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Architetto, letterato e poeta italiano (Genova 1404-Roma 1472). Figlio naturale di Lorenzo Benedetto, che, esiliato da Firenze, si era trasferito a Venezia, Alberti studiò a Padova (con Gasparino Barzizza) e a Bologna, dove nel 1428 ottenne la laurea in diritto canonico; durante quel periodo estese la sua conoscenza delle scienze fisiche e matematiche mentre, approfonditi gli studi umanistici, scriveva le prime opere di argomento letterario e filosofico-morale. Dopo essere stato a Firenze, a Bologna e a Ferrara, ottenne nel 1432 l'ufficio di abbreviatore apostolico a Roma.
Nel 1441 a Firenze aveva promosso un pubblico concorso di poesia italiana, il cosiddetto certame coronario, ed egli stesso partecipò alla gara presentando un dialogo sull'amicizia (che diventa il IV libro del trattato Della famiglia).
Grande creatore di forme, eccellente scrittore latino e tra i migliori prosatori del Quattrocento in lingua italiana, la sua ricca produzione letteraria è una lunga riflessione sulla virtù, sulla fortuna e sulla ricerca dell'equilibrio e della misura in una direzione fondamentalmente sociale e pratica. Da qui l'originalità del suo umanesimo sempre teso al concreto, cui sottende l'esperienza dolorosa della sua giovinezza e un sofferto e vissuto concetto della capacità dell'uomo e dei doveri umani. È questa una dimensione che probabilmente sottrae Alberti all'immagine ottimistica e olimpica dell'uomo universale del Rinascimento, per conferirgli un rilievo drammatico e severo.
Il letterato
La dolorosa vitalità e l'amarezza di Alberti, riscontrabili nella mordacità della satira (entro l'impianto del dialogo lucianeo), sono presenti soprattutto nelle opere in latino: il Philodoxeos (1424), una commedia giovanile di imitazione terenziana; il trattato De commodis litterarum atque incommodis, dove la letteratura è posta ancora solo come tregua e fuga di fronte all'urgere delle oppressioni materiali; i 17 dialoghi lucianei delle bizzarre Intercoenales (Intercenali); e il Momus o De principe, romanzo allegorico-satirico dall'inventiva vivace, scritto intorno al 1443, che tuttavia lascia aperto lo spiraglio a una palingenesi morale.
Di tale dolorosa vitalità e amarezza è già spia il misoginismo delle opere giovanili in volgare: il dialogo Deifira, sul tema dei contrasti d'amore, e il trattato Ecatomfilea, una specie di ars amandi.
Complessivamente è nei successivi scritti in volgare che va facendosi infine luce un ideale di virtù più conciliato e sciolto dal rigorismo stoicizzante e, a parte il Teogenio (1434 o 1435), che è opera ancora giovanile, improntata a un aspro disprezzo dei beni terreni, i quattro libri Della famiglia (1437-41), il trattato Della tranquillità dell'animo (1442) e i tre libri De iciarchia (1470; Del governo della casa), che discorrono rispettivamente dell'educazione dei figli e dell'economia domestica, del modo di far fronte alle pene della vita e del governo della famiglia e dello Stato, si aprono a un sereno equilibrio.
La ricerca dell'equilibrio e della misura si conclude così positivamente, incentrata nell'esaltazione del vincolo familiare e nella proposta della cultura non più come rifugio e separata salvezza, ma come libera e creatrice indagine e, insieme, strumento di socialità.
Intorno a questo tema Alberti sviluppa le sue concezioni pedagogiche. Con lui il pensiero educativo si libera definitivamente di ogni residuo medievale e, accanto agli studi, egli esalta un'educazione virile in cui l'attività e l'esercizio fisico abbiano larga parte. In accordo con la concezione rinascimentale, Alberti sostiene che l'uomo è responsabile del suo destino.
Alla luce di altri testi tecnici e teorici, è possibile allora cogliere una perfetta saldatura tra l'ordine morale e quello ricercato, mediante le matematiche, nell'opera dell'architetto: essi non sono altro che l'analogo della stessa armonia naturale che l'arte deve imitare e l'uomo realizzare attraverso la misura della sua azione. L'architetto L'Alberti giunse tardi all'architettura, come conseguenza della sua preparazione umanistica, filosofica e matematica. L'interesse per l'antichità classica lo portò, durante il soggiorno a Roma al servizio di B. Molin, a misurare, con strumenti da lui stesso creati, i monumenti antichi che poi descrisse nella Descriptio urbis Romae (1434), il primo sistematico tentativo di messa a punto dell'aspetto di Roma antica. Riscontrando nelle antiche costruzioni la proporzionalità fra le parti e il tutto, arrivò a concepire l'architettura come progettazione, arte liberale quindi e non arte meccanica, poiché richiedeva composizione proporzionale e modulare per giungere a un'armonia razionale.
Questo rigore di pensiero gli consentì, arrivando a Firenze nel 1434, di comprendere il rinnovamento dell'arte fiorentina di cui riconobbe i massimi esponenti in Brunelleschi, Donatello e Masaccio. Descrisse per la prima volta il metodo prospettico nel suo De pictura (1435), dedicato a Brunelleschi, spiegando la costruzione geometrica della piramide visiva costruita con punto centrico e punto di distanza.
La sua vasta cultura (si occupò anche di scultura, cui avrebbe dedicato nel 1464 il breve trattato De Statua) lo rese ricercato presso le corti del Quattrocento: il raffinato letterato compì così le sue prime opere di architettura. A Ferrara progettò l'Arco del Cavallo (su cui poggia la statua equestre di Nicolò III d'Este) e il campanile della cattedrale. Di nuovo a Roma con Niccolò V, il papa convinto della conciliazione fra umanesimo e cristianesimo, fu incaricato del riordino urbanistico della città e del restauro di S. Maria Maggiore, S. Stefano Rotondo, S. Teodoro.
A Roma scrisse il trattato in 10 libri De re aedificatoria (1452), un Vitruvio moderno, in cui si occupa dell'aspetto urbanistico della città del Quattrocento, dei suoi edifici e della loro tipologia e distribuzione, degli ordini e dei materiali da costruzione. La città, armonizzando forme e funzioni, deve rispecchiare in sé l'armonia dell'universo.
Nel frattempo (1450) per Sigismondo Malatesta progettò il rivestimento con nuove strutture della chiesa gotica di S. Francesco a Rimini, che divenne il Tempio Malatestiano , trionfale sepoltura di Sigismondo, di Isotta e della loro corte: ispirandosi alla classicità, Alberti impostò sui fianchi un monumentale ordine di pilastri e archi, scanditi da netti profili e ancorati a un compatto piedistallo, finemente decorato; in facciata fuse tale motivo con quello pure romano dell'arco trionfale a tre fornici ornati da semicolonne. Non fu realizzata la parte terminale della chiesa, prevista come grande rotonda sormontata da un'enorme cupola.
Alberti ricevette incarichi importanti dalla famiglia fiorentina dei Rucellai: il completamento della facciata di S. Maria Novella e il palazzo Rucellai. In quest'ultimo la facciata si presenta come un piano suddiviso orizzontalmente da tre marcapiani e verticalmente da lesene a ordini sovrapposti dorico, ionico e corinzio, inquadranti una serie regolare di bifore. Gli ordini sovrapposti secondo la sintassi classica non hanno nessuna funzione portante, ma solo funzione di spartizione armonica con finalità prospettiche.
Anche nella facciata di S. Maria Novella Alberti risolve l'insieme con una proporzione geometrica: non rinnegando la parte medievale, già costruita, riprende il motivo tradizionale della tarsia bianca e verde e lo regolarizza impostando la sua spartizione sul modulo geometrico della forma quadrata; in un quadrato è anche iscrivibile la facciata dell'edificio.
Dal 1459 la sua attività si svolse soprattutto a Mantova, con la chiesa a pianta centrale di S. Sebastiano (iniziata nel 1460) e quella a pianta longitudinale di S. Andrea (iniziata nel 1470). Per S. Sebastiano Alberti aveva progettato, su un alto basamento a gradini che realizzava il suo ideale di edificio sacro isolato, un prospetto a muro pieno con cinque porte e cinque lesene giganti culminanti in un timpano triangolare. Successivamente eliminò la seconda e quinta lesena valorizzando la presenza del “muro” come massa, continuata poi nel portico e nell'interno dell'edificio. Riprese tale soluzione in S. Andrea, dove il prospetto è spartito da quattro lesene giganti, lasciando aperto al centro il profondo vuoto d'ingresso coperto da volta a botte. Internamente il vano longitudinale termina con un richiamo alla centralità nella perfetta equivalenza dei due bracci del transetto e di quello del presbiterio. Dello spazio delle tre navate Alberti enfatizza quello centrale, coprendolo con un'ampia volta a botte cassettonata, che scarica su un robusto partito di muro compatto aperto a intervalli ritmici negli alti arconi delle cappelle, che sostituiscono le navate laterali Se anche, come vuole Sanpaolesi, Brunelleschi l'aveva preceduto, in S. Spirito, nel motivo della volta a botte, la soluzione albertiana è totalmente diversa ed esprime una nuova interpretazione della classicità, che farà ampiamente sentire il suo influsso sull'architettura del Rinascimento.
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    di Cecil Grayson
    
    Nacque a Genova il 14 febbr. 1404, durante l'esilio degli Alberti da
    Firenze, secondo figlio naturale di Lorenzo di Benedetto Alberti e
    di Bianca Fieschi. Trasferitasi la famiglia a Venezia, dove Lorenzo
    esercitò il commercio, Battista (il Passerini crede che il
    nome di Leone sia stato assunto più tardi nell'Accademia
    Pomponiana di Roma) vi visse in un primo tempo, passando, dopo il
    1416, a Padova. Dei suoi primi studi si sa pochissimo: forse dal
    1415 fino al 1418 frequentò la scuola padovana dell'umanista
    Gasparino Barzizza, ove conobbe Francesco Barbaro, il Filelfo e il
    Panormita. Sulla testimonianza di Lapo di Castiglionchio si
    può credere che l'A. allora studiò non solo il latino,
    ma anche (probabilmente col Filelfo) il greco. Era già
    passato allo Studio di Bologna per conseguire la laurea in diritto
    canonico, quando gli morì il padre a Padova, il 28 maggio
    1421. Subì poi, tra contrasti familiari, causati da
    contestazioni patrimoniali ed ereditarie, un periodo di amarezze --
    e ne cogliamo l'eco addolorata in una breve intercenale dell'A.
    (Pupillus)-- e di malattie (tra il 1424 ed il 1428), che segnarono
    di un'impronta pessimistica la sua produzione giovanile. Nel 1424
    finì l'abbozzo di una commedia, Philodoxeos. Essa gli fu sottratta dall'amico Panormita, che la mise in
    circolazione in copie malfatte.
    
    Vedendo che così piaceva, l'A. fece credere che fosse opera
    di un antico commediografo, Lepido, da lui rimessa in luce da un
    vecchio codice: solo dieci anni più tardi, purgata la
    commedia delle mende delle varie trascrizioni frettolose e delle
    oscenità aggiunte da altri, la dichiarò opera sua,
    dedicandola a Leonello d'Este. Con questa rivelazione scomparve in
    Italia l'entusiasmo che aveva suscitato come opera antica; essa fu
    stampata a Salamanca nel 1500 sotto il nome dell'A., mentre la prima
    edizione italiana di Aldo Manuzio (1588) l'attribuiva sempre a
    Lepido comico. Pure avendo difetti nel dialogo e nella costruzione,
    questa commedia dell'amore di un modesto e virtuoso giovane
    trionfante sopra gli intrighi del rivale ricco e temerario, offre
    "un primo accenno al concetto dell'uomo padrone della propria sorte,
    di cui l'A. si farà assertore nelle sue scritture" (Rossi,
    Quattrocento, p. 137).
    
    Abbandonato momentaneamente lo studio del diritto, si diede a quello
    della fisica e della matematica, come discipline meno faticose per
    la memoria, rivelando quegli interessi che più tardi si
    svilupparono negli scritti scientifici e sull'architettura.
    Conseguì tuttavia, a Bologna, nel 1428 la laurea in diritto
    canonico (dedicando la Philodoxeos a Leonello, si dice "aureo anulo
    et flamine donatus ": Bonucci, Opere volgari, I, p. CXXIV).
    
    Non era più a Bologna -- ma non si può dire se fosse
    rientrato a Firenze, dove era stato tolto nel '28 il bando agli
    Alberti -- quando scrisse, dedicandola al fratello Carlo, l'opera De
    Commodis literarurn atque incommodis, eco delle condizioni poco
    tranquille e ancor meno adatte per gli studi liberali in quella
    città.
    
    In questo scritto l'A. rivolge gravi accuse contro una
    società intenta solo al guadagno ed agli studi professionali,
    e allo stesso tempo tesse -- su di un modulo tipicamente umanistico
    -- le lodi dell'ardua via degli studi liberali, che sebbene fruttino
    a chi li segue non guadagno, ma disprezzo, pur lo ricompensano con
    la sapienza, la virtù e forse anche la immortalità.
    
    Alcuni biografi (Mancini, Michel) vogliono che l'A. passasse, dopo
    la laurea, al servizio del cardinale Aleman, legato in Bologna, e
    poi del cardinale Albergati, che poté conoscere attraverso
    l'amico Tommaso da Sarzana, segretario dell'Albergati; avrebbe
    seguito poi l'Albergati attraverso la Francia e la Germania, nella
    legazione affidatagli da Martino V per la pace tra Francia e
    Inghilterra, tornando per Basilea nel 1432. L'ipotesi, che si fonda,
    soprattutto, su accenni fatti dall'A. venti anni più tardi
    nel suo De re aedificatoria a fenomeni e costumanze di quei paesi
    come se li avesse visti coi propri occhi, colma una lacuna nella
    biografia dell'A. tra il '28 e il '32. Ma l'A. non è nominato
    nel seguito dell'Albergati alla pace di Arras (vedi A. de la
    Taverne, Le Journal de la Paix d'Arras, Arras, 1936). Né fu
    presente al concilio di Basilea, né la Vita anonima parla di
    tali viaggi: questi non hanno altri echi nelle sue opere,
    così che la formazione dell'A. può dirsi tutta
    italiana.
    
    La Vita invece attribuisce allo stesso periodo del De Commodis certe
    opere volgari di cui non si sanno le date precise: "Ephoebiam, De
    Religione, Deiphiram,et pleraque huiusmodi soluta oratione, tum et
    versu, Elegias, Eclogasque, atque cantiones et eiuscemodi
    amatoria...". Nei due codd. che la contengono (Ricc. 2608 e Laur.
    Red. 54) l'Ephoebia va sotto il nome del fratello Carlo, a cui la
    attribuisce pure Battista in una frase del De Commodis ("ut tuo in
    Ephoebis utar dicto"); l'equivoco della Vita nasce, se non da
    ignoranza, dal fatto che l'Ephoebia è una libera traduzione
    dell'Amator latino di Battista composto verso la fine del periodo
    bolognese, nel quale discute la natura dell'amore e i rapporti tra
    passione e libertà, per concludere: "vitate hoc malum,
    studiosi, vitate". 
Sarà forse da attribuire allo stesso tempo, per affinità di tema, la libera traduzione della famosa Dissuasio Valerii ad Ruffinum ne uxorem ducat di Walter Map (cfr. Lettere Italiane, VII [1955], pp. 3-13). Il De Religione è probabilmente la stessa Religio delle Intercenales (di cui più avanti).
Sullo stesso tema amatorio dell'Amator, e forse fondate su esperienze personali, sono Deifira ed Ecatonfilea, dialoghi volgari che ebbero poi presso la stampa fortuna migliore delle opere volgari maggiori dell'Alberti.
Nella Deifira ossia "del fuggire il mal principiato amore ", Pallimacro consola l'amico Filarco, disperato per la poca fede della sua Deifira, e gli dà consigli sul modo di amare, se amar si deve, conservando la libertà intera e l'affezione senza sospetti.
Nell'Ecatonfilea simili consigli, ma senza gli sfoghi di passione che si incontrano nella Deifira, sono dati da una donna provetta nell'amore alle sue giovani ascoltatrici per insegnare loro come si ottiene e si conserva l'affetto dell'amante: l'opera corrisponderebbe, in certo senso, all'Ars amatoria; la Deifira ai Remedia amoris.
Queste opere, insieme con altre simili stese intorno
      al 1436-1437 (Uxoria, Lettera a P. Codagnello, Sofrona), dimostrano
      il costante interesse del giovane A. per il problema delle passioni
      amorose, considerato precipuamente dal punto di vista di un
      vagheggiato ideale di tranquillità, indispensabile all'uomo
      di lettere. Nello stesso ambito sentimentale cadono le poche poesie
      amorose dell'A.: due elegie in terzine, Agiletta e Mirzia, alcuni
      sonetti, un madrigale, una ballata, una frottola, e tre o quattro
      sestine; più due egloghe, Corimbo e Tyrsis, di cui la seconda
      e più notevole mette l'A. all'avanguardia della poesia
      bucolica volgare del '400.
      
      Quali che fossero le vicende dell'A. tra il 1428 e il 1432, egli si
      trovò in questo anno a Roma (e forse già dal '31) come
      segretario di Biagio Molin, patriarca di Grado e reggente della
      cancelleria pontificia, che lo fece nominare anche abbreviatore
      apostolico. Già prima dell'ottobre 1432 Eugenio IV aveva
      annullato con bolla l'impedimento che vietava all'A., figlio
      illegittimo, di assumere gli ordini sacri e di godere i benefici
      ecclesiastici. L'A. divenne così priore di S. Martino a
      Gangalandi, diocesi di Firenze, e, più tardi (1448), pievano
      del Borgo S. Lorenzo nel Mugello, ma è incerto se giungesse
      al sacerdozio. Questi impieghi romani e benefici ecclesiastici
      misero fine alle strettezze economiche dell'A. e lo introdussero a
  Roma in una illustre compagnia di umanisti della corte papale. 
Uno dei primi scritti di questo periodo fu la Vita S. Potiti (1433), che doveva essere la prima di una serie di vite di santi e martiri, intrapresa su invito del Molin, a cui essa è dedicata; ma non ne scrisse altre, in parte, forse, a causa delle preoccupazioni storiche per la materia leggendaria, espresse in una lettera all'amico Leonardo Dati, a cui mandò copia della Vita S. Potiti, che rimane un singolare documento dell'incontro tra leggende ascetiche medievali e sensibilità umanistica.
Durante questo
      soggiorno romano l'A. cominciò a sviluppare, con lo studio
      delle rovine dell'antica città, il suo interesse per
      l'architettura, e fece quelle misure che formano gran parte della
      sua breve Descriptio urbis Romae. In questi stessi anni l'A. fece
      certi sperimenti ottici che stupivano gli amici, fatti con specchi e
      con la camera obscura, di cui l'invenzione è stata attribuita
      all'Alberti. Egli stesso vi accenna come "miracoli della pittura"
      (Pittura, ed. Mallè, p 64), ma la Vita anonima (Bonucci, I,
      pp. CII-CIV) ne parla più esplicitamente come di
      dimostrazioni di stereoscopia.
      
      Fu in quegli anni romani che l'A., secondo la Vita anonima,
      abbozzò i primi tre libri del suo magnum opus volgare, Della
      Famiglia, stesi in novanta giorni nel trentesimo anno della sua
      vita, cioè tra il '33 e il '34 e prima della partenza da Roma
      col seguito di Eugenio IV, che nel giugno del '34 fuggì dalla
      città minacciata all'interno dai Colonnesi e dal di fuori dal
      Fortebracci, per ridursi a Firenze.
      
      I libri della Famiglia riuscirono "inelimatos et asperos neque
      usquequaque etruscos ", per la sua poca familiarità colla
      lingua materna; li rivide poi negli anni fiorentini, aggiungendovi,
      forse intorno al 1437 (le date estreme sono il 1435 e il 1444), la
      dedica del III libro al suo parente Francesco d'Alto-bianco Alberti,
      e il IV libro, forse composto intorno al 1440 ("post annos tres quam
    primos ediderat") e donato nel 1441 al Comune di Firenze. 
L'opera è in forma di dialoghi, che si fingono avvenuti a Padova nel 1421, poco prima della morte di Lorenzo Alberti, tra diversi parenti di Battista, Adovardo, Ricciardo, Lionardo, Giannozzo, Carlo e Lorenzo stesso. Si discute nel I libro dell'educazione dei figli, nel II libro dell'amore e delle cose che rendono e mantengono felice una famiglia, nel III libro della masserizia, e nel IV libro dell'amicizia, soprattutto dei principi. La parte più vivace è contenuta nel III libro, in cui Giannozzo, vecchio carico di esperienza più che di lettere, dà sensati consigli sull'economia. A causa del suo stile spigliato e dell'argomento pratico, questo III libro ebbe una fortuna particolare tra la borghesia fiorentina del '400; rimaneggiato da altri durante la vita dell'autore, e arricchito di nuovi interlocutori della famiglia Pandolfini, venne poi considerato e stampato, dal 1734 in poi, come opera di Agnolo Pandolfini, al quale fu tolto, dopo una lunga polemica, alla fine dell'Ottocento. Ma tutti i libri della Famiglia sono un notevole esempio di prosa volgare, scritta in un'epoca in cui i diritti del volgare di fronte al latino erano ancora contestati tra gli umanisti.
La dedica del III libro a Fr.
      d'Altobianco echeggia infatti le dispute sul latino e il volgare di
      Roma avvenute a Firenze nel 1435 tra i segretari papali e ricordate
      da Flavio Biondo nel suo De locutione Romana, ed è una
      vigorosa difesa della "nostra oggi toscana", fondata soprattutto
      sulla sua utilità e sulle sue possibilità di sviluppo,
      se la vorranno adoperare i buoni scrittori. Esempio ne è l'A.
      con la sua prosa, nel tentativo di dare dignità al volgare
      coll'aiuto di elementi sintattici e lessicali del latino,
      così come nella materia stessa dell'opera fonde la sapienza
      degli antichi scrittori con la esperienza più recente degli
      Alberti. Manca qui il pessimismo del De Commodis; emerge invece dalla
      Famiglia -- specie dal proemio -- una fede luminosa nella
      virtù e nell'educazione, intesa non solo come studio delle
      lettere, ma come sviluppo totale delle potenzialità
      dell'individuo, senza esclusione di quelle attività pratiche
      che assicurano una moderata ricchezza. E la moderazione è la
      chiave della felicità, sia negli ,appetiti e nelle ambizioni,
      sia nelle spese. Nella Storia della "famiglia Alberta" del '300 l'A.
      vede un fulgente modello di antica sapienza e virtù moderna,
      non come oggetto di nostalgia, ma come esempio, da seguire per il
      presente e per il futuro.
      
      Tornato a Firenze nel 1434 nei giorni turbolenti che precedettero il
      richiamo dall'esilio di Cosimo de' Medici, fece (o rinnovò)
      amicizia con il Brunelleschi, con Donatello e con altri artisti, col
      Burchiello (con cui scambiò alcuni sonetti), con Vespasiano
      da Bisticci, con Marco Parenti e Piero di Cosimo de' Medici; si
      trovò in compagnia di Leonardo Bruni, Carlo Marsuppini,
      Poggio Bracciolini, Leonardo Dati, Giannozzo Manetti e altri famosi
      umanisti del tempo, nonché di poeti e letterati di lingua
      volgare, quale il parente Francesco d'Altobianco. Fu subito colpito
      dal rinnovamento artistico operatosi nella città e, forte
      degli studi ed esercizi già iniziati nel suo soggiorno
      romano, scrisse nel 1435 in latino, e poi tradusse in italiano
      dedicandolo al Brunelleschi, il suo importante opuscolo De
      Pictura, la cui versione latina fu dedicata, non si sa se prima o
      dopo la dedica di quella volgare al Brunelleschi, a Giovanni
      Francesco Gonzaga. Compose anche, forse intorno allo stesso tempo,
      gli Elementi di Pittura, prima in volgare; poi, con dedica a Teodoro
      Gaza, li tradusse in latino. Negli stessi anni, e forse prima del De
      Pictura, stese anche il breve trattato sulla scultura, De Statua.
      
      Nell'aprile del '36, l'A. accompagnò il papa a Bologna e
      anche qui rinnovò molte amicizie. Di questo periodo sono la
      lettera a P. Codagnello, lettore nello Studio bolognese, per
      dissuaderlo dall'amore (1437), il breve dialogo amatorio
      Sofrona, dedicato al nipote del cardinale Lucido Conti (già
      protettore dell'A.), per consolarlo della morte dello zio (1437), e
      un opuscolo latino De Iure,improvvisato in venti ore a richiesta
      dell'amico F. Coppini (30 sett. 1437), nel quale espone le norme che
    il buon giudice dovrebbe seguire nell'amministrare la giustizia. 
Ai primi di ottobre 1437 l'A. si recò a Perugia per assistere alla consacrazione di Alberto Alberti, governatore papale dell'Umbria, a vescovo di Camerino. La breve visita gli suggerì la composizione di un opuscolo latino, Pontifex, compiuto in quattro giorni a Bologna a metà ottobre 1437; tratta soprattutto delle alte virtù morali richieste per la grave responsabilità del vescovo e critica severamente i vizi e gli abusi degli ecclesiastici.
Scrisse poi in nove giorni
    (dicembre 1437) cento Apologi, brevi favole in latino; li
      dedicò all'amico ferrarese F. Marescalchi, probabilmente
      quando, nel gennaio 1438, seguì il papa a Ferrara, dove si
      riuniva il concilio delle Chiese romana e bizantina. Ivi
      rinnovò l'amicizia col principe Leonello d'Este, ma entro
      l'anno la peste rese la città poco adatta per il concilio,
      che si trasferì all'inizio del 1439 a Firenze. Fu forse
      allora che l'A. si ritirò per riposarsi "in villa fra le
      selve in ozio", donde mandò a Pier di Cosimo de Medici la
      redazione volgare della sua Uxoria, un'opera sul matrimonio, che
      esiste anche nella versione latina (cod. Pal. Panciatt. 123,
      Biblioteca Nazionale di Firenze, tuttora inedita) con dedica diversa
      a persona innominata. Appartiene, forse, allo stesso periodo anche
      l'opuscolo volgare (oppure estratto) intitolato Villa, lavoro
      didattico, scritto con stile sentenzioso e fondato su Esiodo e i
      "rei rusticae scriptores".
      
      L'A. tornò a dimorare a Firenze nel 1439 e vi rimase, a parte
      brevi visite altrove, fino al 1443. Un'opera volgare, Teogenio,
      è probabilmente da collocarsi in questi anni; fu scritta "per
      consolare se stessi nelle proprie avverse fortune" (lettera
      dedicatoria a Leonello d'Este, a cui la mandò nel 1441, per
      consolarlo della morte del padre), e nel suo cupo pessimismo pare
      riflettere non solo un rinnovarsi di difficoltà familiari (la
      Vita anonima parla perfino d'un attentato alla sua vita ispirato dai
      parenti), ma anche delusioni di carattere politico.
      
      L'A. si chiede se una repubblica riceva maggiori danni dalla
      prospera o dall'avversa fortuna, dalle difficoltà dei tempi o
      dalla malvagità degli uomini. L'interlocutore Tichipedio,
      giovane, ricco e prepotente, precipitato in rovina da un rovescio di
      fortuna, potrebbe rappresentare i cugini Antonio e Bernardo, che nel
      1437 soffersero simile disgrazia. Nello sfondo politico dell'opera
      potrebbe ravvisarsi la condizione di Firenze nei primi anni di
      Cosimo, o forse la crisi del 1440 durante la guerra con Filippo
    Maria Visconti (cfr. Conviviurn, XXII [1955], pp. 150-159). 
La
      virtù stoica espressa nel Teogenio è invece moderata
      in un'altra opera di questi anni (1441-1442), Della
        Tranquillità dell'animo, nella quale l'A. insegna come l'uomo
      virtuoso affronta e supera le difficoltà della vita e le
      ingiurie degli altri uomini. Qui Battista, Agnolo Pandolfini e
      Niccola di Vieri de' Medici spiegano nella loro discussione quei
      valori spirituali e quella temperanza che permettono all'individuo
      di rendersi immune nei confronti delle passioni eccessive e della
      instabilità delle cose umane. Si tratta, insomma, di
      risolvere il problema della pace e della libertà dell'uomo,
      assediato dalle proprie passioni, dalla fortuna e dagli altri suoi
      simili. Non a caso ritorna qui l'antifemminismo delle opere
      giovanili. Queste due opere, col loro ideale di una virtù
      tutta personale, paiono indicare una crisi nel pensiero dell'A., un
      momento di intimo scontento, di maggior tensione tra ideale e reale,
      diversa dalla sicurezza di atteggiamento evidente nella Famiglia.
      
      Nondimeno, l'A. si trovò a Firenze immerso in attività
      diverse, e una di queste, il Certame Coronario, organizzato, insieme
      con Piero di Cosimo de' Medici, nell'ottobre 1441, costituisce uno
      degli episodi più importanti della sua difesa del volgare. A
      questa gara poetica sul tema dell'amicizia presero parte gran numero
      di poeti fiorentini, sottomettendo i loro componimenti al giudizio
      della commissione di illustri segretari papali.
      
      L'A. allora fece il primo tentativo, imitato anche da L. Dati, di
      riprodurre in volgare i metri latini, e donò al Comune il IV
      libro della Famiglia, anch'esso sull'amicizia. Il successo di questa
      gara fece progettare un secondo certame sul tema dell'invidia, ma
      per varie ragioni questo non ebbe luogo. Al tempo del certame si
      sviluppò l'amicizia tra l'A. e il giovane Cristoforo Landino,
      a cui l'A. dedicò il suo opuscolo latino lucianesco Musca,
      improvvisato per divertimento durante un accesso di febbre
      (1442-43). Un'altra opera latina, anch'essa imitata da Luciano, sono
      le Intercenales, iniziate già nella giovinezza bolognese,
      accresciute poi ad intervalli e raccolte in dieci libri, forse
      intorno al 1439, per dedicarle all'amico Paolo Toscanelli, insigne
      medico e matematico.
      
      Non rimane ora che un piccolo gruppo di queste prose e dialoghi
      latini, di cui i più importanti sono Fatum et Fortuna e
      Defunctus, e per la storia delle imprese, Anuli (si ricorda qui che
      l'A. aveva come impresa un occhio alato col motto Quid tum:cod. II,
      IV, 38, Bibl. Nazionale di Firenze). Pur qualificate dall'A. come
      "facete", le Intercenales trattano con spirito ironico e talvolta
      amaro i problemi morali che gli erano cari. Dedicato a Leonello
      d'Este è il De equo animante (1441), sull'educazione dei
      cavalli; pure di questi anni il Canis, breve elogio del cane
      dell'A., ispirato da un simile encomio scritto in greco da T. Gaza;
      fu tradotto in italiano da Piero di Marco Parenti. Il Landino allude
      al Canis e alla Musca (e ad un carme Passer, ora perduto) nella sua
      Xandra (1443).
      
      Nel giugno 1443 la corte papale tornò a Roma, sostando un
      mese per via a Siena; e allora terminò il soggiorno
      fiorentino dell'Alberti. La partenza per Roma segna nella sua
      carriera quasi la fine della sua maggiore attività di
      scrittore di cose morali e l'inizio degli interessi prevalentemente
      artistici e scientifici del rimanente della sua vita. Non che
      smettesse di scrivere; anzi a Roma, certamente prima del 1450 (anno
      in cui gliene chiese copia da Milano il Filelfo), scrisse in prosa
      latina il Momus, una mordente satira lucianesca del principe e in
      genere delle vanità e debolezze di tutti gli uomini.
      
      Al centro della favola mitologica è il dio ribelle Momo, che
      mette in scompiglio uomini e dei, rivelando in specie
      l'incapacità e irresolutezza del sommo Giove. Nella grottesca
      e complicata esagerazione del racconto, gli strali della satira non
      risparmiano nessuno dei valori umani; ne emerge solo il mendicante,
      felice per la mancanza di cure e di responsabilità. Il
      Filelfo, echeggiando i sospetti di altri, voleva sapere il senso
      dell'allegoria, che rimane tuttora oscura; chi vede in Giove il
      ritratto di Eugenio IV (Mancini), chi vi ravvisa soltanto "un quadro
      brillante di psicologia politica" (Martini).
      
      Eletto papa nel 1447 Tommaso da Sarzana (Niccolò V), vecchio
      amico dell'A., molto probabilmente fu da lui aiutato nei restauri e
      nella ricostruzione di edifizi romani. Ad un famoso tentativo
      dell'A. di ripescare una nave romana del lago di Nemi si potrebbe
      avvicinare un'opera latina Navis, nota a Leonardo da Vinci e
      conosciuta ancora nel '500, ma ora perduta. La ricorda anche l'A.
      nel proemio del De re aedificatoria. Il De re aedificatoria risulta
      compiuto nel '52 (per testimonianza di F. Biondo e M. Palmieri, e
      per l'accenno dell'A. stesso nei suoi Ludi Matematici, dedicati a
      Meliaduso d'Este tra il '50 e il '52), fatica di parecchi anni di
      studio e di esperienza di architetto, che gli guadagnò
      giustamente il nome di "Vitruvio fiorentino".
      
      L'opera appare ispirata dagli stessi ideali morali e sociali
      evidenti nella Famiglia, ritrovati ora nelle forme plastiche di
      edifizi che rispondono all'utilità degli uomini e alle
      segrete armonie delle scienze matematiche. Essa è divisa in
      dieci libri, che trattano rispettivamente: I, Dei disegni, della
      situazione, di alcuni particolari (colonne, finestre, archi, scale)
      degli edifizi; II, Dei materiali di costruzione; III, Dei principi
      della costruzione; IV, Degli edifizi per uso pubblico; V, Degli
      edifizi di diverse persone private; VI, Degli ornamenti delle
      fabbriche; VII, Della costruzione dei templi; VIII, Degli ornamenti
      delle vie principali, dei sepolcri, dei teatri e di altri luoghi
      pubblici; IX, Degli ornamenti delle case private, e delle
      qualità e conoscenze necessarie all'architetto; X, Delle
      acque, dei canali, delle vie, e di vari metodi di rimediare ai
      guasti agli edifizi dovuti al tempo ed alle bestie. I Ludi
      Matematici suaccennati, che danno regole per misurare la superficie
      dei terreni, le altezze di torri, le distanze tra città,
      ecc., pur non essendo invenzione dell'A., dimostrano la sua viva
      curiosità per problemi matematici e scientifici. Di questa
      sua versatilità, che lo portò a inventare numerosi
      congegni meccanici, onde lo si considera precursore di Leonardo,
      sono oggi sola testimonianza i ricordi dell'A. stesso nel III libro
      della Tranquillità dell'Animo, non essendoci pervenuti
      né disegni né costruzioni.
      
      Presente alla fine del tentativo di Stefano Porcari di costituire
      una repubblica romana, fu stimolato a scrivere il De Porcaria coniuratione in una epistola latina non priva di simpatia per la
      generosa ambizione del Porcari. Quattro mesi più tardi
      Costantinopoli cadde nelle mani dei Turchi e Niccolò V vide
      fallire le sue proposte per una crociata; dopo la morte di questo
      papa e il breve pontificato di Callisto III, salì sul trono
      pontificio Pio II.
      
      Fu allora che l'A. accompagnò il papa a Mantova per la
      celebre dieta, che si riprometteva di gettare le basi per la
      crociata (1459), e fece amicizia con Ludovico Gonzaga, che gli
      affidò la costruzione della chiesa di S. Sebastiano. L'A.
      visitò anche Firenze e conobbe il giovane Lorenzo de' Medici,
      a cui intorno al 1460 dedicò un opuscolo latino sull'arte
      oratoria, Trivia senatoria. Tra Lorenzo e l'A. si sviluppò
      una intima amicizia, come tra padre e figlio; e tali sono i loro
      rapporti nelle Disputationes Camaldulenses del Landino (1475), le
      quali probabilmente descrivono un incontro realmente avvenuto (nel
      1468), anche se conviene dubitare fortemente delle idee platoniche
      ivi messe in bocca all'Alberti. Egli partecipò alle
      discussioni dell'Accademia Platonica del Ficino di cui era amico, ma
      nelle sue opere non sviluppa motivi platonici, preferendo mantenersi
      sempre indipendente da qualsiasi sistema filosofico (cfr. le brevi
      Epistulae septem Diogeni inscriptae, mandate a F. Griffolino).
      Un'altra testimonianza delle visite fiorentine dell'A, in quegli
      anni è l'opuscolo volgare Cena di Famiglia, un breve dialogo
      avvenuto a Firenze, quasi appendice alla Famiglia;nel 1462 dedicava
      ai nipoti le Sentenze Pitagoriche, che riassumono in forma
      aforistica i principi fondamentali della condotta virtuosa.
      
      Nel clima più severo instaurato da Paolo II dopo la morte di
      Pio II (1464), l'A. perdé l'ufficio nel collegio degli
      abbreviatori, pur continuando a vivere a Roma, non più
      bisognoso di quello stipendio.
      
      Ancora frutto di amene discussioni con Leonardo Dati è
      l'opuscolo De componendis cifris, scritto intorno al 1466, in cui,
      partendo dalla lode della invenzione recente dell'arte della stampa,
      si passava a discutere l'uso delle lettere per le cifre segrete,
      proponendosi un sistema indecifrabile fondato su due quadranti
      sovrapposti, l'uno fisso, l'altro rotante: dimostrazione di un'altra
      direzione degli interessi dell'A, per problemi di scienza applicata.
      Simili interessi lo legavano d'amicizia con Luca Pacioli, suo ospite
      in quegli anni. Nel De cifris l'A. accenna ad una sua opera "de
      literis et ceteris principiis grammaticae", che doveva trattare
      problemi grafici, quale la distinzione tra u e v, e perciò
      precorrere in questa via le innovazioni del Trissino e d'altri del
      '500; ma non è stata ritrovata. Alcuni l'hanno ravvisata
      nella Grammatichetta vaticana (cod. Vat. Reg. 1370; Trabalza, Storia
      della Grammatica italiana, Milano 1908, pp. 535ss.), variamente --
      mai definitivamente -- attribuita a Lorenzo de' Medici, al Landino e
      all'Alberti.
      
      Gli ultimi anni dell'A. sono dedicati sempre più
      all'architettura. Costruisce a Firenze per Giovanni Rucellai la
      Loggia, vicino al palazzo Rucellai, creduto anch'esso da alcuni
      storici opera dell'A., e la cappella a S. Pancrazio; disegna la
      nuova facciata di S. Maria Novella e, per conto di Ludovico Gonzaga,
      la Rotonda dell'Annunziata. A Mantova nel 1471 prepara i disegni del
      tempio di S. Andrea. Diverse altre costruzioni fatte in quegli anni
      a Firenze e altrove gli sono pure attribuite. In mezzo a queste
      attività, l'A. trovò tempo per le discussioni
      filosofiche con gli amici (nel 1471 fece da guida nel Foro di Roma a
      Lorenzo de' Medici, Bernardo Rucellai e Donato Acciaiuoli), e anche
      per scrivere in volgare l'ultima sua opera, intitolata De Iciarchia (1468), in cui riprende e sviluppa con maggior maturità gli
      ideali di moderata virtù, già espressi nei precedenti
      suoi lavori.
      
      Nel dialogo, avvenuto a Firenze durante l'inverno tra Battista,
      Niccolò Cerretani e Paolo Niccolini alla presenza dei giovani
      nipoti Alberti, si ragiona delle doti e dell'ufficio del principe e
      dell'iciarco, o cittadino primario, nella consueta tematica
      moralistica di equilibrio tra passioni e meditazione, tra culto
      degli studi e operosità civile.
      
      L'A. morì a Roma nell'aprile 1472. Nel suo testamento datato
      19 apr. 1472 alla vigilia della morte (già il 25 aprile fu
      presentato il nuovo pievano di Gangalandi, vacante per la morte
      dell'A.) espresse il desiderio di essere sotterrato prima nella
      chiesa di S. Agostino, e volle che la sua salma fosse poi deposta
      nella tomba di suo padre nella chiesa di S. Antonio a Padova. Non
      rimane traccia della tomba a Roma (la chiesa di S. Agostino fu
      ricostruita nel 1479) e non risulta da nessun documento che la salma
      fosse trasportata a Padova.