo,
Marx)
Riprendendo in mano il termine e il concetto di
«praxis», Gramsci doveva dunque essere consapevole del
carattere di sfida che la sua scelta veniva ad assumere. Tanto
piú significativo è il contesto del suo apparire, con
un diretto (anche se implicito) riferimento a quel «processo
di spiritualizzazione dell’azione»[47] portato avanti da
Gentile come momento filosofico di una guerra politica contro il
socialismo[48]. In 4,37, replicando alla equiparazione, fatta da un
autore della Civiltà cattolica, del «monismo idealista
dello “Spirito”» al «monismo positivista della
“Materia”»[49], Gramsci afferma:
Per la quistione della «obbiettività» della
conoscenza secondo il materialismo storico, il punto di partenza
deve essere l’affermazione di Marx (nell’introduzione alla Critica
dell’economia politica, brano famoso sul materialismo storico) che
«gli uomini diventano consapevoli (di questo conflitto) nel
terreno ideologico» delle forme giuridiche, politiche,
religiose, artistiche o filosofiche. Ma questa consapevolezza
è solo limitata al conflitto tra le forze materiali di
produzione e i rapporti di produzione – come materialmente dice il
testo marxiano – o si riferisce a ogni consapevolezza, cioè a
ogni conoscenza? Questo è il problema: che può essere
risolto con tutto l’insieme della dottrina filosofica del valore
delle superstrutture ideologiche. Né il monismo materialista
né quello idealista, né «Materia»
né «Spirito» evidentemente, ma
«materialismo storico», cioè attività
dell’uomo (storia) [variante interlineare: spirito] in concreto,
cioè applicata a una certa «materia» organizzata
(forze materiali di produzione), alla «natura»
trasformata dall’uomo. Filosofia dell’atto (praxis), ma non
dell’«atto puro», ma proprio dell’atto
«impuro», cioè reale nel senso profano della
parola [4,37; Q 455].
Si noti che il testo è intitolato
«Idealismo-positivismo», e, aggiunto a margine:
«“Obbiettività” della conoscenza». Dunque Gramsci
si confronta con un’alternativa tradizionale, e in questo contesto
formula la questione gnoseologica, e la riformula (o almeno ritiene
di riformularla) in modo nuovo, se le virgolette distanzianti (nel
titolo e ripetute nel testo) che evidenziano
«obbiettività» non sono casuali. Lo spunto
offerto da padre Barbera viene insomma subito trasferito su un altro
terreno: ciò che importa non è l’astratta
contrapposizione di idealismo e materialismo, entrambi metafisici,
ma il modo in cui sia possibile ricavare una posizione filosofica
anch’essa, ma che si lasci alle spalle le alternative filosofiche
tradizionali. Il terreno di riflessione è insomma quello che
unisce e divide Labriola, Gentile e Mondolfo. È il terreno
delle Tesi su Feuerbach.
Per dare un adeguato commento a 4,37 sarà opportuno partire
dal riferimento all’atto, cioè da Gentile e dal suo confronto
col concetto di praxis. L’obiezione principale da questi mossa a
Marx era di aver voluto «accoppiare» dei
«principii» inconciliabili, «quella forma (=
prassi) con quel contenuto (= materia)»: se infatti «la
materia per sé è inerte», è sempre
necessaria una «forza» estranea ad essa, per cui
«nonché conchiudere a un monismo materialistico, si
riesce a un dualismo piú o meno platonico», che
vanifica qualsiasi aspirazione da parte di Marx a guadagnare una
dimensione di «immanenza»[50]. Che la
«praxis» dovesse necessariamente opporsi, in quanto
forma formante, a un contenuto ad essa esterno, Gentile lo ricava
peraltro da una serie di disinvolte falsificazioni e forzature nella
propria traduzione[51] che gli permettono di rovesciare il senso di
gegenständlich in Marx, fino a farlo coincidere con la pura
attività del pensiero in atto: «Il pensiero è
reale, perché e in quanto pone l’oggetto. O il pensiero
è, e pensa; o non pensa, e non è pensiero. Se pensa,
fa. Dunque la realtà, l’oggettività del pensiero,
è una conseguenza della sua natura stessa»[52]. Ne
segue che se «la realtà [...] è una produzione
soggettiva dell’uomo»[53], nel senso che quest’ultimo è
«l’attività originaria che pone l’oggetto», tale
attività del porre sarà al tempo stesso (secondo la
tradizione dell’idealismo tedesco) un negare dialettico: il soggetto
«nega sé ponendo l’oggetto, in quanto questa posizione
è una determinazione singola della sua
attività»[54]. La praxis non è dunque altro che
una riedizione del «solito ritmo descritto già [...]
dall’idealismo»[55] – tesi, antitesi, sintesi – ritmo identico
pur nelle varie vesti ricevute presso i diversi pensatori.
Si spiega cosí la necessità di ‘sbagliare’ la
traduzione dell’espressione «umwälzende Praxis»
della Tesi 3 – alla lettera «praxis rovesciante» o
«sovvertitrice»[56] – rendendola con «prassi
rovesciata»[57] ovvero «prassi che si
rovescia»[58]. Tale “rovesciamento” è infatti il modo
nel quale il “posto” del pensiero-attività, fissatosi in una
astratta determinazione e quindi resosi estraneo, ritorna o
«reagisce» su di esso facendolo oggetto: «e ha
luogo insomma una sintesi della causa con l’effetto»[59].
È una riduzione della praxis a Tathandlung, che riconduce
Marx nell’alveo del dualismo metafisico classico di soggetto (sia
pur «sensitivo») e oggetto. Inoltre lo stravolgimento
della praxis “trasformatrice” in praxis “negata da sé stessa
come autonegatasi” fa sí che il processo speculativo
cosí messo in moto attinga la pienezza del suo svolgimento.
Gentile può cosí formulare l’accusa di monismo non
riuscito, perché prendente le mosse da un dualismo
insuperabile: quello di un pensiero autoponentesi come realtà
e della concorrente pretesa di fare di questo pensiero l’essenza del
reale-materiale da esso prodotto, dunque del proprio opposto[60].
Il confronto di Gentile con Marx è in realtà
un’autodefinizione precoce dell’attualismo: Gentile legge le Glosse
strumentalmente, per definire il proprio pensiero[61]. Costruisce
un’argomentazione alla quale non è possibile sfuggire, se non
rifiutandone i presupposti. È per questo che solo un’indagine
linguistica avrebbe potuto consentire di smontare il meccanismo
mistificatorio da lui messo in piedi, e non si può sostenere
che il principale suo interlocutore su questo terreno, Rodolfo
Mondolfo, nonostante le sue sensibilità storiografica e
finezza esegetica, vi sia riuscito[62]. Punto di partenza degli
scritti del sostenitore dell’unione possibile (contro Croce, ma
anche contro Gentile) di movimento operaio e filosofia marxista
è infatti l’accettazione (sia prima che dopo la pubblicazione
del testo critico delle Tesi su Feuerbach) dell’intera traduzione di
Gentile, che egli modifica in dettagli irrilevanti[63], e sopratutto
della sua interpretazione della «praxis rovesciata»,
resa da Mondolfo nella propria traduzione con «praxis che si
rovescia». Quest’ultima viene considerata il nome o formula
riassuntiva della «reciprocità [...] fra il conoscere e
l’operare», che si converte incessantemente in
«reciprocità» di «condizioni» e
«presupposti»[64], vale a dire della vecchia coppia
positivistica (cosí pesantemente attiva nel movimento
socialista) di “ordine oggettivo” e “iniziativa umana”: «lo
sviluppo storico risulta dalla confluenza e dal contrasto insieme di
due elementi: le condizioni reali e la volontà
umana»[65].
Una volta fissato questo dualismo, sarà impossibile riuscire
a pensare l’unità dei due ordini, se non coprendo la
difficoltà mediante escogitazioni verbali delle quali il
«rovesciamento della praxis» è solo la piú
evocativa[66]. Ma il punto da sottolineare è un altro e sta
proprio nella ragione del carattere incessante – secondo Mondolfo –
di quella conversione del prodotto del fare umano in condizione e
ostacolo che gli si oppone. Si tratta in altre parole di capire
perché, secondo Mondolfo, il «rovesciamento della
praxis» sia necessario e indispensabile a partire dai
presupposti interni alla sua argomentazione. La risposta è
nell’affermazione che il rovesciamento della praxis costituisce
«l’applicazione alla storia del motivo essenziale del
naturalismo umanistico di Feuerbach»[67], «il
bisogno»[68]:
Il Feuerbach, che si colloca ad un angolo visuale naturalistico,
pone un rapporto fra l’uomo e il mondo esterno, il Marx e l’Engels,
che si collocano ad un angolo visuale storico, pongono il rapporto
della attività umana successiva di fronte ai resultati
dell’attività precedente: il rapporto della praxis che si
rovescia. [...] Il risultato dell’attività umana tende quasi
a diventar condizione e legge della propria creatrice, il prodotto
vuol quasi dominare il produttore.[69]
Ciò che da Feuerbach a Marx-Engels secondo Mondolfo cambia,
è solo il nome del «bisogno» feuerbachiano il
quale, nella sua essenza astorica, permane come mondo sociale
esterno allo homo faber. Cosí è sufficiente, secondo
Mondolfo, il semplice rapporto empirico di successione temporale
(precedente/presente), per trasformare il prodotto in potenza che
domina il produttore, laddove per Gentile era pur necessario un
rapporto logico dialettico (il negarsi dell’essere nel nulla).
Rispetto a Feuerbach viene a cambiare ben poco, nonostante il fatto
che Mondolfo parli di «società» e mondo storico
(senza però trarne alcuna conseguenza).
Si spiega cosí anche il singolare significato da lui
assegnato al «rovesciamento della praxis», che diviene
l’altro nome della «necessità»: «il
passaggio dal regno della necessità a quello della
libertà» equivale alla sostituzione, al cozzo cieco
delle volontà singole, di una «volontà
generale», che sia in grado di «commisurare i fini alle
condizioni esistenti e proporseli solo entro questi limiti. Quindi
anche nel regno della libertà la volontà degli uomini
sarà condizionata dalla necessità storica, costituita
dal rovesciamento della praxis»[70]. L’unico modo di
combattere questo meccanismo eterno perché indissolubilmente
legato al tempo è il divenir consapevoli, da parte degli
uomini, del carattere di ‘prodotto’ di ciò che si presenta
come un ente autonomo. Ma non essendo tale separazione reversibile
neppure mediante la pratica rivoluzionaria, tutto si riduce a una
«considerazione della storia come processo interiore
dell’umanità»[71].
Mondolfo è accomunato a Gentile – nonostante le intenzioni
esattamente contrarie – dalla concezione dualistica della praxis e
dalla distruzione della storicità (nel movimento logico in
Gentile, nella temporalità empirica in Mondolfo). Il dualismo
di fondo, a sua volta, è la condizione di possibilità
del «rovesciamento della praxis», che viene assunto come
tentativo fallito di attingere il monismo (Gentile) o come il segno
dell’eternità del dualismo (Mondolfo)[72].
Per aver ragione dell’interpretazione gentiliana delle Tesi era
indispensabile un ritorno al testo originale. È ciò
che (seguendo i precetti enunciati in 4,1) Gramsci fa traducendo nel
Q 7 (a partire da c. 2r) diversi testi di Marx, tra i quali le
Thesen über Feuerbach, da una raccolta in tedesco, ricevuta tra
il marzo e il novembre 1930[73]. Il lavoro a AF I si protrae dalla
fine di aprile all’ottobre-novembre 1930, mentre gli AF II vengono
avviati, nel novembre 1930, a c. 51r dello stesso Q 7 usato per le
traduzioni di Marx[74]. Per quanto riguarda i tempi, mentre è
relativamente certo che le traduzioni vengono interrotte all’inizio
dell’estate 1931, non vi sono elementi sicuri per stabilirne il
momento d’avvio. Probabilmente esso precede l’inizio di AF II,
dunque il novembre 1930, ma alcuni rinvii presenti in 4,37 lasciano
ipotizzare una stretta relazione temporale tra questi testi e le
prime due traduzioni (delle Thesen e del «Vorwort» del
1859)[75], se non addirittura una precedenza delle traduzioni:
infatti il riferimento alle Tesi presente in 4,3, se non è
indice sicuro di una rilettura recente, si potrebbe verosimilmente
combinare con essa.
La traduzione di Gramsci è spesso insicura (come attestano le
numerose varianti interlineari o parole sbarrate, oltre alle
inesattezze[76]), ma afferra il nocciolo della posizione di Marx
traducendo correttamente, nella Tesi 1, il passo relativo ai
concetti di Gegenstand e gegenständlich, ridotti da Gentile e
Mondolfo rispettivamente a «termine del pensiero» e a
«ciò che pone l’oggetto», con
«oggetto» e «attività oggettiva» [Q
2355]. La Diesseitigkeit («immanenza») della Tesi 2,
resa da Gentile con «positività» e da Mondolfo
con «oggettività», viene tradotta da Gramsci con
«carattere terreno» [Q 2355], che – pur forzandone il
senso col marcare una forte discontinuità tra tradizione
immanentistica moderna e nuova filosofia di Marx[77] – è
delle tre senz’altro la piú fedele al senso dell’originale.
Questo breve sondaggio è sufficiente a indicare il senso
della rilettura di Gramsci: esso sta nel tentativo di afferrare il
concetto di praxis nella sua carica dirompente rispetto al modo
tradizionale di intendere la filosofia, e alla stessa alternativa
tra materialismo e idealismo. Infatti il rifiuto dei due opposti
«monismi», della «Materia» e dello
«Spirito» presente in 4,37, e la definizione di
un’impostazione alternativa nella praxis in quanto attività
«in concreto» perché «applicata a una certa
“materia” organizzata (forze materiali di produzione), alla “natura”
trasformata dall’uomo» [Q 455], ha senso solo se ciò
comporta un cambiamento di terreno, una concezione della storia e
della storicità a partire dalla praxis, e non della praxis
come tentativo di mettere in moto e unire i due opposti astratti e
inconciliabili del soggetto e dell’oggetto[78]. Quando Gramsci
ridefinisce l’atto-praxis come ciò che è
«“impuro”, cioè reale nel senso profano della
parola», vuole rinviare in questa direzione: atto «reale
nel senso profano» vuole dire il lavoro, cioè «la
cellula “storica” elementare» [4,47; Q 473][79]; reale, e
dunque “vero”, è pertanto il lavoro nelle forme storiche, nei
rapporti in cui è disposto di volta in volta[80]. Di qui
risulta tutta l’importanza di un corretto intendimento del concetto
di «rapporti sociali»[81]. Già in un testo
precedente (4,32, su Bucharin) Gramsci aveva criticato
«idealismo» e «materialismo volgare» che
ipostatizzano, una volta come «spirito» e una volta come
«materia», quel «“qualcosa”» in piú
dato dall’esistenza della società, cioè il fatto che
«ogni aggregato sociale è […] qualcosa in piú
della somma dei suoi componenti» [Q 451]. Questo “qualcosa”
è spiegato dal materialismo storico come forza produttiva
derivante dalla divisione del lavoro, cioè dalla cooperazione
sociale. Questo è il terreno della realtà impura, in
quanto è per definizione una relazione e non una sostanza, o
meglio è una relazione non tra sostanze, ma una relazione che
costituisce i termini stessi da essa posti (e in quanto vengono
posti) in relazione, e che in tal modo la costituiscono (ed è
dunque sempre specifica e originale). «La realtà umana
non è un’astrazione immanente nel singolo individuo. Nella
sua realtà è l’insieme dei rapporti
sociali»[82]: questa celebre affermazione, contenuta nella
Tesi 6, è per Gentile del tutto priva di senso, mentre essa
è il baricentro della lettura gramsciana, che parte dalla
praxis non per giungere al soggetto attualistico, in cui
immediatamente si identificano il singolo e la comunità[83],
ma all’uomo come «blocco storico di elementi puramente
individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o
materiali coi quali l’individuo è in rapporto attivo»
[10,II,48; Q 1338]; e dunque all’intreccio (non l’identità,
ma l’unità complessa) di soggettività e forma, di
individuo e società, come qualcosa di costitutivo e non di
secondario o di posteriore[84].
Proprio per questa ragione Gramsci può rifiutare non solo
l’alternativa tra i due “monismi” (della Materia o dello Spirito),
ma anche quella tra monismo (Gentile) e dualismo (Mondolfo),
perché tutte queste posizioni restano “pure”, non comprendono
cioè la realtà come unità complessa, come
unità che si costituisce attraverso – e non nonostante – la
differenza tra «uomini» e «ambiente»[85],
perché «uomini» e «ambiente» non
vengono intesi astrattamente, ma come, rispettivamente,
«lavoro» entro determinati rapporti di produzione e
«“natura” trasformata dall’uomo» [4,37; Q 455]. Questa
natura trasformata non può per definizione essere una
genericità, perché la sua trasformazione implica il
lavoro, cioè la cooperazione sociale, la divisione del
lavoro, l’umanità che organizza in determinati rapporti la
riproduzione delle proprie condizioni materiali di esistenza. Dunque
questa “natura” è sempre già mediata nella praxis – e
pertanto nell’ideologia. In un testo precedente [4,25; Q 443]
Gramsci stabilisce una differenza tra la «materia» in
genere e la materia per il materialismo storico:
La materia non è […] considerata come tale, ma come
socialmente e storicamente organizzata per la produzione, come
rapporto umano. Il materialismo storico non studia una macchina per
stabilirne la struttura fisico-chimico-meccanica dei suoi componenti
naturali, ma in quanto è oggetto di produzione e di
proprietà, in quanto in essa è cristallizzato un
rapporto sociale e questo corrisponde a un determinato periodo
storico.
Ciò non vuol dire che dietro o al di qua di questo
«rapporto umano» non vi sia nulla, o che viceversa vi
sia un’inconoscibile cosa in sé[86]. Piuttosto, implica la
necessità di porsi la questione stessa gnoseologica in modo
non speculativo (metafisico). Chiedersi cosa ci sia “dietro”
ciò che conosciamo (cioè che praticamente
trasformiamo), presuppone almeno implicitamente la
possibilità di porsi da un punto di vista capace di
prescindere dall’originaria correlatività pratico-sensibile
dell’uomo, cioè dell’uomo sociale[87]. Al contrario, il
criterio della praxis, che Gramsci chiama non a caso “storicismo”
(perché praxis e storicità sono la stessa cosa),
comprende la consapevolezza della storicità anche del proprio
conoscere: la consapevolezza del suo carattere ideologico,
cioè storico-sociale. Solo sapendosi fino in fondo
ideologico, il nuovo storicismo – lo «storicismo
“popolare”» – rappresenta «la liberazione da ogni
“ideologismo”, la reale conquista del modo storico» [4,24; Q
443], perché riesce a spiegare sé stesso e le altre
posizioni ideologiche nel loro valore e nei loro rispettivi
limiti[88].
5. Ideologie e «“obbiettività” della conoscenza».
Gramsci e Marx
Fin qui Gramsci ha riattivato il pensiero del giovane Marx al di qua
della sua decomposizione ad opera degli interpreti marxisti e non.
Ma a questo punto occorre fare riferimento a un passaggio in cui
egli esplicitamente dichiara di discostarsi dalla lettera del testo
di Marx. Prima ancora, però, va fatta una precisazione. In
4,37 Gramsci combina due testi di Marx ben distanti fra loro, sia
temporalmente, sia anche dal punto di vista teorico. Il passo sulla
praxis, cioè sulle Tesi su Feuerbach, è infatti
preceduto da questo, che fa riferimento alla
«Prefazione» a Per la critica dell’economia politica,
del 1859:
Per la quistione della «obbiettività» della
conoscenza secondo il materialismo storico, il punto di partenza
deve essere l’affermazione di Marx (nell’introduzione alla Critica
dell’economia politica, brano famoso sul materialismo storico) che
«gli uomini diventano consapevoli (di questo conflitto) nel
terreno ideologico» delle forme giuridiche, politiche,
religiose, artistiche o filosofiche. Ma questa consapevolezza
è solo limitata al conflitto tra le forze materiali di
produzione e i rapporti di produzione – come materialmente dice il
testo marxiano – o si riferisce a ogni consapevolezza, cioè a
ogni conoscenza? Questo è il problema: che può essere
risolto con tutto l’insieme della dottrina filosofica del valore
delle superstrutture ideologiche [Q 454 s.].
Questo accostamento ha già qualcosa di audace, dato che la
«Prefazione» era stata tradizionalmente la principale
prova a favore di una lettura evolutiva del processo rivoluzionario
dal punto di vista di Marx. Si noti inoltre che nel tradurre questo
testo Gramsci non segue l’ordine presente nell’antologia da cui lo
riprende, ma rimonta i testi secondo un ordine che (almeno in parte)
risulta comprensibile se si tiene conto della sua interpretazione:
le Tesi (nell’antologia a pp. 54-57), quindi la
«Prefazione» (pp. 43-46), quindi il cap. 1
(«Bourgeois und Proletarier») del Manifesto (pp.
103-121), che reintitola «Teoria della Storia», quindi,
dopo «Esigenze della politica tedesca prima del 1848»
(pp. 122-124), Lavoro salariato e capitale (pp. 61-102), ecc. Come
dire: la praxis, le ideologie, la lotta di classe, le radici della
lotta di classe nelle condizioni di sfruttamento della forza-lavoro;
ovvero: la praxis come categoria alla luce della quale leggere
l’intero «materialismo storico» (è il titolo dato
da Drahn al «Vorwort» e riprodotto da Gramsci nella sua
traduzione). Questo è confermato in parte dalla
traduzione[89], in parte dal modo in cui Gramsci ne riproduce a
memoria i due principî fondamentali in apertura di 4,38 [Q
455], invertendoli e sostituendo «forze produttive» con
«forme di vita»[90], in parte, infine, dal modo in cui
lo accosta alle Tesi e lo interpreta in 4,37.
Nel «Vorwort» Marx, riprendendo un complesso
ragionamento consegnato all’Ideologia tedesca, fissa una distinzione
tra reale Basis (la «società civile»),
Überbau (rapporti giuridici, forme dello Stato, ecc.) e forme
ideologiche (forme riflesse nella coscienza), e che assegna alla
prima la funzione di «presupposto» (nel senso
dell’Ideologia tedesca), cioè di punto di partenza obbligato
per una comprensione e spiegazione scientifica, razionale della
storia. Di qui l’avvertenza: quando si «osservano» le
epoche di rivoluzione, che sono determinate dal conflitto tra forze
produttive sociali e rapporti di produzione, occorre accuratamente
distinguere
il sovvertimento materiale nelle condizioni della produzione
economica che deve essere constatato fedelmente col metodo delle
scienze naturali e le forme giuridiche, politiche, religiose,
artistiche o filosofiche in una parola: le forme ideologiche, nel
cui terreno gli uomini diventano consapevoli di questo conflitto e
lo risolvono.[91]
Questo perché «l’anatomia della società civile
è da ricercarsi nella economia politica», perché
cioè esiste una scienza che permette di osservare il luogo in
cui «prendono radice» le forme superstrutturali. Quale
che sia lo statuto di questa scienza e il suo stesso carattere
ideologico secondo Marx, è chiaro che nella strategia
espositiva di questo passaggio marxiano la questione non è
affatto relativa alle «forme ideologiche» e al loro
possibile statuto, ma alla necessità di escluderle in quanto
criterio di giudizio sugli accadimenti, perché questo
criterio va ricercato nello studio della reale Basis. Quindi,
già introducendo il richiamo al passo di Marx con le parole
«per la quistione della “obbiettività” della conoscenza
secondo il materialismo storico, il punto di partenza deve essere
l’affermazione di Marx» ecc., Gramsci sta operando una
forzatura, perché ritrova in quel passo ciò che Marx
non vi ha affatto posto. Per Gramsci la questione è proprio
quella del carattere conoscitivo (e in che forma, ed entro quali
limiti) delle ideologie, mentre (ripeto: in quel passo) Marx ne
parla per negare alle ideologie questo carattere.
A questo punto Gramsci inserisce un secondo strappo, domandandosi se
«questa consapevolezza sia limitata al conflitto tra le forze
materiali di produzione e i rapporti di produzione – come
materialmente dice il testo marxiano – o si riferisce a ogni
consapevolezza, cioè a ogni conoscenza». Cosa s’intende
con questa estensione? L’annotazione che segue («Questo
è il problema: che può essere risolto con tutto
l’insieme della dottrina filosofica del valore delle superstrutture
ideologiche») indica che Gramsci sta leggendo la
«Prefazione» sulla base delle Tesi, il concetto di
ideologia sulla base della riformulazione della questione della
verità in termini di praxis, nel senso della Tesi 2:
«È nell’attività pratica che l’uomo deve
dimostrare la verità, cioè la realtà e il
potere, il carattere terreno del suo pensiero» [Q 2355]. Le
«determinate forme sociali della coscienza»[92] non
possono essere osservate dall’esterno, ricostruite genealogicamente
dai presupposti reali indagabili con lo strumentario dell’economia
politica, perché le forme ideologiche sono forme di
conoscenza reale, cioè forme pratiche di rapporto attivo con
la realtà, e quindi con la realtà (nel senso di
potenza e immanenza) si identificano. Fuori delle ideologie non
c’è nulla, e di conseguenza il criterio dell’alternativa tra
verità ed errore, tra vero e falso, tra praxis e speculazione
andrà individuato dentro il «terreno»[93] delle
ideologie e non fuori di esso[94].
6. Che cosa è la politica? Gramsci e Machiavelli (e Croce)
In un lungo testo B del Q 5 (127: «Machiavelli»),
databile tra il novembre e il dicembre del 1930, e dunque di poco
posteriore a 4,37, l’espressione «filosofia della
praxis» compare per la prima volta in questa forma precisa, in
un contesto però che rimanda chiaramente all’elaborazione
già avvenuta in 4,37. Il testo è dedicato a discutere
una «noticina di certo M. Azzalini» [Q 656] sul
Segretario fiorentino «che può essere interessante come
presentazione degli elementi tra cui si dibatte lo schematismo
scientifico» [ibid.]. Ma Gramsci va presto ben oltre questo
livello di discussione, presentando in positivo l’importanza della
figura e dell’opera di Machiavelli dal punto di vista della
filosofia della praxis:
Il Machiavelli ha scritto dei libri di «azione politica
immediata», non ha scritto un’utopia in cui uno Stato
già costituito, con tutte le sue funzioni e i suoi elementi
costituiti, fosse vagheggiato. Nella sua trattazione, nella sua
critica del presente, ha espresso dei concetti generali, che
pertanto si presentano in forma aforistica e non sistematica, e ha
espresso una concezione del mondo originale, che si potrebbe
anch’essa chiamare «filosofia della praxis» o
«neo-umanesimo» in quanto non riconosce elementi
trascendentali o immanentici (in senso metafisico) ma si basa tutta
sull’azione concreta dell’uomo che per le sue necessità
storiche opera e trasforma la realtà [Q 657].
Proprio in quanto Machiavelli si è posto il compito di
pensare la congiuntura politica attuale nella sua apertura alle
possibilità di intervento umano, e non di prefigurare
speculativamente le condizioni perfette del vivere politico, il suo
pensiero è un modello di «filosofia della
praxis». Egli si differenzia pertanto non solo da tutti gli
scrittori di utopie politiche vere e proprie (More, Campanella
ecc.), ma anche da quei peculiari ‘utopisti’ che sono i filosofi,
proprio in quanto lega la propria riflessione al presente, alla
pratica. Con ciò Gramsci non intende negare che Machiavelli
sia filosofo e scienziato della politica. Anzi, egli lo è
molto piú di altri in apparenza, dal punto di vista meramente
formale, a lui superiori; ma lo è appunto in un senso tutto
peculiare (e anzi in questa peculiarità è gran parte
della sua eccezionalità): il suo pensiero teorico e la sua
filosofia sono immersi nella concreta analisi del presente, e
pertanto non solo rimangono materialmente a essa legati, ma si
costituiscono anche metodologicamente in connessione con essa (e qui
è il nesso con la filosofia della praxis)[95].
Ma vediamo meglio. Dal punto di vista teorico Gramsci distingue in
Machiavelli due livelli: i «concetti generali», che
vengono formulati nel pieno della «sua trattazione» e
«critica del presente», e che «pertanto si
presentano in forma aforistica e non sistematica» (questo
è il livello di generalizzazione corrispondente all’arte e
scienza della politica); e «una concezione del mondo
originale, che si potrebbe anch’essa chiamare “filosofia della
praxis” o “neo-umanesimo” in quanto non riconosce elementi
trascendentali o immanentici (in senso metafisico) ma si basa tutta
sull’azione concreta dell’uomo che per le sue necessità
storiche opera e trasforma la realtà». Ma questa
«concezione del mondo» non è materialmente
distinta dalla «critica del presente», bensí in
essa contenuta, in quanto agisce nell’intreccio strutturale, in
Machiavelli, tra assenza di riferimenti metafisici (che da soli non
bastano) e assunzione della praxis a orizzonte della riflessione;
intendendo per praxis (secondo quanto specificato in 4,37, e qui
ripreso) l’«azione concreta» riferita alle
«necessità storiche», cioè non un agire
puro, ma impuro nel senso che acquista il suo grado di realtà
nella congiuntura in cui s’inserisce e dalle esigenze che aspira a
portare a compimento[96].
5,127 dipende teoricamente da 4,37, ma il riferimento a Machiavelli
è indipendente da esso: la sua motivazione è in 4,8
(intitolato «Machiavelli e Marx»), un testo che precede
di qualche mese 4,37[97]. Esso è prezioso perché aiuta
a capire meglio cosa voglia dire assumere l’azione concreta a
orizzonte della riflessione. Anche lí si nota che Machiavelli
ha «teorizzato una pratica», ma che questo fatto ha il
valore schiettamente filosofico di una «rivoluzione
intellettuale e morale»:
L’importanza storica e intellettuale delle scoperte del Machiavelli
si può misurare dal fatto che esse sono ancora discusse e
contraddette ancora al giorno d’oggi: ciò significa che la
rivoluzione intellettuale e morale contenuta in nuce nelle dottrine
del Machiavelli non si è ancora realizzata
«manifestamente» come forma «pubblica» della
cultura nazionale [4,8; Q 431].[98]
Questo nesso tra momento politico-pratico e momento filosofico viene
esplicitato cosí:
Nel Machiavelli sono da vedere due elementi fondamentali: 1)
l’affermazione che la politica è un’attività
indipendente e autonoma che ha suoi principi e sue leggi diversi da
quelli della morale e della religione in generale (questa posizione
del Machiavelli ha una grande portata filosofica, perché
implicitamente innova la concezione della morale e della religione,
cioè innova tutta la concezione del mondo);
2) contenuto pratico e immediato dell’arte politica studiato e
affermato con obbiettività realistica, in dipendenza dalla
prima affermazione [ibid.; cors. mio].
Dunque il forte “realismo” pratico di Machiavelli discende
direttamente – secondo Gramsci – dalla sua individuazione della
politica come «attività indipendente e autonoma»:
c’è un momento teorico (una scoperta, un’invenzione) che
guida tutto il resto. Che qui Gramsci non stia semplicemente
ripetendo il giudizio di Croce, è evidente dalla precisazione
secondo cui questa determinazione concettuale della politica
«implicitamente innova la concezione della morale e della
religione, cioè innova tutta la concezione del mondo»,
e non è pertanto riducibile all’indipendenza della politica
nei termini del “distinto” crociano. Mentre Croce sostiene che
Machiavelli ha fatto una scoperta di valore filosofico in quanto ha
enucleato le leggi distinte e autonome della politica; per Gramsci
quell’individuazione ha valore filosofico perché implica un
rivoluzionamento di tutta la concezione del mondo, una
reinterpretazione anche della morale, della filosofia ecc., e in
questo senso (e solo in questo senso) è la radice storica
della filosofia della praxis[99]. Quando, pertanto, nello stesso
testo, Gramsci nota (con un riferimento chiarissimo alle Tesi su
Feuerbach 6 e 7) che «la innovazione fondamentale introdotta
da Marx nella scienza politica e storica in confronto del
Machiavelli è la dimostrazione che non esiste una “natura
umana” fissa e immutabile» [4,8; Q 430 s.], sta in buona
sostanza riducendo la distanza teorica tra Marx e Machiavelli a un
unico particolare, anche se centrale[100], e sta assegnando a
Machiavelli una centralità teorica sulla quale difficilmente
si potrebbe esagerare.
La riflessione sul concetto di politica-praxis come centro di una
nuova concezione della filosofia viene ripresa in 4,56
(«Machiavelli e l’“autonomia del fatto politico”»[101]),
in cui Gramsci si domanda:
Data l’autonomia della politica, quale rapporto dialettico tra essa
e le altre manifestazioni storiche? Problema della dialettica in
Croce e sua posizione di una «dialettica dei distinti»
[…]
L’arte, la morale, la filosofia «servono» alla politica,
cioè si «implicano» nella politica, possono
ridursi ad un momento di essa e non viceversa: la politica distrugge
l’arte, la filosofia, la morale: si può affermare, secondo
questi schemi, la priorità del fatto politico-economico,
cioè la «struttura» come punto di riferimento e
di «causazione» dialettica, non meccanica, delle
superstrutture [Q 503].
Gramsci forza il pensiero di Croce, perché (in linea con
quanto affermato in 4,7 e con quanto scrive nel coevo 5,127) legge
contro Croce l’autonomia della politica come fondazione di una
filosofia della praxis, cioè non come isolamento della
politica-pratica ma come rifondazione dell’intera filosofia sopra il
suo concetto. L’espressione problematica «dialettica dei
distinti» è una sorta di segnale posto a indicare il
dissidio che attraversa il pensiero crociano, tra il legame con la
linea Machiavelli-Marx da una parte, e la neutralizzazione degli
effetti di esso nel concetto di “distinzione”, dall’altra[102].
In un testo notevolmente posteriore (8,61, del febbraio 1932[103]),
intitolato «Machiavelli», si trova un prolungamento
significativo di questa meditazione. Qui Gramsci mette a confronto
Croce e Machiavelli, criticando stavolta esplicitamente il primo per
aver ridotto la politica alla figura della
«passione-interesse», cioè a quel «momento
che nelle glosse a Feuerbach si chiama
“schmutzig-jüdisch”» [Q 977]. La ripresa dell’espressione
della Tesi 1 non è casuale:
Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti
del pensiero; ma egli non concepisce la attività umana stessa
come attività oggettiva. Perciò nella Essenza del
Cristianesimo egli considera solo il modo di procedere teoretico
come quello schiettamente umano, mentre la praxis è concepita
e stabilita solo nella sua raffigurazione sordidamente
giudaica.[104]
Croce come Feuerbach, anche se nel primo non di praxis si tratta, ma
della sua sola forma politica (cioè politico-economica).
Resta però il fatto che è un residuo speculativo
questa sua incapacità di cogliere il modo in cui la politica
in quanto praxis si dispone rispetto a tutte le altre forme dello
Spirito, che è invece l’oggetto della riflessione di Gramsci
in 8,61:
La quistione: che cosa è la politica, cioè quale posto
l’attività politica deve avere in una concezione del mondo
sistematica (coerente e conseguente), in una filosofia della praxis,
è la prima quistione da risolvere in una trattazione sul
Machiavelli, perché è la quistione della filosofia
come scienza. […] Il Croce si è fondato sulla sua distinzione
di momenti dello Spirito, e sull’affermazione di un momento della
pratica, di uno spirito pratico, autonomo e indipendente, sebbene
legato circolarmente all’intera realtà con la mediazione
della dialettica dei distinti. Dove tutto è pratica, in una
filosofia della praxis, la distinzione non sarà tra momenti
dello Spirito assoluto ma tra struttura e superstrutture, si
tratterà di fissare la posizione dialettica
dell’attività politica come distinzione nelle superstrutture
[…] In che senso si può parlare di identità di storia
e politica e quindi che tutta la vita è politica. Come tutto
il sistema delle superstrutture possa concepirsi come distinzioni
della politica, e quindi introduzione del concetto di distinzione
nella filosofia della praxis. Ma si può parlare di dialettica
dei distinti? Concetto di blocco storico, cioè di
unità tra la natura e lo spirito, unità di opposti e
di distinti [8,61; Q 977; cors. miei].
Questo passo è molto complesso, e un suo commento ci
porterebbe fuori strada rispetto al nostro tema. Mi limiterò
perciò a sottolineare alcuni punti. Anzitutto, si noti che il
concetto di «dialettica dei distinti» funziona qui da
cerniera tra autonomia della politica e mediazione di questo momento
in tutta la realtà. Inoltre, la definizione della
«filosofia della praxis» come quella concezione per la
quale «tutto è pratica» implica
l’«identità di storia e politica» e quindi la
concezione della politica come radice di «tutto il sistema
delle superstrutture». Quindi per una filosofia della praxis
(qui è il punto) la distinzione tra struttura e
superstrutture si riconfigura come distinzione tra diverse forme
della praxis, dove alla politica viene assegnata la priorità
rispetto a tutte le altre.
Il punto è dunque la «dialettica dei distinti»:
qualsiasi cosa significhi in riferimento a Croce, per Gramsci essa
conduce al «concetto di blocco storico, cioè di
unità tra la natura e lo spirito, unità di opposti e
di distinti», cioè, in definitiva, alla comprensione
del modo in cui l’unità delle superstrutture possa
accompagnarsi al conflitto nella sfera della pratica politica (e, si
può aggiungere, della pratica economica, del lavoro
sfruttato, che è la forma radicale della praxis
rivoluzionaria). Il blocco storico è un sinonimo per la
costruzione di una volontà collettiva, sulla base di
determinati rapporti di produzione conflittuali, nella sfera del
concetto di egemonia. Mentre Croce vede solo il momento
dell’unità (che per lui non è storica, ma è la
storia), la filosofia della praxis vede il modo in cui
l’unità viene di volta in volta costruita sul terreno della
contraddizione, della scissione, della non-unità:
contraddizione, lotta e non-unità sempre concrete, storiche.
Si conferma cosí, anche a questa altezza, l’idea della
filosofia della praxis come alternativa tanto ai monismi che ai
dualismi, perché è la teoria del modo in cui il
conflitto e le possibilità del suo superamento non solo
possono essere compresenti, ma sono sempre strutturalmente
coimplicati.
7. Politica e verità. Gramsci e Lenin (e Croce)
Il riferimento alla fissazione crociana sul momento
dell’unità a scapito del conflitto, e quindi alla sua
incapacità di comprendere la praxis (la politica) nella sua
concretezza e complessità, è presente anche in
7,35[105], un testo scritto tra il febbraio e il novembre del 1931,
e dunque di poco anteriore sia a 8,61 (discusso nel capitolo
precedente), sia a 8,198 (discusso nel capitolo 3), entrambi del
febbraio 1932. E anche qui, come negli altri due, si trova, accanto
a un riferimento a Croce, una definizione di cosa sia una “filosofia
della praxis”.
Il testo, intitolato «Materialismo e materialismo
storico», prende le mosse dal noto detto feuerbachiano
«l’uomo è quello che mangia»[106]. Esso era stato
citato da Gentile nel suo saggio sulla «Filosofia della
prassi» come compendio del materialismo filosofico (e quindi,
a suo avviso, del materialismo storico)[107]. Gramsci ricorda,
viceversa, come l’ancoramento del materialismo storico nel
materialismo faccia perdere di vista proprio la specificità
teorica di questa posizione. Esattamente come il materialismo
storico non prende in considerazione la natura in quanto tale, ma la
natura trasformata nel lavoro (e dunque entro forme di rapporti
determinate), allo stesso modo non considera quello che l’uomo
mangia se non «in quanto l’alimentazione è una delle
espressioni dei rapporti sociali nel loro complesso, e ogni
raggruppamento sociale ha una sua fondamentale alimentazione»
[Q 884]. Ma compresa entro questo quadro teorico, l’alimentazione
non può svolgere alcuna funzione causale. Infatti
allo stesso modo si può dire che l’«uomo è il
suo appartamento», l’«uomo è il suo particolare
modo di riprodursi cioè la sua famiglia», poiché
l’alimentazione, l’abbigliamento, la casa, la riproduzione sono
elementi della vita sociale in cui appunto in modo piú
evidente e piú diffuso (cioè con estensione di massa)
si manifesta il complesso dei rapporti sociali [Q 884].
«L’uomo è» dunque qualsiasi cosa, perché
tutto il complesso di rapporti sociali contribuisce a definire il
concetto di uomo. Ne consegue che l’uomo non «è»
in particolare nessuno degli «elementi della vita
sociale»: la funzione di “causa” viene nel materialismo
storico dislocata nel suo stesso statuto. Essa non è
piú né un fattore unico, né un complesso
multifattoriale piú o meno sofisticato, ma sono le complesse
forme di rapporti attivi/passivi che costituiscono la
società. Dunque è solo afferrando il concetto di
«rapporti sociali» – e quindi quello di praxis – che
sarà possibile capire che cos’è l’uomo. Questo induce
a rifiutare qualsiasi definizione semplice e unitaria della
«natura umana», perché la forma di esistenza
storica della natura umana, il genere umano, è sempre
disposto in rapporti che realizzano la sua «natura»
unitaria (il suo concetto) solo attraverso un rapporto dialettico
tra due determinazioni opposte: «i rapporti sociali sono
espressi da diversi gruppi di uomini che si presuppongono, la cui
unità è dialettica, non formale. L’uomo è
aristocratico in quanto è servo della gleba ecc.» [Q
885].
Siamo di fronte, come si vede, a un commento alla Tesi su Feuerbach
6, che ne sviluppa le implicazioni dal punto di vista del
materialismo storico. Se «la realtà umana»
è «l’insieme dei rapporti sociali», allora la
storia dell’umanità, che è storia di lotte di classi,
è il dispiegarsi della natura umana nelle determinazioni
dialettiche a cui i rapporti sociali corrispondono. Questo conduce
all’idea che, se non ha senso parlare di «uomo in
generale» [Q 884], ha senso invece porsi il problema
dell’unificazione del concetto di uomo, che potrà essere solo
un’unificazione storica, concreta, cioè raggiunta sviluppando
politicamente, praticamente, la struttura dialettica dei rapporti
sociali.
A questo punto si legge un riferimento alla dialettica hegeliana
come a quel sistema che, pur in forma speculativa (cioè pur
sempre parlando di «spirito» unitario), ha afferrato
cosa sia la storicità, perché ha legato la stessa
forma del pensiero alla forma contraddittoria, conflittuale del
divenire reale. L’invenzione della dialettica non è un
procedimento formale, perché, al contrario, è reso
possibile, secondo Gramsci, dal fatto che Hegel ha guardato alla
storia, accogliendo nella filosofia in una certa misura anche il
punto di vista dei subalterni[108]. Questo nesso è
chiaramente enunciato in 4,3:
Nella storia della cultura, che è piú larga della
storia della filosofia, ogni volta che la cultura popolare è
affiorata, perché si attraversava una fase di rivolgimenti
sociali e dalla ganga popolare si selezionava il metallo di una
nuova classe, si è avuta una fioritura di
«materialismo», viceversa le classi tradizionali si
aggrappavano allo spiritualismo. Hegel, a cavallo della Rivoluzione
francese e della Restaurazione, ha dialettizzato i due momenti della
vita filosofica, materialismo e spiritualismo» [Q 424].
Ma dal nostro punto di vista interessa sopratutto 4,45
(ottobre-novembre 1930), intitolato «Struttura e
superstrutture», in cui sono già tutti gli elementi
presenti in 7,35, tranne uno, come subito si vedrà:
Tutta la filosofia finora esistita è nata [sic] ed è
l’espressione delle contraddizioni intime della società: ma
ogni sistema filosofico a sé preso non è l’espressione
cosciente di queste contraddizioni, poiché questa espressione
può essere data solo dall’insieme dei sistemi filosofici.
Ogni filosofo è e non può non essere convinto di
esprimere l’unità dello spirito umano, cioè
l’unità della storia e della natura: altrimenti gli uomini
non opererebbero, non creerebbero nuova storia, cioè le
filosofie non potrebbero diventare «ideologie», non
potrebbero nella pratica assumere la granitica compattezza fanatica
delle «credenze popolari» che hanno il valore di
«forze materiali». Hegel rappresenta, nella storia del
pensiero filosofico, un posto a sé, perché, nel suo
sistema, in un modo o nell’altro, pur nella forma di «romanzo
filosofico», si riesce a comprendere cos’è la
realtà, cioè si ha, in un solo sistema e in un solo
filosofo, quella coscienza delle contraddizioni che prima era data
dall’insieme dei sistemi, dall’insieme dei filosofi, in lotta tra
loro, in contraddizione tra loro. In un certo senso, adunque, il
materialismo storico è una riforma e uno sviluppo dello
hegelismo, è la filosofia liberata da ogni elemento
ideologico unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle
contraddizioni in cui lo stesso filosofo, individualmente inteso o
inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende le
contraddizioni, ma pone se stesso come elemento della
contraddizione, e eleva questo elemento a principio politico e
d’azione. L’«uomo in generale» viene negato e tutti i
concetti «unitari» staticamente vengono dileggiati e
distrutti, in quanto espressione del concetto di «uomo in
generale» o di «natura umana» immanente in ogni
uomo [Q 471].
Nel testo C (11,62), che porta il titolo «Storicità
della filosofia della prassi» (e nel quale «materialismo
storico» è sostituito con «filosofia della
prassi»), l’espressione «e eleva questo elemento a
principio politico e d’azione» è sostituito dalla
variante: «eleva questo elemento a principio di conoscenza e
quindi di azione» [Q 1487]. Questa potrebbe essere la semplice
precisazione di un concetto già presente nella prima
versione, ma a me pare che sia un’aggiunta reale, che consiste
nell’equiparare realmente conoscenza e azione, filosofia e politica
nel concetto, pienamente precisato nel percorso dalla prima alla
seconda stesura, di “filosofia della praxis” come equivalenza di
filosofia e politica. Ciò che in effetti nel testo A era
assente (e che invece è presente, come ora si vedrà,
in 7,35), è un collegamento organico tra il concetto di
praxis e quello di ideologia[109]. Infatti in 4,45 l’ideologia
equivale al carattere unilaterale e unitario della filosofia, che
per questo si può trasformare in “credenza popolare”, mentre
il materialismo storico si dispone in uno spazio differente, al
contempo, per cosí dire, piú in alto e piú in
basso delle filosofie-ideologie: piú in basso, perché,
in quanto consapevolezza del rapporto del sapere con la praxis, si
schiera nella contraddizione reale e quindi assume consapevolmente
un punto di vista di parte; piú in alto, perché questo
è dovuto appunto a una consapevolezza teorica della
contraddizione, cioè alla dialettica portata alla sua logica
conseguenza (il compimento dello hegelismo).
Ne risulta per il materialismo storico uno statuto ambiguo: se esso
tende a essere inteso e ad intendersi come ideologico, questo non
viene però apertamente enunciato e argomentato. Gramsci nota
in un testo di poco precedente (4,40, che verrà unito in
seconda stesura a 4,45) che
come filosofia il materialismo storico afferma teoricamente che ogni
«verità» creduta eterna e assoluta ha origini
pratiche e ha rappresentato o rappresenta un valore provvisorio. Ma
il difficile è far comprendere «praticamente»
questa interpretazione per ciò che riguarda il materialismo
storico stesso [Q 465].
Ne consegue che «praticamente […] anche il materialismo
storico tende a diventare una ideologia nel senso deteriore,
cioè una verità assoluta ed eterna» [Q 466].
Si può notare che se la filosofia deve enunciare la propria
verità come assoluta ed eterna per poter acquisire la
granitica compattezza della fede, ogni filosofia (con la parziale
eccezione dello hegelismo) è una ideologia nel senso
deteriore, e che pertanto il materialismo storico potrebbe essere
un’ideologia in senso non deteriore, essendo un’ideologia non
deteriore quella che è consapevole della propria
transitorietà. Quest’ultima però è, lo si
è visto, una consapevolezza teorica (la dialettica), e non
un’ideologia. D’altra parte il problema di teoria e pratica, posto
cosí, appare realmente insolubile: come è possibile
mediare la consapevolezza critica della propria transitorietà
con la «fanatica» e «unilaterale» saldezza
di convincimenti necessaria all’agire? Ne risulta
un’ambiguità, che all’altezza di 7,35 troviamo già
sciolta, perché qui troviamo il criterio della praxis
già integrato con il concetto di ideologia. Queste, che sono
le due componenti presenti in 4,37, attraversano cosí tutto
il periodo che dagli AF I conduce fino ai quaderni 10 e 11, e la
ricerca del modo in cui siano integrabili è la ricerca stessa
della definizione della filosofia della praxis in quanto mediazione
concreta di ideologia e critica, pratica e teoria, politica e
filosofia.
Torniamo un’ultima volta ancora alla variante 4,45/11,62: che cosa
vuol dire che il filosofo della praxis «non solo comprende le
contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione,
eleva questo elemento a principio di conoscenza e quindi di
azione», se non che l’essere «elemento della
contraddizione» non è piú, a questa altezza, il
momento della cecità agente, ma quello dell’agire che,
proprio in quanto tale, è conoscenza, cioè
costituzione di verità? In 7,35 è presente proprio
questo momento teorico, che in 4,45 ancora non c’è[110]. Il
passo decisivo dal punto di vista dell’unità organica di
praxis e ideologia è quello, a cui ho già fatto cenno,
in cui compare il riferimento a Hegel:
Che la dialettica hegeliana sia stata un [variante interlineare:
l’ultimo] riflesso di questi grandi nodi storici e che la
dialettica, da espressione delle contraddizioni sociali debba
diventare, con la sparizione di queste contraddizioni, una pura
dialettica concettuale, sarebbe alla base delle ultime filosofie a
base utopistica come quella del Croce. Nella storia
l’«uguaglianza» reale, cioè il grado di
«spiritualità» raggiunto dal processo storico
della «natura umana», si identifica nel sistema di
associazioni «private e pubbliche», esplicite ed
implicite, che si annodano nello «Stato» e nel sistema
mondiale politico: si tratta di «uguaglianze» sentite
come tali fra i membri di una associazione e di
«diseguaglianze» sentite tra le diverse associazioni,
uguaglianze e disuguaglianze che valgono in quanto se ne abbia
coscienza individualmente e come gruppo. Si giunge cosí anche
all’eguaglianza o equazione tra «filosofia e politica»,
tra pensiero e azione, cioè ad una filosofia della praxis.
Tutto è politica, anche la filosofia o le filosofie
(confronta note sul carattere delle ideologie) e la sola
«filosofia» è la storia in atto, cioè
è la vita stessa. In questo senso si può interpretare
la tesi del proletariato tedesco erede della filosofia classica
tedesca – e si può affermare che la teorizzazione e la
realizzazione dell’egemonia fatta da Ilici è stata anche un
grande avvenimento «metafisico» [7,35; Q 886].
Il criterio dell’unità della praxis come agire ideologico e
come processo di costituzione della verità è qui
indicato, come si vede, nel concetto di «egemonia»
teorizzato e realizzato da Lenin. Esso è in lui evidentemente
allo stato pratico, nel senso che la stessa riflessione teorica
Lenin l’ha condotta sul terreno e con linguaggio politico. Quello
che Gramsci fa qui, è invece darne una riflessione sul
terreno e con linguaggio filosofico. In quanto concetto filosofico,
l’egemonia è la teoria dell’unità dell’umano,
cioè dell’unificazione dell’umanità, come processo
pratico di soppressione delle contraddizioni nella concreta dinamica
politica (associazioni, Stato, mondo), dinamica che è sempre
lotta che, come tale, interpreta la contraddizione fondamentale
della società divisa in classi. Le «uguaglianze e
disuguaglianze […] valgono in quanto se ne abbia coscienza
individualmente e come gruppo»: questa affermazione è
tutto il contrario del pragmatismo, perché non istituisce un
circolo tra prassi e credenza, ma tra prassi e conoscenza, nel senso
che le uguaglianze e disuguaglianze vengono concretamente conosciute
nella lotta; e vengono concretamente conosciute, perché la
lotta è sempre, al contempo, credenza nell’unità della
propria parte (fede) e relazione con le altre parti in conflitto
(ragione). L’agire si accompagna sempre a una qualche forma di
consapevolezza, perché investendosi nel conflitto, essendo
disposto in uno dei termini della contraddizione, trasforma la
realtà a partire dalla divisione, e quindi la conosce come
divisa (fa esperienza dello sfruttamento) e come avente in sé
le potenzialità della propria unificazione. Ma questa
conoscenza non è astratta, non è mera
virtualità individuale. Essa è fino in fondo politica,
perché assume la forma concreta di rapporto tra la propria
«associazione» e le altre «associazioni»,
assume cioè la forma della dinamica politica entro la
società civile. Ma questa dinamica, viceversa, appartiene
inestricabilmente anche al concetto di cultura, perché
è attraverso dinamiche culturali, di conoscenza e di
produzione di conoscenza, che avviene la lotta nella società
civile[111].
Aver formulato (e praticato) l’egemonia significa aver intuito tutto
questo: che filosofia e politica sono la stessa cosa, che
cioè, dato che i rapporti di conoscenza sono rapporti
politici, la lotta politica si svolge in modo decisivo entro la
sfera della cultura; e che, di conseguenza, la superiorità
storica di una classe si misura dalla sua capacità di farsi
interprete di questo intreccio. Gramsci si riferisce, piú
ancora che alla teoria dell’egemonia contenuta nel Che fare?, alle
parole d’ordine della «cultura» e
dell’«alfabetizzazione», lanciate da Lenin nei suoi
ultimi scritti (1922-1924), le quali, accanto alla Nep,
rappresentano la consapevolezza del fatto che – prima e piú
dell’esercizio della forza – decisive per le sorti dello Stato
sovietico sono le dinamiche culturali, di conoscenza, cioè il
modo in cui le diverse classi parteciperanno attivamente o
passivamente all’edificazione del socialismo. La costituzione di
“verità” è quindi, secondo la filosofia della praxis,
la costruzione dell’egemonia in quanto costruzione dell’uguaglianza
reale, cioè dell’egemonia come unificazione politica e
culturale, pratica e teorica del genere umano.
Come si vede, questa posizione è uno sviluppo conseguente
della «dottrina filosofica del valore delle superstrutture
ideologiche» già enunciata in linea generale in 4,37 [Q
455]. E infatti alla fine del testo successivo [4,38], dedicato ai
«Rapporti tra struttura e superstrutture», Gramsci
annota:
Questo concetto [di egemonia], data l’affermazione fatta piú
sopra, che l’affermazione di Marx che gli uomini prendono coscienza
dei conflitti economici nel terreno delle ideologie ha un valore
gnoseologico e non psicologico e morale, avrebbe anch’esso pertanto
un valore gnoseologico e sarebbe da ritenere perciò l’apporto
massimo di Iliíc alla filosofia marxista, al materialismo
storico, apporto originale e creatore. Da questo punto di vista
Iliíc avrebbe fatto progredire il marxismo non solo nella
teoria politica e nella economia, ma anche nella filosofia
(cioè avendo fatto progredire la dottrina politica avrebbe
fatto progredire anche la filosofia) [Q 464 s.].
In nuce, dunque, l’idea di unità di filosofia e politica
c’è già in AF I. L’elemento nuovo presente in 7,35
è il modo in cui concretamente si mediano nella prassi
ideologia e conoscenza, fede e verità. Questa novità
riceve nei Quaderni un nome preciso. Lo svolgimento della
«dottrina filosofica del valore delle superstrutture
ideologiche» conosce infatti un punto di svolta quando inizia
a confrontarsi produttivamente col concetto crociano di
«religione» come «concezione del mondo con una
norma di condotta conforme», come Gramsci si esprimerà
in 10,II,31. Questo è, come ho già ricordato, il testo
C di 8,198 («Filosofia della Praxis»), testo chiave per
l’interpretazione gramsciana dell’undicesima Tesi su Feuerbach,
interpretazione che egli accosta alla celebre conclusione del Ludwig
Feuerbach sul proletariato tedesco come erede della filosofia
classica tedesca. Questo rinvio al Ludwig Feuerbach è
presente, come si è visto, anche in 7,35, e anche in 7,33
(«Posizione del problema»), dedicato al rapporto tra
Marx e Lenin. Qui Gramsci afferma che
la fondazione di una classe dirigente (cioè di uno Stato)
equivale alla creazione di una Weltanschauung. L’espressione che il
proletariato tedesco è l’erede della filosofia tedesca: come
deve essere intesa – non voleva indicare Marx l’ufficio storico
della sua filosofia divenuta teoria di una classe che sarebbe
diventata Stato? Per Ilici questo è realmente avvenuto in un
territorio determinato. Ho accennato altrove [4,38] all’importanza
filosofica del concetto e del fatto di egemonia, dovuto a Ilici.
L’egemonia realizzata significa la critica reale di una filosofia,
la sua reale dialettica [Q 881 s.].
Il lapsus di Gramsci (l’attribuzione a Marx della frase di Engels)
è significativo dell’unità, nella sua interpretazione,
del concetto di egemonia, del passo engelsiano e della glossa
marxiana[112]: l’egemonia ha a che fare con la reale dialettica di
una filosofia, e quindi con il rivoluzionamento del suo statuto, con
la sua trasformazione in una filosofia della praxis. Ora, come si
è detto, il concetto crociano di “religione” rappresenta per
Gramsci un punto di riferimento importante in questa ridefinizione
dello statuto della filosofia, ridefinizione che in 10,II,31
(giugno-agosto 1932) appare già conclusa:
La tesi XI [...] non può essere interpretata come un gesto di
ripudio di ogni sorta di filosofia, ma solo di fastidio per i
filosofi e il loro psittacismo e l’energica affermazione di una
unità tra teoria e pratica. Questa interpretazione delle
Glosse al Feuerbach come rivendicazione di unità tra teoria e
pratica, e quindi come identificazione della filosofia con
ciò che il Croce chiama ora religione (concezione del mondo
con una norma di condotta conforme) – ciò che poi non
è che l’affermazione della storicità della filosofia
fatta nei termini di un’immanenza assoluta, di una
«terrestrità assoluta» – si può ancora
giustificare con la famosa proposizione che «il movimento
operaio tedesco è l’erede della filosofia classica
tedesca» [Q 1270 s.; cors. mio].
Come si vede, religione per Croce equivale alla nuova filosofia
(unità di teoria e pratica) per il Marx della Tesi 11:
è una posizione molto forte, che si può giustificare
pensando che quel concetto di religione riusciva realmente a mediare
il momento della riflessione e quello dell’immediatezza passionale,
l’ideologia-conoscenza e l’ideologia-fede, in quanto si collocava al
livello della storia etico-politica (che Gramsci infatti non a caso
equipara criticamente al concetto di egemonia), cioè della
concreta mediazione tra istanza di direzione intellettuale e morale
degli intellettuali, e istanza della lotta sul terreno della
politica-economia.
Ma dal nostro punto di vista interessa notare che quel processo di
assimilazione di religione a filosofia della praxis si avvia proprio
nel Q 7, cioè nel luogo in cui dapprima si manifesta la
mediazione concreta tra praxis e ideologia. Intanto, il riferimento
presente proprio in 7,35 al rapporto Croce-Hegel presuppone
già il concetto crociano di religione. Se infatti «alla
base delle ultime filosofie a base utopistica come quella del
Croce» c’è proprio la tesi secondo la quale «la
dialettica hegeliana sia stata un [variante interlineare: l’ultimo]
riflesso di questi grandi nodi storici e che la dialettica, da
espressione delle contraddizioni sociali debba diventare, con la
sparizione di queste contraddizioni, una pura dialettica
concettuale», allora l’utopia crociana ha strettamente a che
fare con il rapporto tra filosofia e ideologia, cioè con il
rapporto tra concezione del mondo e mondo pratico-morale che questa
Weltanschauung si propone di creare e cementare: il momento
teoretico (concetto di distinzione) è immediatamente e
consapevolmente una proposta politica. Certo, tutto questo è
in Croce in forma distorta: il suo intento infatti non è
quello di far esplodere il conflitto, ma di eluderlo. E infatti
Gramsci gli attribuisce una sorta di ingenua meraviglia di fronte
agli usi politici del proprio pensiero[113], ma questo nulla toglie
alla profondità teorica del suo concetto di religione.
Si può seguire lungo il 1931-1932 l’affermarsi dell’uso della
religione in questa accezione. In 7,84 (dicembre 1931) si dice, a
proposito della «mistica», che questa, nell’accezione
francese di «fanatismo permanente incoercibile alle
dimostrazioni corrosive, […] non è altro che la “passione” di
cui parla Croce o il “mito” di Sorel giudicato da cervelli
cartesianamente logistici» [Q 915]. La politica-passione
appare qui tendenzialmente sottratta a una lettura che la schiacci
sul fanatismo, e infatti subito sotto Gramsci nota che
«positivamente si parla di mistica […] per non usare i termini
di religiosità o addirittura di “religione”», facendo
scivolare cosí insensibilmente la «passione»
verso l’unità di concezione del mondo e norma di condotta
conforme. Chi non ha paura di usare direttamente il termine
“religione” è invece Gramsci, che poco piú tardi
(gennaio-febbraio 1932) scrive: «Una parte importante del
moderno Principe è la quistione di una riforma intellettuale
e morale, cioè la quistione religiosa o di una concezione del
mondo» [8,21; Q 953].
A questa altezza l’unificazione di “religione” e “filosofia della
praxis” è già avvenuta. Nell’aprile dello stesso anno
viene esplicitato anche il nesso con l’egemonia:
«Poiché “egemonia” significa un determinato sistema di
vita morale [concezione della vita ecc.], ecco che la storia
è storia “religiosa”, secondo il principio “Stato-Chiesa” del
Croce» [8,227; Q 1084].
A questo punto la questione della filosofia della praxis si pone nei
termini di una filosofia-egemonia sulla base dell’undicesima Tesi su
Feuerbach:
L’«erede» continua il predecessore, ma lo continua
«praticamente» poiché ha dedotto una
volontà attiva, trasformatrice del mondo, dalla mera
contemplazione e in questa attività pratica è
contenuta anche la «conoscenza» che solo anzi
nell’attività pratica è «reale conoscenza»
e non «scolasticismo». Se ne deduce anche che il
carattere della filosofia della praxis è specialmente quello
di essere una concezione di massa, una cultura di massa e di massa
che opera unitariamente, cioè che ha norme di condotta non
solo universali in idea, ma «generalizzate» nella
realtà sociale. E l’attività del filosofo
«individuale» non può essere pertanto concepita
che in funzione di tale unità sociale, cioè anch’essa
come politica, come funzione di direzione politica [10,II,31; Q
1271][114].
La filosofia della praxis è una costruzione di egemonia
proprio in quanto può solo esistere come filosofia di massa,
«e di massa che opera unitariamente», che ha cioè
costituito una verità-libertà, ha “eguagliato” le
differenze riformando “religiosamente” le coscienze. L’esito di
questa progressiva definizione di un concetto di “filosofia della
praxis” è cosí la filosofia come unità di
filosofia e senso comune, che è infatti la grande
novità presente in AF III e che diventa il centro del
quaderno 11. Il nesso di filosofia e senso comune, in quanto diventi
costitutivo del concetto di filosofia, riassume tutto quel complesso
di determinazioni tra praxis, conoscenza e ideologia, che sono
venuto ricostruendo in queste pagine.
Il momento in cui il concetto di filosofia della praxis si intreccia
con quello di filosofia e senso comune è 8,220, che si
colloca a ridosso di 8,204, in cui per la prima volta compare l’idea
di «Un’introduzione allo studio della filosofia»:
Una filosofia della prassi non può presentarsi inizialmente
che in atteggiamento polemico, come superamento del modo di pensare
preesistente. Quindi come critica del «senso comune»
(dopo essersi basata sul senso comune per mostrare che
«tutti» sono filosofi e che non si tratta di introdurre
ex-novo una scienza nella vita individuale di tutti, ma di innovare
e rendere «critica» un’attività preesistente) e
della filosofia degli intellettuali, che è quella che
dà luogo alla storia della filosofia [8,220; Q 1080].
Una volta avvenuta questa saldatura tra le due problematiche, non ha
piú senso una riflessione separata sulla “filosofia della
praxis”, e l’espressione passa a delimitare tutto lo spazio del
marxismo cosí ridefinito[115].
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Torino, Einaudi 19751, 19772
NT: «Note al testo», in Q 2443-3034 (Vol. 4)
DQ: «Descrizione dei quaderni», in Q 2367-2442
Q 8: (es.) quaderno 8
5,147: (es.) quaderno 5, paragrafo 147
Testo A, testo B, testo C: risp. testo di prima stesura, di stesura
unica e di seconda stesura dei Quaderni [testi B possono essere sia
testi scritti in quaderni miscellanei e non copiati in quaderni
speciali, sia testi scritti direttamente in quaderni speciali]
AF I, II, III: risp. «Appunti di filosofia. Materialismo e
idealismo. Prima serie», in Q 4; «Seconda serie»,
in Q 7; «Terza serie», in Q 8
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Volpicelli, A. (1927-1928), «La teoria del diritto di
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Voza, P. (2001), «Rivoluzione passiva», relazione al
seminario sul lessico dei Quaderni della IGS Italia, V seduta, Roma,
14 dicembre 2001, in www.gramscitalia.it/attivita#lessico
Note
[1] Tenendo conto di questa accezione della filosofia della praxis
affronta il tema Badaloni (1981), che, con riferimento specifico
alla filosofia della praxis, riprende e aggiorna la monografia
precedente (1975).
[2] Di «pensiero profondamente e organicamente
sistematico» a proposito dei Quaderni ha parlato R. Finelli
(1999, 195).
[3] Il saggio di Maria Rosaria Romagnuolo (1987-1988), contiene
un’accurata ricostruzione della storia dell’espressione “filosofia
della praxis”, ma dimostra un’insufficiente capacità di
comprendere le implicazioni teoriche della questione.
[4] Sull’uso dell’espressione «filosofia della praxis»
cf V. Gerratana (1967, 256 s.). Contro un’assunzione unilaterale del
criterio della riforma crittografica (cui Gerratana è
peraltro del tutto estraneo) è stato giustamente osservato:
«Se anche la sua [della denominazione filosofia della praxis]
genesi fosse puramente “esterna”, rimarrebbe da spiegare
perché Gramsci abbia scelto – come sostituto – una
espressione di quel peso e di quel significato, cosí
connotata (e proprio in quel momento)» (M. Ciliberto [1982,
311]).
[5] Cf su questa congiuntura E. Garin (1966, 211-221), e B. de
Giovanni (1983).
[6] Mi riferisco evidentemente all’attitudine descritta in 4,1 [Q
419]: «Se si vuole studiare una concezione del mondo che non
è stata mai dall’autore-pensatore esposta sistematicamente,
occorre fare un lavoro minuzioso e condotto col massimo scrupolo di
esattezza e di onestà scientifica» ecc.
[7] Su Gramsci e Labriola cf V. Gerratana (1972, 155-163 = cap. 2 su
«Labriola e Gramsci»), e A. Bertondini (1959). Gramsci
aveva con sé a Turi il IV saggio: Da un secolo all’altro
(1925) (timbro Turi II, cioè il volume entrò tra il
marzo 1929 e il novembre 1930). In memoria del Manifesto dei
Comunisti (1902a), Del materialismo storico. Dilucidazione
preliminare (1902b), e Discorrendo di socialismo e di filosofia
(1902c) Gramsci li possedeva invece prima dell’arresto, e sono
infatti nel Fondo Gramsci, ma privi di timbri carcerari.
Su Gramsci e Gentile insiste (ma in modo sempre poco convincente) G.
Bergami (1977, 82-84, 100-120), che pubblica utilmente l’elenco dei
libri posseduti da Attilio Carena. Questi, intimo amico di Gramsci a
Torino e che con lui condivideva molti interessi culturali,
possedeva – oltre alla Filosofia di Marx (nella prima edizione:
Pisa, Spoerri 1899, ma letta e postillata nel marzo 1920) – tutte le
principali opere di Gentile (1977, 182). Assai suggestiva, anche in
ciò che non può esserne condiviso, è la
ricostruzione di L. Paggi (1970, 3-42 = cap. I).
[8] Contemporaneamente agli AF I Gramsci avvia (a c.1r del Q 4)
«Il canto decimo dell’Inferno», destinato tuttavia a non
trovare spazio in quaderni speciali. Per la cronologia faccio
riferimento a G. Francioni (1984).
[9] Sebbene non venga mai usata come titolo di rubrica. Ma
ciò può avere importanza soltanto alla luce di una
considerazione formalistica dei Quaderni. Il nesso tra titoli di
rubrica e contenuti non è affatto meccanico: si prenda ad.
es. l’uso flessibile che sopratutto nella prima fase di lavoro
Gramsci fa di «Riviste tipo» e «I nipotini di
padre Bresciani».
[10] 4,3 è databile tra la fine di aprile e l’inizio di
maggio 1930 (cf DQ 2384 e Francioni [1984, 42 s. e nota]), mentre
3,31 è di poco posteriore (giugno-luglio) (cf NT 2579).
[11] D’altronde anche 4,14 proseguiva cosí: «Ciò
avviene in forme reciproche naturalmente, ma è appunto
ciò che bisogna sventare. Il vecchio mondo, rendendo omaggio
al materialismo storico cerca di ridurlo a un corpo di criteri
subordinati, di secondo grado, da incorporare nella sua teoria
generale, idealistica o materialistica: chi riduce a un ruolo simile
il materialismo storico nel campo proprio di questa teoria, capitola
implicitamente dinanzi agli avversari» [Q 436].
[12] B. Croce (1929, pp. 11 s.).
[13] È fortemente improbabile che Gramsci abbia avuto accesso
a un esemplare del quotidiano berlinese, sul quale l’articolo della
Luxemburg era uscito quando egli era dodicenne. Può
però averlo letto, in traduzione francese, nella raccolta
Karl Marx homme, penseur et révolutionnaire (1928, 70-77)
(che però non è conservato tra i libri del carcere).
[14] 16,9 [Q 1857]. Il testo è la seconda stesura di 4,3, e
il passo cit. è una variante instaurativa, quindi di molto
posteriore. Esso però non fa che esplicitare quanto
già presente nella prima stesura.
[15] «La forma classica di questi passaggi dalla concezione
del mondo alla norma pratica di condotta, mi pare quella per cui
dalla predestinazione calvinistica sorge uno dei maggiori impulsi
all’iniziativa pratica che si sia avuto nella storia mondiale.
Cosí ogni altra forma di determinismo a un certo punto si
è sviluppata in spirito di iniziativa e in tensione estrema
di volontà collettiva» [10,II,28; Q 1267; cors. mio].
Il passo cit. è una variante instaurativa. Nell’ultima parte
di esso è evidente il riferimento al varo del primo piano
quinquennale.
[16] Il giudizio è ripreso e perfezionato nella seconda
stesura [11,12; Q 1389]: «Una parte della massa anche
subalterna è sempre dirigente e responsabile e la filosofia
della parte precede sempre la filosofia del tutto non solo come
anticipazione teorica, ma come necessità attuale». Qui
Gramsci riprende implicitamente la propria lettura del testo della
Luxemburg, ma in genere tutta la propria teoria del valore
gnoseologico delle superstrutture ideologiche (e quindi la
rivalutazione che di questo concetto aveva condotto Labriola
sopratutto in Del materialismo storico).
[17] Gramsci aveva già scritto di Labriola in modo simile nel
gennaio 1918 (614 s.), quando affermò che le simpatie
positivistiche «hanno fatto ristagnare la produzione
intellettuale del socialismo italiano, che pure con gli scritti di
Antonio Labriola aveva avuto un inizio cosí fulgido e pieno
di promesse».
Sulla crucialità della figura di Labriola nella ridefinizione
del marxismo come filosofia della praxis nei Quaderni insiste
giustamente Ciliberto (1982, 272, 280, 282, 292, 311).
[18] La «filosofia della praxis […] è il midollo del
materialismo storico. Questa è la filosofia immanente alle
cose su cui filosofeggia. […] Dal lavoro, che è un conoscere
operando, al conoscere come astratta teoria: e non da questo a
quello. […] Il materialismo storico, ossia la filosofia della
praxis, in quanto investe tutto l'uomo storico e sociale, come mette
termine a ogni forma d’idealismo […], cosí è la fine
anche del materialismo naturalistico» (Labriola [1973b, 702
s.]). Mi sono soffermato su queste corrispondenze tra Labriola e
Gramsci in (1998), ripubblicato in forma ampliata (2001), in partic.
nel cap. 2.III. Sulla «filosofia della praxis» di
Labriola cf anche A. Tosel (1991, 27-37).
[19] Labriola (1973b, 703). E si veda anche p. 712, dove si
criticano quelli «che han creduto di poter completare Marx, o
con questa, o con quell’altra cosa»; pp. 712 s., dove,
rivolgendosi a Sorel, Labriola afferma: «Voi molto giustamente
portate la vostra attenzione su i caratteri differenziali del
materialismo storico […] e non vi proponete il quesito se il signor
Marx possa andare a braccetto del tale o tal altro filosofo, ma vi
chiedete, invece, quale filosofia sia a questa dottrina
necessariamente e obiettivamente implicita»; e p. 679:
«Come va che […] tanti si sono affannati a completarlo [il
marxismo], ora con Spencer, ora col positivismo in genere, ora con
Darwin, ora con ogni altro ben di dio, […] mostrando […] di
dimenticare due cose, che questa dottrina reca in se stessa le
condizioni della sua propria filosofia ed è, cosí
nella origine come nella sostanza, intimamente
internazionale?».
[20] G. Gentile (1974, 64).
[21] E infatti Gentile, parafrasando Labriola, vi osservava
polemicamente che «nessun’altra filosofia all’infuori del
materialismo si potrà […] ritenere immanente nella concezione
materialistica della storia» (1974, 68).
[22] Importante è anche 10,II,2 [Q 1241], un testo B
dell’aprile 1932 (dunque di un paio di mesi posteriore a 8,198),
dove Gramsci si domanda se nel porre «l’identità di
storia e filosofia» Croce «ha preso […] l’abbrivo dalla
filosofia della praxis di Antonio Labriola».
[23] Si riferisce al Discorrendo di socialismo e di filosofia.
[24] Si riferisce all’edizione in rivista, nel 1897, del primo dei
due saggi («Una critica del materialismo storico») che
andranno a comporre il volume La filosofia di Marx.
[25] B. Croce (1900, 101 n.) (la parte della nota dopo il trattino
è evidentemente aggiunta da Croce al momento della raccolta
in volume). Gramsci aveva con sé il libro fin dal suo arrivo
a Turi.
[26] Agosto-settembre 1930.
[27] In L’Italia che scrive, XI (1928), n. 6, p. 156.
[28] Palmi, Zappone 1928.
[29] Una questione ulteriore riguarda Rodolfo Mondolfo, il quale
anche aveva parlato (a cominciare dal 1909, con «Feuerbach e
Marx» cit.) di marxismo come «filosofia della
praxis», riprendendo Gentile e Labriola, e criticando
entrambi. A rendere poco plausibile un ricorso di Gramsci ai suoi
scritti ci sono, oltre a ragioni di ordine teorico (che
discuterò nel prossimo capitolo), le scarse simpatie che egli
dimostrò almeno a partire dal 1919 (cf Gramsci [1919]) per il
filosofo del socialismo, entrambe confermate nei Quaderni. Cf 16,9
(var. instaurativa su 4,3): «Occorre lavorare in questo senso,
sviluppando la posizione di Antonio Labriola, di cui i libri di
Rodolfo Mondolfo non paiono (almeno per quanto si ricorda) un
coerente svolgimento. Pare che il Mondolfo non abbia mai abbandonato
completamente il fondamentale punto di vista del positivismo di
alunno di Roberto Ardigò» [Q 1855 s.].
[30] Cf F. Engels (1962, 276). Gramsci possedeva – ma non aveva con
sé in carcere – una traduzione italiana di questa operetta
nell’edizione delle Opere di Marx, Engels e Lassalle curata da
Ettore Ciccotti (1922, Vol. IV, 14; che riproduce, conservando la
paginazione originale, l’ed. Roma, Mongini 1902, tradotta dal
Ciccotti). Tuttavia vi è una discrepanza, perché
Mongini traduce: «è la pratica, propriamente
l’esperienza e l’industria» (1922, IV, 14), mentre Engels
scrive: «ist die Praxis, nämlich das Experiment und die
Industrie» (1962, 276). Gramsci sembra cioè tener conto
del testo tedesco, o di una traduzione piú fedele, che
però non compaiono tra i libri di Turi.
[31] F. Engels (1962, 278).
[32] F. Engels (1985, 28). Anche quest’opera, spesso discussa nei
Quaderni, è tra i libri che Gramsci possedeva prima
dell’arresto, ma non ebbe a disposizione in carcere. Si veda in
passo in Marx-Engels-Lassalle (1922, VIII, 20; che riproduce,
conservando la paginazione originale, l’ed. Roma, Mongini 1911,
tradotta da N. Lombardi Pignatari).
[33] Cf Labriola (1973b, 717 e ss. [dove si cita e si discute il
passo dell’Antidühring relativo alla fine della filosofia] e
693 [«Engels, […] chiuso com’era nella persuasione, che
ciò che egli giustamente chiamava filosofia classica fosse
giunta alla sua dissoluzione in Feuerbach, scrivendo
l’Antidühring mostrò noncuranza, dirò francamente
eccessiva, per la filosofia contemporanea»]).
[34] Cf già in 4,1, a proposito di Marx: «Occorre
seguire, prima di tutto, il processo di sviluppo intellettuale del
pensatore, per ricostruirlo secondo gli elementi divenuti stabili e
permanenti, cioè che sono stati realmente assunti dall’autore
come pensiero proprio, diverso e superiore al “materiale”
precedentemente studiato e per il quale egli può aver avuto,
in certi momenti, simpatia, fino ad averlo accettato
provvisoriamente ed essersene servito per il suo lavoro critico o di
ricostruzione storica o scientifica» [Q 419].
[35] Cf l’ancor piú radicale 4,34 [Q 452 s.], in cui si
lamenta non piú il peso relativo da attribuire a uno dei due
membri dell’espressione «materialismo storico», ma la
denominazione nel suo complesso: un «vocabolo» vecchio
che vela la novità di «qualche cosa veramente
nuova» (Gramsci cita una frase di Napoleone ad Alessandro
Volta). Il rinvio all’uso metaforico della parola
«immanenza» è a N. I. Bucharin (1983, 43) (dove
però questo viene detto della «teleologia»).
[36] Nel testo C [11,28; Q 1439] il riferimento a Bruno viene
leggermente ampliato: «Pare che in Giordano Bruno, per
esempio, ci siano molte tracce di una tale concezione nuova; i
fondatori della filosofia della praxis conoscevano il Bruno. Lo
conoscevano e rimangono tracce di opere del Bruno postillate da
loro». Gerratana annota: «Non è chiaro a quale
fonte Gramsci abbia attinto tale conferma, insieme alla notizia
dell’esistenza di opere di Bruno postillate da Marx. Entrambe le
affermazioni non sono, del resto, comprovate alla luce dell’attuale
stato degli studi marxiani» [NT 2899]. Si confronti comunque
quanto Gramsci afferma qui, con una sua considerazione posteriore
sulla religione del Pulci (17,3; agosto 1933 secondo G. Francioni,
L’officina gramsciana cit.): «È da vedere se lo
spiritismo e la magia non sono necessariamente la forma che doveva
prendere il naturalismo e il materialismo di quell’epoca,
cioè la reazione al trascendente cattolico o la prima forma
di immanenza primitiva e rozza» (Q 1909).
Invece l’affermazione relativa al passaggio del pensiero bruniano
nella filosofia classica tedesca è evidentemente ricavata da
Bertrando Spaventa (1972, 509-523). Si noti comunque che Spaventa
valorizza in Bruno proprio la priorità assegnata al fare:
«Il gran pregio di Bruno è aver detto: essere è
fare; essere è causare» (1972, 520), rovesciando
cosí l’ordine scolastico di essenza e operazione. Ma è
un cenno generico, che si accompagna all’affermazione che «in
Bruno ci è ancora l’ente estramondano o soprannaturale del
vecchio mondo, sebbene ridotto a minime proporzioni» (1972,
518). Tuttavia in un altro testo, a quello precedente, dedicato
all’etica del Nolano, Spaventa presenta il concetto bruniano di
«lavoro» come unità di pensiero e
«fatica», e in tal modo fondamento di una morale moderna
in quanto autonoma (B. Spaventa [1928, 125-156, qui 128, 144-148,
152 s.]).
[37] Cf 7,36 [Q 886 s.].
[38] Cf la lettera del 25/3/1929: «Un buon libro su Hegel
è anche quello del Croce, purché si ricordi, che in
esso Hegel e la filosofia hegeliana fanno un passo avanti e due
indietro: viene superata la metafisica, ma si ritorna indietro nella
quistione dei rapporti tra il pensiero e la realtà naturale e
storica» (1965, 266). Mentre si capisce che cosa sia il
“superamento dalla metafisica” hegeliana, meno chiaro risulta il
secondo punto. Forse Gramsci si riferisce alla capacità del
sistema hegeliano di pensare la storicità della coscienza,
cosa che Croce ‘supera’ nell’eternità delle quattro forme
dello spirito.
[39] Si noti che 8,128 («Scienza economica», su Ricardo
e Marx, nella sezione miscellanea) e 8,224 (su Croce, in AF III)
sono coevi: entrambi dell’aprile 1932. Il giudizio sul carattere
“teologico” dello storicismo crociano è mediato dalle
considerazioni sul suo carattere “utopistico” e, come tale, in
ultima istanza religioso. Cf 7,35 [Q 886], scritto tra il febbraio e
il novembre del 1931 (analizzerò questo testo nel cap. 7).
Inoltre 8,222 contiene un rinvio a 8,128, che dunque precede (come
ipotizzato in questa interpretazione), anche se di pochissimo,
8,224. Pertanto: è il fatto di aver finalmente individuato un
punto di riferimento per l’immanenza storicistica di Marx
nell’economia politica ricardiana, ciò che stimola Gramsci a
mettere a tema il carattere trascendente e teologico dell’idealismo
crociano. 8,224 è un primo approccio, che sensibilmente
riformula, proprio perché lo riferisce in modo inedito a
Croce, quanto era stato accennato in 8,204 [Q 1064]:
«Trascendenza, immanenza, storicismo assoluto. Significato e
importanza della storia della filosofia». Il tema torna in
8,235 [Q 1088]: «Oltre la serie “trascendenza, teologia,
speculazione – filosofia speculativa”, l’altra serie “trascendenza,
immanenza, storicismo speculativo – filosofia della praxis”. Sono da
rivedere e da criticare tutte le teorie storicistiche di carattere
speculativo»; il passo prosegue con il riferimento alla
necessità di un Anti-Croce. Nel successivo 8,237 Gramsci
torna a riflettere sul concetto di «“necessità” storica
[…] nel senso storico-concreto», e si appella all’idea,
derivata dal metodo economico ricardiano del “posto che”,
dell’«esistenza di una premessa efficiente, che sia diventata
operosa come una “credenza popolare” nella coscienza
collettiva» [Q 1089]. Nella seconda stesura di 8,235, infine,
il giudizio sull’idealismo è ancora piú duro:
«La “speculazione” (in senso idealistico) non ha introdotto
una trascendenza di nuovo tipo nella riforma filosofica
caratterizzata dalle concezioni immanentistiche?» [11,51; Q
1477].
[40] Cf il cap. seguente.
[41] Su questo testo cf infra, cap. 6. Si potrebbe dunque parlare,
con Gramsci, di una linea filosofica Machiavelli-Bruno-Ricardo-Marx
sotto il segno di un pensiero al contempo non trascendente e non
metafisico (e quindi immanente in un senso originale anche rispetto
all’immanentismo moderno).
[42] Su questo giudizio controverso cf la valutazione equilibrata di
R. Medici (1990, 190-201).
[43] Cf N. Badaloni (1988, 36-39).
[44] 8,199 risale infatti al febbraio del 1932.
[45] Si dovrebbe forse leggere «origini vichiane»? In
questo caso andrebbe inteso come un implicito rinvio alla menzione
che Marx fa di questo principio, in quanto metodo d’indagine
materialistico, nel Primo libro del Capitale (1962, 393n.; trad. it.
1974, 414n.). Ma forse Gramsci sta qui pensando alla tesi
spaventiana della «circolazione». In ogni modo, nel
testo C [11,54; Q 1482] quell’espressione scompare: «La
proposizione di G. B. Vico “verum ipsum factum” tanto discussa e
variamente interpretata […] e che il Croce svolge nel senso
idealistico che il conoscere sia un fare e che si conosce ciò
che si fa, in cui “fare” ha un particolare significato, tanto
particolare che poi significa niente altro che “conoscere”,
cioè si risolve in una tautologia (concezione che tuttavia
deve essere messa in relazione colla concezione propria della
filosofia della prassi)». In C il giudizio (negativo) non
verte direttamente sul principio vichiano, ma sulla sua
interpretazione speculativa da parte di Croce. È stato
infatti scritto, credo giustamente, che «il disinteresse di
Gramsci per la filosofia di G. B. Vico può dirsi solo
formale, in quanto, sostanzialmente, con l’accettare la concezione
del Labriola, Gramsci veniva ad assumere anche quella parte del
vichismo che era intervenuta nella formazione del Labriola
stesso» (Bertondini [1959, 173]). Entro questi termini si
può dire che concordi con questa tesi anche Ciliberto (1982),
che nelle «varianti vichiane» riconosce invece una presa
di distanza di Gramsci dall’intera «tradizione
italiana».
[46] Anche altrove (4,56; Q 504) Vico, sia pure giudicato portatore
– a differenza di Hegel – di una «pura speculazione
astratta», è nominato nel contesto di una
contrapposizione tra Croce (e Gentile) e Hegel (il passo è
citato infra, alla nota 102). Un’analisi accurata di 8,199 e delle
varianti rispetto al testo C (11,54) è in Ciliberto (1982,
289-291). Ivi, pp. 268-282, anche un’analisi di 4,56 e delle
varianti rispetto a 10,II,41.X.
[47] L. Piccioni (1983, 25).
[48] Cf Piccioni (1983, 19 s.), e N. De Domenico (1980, 130 s.).
[49] M. Barbera (1929) [NT 2641].
[50] Sull’interpretazione marxiana di Gentile cf G. Marramao (1971,
182-195), N. De Domenico (1980), A. Tosel (1991, 73-85). Dettagliata
ma tendenziosa è l’esposizione di A. Signorini (1966, 71-116;
in partic. 78-93), mentre Ugo Spirito (1954) riproduce come corretta
l’esegesi gentiliana delle Glosse (pp. 26-37), sottolineando (anche
contro le esplicite asserzioni di Gentile) come nella prassi
cosí riletta fosse «già un qualche germe
dell’atto puro» (p. 42).
[51] «Gegenstand» viene reso con «termine del
pensiero»; la frase «nicht aber als menschliche
sinnliche Tätigkeit, Praxis, nicht subjektiv» con
«e non già come attività sensitiva umana, come
prassi, e soggettivamente» (invece di: «non
soggettivamente»); all’espressione «gegenständliche
Tätigkeit», «attività oggettiva»,
Gentile appone la nota: «Cioè, come attività che
faccia, ponga, crei l’oggetto sensibile», ecc. (Gentile [1974,
68 s.]).
[52] Gentile (1974, 82). Su questo punto cf De Domenico (1980, 134
s.).
[53] Gentile (1974, 78).
[54] Gentile (1974, 86).
[55] Gentile (1974, 85).
[56] Nell’edizione Engels. L’edizione critica posteriore (1932)
ristabilí la lezione marxiana (che destituiva di senso
l’intero problema interpretativo) di «revolutionäre
Praxis». È ovvio peraltro che già
«umwälzende Praxis» avrebbe potuto (quindi dovuto)
essere tradotta correttamente. Infatti Ettore Ciccotti, nella sua
edizione del Ludovico Feuerbach (Roma, Mongini 1906, riprodotta nel
Vol. IV delle Opere di Marx, Engels e Lassalle [1922, IV, 41])
traduce con «pratica rivoluzionaria».
Si noti che Bucharin già nel 1931 era a conoscenza della
variante contenuta nel testo critico, e che Gramsci poté
leggere in inglese (ma diverso tempo dopo aver tradotto le Thesen)
questo passo: «revolutionäre Praxis di Marx,
umwälzende Praxis di Engels» (1977, 371). Ma non
rettificò la propria traduzione, che segue su questo punto la
traccia gentiliana: Gramsci traduce infatti «umwälzende
Praxis» con «rovesciamento della praxis». Si
potrebbe vedere qui un’influenza di Gentile, ma sia il complesso
della traduzione di Gramsci, sia il modo in cui usa l’espressione
«rovesciamento della praxis» nei Quaderni – come
sinonimo di rivoluzione – fanno piuttosto pensare a una deriva
linguistica riempita di un contenuto concettuale nuovo e
indipendente, nello spirito della restante interpretazione delle
Tesi.
[57] Gentile (1974, 69).
[58] Gentile (1974, 85).
[59] Ibid.
[60] Cf una stringente ricostruzione del ‘montaggio’ gentiliano in
quanto strategia espositiva nel saggio di De Domenico (1980).
[61] Questo giudizio, con valutazioni opposte, è in Spirito
(1954), e Tosel (1991, 81).
[62] Cf in questa direzione le rapide osservazioni di E. Garin
(1983, 225 e n.); e il confronto (parziale) condotto da Marramao
(1971, 204 s.).
[63] La si veda in Mondolfo (1968a, 10 s.).
[64] Mondolfo (1968a, 63).
[65] Mondolfo (1968a, 61).
[66] Cf le giuste osservazioni critiche di C. Luporini (1973, 1605
s.).
[67] Mondolfo (1968a, 61).
[68] Mondolfo (1968b, 94).
[69] Mondolfo (1968b, 94 s.).
[70] Mondolfo (1968c, 113).
[71] Mondolfo (1968d, 135).
[72] Nel 1933 Giuseppe Capograssi approfondirà criticamente
queste posizioni, negando che tra «prassi che rovescia»
e «prassi che si rovescia» sussista differenza alcuna,
in quanto per la prassi marxistica attività e mondo
coincidono, e il mondo «è attività e niente
altro» (1933, 92 s.). Il rivoluzionamento esterno non è
dunque che la faccia esteriore della rivoluzione
dell’«esperienza», rivoluzione che peraltro (a
differenza di quanto ritengono i russi) non «è opera
dell’intelligenza e del pensiero riflesso» ma, ben piú
in profondo, della «esperienza», della «azione
elementare» indisponibile a un controllo intellettuale (ivi,
p. 94; il riferimento al piano quinquennale è molto chiaro).
In questo modo si giungeva a una sorta di attualismo marxistico, che
rimane però egualmente estraneo a Gramsci.
[73] K. Marx (1919). Il testo delle Thesen riportato in questo libro
è quello di Engels. Il momento di entrata del volume è
ricavato dai contrassegni carcerari.
[74] Cf DQ 2384, 2392, e Francioni (1984, 141, 142, 59 s.).
[75] Cfr. NT 2644 per la datazione di 4,38. 4,37-4,38 delineano un
passaggio dal problema della praxis a quello del nesso
base-sovrastruttura, che è identico alla scelta compiuta da
Gramsci nell’avviare la traduzione, il cui ordine non corrisponde
infatti a quello del libro. Le Thesen (trad. a cc. 2r-3r) si trovano
a pp. 54-57, il Vorwort (trad. a cc. 3r-4r) è a pp. 43-46.
[76] Ad es. nella Tesi 9 Sinnlichkeit è tradotto con
«realtà», e deve trattarsi di una banale svista.
[77] È questa, d’altronde, la lettura gramsciana di Marx.
[78] In un testo coevo (autunno 1930) compare un uso molto simile
della Tesi 1 come critica definitiva delle false opposizioni tipiche
della filosofia tradizionale. In 5,39 [Q 572] Gramsci annota:
«È interessante un brano di Roberto Ardigò in
cui si dice che occorre lodare il Bergson per il suo volontarismo.
Ma che significa ciò? Non è una confessione
dell’impotenza della propria filosofia a spiegare il mondo, se
occorre rivolgersi a un sistema opposto per trovare l’elemento
necessario per la vita pratica? Questo punto di Ardigò […]
deve essere messo in rapporto con le Tesi su Feuerbach di Marx e
dimostra appunto di quanto Marx avesse superato la posizione
filosofica del materialismo volgare».
[79] In questo testo il riferimento è all’affermazione,
contenuta nell’Antidühring, secondo la quale (Gramsci cita a
memoria) «l’oggettività del mondo fisico è
dimostrata dalle ricerche successive degli scienziati».
Gramsci commenta: «Io penso che […] Engels voglia affermare il
caso tipico in cui si stabilisce il processo unitario del reale,
cioè attraverso l’attività pratica, che è la
mediazione dialettica tra l’uomo e la natura, cioè la cellula
“storica” elementare» [Q 473]. Il testo esatto è:
«L’unità reale del mondo consiste nella sua
materialità, e questa è dimostrata non da alcune frasi
cabalistiche, ma da uno sviluppo lungo e laborioso della filosofia e
delle scienze naturali» (1985, 48). Piú tardi (in
11,17) la frase è citata letteralmente: «l’unità
del mondo consiste nella sua materialità dimostrata… dal
lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze
naturali» [Q 1415]; ma anche in questo caso (come supra, in
nota 32) c’è una discrepanza tra la citazione gramsciana,
fedele all’originale (che non risulta egli abbia avuto a Turi) e la
traduzione di Lombardi Pignatari cit.: cf Marx-Engels-Lassalle
(1922, VIII, 38): «La reale unità del mondo consiste
nella sua materialità […] dimostrata […] da una lunga e
duratura evoluzione della filosofia e della scienza naturale».
[80] Nella versione C di 4,37 la filosofia della praxis viene
definita, con variante instaurativa-sostitutiva: «Filosofia
dell’atto (prassi, svolgimento) ma non dell’atto “puro”,
bensì proprio dell’atto “impuro”, reale nel senso più
profano e mondano della parola» [11,64; Q 1492].
«Mondano» rinvia evidentemente al «carattere
terreno» della Tesi 2 nella traduzione di Gramsci, e alla
«terrestrità assoluta» di 10,II,31 [Q 1270] e di
11,27 [Q 1437].
[81] Tesi 6. Darò sempre il testo nella traduzione di Gramsci
[Q 2357].
[82] Tesi 6 [Q 2357].
[83] Cf su questo punto F. Valentini (1966, 125 s.).
[84] Ha ben scritto Nicola Badaloni (1988, 36) che in Gramsci
«la soggettività è qualcosa di diverso da quella
dell’idealismo perché l’uomo è traversato dai
problemi, reagisce su di essi, ma non li fonda in modo
immediato». Sul confronto di Gramsci con Gentile attorno alla
definizione della praxis si vedano (nella stessa direzione di
Badaloni) D. Losurdo (1990) e A. Tosel (1991, 114-121).
[85] Tesi 3 [Q 2356].
[86] Gramsci traduce la problematica della «cosa in
sé» in quella della «invenzione»,
cioè dell’imposizione pratica di nuove verità nel
mondo della cultura, cioè nell’ideologia (10,II,42 [Q 1328
s.]: «La conoscenza filosofica come atto pratico, di
volontà»). La sua riflessione sul «noumeno»
kantiano è comunque insistita e non univoca: cf 10,II,40 [Q
1290 s.], 10,II,46 [Q 1333], 11,30 [Q 1442 s.].
[87] Probabilmente l’obiezione a Lukács in 4,43 [Q 469] va
letta alla luce del pericolo di ricadere nel «dualismo»
se non si fissa nella praxis quell’unità concreta di uomo e
natura che è la “storia”. Ha ben scritto Cesare Luporini
(1958, 457) che Gramsci «non pensa neppur lontanamente a
negare l’esistenza» della «unità (o
comunità) biologica dell’uomo […] bensí la sua
incidenza rilevante nella storia umana».
[88] Cf anche 4,11 [Q 433]: «Marx è essenzialmente uno
“storicista” ecc.», e la variante instaurativa nel testo C
11,27 [Q 1437]: «La filosofia della praxis è lo
“storicismo” assoluto, la mondanizzazione e terrestrità
assoluta del pensiero, un umanesimo assoluto della storia».
[89] «[…] kurz, ideologischen Formen, worin sich die Menschen
dieses Konfiktes bewußt werden und ihn ausfechten» (Marx
[1964, 9]) viene reso con: «in una parola: le forme
ideologiche, nel cui terreno gli uomini diventano consapevoli di
questo conflitto e lo risolvono» [Q 2359]; dove il termine
«terreno», assente nell’originale, conferisce alle
superstrutture un’autonomia funzionale e una consistenza che non
hanno nel testo di Marx. Inoltre rendere «ausfechten»
con «risolvere» non è sbagliato (Labriola aveva
tradotto con «compiere» [1973a, 500]), ma è una
forte sottolineatura del carattere “realizzante” (cioè
conoscitivo) delle ideologie.
[90] Cf N. Badaloni (1977, 22-24). Sul modo in cui Gramsci legge (e
“riscrive”) la «Prefazione» cf anche le tesi, non tutte
condivisibili, di L. Paggi (1984b, 462-464).
[91] «Il materialismo storico» («Prefazione»
del 1859) nella traduzione di Gramsci [Q 2359].
[92] «Il materialismo storico» [Q 2358].
[93] «Il materialismo storico» [Q 2359].
[94] Da questo punto di vista è importante 8,207 (che va
accostato al precedente 8,206 e a 8,211, entrambi sul termine
“materialismo”). In 8,207 [Q 1065] Gramsci si sofferma criticamente
sulle due affermazioni della «Prefazione» relative alla
«anatomia» della società civile e al fatto che
non si può giudicare un uomo da ciò che egli pensa di
sé stesso, vedendo in entrambe delle metafore da
relativizzare nella consapevolezza della loro origine storica. Si
noti che entrambe queste «metafore» si riferiscono alla
possibilità di un approccio scientifico alla realtà
storico-sociale. Questa valutazione critica è approfondita
nella seconda stesura [11,50; Q 1473-1475].
[95] Sulla vicinanza alla pratica come tratto caratterizzante il
pensiero di Machiavelli ha insistito in modo convincente Louis
Althusser (1999, 33-36).
[96] Individuando in Machiavelli un fondatore del concetto di
immanenza intesa come autosufficienza del mondo terreno e umano,
Gramsci obbedisce con tutta evidenza a suggestioni desanctisiane. Cf
F. De sanctis (1983, 594, 598, 602-604, 606 s., 512, 634, 636 e
sopratutto 638): «Il machiavellismo, in ciò che ha di
assoluto o di sostanziale, è l’uomo considerato come un
essere autonomo e bastante a sé stesso, che ha nella sua
natura i sui fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della
sua grandezza e della sua decadenza, come uomo e come
società». Su Gramsci e De Sanctis cf, tra i tanti
titoli possibili, i lucidi interventi di V. Gerratana (1952) e C.
Muscetta (1991); mentre sul Machiavelli di De Sanctis si veda G.
Procacci (1995, 414-419).
[97] È infatti datato da Francioni (1984) al maggio 1930.
[98] Cf ancora il De Sanctis (1983, 635): «Anche oggi, quando
uno straniero vuol dire un complimento all’Italia, la chiama patria
di Dante e di Savonarola, e tace di Machiavelli. Noi stessi non
osiamo chiamarci figli di Machiavelli».
[99] Cf le osservazioni a questo proposito di Medici (1990,
188-190), che nota come Gramsci riattinga il Machiavelli
desanctisiano contro la riduzione crociana della politica a
«distinto». Si veda anche anche L. Paggi (1984a, 391
[«La tesi del Machiavelli scopritore dell’autonomia della
scienza politica rappresentava in realtà una ritraduzione
speculativa dei risultati piú importanti raggiunti dalla
critica desanctisiana»], 392 [«Della definizione
crociana della politica come “scienza autonoma” Gramsci
accetterà sempre la componente laica e progressista, di lotta
contro ogni forma ritornante di gesuitismo»], 410-413, 421
s.).
[100] Si potrebbe notare con Gramsci che, se Machiavelli circoscrive
ed àncora la riflessione all’orizzonte della praxis,
ridefinisce anche, almeno implicitamente e potenzialmente, il
concetto di uomo sulla stessa base. E in effetti le considerazioni
contenute nei Quaderni sulla storicità del pensiero del
Segretario (sul suo esprimere le esigenze dell’epoca e dell’intera
Europa, sul suo «giacobinismo precoce» [8,21; Q 953])
vanno in questa direzione.
[101] Datato da Francioni (1984) al novembre 1930.
[102] Per questa ragione Gramsci annota subito sotto: «Vedere
le obiezioni non verbalistiche della scuola del Gentile al Croce;
risalire allo Hegel: è “completamente” esatta la riforma
dello hegelismo compiuta da Croce-Gentile? Non hanno essi reso
piú “astratto” lo Hegel? non ne hanno tagliato via la parte
piú realistica, piú storicistica? e non è
proprio da questa parte invece che è nato essenzialmente il
marxismo?» [4,56; Q 504]. Parlando di «parte […]
piú storicistica» di Hegel Gramsci allude evidentemente
al suo tentativo di andare oltre idealismo e materialismo (cf 4,11).
Le «obiezioni non verbalistiche della scuola del Gentile al
Croce» sono quelle formulate da Arnaldo Volpicelli
(1927-1928), che infatti adopera l’espressione «dialettica dei
distinti» (da qui la trae Gramsci: essa infatti non compare
mai in Croce), e fa notare appunto il dissidio tra istanza
dialettica della contraddizione e istanza positivistica della
distinzione.
[103] Esso è peraltro contemporaneo al già ricordato
8,198, intitolato «Filosofia della Praxis», in cui,
citando Croce, si discute la legittimità di questa
denominazione sulla base di Antonio Labriola.
[104] Tesi 1 [Q 2355].
[105] Naturalmente quando si parla di “incapacità” s’intende
un’insufficienza strutturale del pensiero crociano, legata alla sua
natura speculativa e «teologica» (si vedano i già
citati 8,224/10,I,8), e non un’inadeguatezza soggettiva. Ma
s’intende, allo stesso tempo, la funzionalità, anch’essa
strutturale, di speculazione e configurazione di una strategia
neo-egemonica in chiave di «rivoluzione passiva» (su cui
si veda ora P. Voza [2001]). Essa è quindi una posizione
nient’affatto caratterizzata da un atteggiamento meramente negativo.
Questa complessa ambivalenza del pensiero crociano emerge
chiaramente dal modo in cui viene introdotto in 7,35.
[106] Questa frase si trova nello scritto Il mistero del sacrificio,
o: L’uomo è ciò che mangia, del 1862. Nella
letteratura divulgativa socialista dell’epoca era spesso citata.
[107] G. Gentile (1974, 68).
[108] Sottolinea questo punto L. Sichirollo (1958). E si veda, per
il modo in cui Gramsci elabora il concetto di dialettica, M.
Martelli (1980), e ora G. Prestipino (2001).
[109] Dico “organico”, perché in qualche modo il nesso
c’è già al principio di AF I, ma nella forma di un
compito da svolgere (si ricordi 4,37: «Questo è il
problema: che può essere risolto con tutto l’insieme della
dottrina filosofica del valore delle superstrutture
ideologiche»).
[110] Non credo sia un caso che in 7,37 [Q 887], che lo segue da
vicino, Gramsci annoti: «Cercare dove e in quali sensi Goethe
ha affermato: “Come può un uomo raggiungere l’autocoscienza?
Con la contemplazione? Certamente no, ma con l’azione”».
[111] In questa direzione interpretativa si muovono le ricostruzioni
di Finelli (1999, 189 [«ridefinizione […] del criterio del
vero e del falso»] e 194), e di A. Tosel (1999, 143):
«Ma allora quale può essere il criterio di una tale
verità, se non si vuole rinunciare alla distinzione
vero/falso o identificarla con il criterio relativista e pragmatista
del solo successo? […] Il vero storico ha sempre la dimensione di
una potenza costitutiva di una soggettività
collettiva». E cf anche p. 144.
[112] Si legga infatti anche 10,II,2 (testo B): «La
proposizione che il proletariato tedesco è l’erede della
filosofia classica tedesca contiene appunto l’identità tra
storia e filosofia; cosí la proposizione che i filosofi hanno
finora solo spiegato il mondo e che ormai si tratta di
trasformarlo» [Q 1241].
[113] Cf 6,112 [Q 782]: «Passato e presente. L’utopia
crociana. […] Il Croce crede di fare della “scienza pura”, della
pura “storia”, della pura “filosofia”, ma in realtà fa
dell’“ideologia”, offre strumenti pratici di azione a determinati
gruppi politici; poi si maraviglia che essi non siano stati
“compresi” come “scienza pura” ma “distolti” dal loro fine proprio
che era puramente scientifico». Questo testo è stato
scritto tra il marzo e l’agosto del 1931, quindi è quasi
coevo a 7,35 (febbraio-novembre). Cf anche 10,I,10 [Q 1231]: Croce
«crede di trattare una filosofia e tratta una
ideologia», mostrando nei fatti come «neppure dal suo
punto di vista» sia possibile distinguere filosofia da
ideologia, cioè «dimostrando praticamente che la
distinzione è impossibile, che non si tratta di due
categorie, ma di una stessa categoria storica e che la distinzione
è solo di grado».
[114] Questo passo è una variante instaurativa.
[115] Anche il concetto di religione viene assorbito in questa nuova
impostazione. Cf 10,II,17 (testo B): «Cosa occorra intendere
per filosofia, per filosofia di un’epoca storica, e quale sia
l’importanza e il significato delle filosofie dei filosofi in ognuna
di tali epoche storiche. Assunta la definizione che B. Croce
dà della religione, cioè di una concezione del mondo
che sia diventata norma di vita, poiché norma di vita non si
intende in senso libresco ma attuata nella vita pratica, la maggior
parte degli uomini sono filosofi in quanto operano praticamente e
nel loro pratico operare (nelle linee direttive della loro condotta)
è contenuta implicitamente una concezione del mondo, una
filosofia. La storia della filosofia come si intende comunemente,
cioè la storia delle filosofie dei filosofi, è la
storia dei tentativi e delle iniziative ideologiche di una
determinata classe di persone per mutare, correggere, perfezionare
le concezioni del mondo esistenti in ogni determinata epoca e per
mutare quindi le conformi e relative norme di condotta, ossia per
mutare la attività pratica nel suo complesso» ecc. [Q
1255; cors. mio].