Interpretazioni del pensiero di Machiavelli
    
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    F. DE SANCTIS
    
    Machiavelli
    
    Dicesi che Machiavelli fosse in Roma quando, il 1515, uscì in luce
    l'Orlando furioso. Lodò il poema, ma non celò il suo dispiacere di
    essere dimenticato dall'Ariosto nella lunga lista, ch'egli stese
    nell'ultimo canto, dei poeti italiani. Questi due grandi uomini, che
    dovevano rappresentare il secolo nella sua doppia faccia, ancorchè
    contemporanei e conoscenti, sembrano ignoti l'uno all'altro.
Niccolò Machiavelli, ne' suoi tratti apparenti, è una fisionomia
    essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de'
    Medici. Era un piacevolone, che se la spassava ben volentieri tra le
    confraternite e le liete brigate, verseggiando e motteggiando, con
    quello spirito arguto e beffardo che vede nel Boccaccio e nel
    Sacchetti e nel Pulce e in Lorenzo e nel Berni.
Poco agiato nei beni della fortuna, nel corso ordinario delle cose
    sarebbe riuscito un letterato fra i tanti stipendiati a Roma o a
    Firenze, e dello stesso stampo. Ma, caduti i Medici, restaurata la
    repubblica e nominato segretario, ebbe parte principalissima nelle
    pubbliche faccende, esercitò molte legazioni in Italia e fuori,
    acquistando esperienza degli uomini e delle cose, e si affezionò
    alla repubblica, per la quale non gli parve molto il sostenere le
    torture, poiché tornarono i Medici.
In quegli uffici e in quelle lotte si raffermò le sue tempra e si
    formò il suo spirito. Tolto alle pubbliche faccende, nel suo ozio di
    San Casciano meditò sui fati dell'antica Roma e sulle sorti di
    Firenze, anzi d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l'Italia
    non potesse mentenere le sue indipendenza se non fosse unita, tutta
    o gran parte, sotto un solo principe. E sperò che casa Medici,
    potente a Roma e a Firenze, volesse pigliare l'imprese. Sperò pure
    che volesse accettare i suoi servigi e trarlo di ozio e di miserie.
    
    All'ultimo, poco e male adoperato dei Medici, finì la vita
    tristemente, lasciando non altra eredità ai figliuoli che il nome.
    Di lui fu scritto: "Tanto nomini nullum par elogium".
    
    I suoi Decennali, arida cronaca delle «fatiche d'Italia di dieci
    anni», scritte in quindici dì; i suoi otto capitoli dell'Asino
    d'oro, sotto nome di bestie satira dei degeneri fiorentini; gli
    altri suoi capitoli dell'Occasione, delle Fortuna,
    dell'Ingratitudine, dell'Ambizione; i suoi canti carnascialeschi,
    alcune sue stanze, o serenate, o sonetti, o canzoni, sono lavori
    letterari sui quali è impressa le fisionomia di quel tempo: alcuni
    tra il licenzioso e il beffardo, altri allegorici o sentenziosi,
    sempre aridi. Il verso rasenta le prose; il colorito è sobrio e
    spesso monco; scarse e comuni sono le immagini. Ma in questo fondo
    comune e sgraziato appaiono le vestigie di un nuovo essere, una
    profondità insolita di giudizio e di osservazione. Manca
    l'immaginativa: sovrabbonda lo spirito. C'è il critico: non c'è il
    poeta, non c'è l'uomo nello stato di spontaneità che compone e
    fantastica, come era Ludovico Ariosto. C è l'uomo che si osserva
    anche soffrendo, e sentenzia sulle sorti sue e dell'universo con
    tranquillità filosofica: il suo poetare è un discorrere:
Io spero, e lo sperar cresce il tormento;
    io piango, e il pianger ciba il lasso core;
    io rido, e il rider mio non passa drento;
    io ardo, e l'arsion non par di fuore;
    io temo ciò ch'io veggo e ciò ch'io sento;
    ogni cosa mi dà nuovo dolore:
    così sperando piango, rido e ardo,
    e paura ho di ciò ch'i' odo o guardo.
    
    Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle cose mondane
    nel capitolo della Fortuna. Delle sue poesie cosa è rimasto? Qualche
    verso ingegnoso, come nei Decennali:
la voce d'un Cappon tra cento Galli,
    
    e qualche sentenza o concetto profondo, come nel canto De' diavoli o
    de' romiti. Il suo capolavoro è il capitolo dell'Occasione, massime
    la chiusa, che ti colpisce d'improvviso e ti fa pensoso. Nel poeta
    si sente la scrittore del Principe e dei Discorsi.
Anche in prosa Machiavelli ebbe pretensioni letterarie, secondo le
    idee che correvano in quella età. Talora si mette la giornea e
    boccacceggia, come nelle sue prediche alle confraternite, nella
    descrizione della peste e ne' discorsi che mette in bocca ai suoi
    personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro con una donna in
    chiesa al tempo della peste, dove abbondano i lenocini della
    retorica e gli artifici dello stile; ciò che si chiamava "eleganza".
    
    Ma nel Principe, nei Discorsi, nelle lettere, nelle Relazioni, nei
    Dialoghi sulla milizia, nelle Storie, Machiavelli scrive come gli
    viene, tutto inteso alle cose, e con l'aria di chi reputi indegno
    della sua gravità correre appresso alle parole e ai periodi. Dove
    non pensò alla forma riuscì maestro della forma. E senza cercarla
    trovò la prosa italiana.
E' visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito incredulo e beffardo
    di Lorenzo, impresso sulla fronte della borghesia italiana in quel
    tempo. E aver pure quel senso pratico, quella intelligenza degli
    uomini e delle cose, che rese Lorenzo eminente fra i principi, e che
    troviamo generalmente negli statisti italiani a Venezia, a Firenze,
    a Roma, a Milano, a Napoli, quando viveva Ferdinando d'Aragona,
    Alessandro sesto, Ludovico il moro, e gli ambasciatori veneziani
    scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle corti presso le quali
    dimoravano. C'era l'arte: mancava la scienza. Lorenzo era
    l'artista: Machiavelli doveva essere il critico.
    
Firenze era ancora il cuore d'Italia: lì c'erano ancora i lineamenti di
un popolo, c'era l'immagine della patria. La libertà non voleva ancora
morire. L'idea ghibellina e guelfa era spenta, ma c'era invece l'idea
repubblicana alla romana, effetto della coltura classica, che,
fortificata dall'amore tradizionale del viver libero e dalle memorie
gloriose del passato, resisteva ai Medici. L'uso della libertà e le
lotte politiche mantenevano salda la tempra dell'animo, e rendevano
possibile Savonarola, Capponi, Michelangelo, Ferruccio e l'immortale
resistenza agli eserciti papali-imperiali. L'indipendenza e la gloria
della patria e l'amore della libertà erano forze morali, tra quella
corruzione medicea rese ancora più acute e vivaci dal contrasto.
    
    Machiavelli, per la sua coltura letteraria, per la vita licenziosa,
    per lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al
    Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova letteratura. Non crede a
    nessuna religione, e perciò le accetta tutte, e, magnificando la
    morale in astratto, vi passa sopra nella pratica della vita. Ma ha
    l'animo fortemente temprato e rinvigorito negli uffici e nelle lotte
    politiche, aguzzato negli ozi ingrati e solitari. E la sua coscienza
    non è vuota. C è lì dentro la libertà e l'indipendenza della patria.
    Il suo ingegno superiore e pratico non gli consentiva le illusioni,
    e lo teneva ne' limiti del possibile. E quando vide perduta la
    libertà, pensò all'indipendenza e cercò negli stessi Medici lo
    strumento della salvezza. Certo, anche questa era un'utopia o una
    illusione, un'ultima tavola alla quale si afferra il misero
    nell'inevitabile naufragio; ma un'utopia che rivelava la forza e la
    giovinezza della sua anima e la vivacità della sua fede.
Se Francesco Guicciardini vide più giusto e con più esatto
    sentimento delle condizioni d'Italia, è che la sua coscienza era già
    vuota e petrificata. L'immagine del Machiavelli è giunta ai posteri
    simpatica e circondata di una aureola poetica per la forte tempra e
    la sincerità del patriottismo e l'elevatezza del linguaggio, e per
    quella sua aria di virilità e di dignità fra tanta folla di
    letterati venderecci. La sua influenza non fu pari al suo merito.
    Era tenuto uomo di penna e di tavolino, come si direbbe oggi, più
    che uomo di Stato e di azione. E la sua povertà, la vita scorretta,
    le "abitudini plebee e fuori della regola", come gli rimproverava il
    correttissimo Guicciardini, non gli aumentavano reputazione.
    Consapevole della sua grandezza, disprezzava quelle esteriorità
    delle forme e quei mezzi artificiali di farsi via nel mondo, che
    sono sì familiari e sì facili ai mediocri. Ma la sua influenza è
    stata grandissima nella posterità, e la sua fama si è ita sempre
    ingrandendo tra gli odii degli uni e le glorificazioni degli altri.
    Il suo nome è rimasto la bandiera intorno alla quale hanno
    battagliato le nuove generazioni, nel loro contraddittorio movimento
    ora indietro ora innanzi.
    
    C è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue,
    il Principe, che ha gettato nell'ombra le altre sue opere. L'autore
    è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato
    non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale. E
    hanno trovato che questo libro è un codice della tirannia, fondato
    sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi e il successo
    loda l'opera. E hanno chiamato "machiavellismo" questa dottrina.
Molte difese si sono fatte di questo libro, ingegnosissime,
    attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o meno
    lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un Machiavelli
    rimpiccinito.
Questa critica non è che una pedanteria. Ed è anche una meschinità
    porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia italica, oggi cosa
    reale. Noi vogliamo costruire tutta intera l'immagine, e cercarvi i
    fondamenti della sua grandezza.
    
    Niccolò Machiavelli è innanzi tutto la coscienza chiara e seria di
    tutto quel movimento, che, nella sua spontaneità, dal Petrarca e dal
    Boccaccio si stende sino alla seconda metà del Cinquecento. In lui
    comincia veramente la prosa, cioè a dire la coscienza e la
    riflessione della vita. Anche lui è in mezzo a quel movimento, e vi
    piglia parte, ne ha le passioni e le tendenze. Ma, passato il
    momento dell'azione, ridotto in solitudine, pensoso sopra i volumi
    di Livio e di Tacito, ha la forza di staccarsi dalla sua società e
    interrogarla: - Cosa sei? dove vai? -
L'Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e guardava
    l'Europa con l'occhio di Dante e del Petrarca, giudicando barbare
    tutte le nazioni oltre le Alpi. Il suo modello era il mondo greco e
    romano, che si studiava di assimilarsi. Sovrastava per coltura, per
    industrie, per ricchezze, per opere d'arti e d'ingegno: teneva senza
    contrasto il primato intellettivo in Europa.
Grave fu lo sgomento negl'italiani quando ebbero gli stranieri in
    casa; ma vi si abituarono e trescarono con quelli, confidando di
    cacciarli via tutti con la superiorità dell'ingegno. Spettacolo
    pieno di ammaestramento è vedere, tra lanzi, svizzeri, tedeschi e
    francesi e spagnoli, l'alto e spensierato riso di letterati,
    artisti, latinisti, novellieri e buffoni nelle eleganti corti
    italiane. Fin nei campi i sonettisti assediavano i principi:
    Giovanni de' Medici cadeva tra i lazzi di Pietro Aretino.
    
    Gli stranieri guardavano attoniti le meraviglie di Firenze, di
    Venezia, di Roma e tanti miracoli dell'ingegno; e i loro principi
    regalavano e corteggiavano i letterati, che con la stessa
    indifferenza celebravano Francesco primo e Carlo quinto. L'Italia
    era inchinata e studiata dai suoi devastatori, come la Grecia fu dai
    romani.
    
    Fra tanto fiore di civiltà e in tanta apparenza di forza e di
    grandezza mise lo sguardo acuto Niccolò Machiavelli, e vide la
    malattia dove altri vedevano la più prospera salute. Quello che oggi
    diciamo «decadenza» egli disse «corruttela», e base di tutte le
    sue speculazioni fu questo fatto: la corruttela della razza
    italiana, anzi latina, e la sanità della germanica.
La forma più grossolana di questa corruttela era la licenza de'
    costumi e del linguaggio, massime nel clero: corruttela che già
    destò l'ira di Dante e di Caterina, ed ora messa in mostra nei
    dipinti e negli scritti, penetrata in tutte le classi della società
    e in tutte le forme della letteratura, divenuta come una salsa
    piccante che dava sapore alla vita.
La licenza, accompagnata con l'empietà e l'incredulità, aveva a suo
    principal centro la corte romana, protagonisti Alessandro sesto e
    Leone decimo. Fu la vista di quella corte che infiammò le ire di
    Savonarola e stimolò alla separazione Lutero e i suoi concittadini.
    Nondimeno il clero per abito tradizionale tuonava dal pergamo contro
    quella licenza. Il Vangelo rimaneva sempre un ideale non
    contrastato, salvo a non tenerne alcun conto nella vita pratica: il
    pensiero non era più la parola, e la parola non era più l'azione;
    non c'era armonia nella vita. In questa disarmonia era il principale
    motivo comico del Boccaccio e degli altri scrittori di commedie, di
    novelle e di capitoli.
    
    Nessun italiano, parlando in astratto, poteva trovar lodevole quella
    licenza, ai cui allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la
    teoria, altra la pratica. E nessuno poteva , non desiderare una
    riforma de' costumi, una restaurazione della coscienza. Sentimenti e
    desideri vani, affogati nel rumore di quei baccanali. Non c'era il
    tempo di piegarsi in sé, di considerare la vita seriamente. Pure
    erano sentimenti e desideri che più tardi fruttificarono e
    agevolarono l'opera del concilio di Trento e la reazione cattolica.
Rifare il medio evo e ottenere la riforma de' costumi e delle
    coscienze con una ristaurazione religiosa e morale, era stato il
    concetto di Geronimo Savonarola, ripreso poi e purgato nel concilio
    di Trento. Era il concetto più accessibile alle moltitudini e più
    facile a presentarsi. I volghi cercano la medicina a' loro mali nel
    passato.
    
    Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel carnevale italiano,
    giudicava quella corruttela da un punto di vista più alto. Essa era
    non altro che lo stesso medio evo in putrefazione, morto già nella
    coscienza, vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. E perciò,
    non che pensasse di ricondurre indietro l'Italia e di restaurare. il
    medio evo, concorse alla sua demolizione.
L'altro mondo, la cavalleria, l'amore platonico sono i tre concetti
    fondamentali, intorno ai quali si aggira la letteratura nel medio
    evo, de' quali la nuova letteratura è la parodia più o meno
    consapevole.
Anche nella faccia del Machiavelli sorprendi un momento ironico
    quando parla del medio evo, sopratutto allora che affetta maggior
    serietà. La misura del linguaggio rende più terribili i suoi colpi.
    Nella sua opera demolitiva è visibile la sua parentela col Boccaccio
    e col Magnifico. Il suo Belfegor è della stessa razza dalla quale
    era uscito Astarotte.
Ma la sua negazione non è pura buffoneria, puro effetto comico,
    uscito da coscienza vuota. In quella negazione c'è un'affermazione,
    un altro mondo sorto nella sua coscienza. E perciò la sua negazione
    è seria ed eloquente.
Papato e impero, guelfismo e ghibellinismo, ordini feudali e
    comunali, tutte queste istituzioni sono demolite nel suo spirito. E
    sono demolite, perchè nel suo spirito è sorto un nuovo edificio
    sociale e politico.
    
    Le idee che generarono quelle istituzioni sono morte, non hanno più
    efficacia di sorta sulla coscienza, rimasta vuota. E in quest'ozio
    interno è la radice della corruttela italiana. Questo popolo non si
    può rinnovare se non rifacendosi una coscienza. Ed è a questo che
    attende Machiavelli. Con una mano distrugge, con l'altra edifica. Da
    lui comincia, in mezzo alla negazione universale e vuota, la
    ricostruzione.
Non è possibile seguire la sua dottrina nel particolare. Basti qui
    accennare la idea fondamentale.
    
    Il medio evo riposa sopra questa base: che il peccato è attaccarsi a
    questa vita come cosa sostanziale, e la virtù è negazione della vita
    terrena e contemplazione dell'altra; che questa vita non è la realtà
    o la verità, ma ombra e apparenza; e che la realtà è non quello che
    è, ma quello che deve essere, e perciò il suo vero contenuto è
    l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio, il paradiso, il mondo
    conforme alla verità e alla giustizia. Da questo concetto della
    vita, teologico-etico, uscì la Divina commedia e tutta la
    letteratura del Duecento e del Trecento.
Il simbolismo e lo scolasticismo sono le forme naturali di questo
    concetto. La realtà terrena è simbolica: Beatrice è un simbolo,
    l'amore è un simbolo. E l'uomo e la natura hanno la loro spiegazione
    e la loro radice negli enti o nelle universali, forze estramondane,
    che sono la maggiore del sillogismo, l'universale da cui esce il
    particolare.
Tutto questo, forma e concetto, era già dal Boccaccio in qua negato,
    caricato, parodiato, materia di sollazzo e di passatempo: pura
    negazione nella sua forma cinica e licenziosa, che aveva a base la
    glorificazione della carne o del peccato, la voluttà, l'epicureismo,
    reazione all'ascetismo. Andavano insieme teologi e astrologi e
    poeti, tutti visionari: conclusione geniale della Maccaronea,
    ispirata al Folengo dal mondo della luna ariostesco. In teoria c'era una piena indifferenza, e in pratica una piena licenza.
    
    Machiavelli vive in questo mondo e vi partecipa. La stessa licenza
    nella vita e la stessa indifferenza nella teoria. La sua coltura non
    è straordinaria: molti a quel tempo avanzavano lui e l'Ariosto di
    dottrina e di erudizione. Di speculazioni filosofiche sembra così
    digiuno come di enunciazioni scolastiche e teologiche. E, a ogni
    modo, non se ne cura. Il suo spirito è tutto nella vita pratica.
Nelle scienze naturali non sembra sia molto avanti, quando vediamo
    che in alcuni casi accenna all'influsso delle stelle. Battista
    Alberti avea certo una coltura più vasta e più compiuta. Niccolò non
    è filosofo della natura: è filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno
    oltrepassa l'argomento e prepara Galileo.
    
    L'uomo, come Machiavelli lo concepisce, non ha la faccia estatica e
    contemplativa del medio evo e non ha la faccia tranquilla e idillica
    del Risorgimento. Ha la faccia moderna dell'uomo che opera e lavora
    intorno ad uno scopo.
Ciascun uomo ha la sua missione su questa terra, secondo le sue
    attitudini. La vita non è un giuoco d'immaginazione e non è
    contemplazione. Non è teologia e non è neppure arte. Essa ha in
    terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi.
    
    Riabilitare la vita terrena, darle uno scopo, rifare la coscienza,
    ricreare le forze interiori, restituire l'uomo nella sua serietà e
    nella sua attività: questo è lo spirito che aleggia in tutte le
    opere del Machiavelli.
E' negazione del medio evo, e insieme negazione del Risorgimento. La
    contemplazione divina lo soddisfa così poco come la contemplazione
    artistica. La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non tali però
    che debbano e possano costituire lo scopo della vita.
Combatte l'immaginazione come il nemico più pericoloso, e quel veder
    le cose in immaginazione e non in realtà gli par proprio esser la
    malattia che si ha da curare. Ripete ad ogni tratto che bisogna
    giudicar le cose come sono e non come debbono essere.
Quel «dover essere», a cui tende il contenuto nel medio evo e la
    forma nel Risorgimento, deve far luogo all' «essere» o, com'egli
    dice, alla verità «effettuale».
Subordinare il mondo dell'immaginazione, come religione e come arte,
    al mondo reale, quale ci è posto dall'esperienza e
    dall'osservazione: questa è la base del Machiavelli.
Risecati tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali, pone a
    fondamento della vita la patria. La missione dell'uomo su questa
    terra, il suo primo dovere è il patriottismo, la gloria, la
    grandezza, la libertà della patria.
    
    Nel medio evo non c'era il concetto di patria: c'era il concetto
    di fedeltà e di sudditanza. Gli uomini nascevano tutti sudditi del
    papa e dell'imperatore, rappresentanti di Dio: l'uno era lo spirito,
    l'altro il corpo della società. Intorno a questi due «Soli»
    stavano gli astri minori: re, principi, duchi, baroni, a cui stavano
    di contro in antagonismo naturale i comuni liberi. Ma la libertà era
    privilegio papale e imperiale, e i comuni esistevano anch'essi per
    la grazia di Dio, e perciò del papa o dell'imperatore, e spesso
    imploravano legati apostolici o imperiali a tutela e pacificazione.
    Savonarola proclamò re di Firenze Gesù Cristo, ben inteso lasciando
    a sè il diritto di rappresentarlo e interpretarlo. E' un tratto che
    illumina tutte le idee di quel tempo.
    
    C'era ancora il papa e c'era l'imperatore; ma l'opinione, sulla
    quale si fondava la loro potenza, non c'era più nelle classi colte
    d'Italia. Il papa stesso e l'imperatore avevano smesso l'antico
    linguaggio: il papa ingrandito di territorio, diminuito di autorità;
    l'imperatore, debole e impacciato a casa.
    Di papato e d'impero, di guelfi e ghibellini non si parlava in
    Italia che per riderne, a quel modo che della cavalleria e di tutte
    le altre istituzioni. Di quel mondo rimanevano avanzi, in Italia, il
    papa, i gentiluomini e gli avventurieri o mercenari. I
l Machiavelli
    vede nel papato temporale non solo un sistema di governo assurdo e
    ignobile, ma il principale pericolo dell'Italia. Combatte il
    concetto di un governo stretto, e tratta assai aspramente i
    gentiluomini, reminiscenze feudali. E vede ne' mercenari o
    avventurieri la prima cagione della debolezza italiana incontro allo
    straniero, e propone e svolge largamente il concetto di una milizia
    nazionale. Nel papato temporale, nei gentiluomini, negli
    avventurieri combatte gli ultimi vestigi del medio evo.
    
    La «patria» del Machiavelli è naturalmente il comune libero, libero
    per sua virtù e non per grazia del papa e dell'imperatore, governo
    di tutti nell'interesse di tutti. Ma, osservatore sagace, non gli può sfuggire il fenomeno storico de'
    grandi Stati che si erano formati in Europa, e come il comune era
    destinato anch'esso a sparire con tutte le altre istituzioni del
    medio evo. Il suo comune gli par cosa troppo piccola e non possibile
    a durare davanti a quelle potenti agglomerazioni delle stirpi, che
    si chiamavano «Stati» o «nazioni».
Già Lorenzo, mosso dallo stesso pensiero, avea tentato una grande
    lega italica, che assicurasse l'«equilibrio» tra i vari Stati e
    la mutua difesa, e che pure non riuscì ad impedire l'invasione di
    Carlo ottavo. Niccolò propone addirittura la costituzione di un grande Stato
    italiano, che sia baluardo d'Italia contro lo straniero. Il concetto
    di patria gli si allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è
    tutta la nazione. L'Italia nell'utopia dantesca è il «giardino
    dell'impero»; nell'utopia del Machiavelli è la «patria», nazione
    autonoma e indipendente.
La «patria» del Machiavelli è una divinità, superiore anche alla
    moralità e alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici
    assorbiva in sè l'individuo, e in nome di Dio gl'inquisitori
    bruciavano gli eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni,
    che nella vita privata sono delitti, diventavano magnanime nella
    vita pubblica. «Ragion di Stato» e «salute pubblica» erano le
    formule volgari, nelle quali si esprimeva questo diritto della
    patria, superiore ad ogni diritto. La divinità era scesa di cielo in
    terra e si chiamava la «patria», ed era non meno terribile. La sua
    volontà e il suo interesse era «suprema lex». Era sempre l'individuo
    assorbito nell'essere collettivo. E quando questo essere collettivo
    era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi
    la servitù.
    
    Libertà era la partecipazione più o meno larga de' cittadini alla
    cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice
    della libertà. L'uomo non era un essere autonomo e di fine a se
    stesso: era lo strumento della patria o, ciò che è peggio, dello
    Stato: parola generica, sotto la quale si comprendeva ogni specie di
    governo, anche il dispotico, fondato sull'arbitrio di uno solo.
    Patria era dove tutti concorrevano più o meno al governo e, se tutti
    ubbidivano, tutti comandavano: ciò dicevasi «repubblica». E
    dicevasi «principato» dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma,
    repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era sempre
    l'individuo assorbito nella società o, come fu detto poi,
    l'onnipotenza dello Stato.
Queste idee sono enunciate dal Machiavelli non come da lui trovate e
    analizzate, ma come già per lunga tradizione ammesse e fortificate
    dalla coltura classica. C è lì dentro lo spirito dell'antica Roma,
    che con la sua immagine di gloria e di libertà attirava tutte le
    immaginazioni, e si porgeva alle menti modello non solo nell'arte e
    nella letteratura, ma ancora nello Stato.
La patria assorbe anche la religione. Uno Stato non può vivere senza
    religione. E se il Machiavelli si duole della corte romana, non è
    solo perchè a difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar
    gli stranieri, ma ancora perché coi suoi costumi disordinati e
    licenziosi ha diminuita nel popolo l'autorità della religione.
    
    Ma egli vuole una religione di Stato, che sia in mano del principe
    un mezzo di governo. Della religione si era perduto il senso, ed era
    arte presso i letterati e istrumento politico negli statisti. Anche
    la moralità gli piace, e loda la generosità, la clemenza,
    l'osservanza della fede, la sincerità e le altre virtù, ma a patto
    che ne venga bene alla patria; e se le incontra sulla sua via non
    come istrumenti ma come ostacoli, li spezza. Leggi spesso lodi
    magnifiche della religione e delle altre virtù de' buoni principi;
    ma c è un po' odore di rettorica, che spicca più in quel fondo
    ignudo della sua prosa. Non è in lui e non è in nessuno de' suoi
    contemporanei un sentimento religioso e morale schietto e semplice.
    
    Noi, che vediamo le cose di lontano, troviamo in queste dottrine lo
    Stato laico, che si emancipa dalla teocrazia e diviene a sua volta invadente. Ma allora
    la lotta era ancor viva, e una esagerazione portava l'altra.
    Togliendo le esagerazioni, ciò che esce dalla lotta è l'autonomia e
    l'indipendenza del potere civile, che ha la sua legittimità in se
    stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di subordinazione a
    Roma. Nel Machiavelli non c è alcun vestigio di diritto divino. Il
    fondamento delle repubbliche è «vox populi», il consenso di tutti. E
    il fondamento de' principati è la forza, o la conquista legittima
    assicurata dal buon governo. Un po' di cielo e un po' di papa
    c'entra pure, ma come forze atte a mantenere i popoli
    nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi.
    
    Stabilito il centro della vita in terra e attorno alla patria, al
    Machiavelli non possono piacere le virtù monacali dell'umiltà e
    della pazienza, che hanno «disarmato il cielo ed effeminato il
    mondo» e che rendono l'uomo più atto a «sopportare le ingiurie che
    a vendicarle». «Agere et pati fortia romanum est». Il cattolicesimo, male interpretato, rende l'uomo più atto a patire
    che a fare. Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica
    e contemplativa la fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende
    gl'italiani inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare la
    libertà e l'indipendenza della patria.
    
La virtù è da lui intesa nel senso romano, e significa «forza», «
energia», che renda gli uomini atti ai grandi sacrifici e alle grandi
imprese. Non è che agl'italiani manchi il valore; anzi ne' singolari
incontri riescono spesso vittoriosì: manca l'educazione o la disciplina
o, come egli dice, «i buoni ordini e le buone armi», che fanno
gagliardi e liberi i popoli.
Alla virtù premio è la gloria. «Patria», «virtù», «gloria», sono
    le tre parole sacre, la triplice base di questo mondo.
Come gl'individui hanno la loro missione in terra, così anche le
    nazioni. Gl'individui senza patria, senza virtù, senza gloria sono
    atomi perduti, «numerus fruges consumere nati». E parimente ci sono
    nazioni oziose e vuote, che non lasciano alcun vestigio di sè nel
    mondo. Nazioni storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio
    nell'umanità o, come dicevasi allora, nel «genere umano», come
    Assiria, Persia, Grecia e Roma. Ciò che rende grandi le nazioni è la
    virtù o la tempra, gagliardia intellettuale e corporale, che forma
    il carattere o la forza morale.
    
    Ma, come gl'individui, così le nazioni hanno la loro vecchiezza,
    quando le idee che le hanno costituite s'indeboliscono nella
    coscienza e la tempra si fiacca. E l'indirizzo del mondo fugge loro
    dalle mani e' passa ad altre nazioni.
    Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo
    spirito umano, che procede secondo le sue leggi organiche e perciò
    fatali. Il fato storico non è la provvidenza e non è la fortuna, ma
    la «forza delle cose», determinata dalle leggi dello spirito e
    della natura. Lo spirito è immutabile nelle sue facoltà ed
    immortale nella sua produzione.
    
    Perciò la storia non è accozzamento di fatti fortuiti o
    provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di effetti,
    il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle
    passioni e dagl'interessi degli uomini.
    La politica o l'arte del governare ha per suo campo non un mondo
    etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il mondo
    reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è
    intendere e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di Stato è
    colui che sa calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a' suoi
    fini.
    
    La grandezza e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o
    miracoli, ma sono effetti necessari, che hanno le loro cause nella
    qualità delle forze che le muovono. E quando queste forze sono in
    tutto logore, esse muoiono.
E a governare, quelli che stanno solo in sul lione, non se ne
    intendono. Ci vuole anche la volpe o la prudenza, cioè
    l'intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che muovono gli
    Stati.
Come gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro, diritti e
    doveri. E come c è un diritto privato, così c è un diritto pubblico
    o diritto delle genti, o, come dicesi oggi, diritto internazionale.
    Anche la guerra ha le sue leggi.
    
    Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai. Eternamente
    giovane; passa da una nazione a un'altra, e continua secondo le sue
    leggi organiche la storia del genere umano. C'è dunque non solo la
    storia di questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch'essa
    fatale o logica, determinata nel suo corso dalle leggi organiche
    dello spirito. La storia del genere umano non è che la storia dello
    spirito o del pensiero. Di qui esce ciò che poi fu detto «filosofia
    della storia».
    
    Di questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non c è
    nel Machiavelli che la semplice base scientifica, un punto di
    partenza segnato con chiarezza e indicato a' suoi successori. Il suo
    campo chiuso è la politica e la storia.
Questi concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i
    poetici, suppongono una lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le
    conseguenze naturali di quel grande movimento, sotto forme classiche
    realista, ch'era in fondo l'emancipazione dell'uomo dagli elementi
    soprannaturali e fantastici, e la conoscenza e il possesso di se
    stesso. E ai contemporanei non parvero nuovi nè audaci, vedendo ivi
    formulato quello che in tutti era sentimento vago.
L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio evo: anche
    in Dante Roma è presente allo spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e
    imperiale, la Roma di Cesare; e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi
    è severamente giudicato. Dante chiama le gloriose imprese della
    repubblica «miracoli della provvidenza», come preparazione
    all'impero: dove per il Machiavelli non ci sono miracoli, o i
    miracoli sono i buoni ordini; e se alcuna parte dà alla fortuna, la
    dà principalmente alla virtù. Di lui è questo motto profondo: «I
    buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i
    felici successi delle imprese».
    
    Il classicismo dunque era la semplice scorza, sotto alla quale le
    due età inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di
    Dante c'è il misticismo, il ghibellinismo: la corteccia è classica,
    il nocciolo è medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli c' è
    lo spirito moderno che ivi cerca e trova se stesso. Ammira Roma,
    quanto biasima i suoi tempi, dove «non è cosa alcuna che gli
    ricomperi di ogni estrema miseria, infamia vituperio, e non vi è
    osservanza di religione, non di leggi e non di milizia, ma sono
    maculati di ogni ragione bruttura».
Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di poter rifare
    quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e in molte proposte e in
    molte sentenze senti le vestigia di quell'antica sapienza. Da Roma
    gli viene anche la nobiltà dell'ispirazione e una certa elevatezza
    morale. Talora ti pare un romano avvolto nel pallio, in quella sua
    gravità; ma guardalo bene, e ci troverai il borghese del
    Risorgimento, con quel suo risolino equivoco.
    Savonarola è una reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a
    modo dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero
    borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti
    parla alla buona e al naturale. E' in lui lo spirito ironico del
    Risorgimento con lineamenti molto precisi de' tempi moderni.
Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi: religiosa, morale,
    politica, intellettuale. E non è solo negazione vuota. E'
    affermazione, è il verbo. Di contro a ciascuna negazione sorge un'
    affermazione. Non è la caduta del mondo: è il suo rinnovamento.
    Dirimpetto alla teocrazia sorge l'autonomia e l'indipendenza dello
    Stato. Tra l'impero e la città o il feudo, le due unità politiche
    del medio evo, sorge un nuovo ente, la nazione, alla quale il
    Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi; la razza, la
    lingua, la storia, i confini.
Tra le repubbliche e i principati spunta già una specie di governo
    medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli altri e
    assicuri a un tempo la libertà e la stabilità: governo che è un
    presentimento dei nostri ordini costituzionali, e di cui il
    Machiavelli dà i primi lineamenti nel suo progetto per la riforma
    degli ordini politici in Firenze. E' tutto un nuovo mondo politico
    che appare. Si veda, fra l'altro, dove il Machiavelli parla della
    formazione de' grandi Stati, e sopratutto della Francia.
Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa dalla
    religione ogni temporalità e, come Dante, combatte la confusione de'
    due reggimenti, e fa una descrizione de' principati ecclesiastici,
    notabile per la profondità dell'ironia.
    
    La religione, ricondotta nella sua sfera spirituale, è da lui
    considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione, come
    strumento di grandezza nazionale. E' in fondo l'idea di una Chiesa
    nazionale, dipendente dallo Stato e accomodata ai fini e agli
    interessi della nazione.
Altra è pure la base morale. Il fine etico del medio evo è la
    santificazione dell'anima, e il mezzo è la mortificazione della
    carne. Il Machiavelli, se biasima la licenza de' costumi invalsa al
    suo tempo, non è meno severo verso l'educazione ascetica. La sua dea
    non è Rachele, ma è Lia : non è la vita contemplativa, ma la vita
    attiva.
E perciò la virtù è per lui la vita attiva, vita di azione e in
    servizio della patria. I suoi santi sono più simili agli eroi
    dell'antica Roma che agl'iscritti nel calendario romano. O, per dir
    meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota.
    
    E si rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora,
    il Machiavelli non combatte la verità della fede, ma la lascia da
    parte, non se ne occupa, e, quando vi s'incontra, ne parla con
    un'aria equivoca di rispetto. Risecata dal suo mondo ogni causa
    soprannaturale e provvidenziale, vi mette a base l'immutabilità e
    l'immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore della
    storia. Questo è già tutta una rivoluzione. E' il famoso «cogito»,
    nel quale s'inizia la scienza moderna.
E' l'uomo emancipato dal mondo soprannaturale e sopraumano, che,
    come lo Stato, proclama la sua autonomia e la sua indipendenza e
    prende possesso del mondo.
E si rinnova il metodo. Il Machiavelli non riconosce verità a priori
    e princìpi astratti, e non riconosce autorità di nessuno come
    criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di etica fa stima
    uguale: mondi d'immaginazione, fuori della realtà. La verità è la
    cosa effettuale; e perciò il modo di cercarla è l'esperienza
    accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti.
Tutto il formolario scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo
    fondato sulle combinazioni astratte dell'intelletto, incardinate
    nella pretesa esistenza degli universali, sostituisce la forma
    ordinaria del parlare diritta e naturale. Le proposizioni generali,
    le «maggiori» del sillogismo, sono capovolte, e compaiono in
    ultimo come risultati di una esperienza illuminata dalla
    riflessione. In luogo del sillogismo hai la «serie», cioè a dire
    concatenazione di fatti, che sono insieme causa ed effetto, come si
    vede in questo esempio:
    
    Avendo la città di Firenze... perduta parte di terre del suo
    imperio, come Pisa e altre terre, fu necessitata a fare guerra a
    coloro che le occupavano, e perché chi le occupava era potente, ne
    seguiva che si spendeva molto nella guerra senza alcun risultato:
    dallo spendere molto ne risultava molte imposte, imposte infinite,
    insofferenze del popolo; e poichè questa guerra era amministrata da
    una magistratura di dieci cittadini... la moltitudine cominciò ad
    arrabbiarsi con loro come se fossero cagione e della guerra e delle
    spese di essa.
    
    Qui i fatti sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a
    vicenda: sono una doppia serie, l'una complicata, che ti dà le cause
    vere, visibile solo all'uomo intelligente; l'altra semplicissima,
    che ti dà la causa apparente e superficiale, e che pure è quella che
    trascina ad opere inconsulte l'universale, con una serietà ed una
    sicurezza che rende profondamente ironica la conclusione. I fatti
    saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella natura e
    nell'uomo: non vi senti alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi
    sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che
    ciascuno ha il suo posto, ha il suo valore di causa e di effetto, ha
    il suo ufficio in tutta la catena: il fatto non è solo fatto o
    accidente, ma è ragione, considerazione: sotto la narrazione si cela
    l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche pagine condensare
    tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo alla sua
    storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anche essi fatti
    intellettuali, e perciò l'autore si contenta di enunciare e non
    dimostra nulla.
Sono fatti cavati dalla storia, dall'esperienza del mondo, da un'acuta
osservazione, e presentati con semplicità pari all'energia. Molti di
questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca
di tutti, com'è quel «ritirare le cose ai loro princìpi», o
quell'ironia de' «profeti disarmati», o «gli uomini si stuccano del
bene, e del male si affliggono», o «gli uomini bisogna carezzarli o
spegnerli».
Di queste sentenze o pensieri ce ne sono molte raccolte. E sono un
    intero arsenale, dove hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue
    spoglie.
    
    Come esempio di questi fatti intellettuali usciti da una mente
    elevata e peregrina, ricordo la famosa dedica de' suoi Discorsi.
Con la forma scolastica rovina la forma letteraria, fondata sul
periodo. Ne' lavori didascalici il periodo era una forma sillogistica
dissimulata, una proposizione corteggiata dalla sua «maggiore» e dalle
sue idee medie: ciò che dicevasi «dimostrazione», se la materia era
intellettuale, o «descrizione», se la materia era di puri fatti.
Machiavelli ti dà semplici proposizioni, ripudiato ogni corteggio: non
descrive e non dimostra; narra o enuncia, e perciò non ha artificio di
periodo. Non solo uccide la forma letteraria, ma uccide la forma stessa
come forma; e fa questo nel secolo della forma, la sola divinità
riconosciuta.
Appunto perchè ha piena la coscienza di un nuovo contenuto, per lui
    il contenuto è tutto e la forma è nulla. O, per dire più corretto,
    la forma è essa medesima la cosa nella sua verità effettuale, cioè
    nella sua esistenza intellettuale o materiale. Ciò che a lui
    importa, non è che la cosa sia ragionevole o morale o bella, ma che
    la sia. Il mondo è così e così; e si vuol pigliarlo com'è, ed è
    inutile cercare se possa o debba essere altrimenti. La base della
    vita, e perciò del sapere, è il «Nosce te ipsum», la conoscenza
    del mondo nella sua realtà.
    
    Il fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il moralizzare sono
    frutto d'intelletti collocati fuori della vita e abbandonati
    all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa di ogni
    elemento astratto, etico e poetico. Guardando il mondo con uno
    sguardo superiore, il suo motto è: «Nil admirari». Non si
    meraviglia e non si appassiona, perchè comprende; come non dimostra
    e non descrive, perchè vede e tocca. Investe la cosa direttamente, e
    fugge le perifrasi, le circonlocuzioni, le amplificazioni, le
    argomentazioni, le frasi e le figure, i periodi e gli ornamenti,
    come ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via più breve, e
    perciò la diritta: non si distrae e non distrae.
Ti dà una serie stretta e rapida di proposizioni e di fatti,
    soppresse tutte le idee medie, tutti gli accidenti e tutti gli
    episodi. Ha l'aria del pretore, che «non curat de minimis», di un
    uomo occupato in cose gravi, che non ha tempo nè voglia di guardarsi
    attorno. Quella sua rapidità, quel suo condensare non è un
    artificio, come talora è in Tacito e sempre è nel Davanzati; ma è
    naturale chiarezza di visione, che gli rende inutili tutte quelle
    idee medie, di cui gli spiriti mediocri hanno bisogno per giungere
    faticosamente ad una conseguenza, ed è insieme pienezza di cose, che
    non gli fa sentire necessità di riempiere gli spazi vuoti con
    belletti e impolpature, che tanto piacciono a' cervelli oziosi.
La sua semplicità talora è negligenza, la sua sobrietà talora è
    magrezza: difetti delle sue qualità. E sono pedanti quelli che
    cercano il pel nell'uovo, e gonfiano le gote in aria di pedagoghi,
    quando in quella divina prosa trovino latinismi, slegature,
    scorrezioni e simili negligenze.
    La prosa del Trecento manca di organismo, e perciò non ha ossatura,
    non interna coesione vi abbonda l'affetto e l'immaginativa, vi
    scarseggia l'intelletto. Nella prosa del Cinquecento hai
    l'apparenza, anzi l'affettazione dell'ossatura, la cui espressione è
    il periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel lusso di
    congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la
    dissoluzione interna. Il vuoto non è nell'intelletto, ma nella
    coscienza, indifferente e scettica. Perciò il lavoro intellettivo è
    tutto al di fuori, frasche e fiori. Gli argomenti più frivoli sono
    trattati con la stessa serietà degli argomenti gravi, perchè la
    coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o
    frivolo.
Ma la serietà è apparente, è tutta formale e perciò retorica:
    l'animo vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa
    scrive l'orazione a Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il
    capitolo sul forno: salvo che qui è nella sua natura e ti riesce
    cinico, lì è fuori della sua natura e ti riesce falso. Il Galateo e
    il Cortigiano sono le due migliori prose di quel tempo, come
    rappresentazione di una società pulita ed elegante, tutta al di
    fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che
    poneva la principale importanza della vita ne' costumi e ne' modi.
    Anche l'intelletto, in quella sua virilità oziosa, poneva la
    principale importanza della composizione ne' costumi e ne' modi
    ovvero nell'abito. Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano
    divenne in breve convenzionale, un meccanismo tutto d'imitazione, a
    cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo. I filosofi non avevano
    ancora smesse le loro forme scolastiche; i poeti petrarcheggiavano;
    i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e retorico, con
    l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la
    passività o indifferenza dell'intelletto, del cuore,
    dell'immaginazione, cioè a dire di tutta l'anima. c'era lo
    scrittore, non c'era l'uomo. E fin d'allora fu considerato lo
    scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che dicevasi
    «forma letteraria», nella piena indifferenza dell'animo: divorzio
    compiuto tra l'uomo e lo scrittore.
    
    Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche, comparve la
    prosa del Machiavelli, presentimento della prosa moderna.
    Qui l'uomo è tutto, e non c è lo scrittore, o c è solo in quanto
    uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia un'arte dello
    scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora
    ci si prova e ci riesce maestro; ed è, quando vuol fare il
    letterato, anche lui. L'uomo è in lui tutto. Quello che scrive è -
    una produzione immediata del suo cervello, esce caldo caldo dal di
    dentro: cose e impressioni, spesso condensate in una parola. Perché
    è un uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e riflette,
    con lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa, non il suo
    colore: pure la cosa vien fuori insieme con le impressioni fatte nel
    suo cervello, perciò naturalmente colorita, traversata d'ironia, di
    malinconia, di indignazione, di dignità, ma principalmente lei nella
    sua chiarezza plastica. Quella prosa è chiara e piena come un marmo,
    ma un marmo qua è là venato. E' la grande maniera di Dante che vive
    là dentro.
Parlando dei mutamenti introdotti dal medio evo nei nomi delle cose
    e degli uomini, finisce così: «Gli uomini ancora, di Cesari e
    Pompei, Pieri, Giovanni e Mattei diventarono». Qui non c'è che il
    marmo, la cosa ignuda; ma quante vene in questo marmo! Ci senti
    tutte le impressioni fatte da quell'immagine nel suo cervello,
    l'ammirazione per quei Cesari e Pompei il disprezzo per quei Pieri e
    Mattei, lo sdegno di quel mutamento; e lo vedi alla scelta
    caratteristica dei nomi, al loro collocamento in contrasto come
    nemici, e a quell'ultimo ed energico "diventarono", che accenna a
    mutamenti non solo di nomi ma di animi.
Questa prosa, asciutta, precisa e concisa, tutta pensiero e tutta
    cose, annunzia l'intelletto già adulto, emancipato da elementi
    mistici, etici e poetici, e divenuto il supremo regolatore del
    mondo: la logica o la forza delle cose, il fato moderno. Questo è in
    effetti il senso intimo del mondo, come il Machiavelli lo
    concepisce.
Lasciando da parte le sue origini, il mondo è quello che è: un
    attrito di forze umane e naturali, dotate di leggi proprie. Ciò che
    dicesi «fato», non è altro che la logica, il risultato necessario di
    queste forze, appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie,
    interessi, mosse e regolate da una forza superiore, lo spirito
    umano, il pensiero, l'intelletto.
    
    Il Dio di Dante è l'amore, forza unitiva dell'intelletto e
    dell'atto: il risultato era sapienza. Il Dio di Machiavelli è
    l'intelletto, l'intelligenza e la regola delle forze mondane: il
    risultato è scienza. - Bisogna amare - dice Dante. - Bisogna
    intendere - dice Machiavelli. L'anima del mondo dantesco è il cuore,
    l'anima del mondo machiavellico è il cervello.
Quel mondo è essenzialmente mistico ed etico: questo è
    essenzialmente umano e logico. La virtù muta il suo significato: non
    è sentimento morale, ma è semplicemente forza o energia, la tempra
    dell'animo; e Cesare Borgia è virtuoso perchè avea la forza di
    operare secondo logica, cioè di accettare i mezzi quando aveva
    accettato lo scopo. Se l'anima del mondo è il cervello, hai una
    prosa che è tutta e sola cervello.
    
    Ora possiamo comprendere il Machiavelli nelle sue applicazioni. La
    storia di Firenze sotto forma narrativa è una logica degli
    avvenimenti. Dino scrive col cuore commosso, con l'immaginazione
    colpita: tutto gli par nuovo, tutto offende il suo senso morale. Vi
    domina il sentimento etico, come in Dante, nel Mussato, in tutti i
    trecentisti. Ma ciò che interessa il Machiavelli è la spiegazione
    de' fatti nelle forze motrici degli uomini, e narra calmo e
    meditativo, a modo di filosofo che ti dia l'interpretazione del
    mondo. I personaggi non sono còlti nel caldo dell'affetto e nel
    tumulto dell'azione: non è una storia drammatica.
L'autore non è sulla scena nè dietro la scena, ma è nella sua
    camera, e, mentre i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne i
    motivi. La sua apatia non è che preoccupazione di filosofo, inteso a
    spiegare e tutto raccolto in questo lavoro intellettivo, non
    distratto da emozioni e impressioni. E' l'apatia dell'ingegno
    superiore, che guarda con compassione a' moti convulsi e nervosi
    delle passioni.
Ne' Discorsi ci è maggior vita intellettuale. L'intelletto si stacca
    da' fatti, e vi torna per attingervi lena e ispirazione. I fatti
    sono il punto fermo intorno a cui gira. Narra breve, come chi
    ricordi quello che tutti sanno ed ha fretta di uscirne. Ma, appena
    finito il racconto, comincia il discorso. L'intelletto, come
    rinvigorito a quella fonte, se ne spicca tutto pieno d'ispirazioni
    originali, sorpreso e contento insieme. Senti lì il piacere di
    quell'esercizio intellettuale e di quella originalità, di quel dir
    cose che a' volgari sembrano paradossi.
Quei pensieri sono come una schiera ben serrata, dove non penetra
    niente dal di fuori a turbarvi l'ordine. Non è una mente agitata nel
    calore della produzione, tra quel flutto d'immaginazioni e di
    emozioni che ti annunzia la fermentazione, come avviene talora anche
    ai più grandi pensatori. E' l'intelletto pieno di gioventù e di
    freschezza, tranquillo nella sua forza e in sospetto di tutto ciò
    che non è lui. Digressioni, immagini, effetti, paragoni, giri
    viziosi, perplessità di posizioni: tutto è bandito in queste serie
    disciplinate d'idee, mobili e generative, venute fuori da un vigor
    d'analisi insolito e legate da una logica inflessibile.
Tutto è profondo, ed è così chiaro e semplice che ti pare
    superficiale.
    
Il fondamento dei' Discorsi è questo: che gli uomini «non sanno essere
nè in tutto buoni nè in tutto tristi», e perciò non hanno tempra
logica, non hanno virtù. Hanno velleità, non hanno volontà.
Immaginazioni, paure, speranze, vane cogitazioni, superstizioni tolgono
loro la risolutezza. Perciò «stanno» volentieri «in sull'ambiguo», e
scelgono le «vie di mezzo», e «seguono le apparenze». C è nello spirito
umano uno stimolo o appetito insaziabile, che lo tiene in continua
opera e produce il progresso storico. Ond'è che gli uomini non sono
tranquilli e salgono di un'ambizione a un'altra, e prima si difendono e
poi offendono, e più uno ha più desidera. Sicchè negli scopi gli uomini
sono infiniti, e ne' mezzi sono perplessi e incerti.
    
    Quello che degli individui, si può dire anche dell'uomo collettivo,
    come famiglia o classe. Nella società non c' è in fondo che due sole
    classi: degli «abbienti» e de' «non abbienti», de' ricchi e de'
    poveri. E la storia non è se non l'eterna lotta tra chi ha e chi non
    ha.
    Gli ordini politici sono mezzi di equilibrio tra le classi. E sono
    liberi quando hanno a fondamento l' «equalità». Perciò libertà non
    può essere dove sono «gentiluomini» o classi privilegiate.
E' chiaro che una scienza o arte politica non è possibile quando non
    abbia per base la conoscenza della materia su che si ha a
    esercitare, cioè dell'uomo come individuo e come classe. Perciò una
    gran parte di questi Discorsi sono ritratti sociali delle
    moltitudini o delle plebi, degli ottimati o gentiluomini, de'
    principi, de' francesi, de' tedeschi, degli spagnoli, d'individui e
    di popoli. Sono ritratti finissimi per originalità di osservazione
    ed evidenza di esposizione, ne' quali vien fuori il «carattere»,
    cioè quelle forze che muovono individui e popoli o classi ad operare
    così o così. Le sue osservazioni sono frutto di una esperienza
    propria e immediata, e perciò freschissime e vive anche oggi.
    
    Poiché il carattere umano ha questa base comune, che i desidèri o
    appetiti sono infiniti, e debole ed esitante è la virtù di
    conseguirli, hai sproporzione tra lo scopo e i mezzi; onde nascono
    le oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza
    politica o l'arte di condurre e governare gli uomini ha per base la
    precisione dello scopo e la virtù de' mezzi; e in questa consonanza
    è quella energia intellettuale, che fa grandi gli uomini e le
    nazioni. La logica governa il mondo.
Questo punto di vista logico, preponderante nella storia, comunica
    all'esposizione una calma intellettuale piena di forza e di
    sicurezza, come di uomo che sa e vuole. Il cuore dell'uomo
    s'ingrandisce col cervello. Più uno sa e più osa. Quando la tempra è
    fiacca, di' pure che l'intelletto è oscuro. L'uomo allora non sa
    quello che vuole, tirato in qua e in là dalla sua immaginazione e
    dalle sue passioni, com'è proprio del volgo.
    
    Un'applicazione di questa implacabile logica è il Principe.
    Machiavelli biasima i principi che per frode o per forza tolgono la
    libertà ai popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro con quali mezzi
    debbano mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria, ma la
    conservazione del principe: se non che il principe provvede a se
    stesso, provvedendo allo Stato. L'interesse pubblico è il suo
    interesse. Libertà non può dare, ma può dare buone leggi che
    assicurino l'onore, la vita, là sostanza de' cittadini. Deve mirare
    a procacciarsi il favore e la grazia del popolo, tenendo in freno i
    gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non
    ammazzandoli, ma studiandoli e comprendendoli: «non ingannato da
    loro, ma ingannando loro». Come stanno alle apparenze, il principe
    deve darsi tutte le buone apparenze, e, non volendo essere, parere
    almeno religioso, buono, clemente, protettore delle arti e
    degl'ingegni. Nè tema d'essere scoperto; perchè gli uomini sono
    naturalmente semplici e creduli. Ciò che in loro ha più efficacia è
    la paura: perciò il principe miri a farsi temere più che amare.
    Sopratutto eviti di rendersi odioso o spregevole.
    
    Chi legge il trattato De regimine principum di Egidio Colonna, vi
    troverà un magnifico mondo etico, senza alcun riscontro con la vita
    reale. Chi legge questo Principe del Machiavelli, vi troverà un
    crudele mondo logico, fondato sullo studio dell'uomo e della vita.
    L'uomo vi è, come natura, sottoposto nella sua azione a leggi
    immutabili, non secondo criteri morali, ma secondo criteri logici.
    Ciò che gli si deve domandare non è se quello che egli fa sia buono
    o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra i
    mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato dalla forza come forza,
    ma dalla forza come intelligenza.
L'Italia non ti poteva dare più un mondo divino ed etico: ti dà un
    mondo logico. Ciò che era in lei ancora intatto era l'intelletto; e
    il Machiavelli ti dà il mondo dell'intelletto, purgato dalle
    passioni e dalle immaginazioni.
    
    Machiavelli bisogna giudicarlo da quest'alto punto di vista. Ciò a
    cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo,
    e la virtù di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e
    lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o estranei. La
    chiarezza dell'intelletto, non intorbidito da elementi
    soprannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E il
    suo eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che comprende
    e regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istrumenti. Lo
    scopo può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è
    lui il primo ad alzare la voce e protestare in nome del genere
    umano. Vedasi il capitolo decimo, una delle proteste più eloquenti
    che siano uscite da un gran cuore, Ma, posto lo scopo, la sua
    ammirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo
    conseguirlo. La responsabilità morale è nello scopo, non è nei
    mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel non sapere o nel non
    volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il terribile; non
    ammette l'odioso o lo spregevole. L'odioso è il male fatto per
    libidine o per passione o per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole
    è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove
    l'intelletto ti dice che pur bisogna andare.
    
    Quando Machiavelli scriveva queste cose, l'Italia si trastullava nei
    romanzi e nelle novelle, con lo straniero a casa. Era il popolo meno
    serio del mondo e meno disciplinato. La tempra era rotta. Tutti
    volevano cacciare lo straniero, a tutti «puzzava il barbaro
    dominio»; ma erano velleità. E si comprende come il Machiavelli miri
    principalmente a ristorare la tempra, attaccando il male nella sua
    radice. Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono
    frasi. Al contrario, quando la tempra si rifà, si rifà tutto
    l'altro. E Machiavelli glorifica la tempra anche del male. Innanzi a
    lui è più uomo Cesare Borgia, intelletto chiaro e animo fermo,
    ancorachè destituito d'ogni senso morale, che il buon Pier Soderini,
    cima di galantuomo, ma. «anima sciocca», che per la sua incapacità e
    la sua fiacchezza perdette la repubblica.
    
Ma, se in Italia la tempra era infiacchita, lo spirito era integro. Se
da una parte Machiavelli poneva a base della vita l'essere «uomo»,
iniziando l"età virile della forza intelligente, d'altra parte il
motivo principale comico dello spirito italiano nella sua letteratura
romanzesca era appunto la forza incoerente, cioè a dire indisciplinata
e senza scopo. Il tipo cavalleresco, com'era concepito in Italia, era
ridicolo per questo: che si presentava all'immaginazione come un
esercizio incomposto di una forza gigantesca, senza serietà di scopo e
di mezzi, la forza come forza, e tutta la forza nei fini più seri e più
frivoli: ciò che rende così comici Morgane, Mandricardo, Fracassa.
    
    C'erano certo i fini cavallereschi, come la tutela delle donne, la
    difesa degli oppressi; ma che parevano a quel pubblico intelligente
    e scettico comici non altrimenti che quegli effetti straordinari di
    forza corporale. Si può dire, di quei cavalieri foggiati dallo
    spirito italiano, quello che Doralice dicea a Mandricardo, quando lo
    vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello che aveva
    fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse: «fu
    naturale ferità di core». 
Lo spirito italiano dunque da una parte
    metteva in caricatura il medio evo come un giuoco disordinato di
    forze, e dall'altra gettava la base di una nuova età su questo
    principio virile: che la forza è intelligenza, serietà di scopo e di
    mezzi. Ciò che l'Italia distruggeva, ciò che creava, rivelava una
    potenza intellettuale, che precorreva l'Europa di un secolo.
    
    Ma in Italia c'era l'intelligenza e non c'era la forza. E si credeva
    con la superiorità intellettuale di potere cacciar gli stranieri.
    Era una intelligenza adulta, svegliatissima ma astratta, una logica
    formale nella piena indifferenza dello scopo. Era la scienza per la
    scienza, come l'arte per l'arte. Nella coscienza non c'era più uno
    scopo nè un contenuto. E quando la coscienza è vuota, il cuore è
    freddo, e la tempra è fiacca, anche nella maggiore virilità
    dell'intelletto. Il movimento dello spirito era stato assolutamente
    negativo e comico. Agl'italiani era più facile ridere delle forze
    indisciplinate che disciplinarsi, e più facile ridere degli
    stranieri che mandarli via. Il frizzo era l'attestato della loro
    superiorità intellettuale e della loro decadenza morale. Mancava non
    la forza fisica e non il coraggio che ne è la conseguenza, ma la
    forza morale, che ci tenga stretti intorno ad una idea e risoluti a
    vivere e a morire per quella.
    
    Machiavelli ebbe una coscienza chiarissima di questa decadenza o,
    com'egli diceva, «corruttela»:
    Qui - scrive - è virtù grande nelle membra, quando la non mancasse
    nei capi. Specchiatevi nei duelli e nei congressi de' pochi, quanto
    gl'italiani siano superiori con le forze, con la destrezza, con
    l'ingegno.
    Pure l'Italia era corrotta, perchè difettava di forze morali, e
    perciò di un degno scopo che riempisse di sè la coscienza nazionale.
    Di lui è questo grande concetto: che il nerbo della guerra non sono
    i danari nè le fortezze nè i soldati, ma le forze morali o, com'egli
    dice, il patriottismo e la disciplina. Di quella corruzione italiana
    la principal causa era il pervertimento religioso. Abbiamo di lui
    queste memorabili parole, di cui Lutero era il comento:
    
    "La... religione, se nei principi della repubblica cristiana si
    fusse mantenuta secondo che dal datore d'essa ne fu ordinato,
    sarebbero gli Stati e le repubbliche più unite e più felici assai
    ch'elle non sono. Nè si può fare altra maggiore congettura della
    declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più
    propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno
    meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse l'uso
    presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo
    senza dubbio o la rovina o il flagello".
    
    Certo, non è ufficio grato dire dolorose verità al proprio paese, ma
    è un dovere di cui l'illustre uomo sente tutta la grandezza:
    "Chi nasce in Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia
    oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi
    suoi".
    
Per lui è questo una sacra missione, un atto di patriottismo. Il suo
sguardo abbraccia tutta la storia del mondo. Vede tanta gloria in
Assiria, in Media, in Persia, in Grecia, in Italia e Roma. Celebra il
regno de' franchi, il regno de' turchi, quello del soldano, e le geste
della «setta saracina», e le virtù «de' popoli della Magna» al tempo
suo. Lo spirito umano, immutabile e immortale, passa di gente in gente
e vi mostra la sua virtù. E quando getta l'occhio sull'Italia, il
paragone lo strazia. Le sue più belle pagine storiche sono dove narra
la decadenza di Genova, di Venezia, di altre città italiane, in tanto
fiorire degli Stati europei. Non adulare il suo paese, ma dirgli il
vero, fargli sentire la propria decadenza, perchè ne abbia vergogna e
stimolo, descrivere la malattia e notare i rimedi, gli pare ufficio di
uomo dabbene. Questo sentimento del dovere dà alle sue parole una
grande elevatezza morale:
"Se la virtù che allora regnava e il vizio che ora regna non fussero
    più chiari che il sole, andrei col parlare più rattenuto. Ma,
    essendo la cosa così manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in
    dire manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi
    tempi, acciocchè gli animi de' giovani, che questi miei scritti
    leggeranno, possano fuggire questi e prepararsi ad imitar quelli...
    Perchè gli è ufficio d'uomo buono quel bene, che per la malignità
    de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad
    altri, acciocchè, essendone molti capaci, alcuno di quelli più amati
    dal cielo possa operarlo".
Queste parole sono un monumento. Ci si sente dentro lo spirito di
    Dante.
    
    Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica con severità uomini e
    cose. Del papato tutti sanno quello che ha scritto. Nè è più
    indulgente verso i principi:
    
    "Questi nostri principi, che erano stati molti anni nel principato
    loro, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma l'ignavia
    loro; perchè, non avendo mai ne' tempi quieti pensato che possano
    mutarsi... quando poi vennero i tempi avversi, pensarono a fuggirsi
    e non a difendersi".
    
    Degli avventurieri scrive:
    
    "Il fine della loro virtù è stato che (Italia) è stata corsa da
    Carlo, predata da Luigi, forzata da Ferrando e vituperata dai
    svizzeri;... tanto che essi hanno condotta Italia schiava e
    vituperata".
    
    Ne è meno severo verso i gentiluomini, avanzi feudali, rimasti vivi
    ed eterni in questa maravigliosa pittura
    
    ""Gentiluomini" sono chiamati quelli che oziosi vivono dei proventi
    delle loro possessioni abbondantemente, senza avere alcuna cura o di
    coltivare o di alcun'altra necessaria fatica a vivere. Questi tali
    sono perniciosi in ogni repubblica ed in ogni provincia : ma più
    perniciosi sono quelli che, oltre alle predette fortune, comandano a
    castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due
    sorti di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di Roma, la
    Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è
    mai stata alcuna repubblica nè alcuno vivere politico, perchè tali
    generazioni d'uomini sono nemici di ogni civiltà".
    
    Degna di nota è qui l'idea, tutta moderna, che il fine dell'uomo è
    il lavoro e che il maggior nemico della civiltà è l'ozio: principio
    che ha gettato giù i conventi ed ha rovinato dalla radice non solo
    il sistema ascetico o contemplativo, ma anche il sistema feudale,
    fondato su questo fatto: che l'ozio dei pochi viveva del lavoro dei
    molti. Un uomo, che con una sagacia pari alla franchezza nota tutte
    le cause della decadenza italiana, poteva ben dire, accennando a
    Savonarola:
    
    "Ond'è che a Carlo, re di Francia, fu lecito pigliare Italia col
    gesso; e chi diceva come di questo ne erano cagione i peccati
    nostri, diceva il vero; ma non erano già quelli che credeva, ma
    questi ch'io ho narrati".
    
    Gli oziosi sono fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna o la
    sfortuna. Anche allora dei mali d'Italia accusavano la mala sorte.
    Machiavelli scrive:
    "La fortuna... dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a
    resisterle, e quivi rivolge i suoi impeti dove sa che sono fatti gli
    argini e i ripari a tenerla. E se voi considererete l'Italia, che è
    la sede di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto,
    vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun riparo".
    
    Essendo l'Italia in quella corruttela, Machiavelli invoca un
    redentore, un principe italiano, che, come Teseo o Ciro o Mosè o
    Romolo, la riordini, persuaso che a riordinare uno Stato si richieda
    l'opera di uno solo, a governarlo l'opera di tutti. Ne' grandi
    pericoli i romani nominavano un dittatore: nell'estremo della
    corruzione Machiavelli non vede altro scampo che nella dittatura:
    
    "Cercando un principe la gloria del mondo, dovrebbe desiderare di
    possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto, come
    Cesare, ma per riordinarla, come Romolo".
    
    Di Cesare - scrive un giudizio originale rimasto celebre:
    
    "Nè sia alcuno che s'inganni per la gloria di Cesare, sentendo le
    massime celebrate dagli scrittori; perchè questi che lo laudano sono
    corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza dell'imperio,
    il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli
    scrittori parlassero liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere
    quello che gli scrittori liberi ne direbbero, veda quello che dicono
    di Catilina. E tanto è più detestabile Cesare, quanto è più da
    biasimare quello che ha fatto che quello che ha voluto fare un male.
    Vedasi pure con quante laudi celebrano Bruto; talchè, non potendo
    biasimare quello per la sua potenza, essi celebrano il nemico suo...
    E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia e il mondo
    abbia con Cesare".
    
    Machiavelli promette, a chi prende lo Stato con la forza, non solo
    l'amnistia, ma la gloria, quando sappia ordinarlo:
    
    "Considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come sono
    loro proposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la
    morte lì rende gloriosi; l'altra li fa vivere in continue angustie,
    e dopo la morte lasciare di sè una sempiterna infamia".
    
    Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo, che sani l'Italia
    dalle sue ferite, «e ponga fine... a' sacchi di Lombardia, alle
    espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle
    sue piaghe già per lungo tempo infistolite» E' l'idea tradizionale
    del redentore o del messia. Anche Dante invocava un messia politico,
    il veltro. Se non che, il salvatore di Dante ghibellino era Arrigo di
    Lussemburgo, perchè la sua Italia era il giardino dell'impero: dove
    il salvatore di Machiavelli doveva essere un principe italiano,
    perchè la sua Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori
    di essa era straniero, barbaro, «oltramontano». Chi vuol vedere il
    progresso dello spirito italiano da Dante a Machiavelli, paragoni la
    mistica e scolastica Monarchia dell'uno col Principe dell'altro,
    così moderno ne' concetti e nella forma.
L'idea del Machiavelli riuscì un'utopia, non meno che l'idea di Dante.
Ed oggi è facile assegnarne le ragioni. «Patria», «libertà», «Italia»,
«buoni ordini», «buone armi», erano parole per le moltitudini, dove non
era penetrato alcun raggio d'istruzione e di educazione. Le classi
colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita privata, tra ozi idillici e
letterari, erano cosmopolite, animate dagli interessi generali
dell'arte e della scienza, che non hanno patria. Quell'Italia di
letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua indipendenza, e non
aveva quasi aria di accorgersene. Gli stranieri prima la spaventarono
con la ferocia degli atti e dei modi; poi la vinsero con le moine,
inchinandola e celebrando la sua sapienza.
    E per lungo tempo gl'italiani, perduta libertà e indipendenza,
    continuarono a vantarsi, per bocca dei' loro poeti, signori del
    mondo e a ricordare le avite glorie.
    
    Odio contro gli stranieri ce n' era, ed anche buona volontà di
    liberarsene. Ma c'era così poca fibra, che di una redenzione italica
    non ci fu neppure il tentativo. Nello stesso Machiavelli fu una
    idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio, per giungere
    alla sua attuazione, che di scrivere un magnifico capitolo, in un
    linguaggio rettorico e poetico fuori del suo solito, e che
    testimonia più le aspirazioni di un nobile cuore che la calma
    persuasione di un uomo politico. Furono illusioni.
    
    Vedeva l'Italia un po' di traverso dai suoi desidèri. Il suo onore,
    come cittadino, è di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria,
    come pensatore, è di avere stabilito la sua utopia sopra elementi
    veri e durevoli della società moderna e della nazione italiana,
    destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale
    egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la verità del
    futuro.
    Non è meraviglia che il Machiavelli, con tanta esperienza del mondo,
    con tanta sagacia d'osservazione, abbia avuto illusioni, perchè
    nella sua natura c'è entrato molto del poetico. Vedilo nell'osteria
    giocare con l'oste, con un mugnaio, con due fornaciari a «picca» e
    a «trie trac»:
    
    "E... nascono mille contese e mille dispetti di parole ingiuriose, e
    il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti
    nondimanco gridare da San Casciano".
    Questo non è che plebeo, ma diviene profondamente poetico nel
    comento appostovi:
    
    "Rinvolto in quella viltà, traggo il cervello di muffa e sfogo la
    malignità di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per quella
    via, per vedere se la se ne vergognasse".
    
Vedilo tutto solo per il bosco, con un Petrarca o con un Dante, «
libertineggiare» con lo spirito, fantasticare, abbandonalo alle onde
dell'immaginazione:
    
    "Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; ed in
    sull'uscio mi spoglio quella vesta contadina piena di fango e di
    loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito decentemente
    entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro
    ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che
    io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e
    domandare della ragione delle loro azioni, ed essi per loro umanità
    mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, e
    dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la
    morte: tutto mi trasferisco in loro".
    
    Quel «trasferirsi in loro», quel «libertineggiare» sono frasi
    energiche di uno spirito contemplativo, estatico, entusiastico. C'è
    una parentela tra Dante e Machiavelli. Ma è un Dante nato dopo
    Lorenzo de' Medici, nutrito dello spirito del Boccaccio, che si
    beffa della «divina commedia» e cerca la commedia in questo mondo.
    Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e
    divinatrice. Ecco il principe leva la bandiera, grida : - Fuori i
    barbari! --- a modo di Giulio. Il poeta è lì; assiste allo
    spettacolo della sua immaginazione:
    
    Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero
    l'ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli
    negherebbe l'ossequio?
E finisce co' versi del Petrarca
    
    "Virtù contro al Furore
    prenderà l'arme, e fia il combatter corto :
    chè l'antico valore
    negl'italici cuor non è ancor morto".
    
    Ma furono brevi illusioni. C'era nel suo spirito la bella immagine
    di un mondo morale e civile e di un popolo virtuoso e disciplinato,
    ispirata dall'antica Roma: ciò che lo fa eloquente ne' suoi biasimi
    e nelle sue lodi. Ma era un mondo poetico troppo disforme alla
    realtà, ed egli medesimo è troppo lontano da quel tipo, troppo
    simile per molte parti ai suoi contemporanei. Ond'è che la sua vera
    musa non è l'entusiasmo: è l'ironia. La sua aria beffarda, congiunta
    con la sagacia dell'osservazione, lo chiariscono uomo del
    Risorgimento. De' principi ecclesiastici scrive:
    
    "Costoro soli hanno Stati e non li difendono, hanno sudditi e non li
    governano, e gli Stati per essere indifesi non sono loro tolti, e i
    sudditi per non essere governati non se ne curano, nè pensano nè
    possono alienarsi da loro... Essendo quelli retti da cagione
    superiore, alla quale la mente umana non aggiugne, lascerò il
    parlarne; perchè, essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe
    ufficio d'uomo presuntuoso e temerario il discorrerne".
    
    In tanta riverenza di parole, non è difficile sorprendere sulle
    labbra di chi scrive quel piglio ironico che trovi nei
    contemporanei. Famosi sono i suoi ritratti per l'originalità e
    vivacità dell' osservazione. Dei francesi e spagnuoli scrive:
"Il francese ruberia con lo alito, per mangiarselo e mandarlo a
    male, e goderselo con colui a chi lo ha rubato. Natura contraria
    alla spagnuola, che di quello che ti ruba mai ne vedi niente".
    
    Da questo profondo ed originale talento di osservazione, da questo
    spirito ironico uscì la Mandragola: l'alto riso nel quale finirono
    le sue illusioni e i suoi disinganni.
Dopo i primi tentativi idillici, la commedia si era chiusa nelle
    forme di Plauto e di Terenzio. L'Ariosto scriveva per la corte di
    Ferrara; il Cardinale di Bibbiena scriveva per le corti di Urbino e
    di Roma. Vi si rappresentavano anche con molta magnificenza
    traduzioni dal latino. Talora gli attori erano fanciulli.
    
    "Fu pur troppo nuova cosa - scrive il Castiglione - vedere
    vecchiettini lunghi un palmo servare quella gravità, quelli gesti
    così severi, [simular] parassiti e ciò che fece mai Menandro".
    
    Accompagnamento alla commedia era la musica, e intermezzi o
    intromesse erano le «moresche», balli mimici. Le decorazioni
    magnifiche. "Nella rappresentazione della Calandria in Urbino vedevi
    un tempio... tanto ben finito - dice il Castiglione, - che... non
    saria possibile a credere che fosse fatto in quattro mesi: tutto
    lavorato di stucco, con istorie bellissime: finte le finestre
    d'alabastro: tutti gli architravi e le cornici d'oro fino e azzurro
    oltramarino...: figure intorno tonde finte di marmo...: colonnette
    lavorate... Da un de' capi era un arco trionfale... Era finta di
    marmo, ma era pittura, la istoria delli tre Orazi, bellissima... In
    cima dell'arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda,
    armata, con un bello atto, che feria con un'asta un nudo che gli era
    a' piedi".
    
    L'Italia si vagheggiava colà in tutta la pompa delle sue arti:
    architettura, scultura, pittura. Musiche bizzarre, tutte nascoste e
    in diversi luoghi. Quattro intromesse, una «moresca di Iasòn» o
    Giasone, un carro di Venere, un carro di Nettuno, un carro di
    Giunone. La prima intromessa è così descritta dal Castiglione:
    
    "La prima fu una moresca di Iasòn, il quale comparse nella scena da
    un capo ballando, armato all'antica, bello, con la spada e una targa
    bellissima; dall'altro furon visti in un tratto due tori, tanto
    simili al vero che alcuni pensaron che fosser veri, che gittavano
    fuoco dalla bocca, ecc. A questi s'accostò il buon Iasòn, e feceli
    arare, posto loro il giogo e l'aratro; e poi seminò i denti del
    dracone: e nacquero appoco appoco, del palco, uomini armati
    all'antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E questi
    ballarono una fiera moresca, per ammazzar Iasòn; e poi, quando
    furono all'entrare, s'ammazzavano ad uno ad uno, ma non si vedeano
    morire. Dietro ad essi se n'entrò Iasòn, e subito uscì col vello
    d'oro alle spalle, ballando eccellentissimamente. E questo era il
    Moro, e questa fu la prima intromessa.
    Finita la commedia nacque sul palco all'improvvisto un amorino, che
    dichiarò con alcune stanze il significato delle intromesse. Poi
    s'udì una musica nascosa di quattro viole, e poi quattro voci con le
    viole, che cantarono una stanza con un bello aere di musica, quasi
    una orazione ad Amore; e così fu finita la festa, con grande
    satisfazione e piacere di chi la vide";
    
    dice sempre il Castiglione, l'autore del Cortigiano, che ci ebbe non
    piccola parte ad ordinarla.
    
    Cosa era questa Calandria, nella cui rappresentazione Urbino e poi
    Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è
    Calandro, un facsimile di Calandrino, il marito sciocco: motivo
    comico del Decamerone, rimasto proverbiale in tutte le commedie e
    novelle. Non vi manca il negromante o l'astrologo che vive a spese
    de' gonzi. L'intreccio nasce da un fratello e una sorella
    similissimi di figura, che, vestiti or da uomo or da donna, generano
    equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco c' è anche il furbo, e il
    furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al
    padrone, il cui pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una
    scena tra il pedagogo e Fessenio: il pedagogo che moralizza, e
    Fessenio che gli dà la baia. Come si vede, l'argomento è di Plauto e
    il pensiero è del Boccaccio. La tela è antica, lo spirito è moderno.
    Assisti ad una rappresentazione di una delle più ciniche novelle del
    Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è vivo e
    fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l'alito
    di Lorenzo de' Medici. E' uno sguardo allegro e superficiale gettato
    sul mondo. I caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il
    capriccio; gli accidenti più strani si addossano gli uni sugli
    altri, crudi, senza sviluppo, più simili a' balli mimici delle
    intromesse che a vere e serie rappresentazioni. Pare che quegli
    uomini non avessero tempo di pensare e non di sentire, e che tutta
    la loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è
    stata tutta nelle gole dei cantanti e nelle gambe delle ballerine.
    Queste erano le commedie dette «d'intreccio», sullo stesso stampo
    delle novelle.
    
    A prima vista, ti pare qualcosa di simile la Mandragola. Anche qui
    vi è grande varietà d'intreccio, con accidenti i più comici e più
    strani. Ma niente è lasciato al caso. Machiavelli concepisce la
    commedia come ha concepito la storia. Il suo mondo comico è un gioco
    di forze, dotate ciascuna di qualità proprie, che debbono condurre
    inevitabilmente al tale risultato. L'interesse è perciò tutto nei
    caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è il solito marito
    sciocco. Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo
    istruito e che sa di latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno
    minor dottrina dì lui ma più pratica del mondo. C è già qui un
    concetto assai più profondo che non in Calandro: si sente il grande
    pensatore. L'obbiettivo dell'azione comica è la moglie,
    virtuosissima e prudentissima donna, vera Lucrezia. E si tratta di
    vincerla non con la forza, ma con l'astuzia. Gli antecedenti sono
    simili a quelli della Lucrezia romana. Callimaco, come Sesto, sente
    vantar la sua bellezza, e lascia Parigi e torna a Firenze sua
    patria, risoluto di farla sua. La tragedia romana si trasforma nella
    commedia fiorentina. Il mondo è mutato e rimpiccinito, Collatino è
    divenuto Nicia.
    
    Come Machiavelli ha potuto esercitare il suo ingegno a scriver
    commedie?
    
    Scusatelo con questo: che s'ingegna
    con questi van pensieri
    fare il suo tristo tempo più soave,
    perchè altrove non ave
    dove voltare il viso;
    chè gli è stato interciso
    mostrar con altre imprese altre virtue,
    non sendo premio alle fatiche sue.
    
    Cattivi versi, ma strazianti. Il suo riso è frutto di malinconia.
    Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero de' Medici e Federigo
    d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore; il cardinale da
    Bibbiena, «assassinato di amore», e il Bembo esalavano in lettere
    i loro sospiri, e l'uno scrivea gli Asolani e l'altro la Calandria;
    e Machiavelli parlava al deserto, ammonendo, consigliando; e non
    udito e non curato, fece come gli altri: scrisse commedie, ed ebbe
    l'onore di far ridere molto il papa e i cardinali.
Callimaco, l'innamorato di Lucrezia, si associa all'impresa Ligurio,
    un parassito che usava in casa Nicia. Lo sciocco è Nicia: il furbo è
    Ligurio, l'amico di casa, come si direbbe oggi. Ligurio tiene le
    fila in mano, e fa muovere tutti gli attori a suo gusto, perchè
    conosce il loro carattere, ciò che li muove.
Ligurio è un essere destituito d'ogni senso morale e che per un buon
    boccone tradirebbe Cristo. Non ha bisogno di essere Jago, perchè
    Nicia non è Otello. E' un volgare mariuolo, che con un po' più di
    spirito farebbe ridere. Riesce odioso e spregevole, il peggior tipo
    di uomo che abbia nel Principe concepito Machiavelli. Fessenio è più
    allegro e più spiritoso, perciò più tollerabile. Ciò che muove
    Ligurio e gli aguzza lo spirito è la pancia: finisce le sue geste in
    cantina. Ma questo suo lato comico è appena indicato, e questa
    figura ti riesce volgare e fredda.
    
    Un altro associato di Callimaco è il suo servo Siro. Costui ha poca
    parte, ma è assai ben disegnato. Ode tutto, vede tutto, capisce
    tutto; ed ha aria di non udire, non vedere e non capire: fa l'asino
    in mezzo ai' suoni. Ma questo lato comico è poco sviluppato, e ti
    riesce anche lui freddo: ciò che non guasta nulla, essendo una parte
    secondaria. Colui, che è dietro la scena e fa ballare i suoi figurini, è
    Ligurio. E sembra che l'ambizione di questo furfante sia di
    nascondere sè e mettere in vista tutto il suo mondo. Poco
    interessante per se stesso, lo ammiri nella sua opera e perdi lui di
    vista. Callimaco è un innamorato: per aver la sua bella farebbe monete
    false. La parte odiosa è riversata sul capo di Ligurio. A lui le
    smanie e i deliri. Non è amore petrarchesco e non è cinica
    volgarità: è vero amor naturale coi colori suoi, rappresentato con
    una esagerazione e una bonomia che lo rende comico
    
    "... Mi fo di buon cuore, ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte
    mi assalta tanto desio d'essere una volta con costei, che io mi
    sento dalle piante dei piè al capo tutto alterare : le gambe
    tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si sbarba del petto,
    le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi
    abbarbagliano, il cervello mi gira".
    
    Ma queste sono figure secondarie. L'interesse è tutto intorno al
    dottor Nicia, il marito sciocco, sì sciocco che diviene istrumento
    inconsapevole dell'innamorato e lo conduce lui stesso al letto
    nuziale. L'autore, molto sobrio intorno alle figure accessorie,
    concentra il suo spirito comico attorno a costui e lo situa ne' modi
    più acconci a metterlo in lume. La sua semplicità è accompagnata con
    tanta presunzione di saviezza e con tanta sicurezza di condotta, che
    l'effetto comico se ne accresce. E Ligurio non solo lo gabba, ma ci
    si spassa, e gli tiene sempre la candela sul viso per farlo ben
    vedere agli spettatori. Nelle ultime scene c' è una forza e
    originalità comica che ha pochi riscontri nel teatro antico e
    moderno.
Il difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere Lucrezia. L'azione,
così comica per rispetto a Nicia, qui s'illumina di una luce fosca e ti
rivela inesplorate profondità. Gli strumenti adoperati a vincer
Lucrezia sono il confessore e la madre, la venalità dell'uno,
l'ignoranza superstiziosa dell'altra. E Machiavelli, non che voglia
palliare, qui è terribilmente ignudo: scopre senza pietà quel
putridume. Sostrata, la madre, in poche pennellate è ammirabilmente
dipinta. E' una brava donna, ma di poco criterio, e avvezza a pensare
col cervello del suo confessore. Alle ragioni della figliuola risponde:
- «Io non ti so dir tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate,
vedrai quello che ti dirà, e farai quello che tu dipoi sarai
consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol bene». - E non si parte mai
di là: è la sua idea fissa, la sua sola idea: - «Io t'ho detto e
ridicoti che, se fra Timoteo ti dice che non ci sia carico di
coscienza, che tu lo faccia senza pensarvi». - Il confessore sa
perfettamente che madre è questa. - « ... E'... una bestia - dice - e
mi sarà un grande aiuto a condurla (Lucrezia) alle mie voglie».
    
    Il carattere più interessante è fra Timoteo, precursore di Tartufo:
    meno artificiale, anzi tutto naturale. Fa bottega della chiesa,
    della Madonna, del purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più, e
    la bottega redde poco. E lui aguzza l'ingegno. Se la prende co'
    frati, che non sanno mantenere la reputazione all'immagine
    miracolosa della Madonna:
"Io dissi il matutino, lessi una Vita de' santi padri, andai in
    chiesa, ed accesi una lampada ch'era spenta, mutai il velo ad una
    Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi frati che
    la tengano pulita? E si meravigliano poi se la devozione manca... Oh
    quanto poco cervello è in questi miei frati!"
    
    Il suo primo ingresso sulla scena è pieno di significato: colto sul
    fatto in un dialogo con una sua penitente: pittura di costumi
    profonda della sua semplicità. Sta spesso in chiesa, perché "in
    chiesa vale più la sua mercanzia". E' di mediocre levatura, buono a
    uccellar donne:
" ...Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò in su la
    bontà, e tutte le donne hanno poco cervello; e come n'è una che
    sappia dire due parole, e' se de predica; perché in terra di ciechi
    chi ha un occhio è signore".
    
    Conosce bene i suoi polli:
"Le più caritative persone che ci siano son le donne, e le più
    fastidiose. Chi le scaccia, fugge i fastidi e l'utile; chi le
    intrattiene, ha l'utile e i fastidi insieme. Ed è il vero che non c
    è il miele senza le mosche".
    Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il linguaggio del
    mestiere con la facilità indifferente e meccanica dell'abitudine. A
    Ligurio, che, promettendo larga lemosina, gli richiede che procuri
    un aborto, risponde: - «Sia col nome di Dio, si faccia ciò che
    volete, e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa... Datemi...
    cotesti denari, da poter cominciare a far qualche bene». -
    
    Parla spesso solo, e sì fa il suo esame, e si dà l'assoluzione,
    sempre che gliene venga utile:
"Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da ciascuno per diversi
    rispetti sono per trarre assai. La cosa conviene che sia segreta,
    perchè l'importa così a loro dirla come a me. Sia come si voglia, io
    non me ne pento".
    
    Se mostra inquietudine, è per paura che si sappia
    "Dio sa ch'io non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia
    cella, diceva il mio officio, intratteneva i miei devoti. Mi capitò
    innanzi questo diavolo di Ligurio, che mi fece intíngere il dito in
    un errore, donde io vi ho messo il braccio e tutta la persona, e non
    so ancora dove io m'abbia a capitare. Pure mi conforto che, quando
    una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura".
    
    Questo è l'uomo a cui la madre conduce la figliuola. Il frate
    impiega tutta la sua industria a persuaderla, e non si fa coscienza
    di adoperarvi quel poco che sa del Vangelo e della storia sacra:
    "Io son contenta - conclude Lucrezia; - ma non credo mai esser viva
    domattina".
    E il frate risponde:
    "Non dubitare, figliuola mia, io pregherò Dio per te, io dirò
    l'orazione dell'angiol Raffaello, che t'accompagni. Andate in
    buon'ora, e preparatevi a questo misterio, chè si fa sera".
    "Rimanete in pace, padre" - dice la madre; e la povera Lucrezia, che
    non è ben persuasa, sospira
    "Dio m'aiuti e la Nostra Donna ch'io non càpiti male".
    
    Quel fatto il frate lo chiama un «misterio», e il mezzano è l'«    angiol Raffaello» !
    
    Queste cose movevano indignazione in Germania e provocavano la
    Riforma. In Italia faceva invece ridere. E il primo a ridere era il
    papa. Quando un male diviene così sparso dappertutto e così
    ordinario che se ne ride, è cancrena e non vi è rimedio.
Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria, passatempo. Nel
    riso del Machiavelli c'è alcunchè di tristo e di serio, che
    oltrepassa la caricatura e nuoce all'arte. Evidentemente, il poeta
    non piglia confidenza con Timoteo, non lo situa come fa di Nicia,
    non ci si spassa, se ne sta lontano, quasi abbia ribrezzo. Timoteo è
    anima secca, volgare e stupida, senz'immaginazione e senza spirito:
    non è abbastanza idealizzato, ha colori troppo crudi e cinici. Lo
    stile, nudo e naturale, ha aria più di discorso che di dialogo.
    Senti meno il poeta che il critico, il grande osservatore e
    ritrattista.
    Appunto perciò la Mandragola è una commedia che ha fatto il suo
    tempo. E' troppo incorporata in quella società, in ciò ch'ella ha di
    più reale e particolare. Quei sentimenti e quelle impressioni, che
    la ispirarono, non li trovi oggi più. La depravazione del prete e la
    sua terribile influenza sulla donna e sulla famiglia appare a noi un
    argomento pieno di sangue non possiamo farne una commedia.
    Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella pittura di Nicia,
    qui perde il suo buon umore e la sua grazia, e mi assomiglia
    piuttosto un anatomico che snuda le carni e mostra i nervi e i
    tendini.
Nella sua immaginazione non c'è il riso e non c'è l'indignazione al
    cospetto di Timoteo: c'è quella spaventevole freddezza con la quale
    ritrae il principe o l'avventuriero o il gentiluomo. Sono come
    animali strani, che, curioso osservatore, egli analizza e descrive,
    quasi faccia uno studio, estraneo alle emozioni e alle impressioni.
    
    La Mandragola è la base di tutta una nuova letteratura. E' un mondo
    mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità, come un mondo
    governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si nascondono
    le più profonde combinazioni della vita interiore. L'impulso
    dell'azione viene da forze spirituali, inevitabili come il fato.
    Basta conoscere i personaggi per indovinare la fine. Il mondo è
    rappresentato come una conseguenza, le cui premesse sono nello
    spirito o nel carattere, nelle forze che lo movono. E chi meglio sa
    calcolarle, colui vince. Il soprannaturale, il meraviglioso, il caso
    sono detronizzati. Succede il carattere. Quello, che Machiavelli è
    nella storia e nella politica, è ancora nell'arte.
    
    Si distinsero due specie di commedie : «d'intreccio» e «di
    carattere». «Commedia d'intreccio» fu detta dove l'interesse
    nasce dagli sviluppi dell'azione, come erano tutte le commedie e
    novelle di quel tempo e anche tragedie. Si cercava l'effetto nella
    stranezza e nella complicazione degli accidenti. «Commedia di
    carattere» fu detta dove l'azione è mezzo a mettere in mostra un
    carattere. E sono definizioni viziose. Hai da una parte commedie
    sbardellate per troppo cumulo d'intrighi, dall'altra commedie scarne
    per troppa povertà d'azione. Machiavelli riunisce le due qualità. La
    sua commedia è una vera e propria azione, vivacissima di movimenti e
    di situazioni, animata da forze interiori, che ci stanno come forze
    o istrumenti e non come fini o risultati. Il carattere è messo in
    vista vivo, come forza operante, non come qualità astratta. Ciò che
    di più profondo ha il pensiero esce fuori sotto le forme più allegre
    e più corpulente, fino della più volgare e cinica buffoneria, come è
    il «don Cuccù», e la «palla di aloè». C'è lì tutto Machiavelli,
    l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava allo scrittoio.
    
    Di ogni scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli una parte
    è morta: quella per la quale è venuto a triste celebrità. E' la sua
    parte più grossolana, è la sua scoria quella che ordinariamente è
    tenuta parte sua vitale, così vitale che è stata detta il
    «machiavellismo».
    Anche oggi, quando uno straniero vuol dire un complimento
    all'Italia, la chiama «patria di Dante e di Savonarola», e tace di
    Machiavelli. Noi stessi non osiamo chiamarci «figli di Machiavelli».
    Tra il grande uomo e noi c'è il machiavellismo.
    E' una parola, ma una parola consacrata dal tempo, che parla
    all'immaginazione e ti spaventa come fosse l'orco.
Del Machiavelli è avvenuto quello che del Petrarca. Si è chiamato
    «petrarchismo» quello che in lui è un incidente ed è il tutto ne'
    suoi imitatori. E si è chiamato «machiavellismo» quello che nella
    sua dottrina è accessorio e relativo, e si è dimenticato quello che
    vi è di assoluto e di permanente.
    Così è nato un Machiavelli di convenzione, veduto da un lato solo e
    dal meno interessante.
E' tempo di rintegrare l'immagine.
    
    C'è nel Machiavelli una logica formale e c'è un contenuto.
La sua logica ha per base la serietà dello scopo, ciò ch'egli chiama
    «virtù»: Proporti uno scopo quando non puoi o non vuoi
    conseguirlo, è da femmina. «Essere uomo» significa «marciare allo
    scopo». Ma nella loro marcia gli uomini errano spesso, perchè hanno
    l'intelletto e la volontà intorbidata da fantasmi e da sentimenti, e
    giudicano secondo le apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli quelli
    che stimano le cose come le paiono e non come le sono, a quel modo
    che fa la plebe.
Cacciar via dunque tutte le vane apparenze e andare allo scopo con
    lucidità di mente e fermezza di volontà, questo è essere un uomo,
    aver la stoffa d'uomo. Quest'uomo può essere un tiranno o un
    cittadino, un uomo buono o un tristo. Ciò è fuori dell'argomento, è
    un altro aspetto dell'uomo. Ciò che riguarda Machiavelli è di vedere
    se è un uomo: ciò che mira è rifare le radici alla pianta «uomo»,
    in declinazione. In questa sua logica la virtù è il carattere o la
    tempra, e il vizio è l'incoerenza, la paura, l'oscillazione.
    
    Si comprende che in questa generalità c'è lezioni per tutti, per
    i buoni e per i birbanti, e che lo stesso libro sembra agli uni il
    codice dei tiranni e agli altri il codice degli uomini liberi.
Ciò che vi s'impara è di essere un uomo, come base di tutto il
    resto. Vi s'impara che la storia, come la natura, non è regolata dal
    caso, ma da forze intelligenti e calcolabili, fondate sulla
    concordanza dello scopo e de' mezzi; e che l'uomo, come essere
    collettivo o individuo, non è degno di questo nome se non sia anche
    esso una forza intelligente, coerenza di scopo e di mezzi. Da questa
    base esce l'età virile del mondo, sottratta possibilmente
    all'influsso dell'immaginazione e delle passioni, con uno scopo
    chiaro e serio e con mezzi precisi.
Questo è il concetto fondamentale, l'obbiettivo del Machiavelli. Ma
    non è principio astratto e ozioso: c'è un contenuto, che abbiamo già
    delineato ne' tratti essenziali.
    
    La serietà della vita terrestre col suo strumento, il lavoro; col
    suo obbiettivo, la patria; col suo principio, l'eguaglianza e la
    libertà; col suo vincolo morale, la nazione; col suo fattore, lo
    spirito o il pensiero umano, immutabile ed immortale; col suo
    organismo, lo Stato, autonomo e indipendente; con la disciplina
    delle forze; con l'equilibrio degl'interessi: ecco ciò che vi è di
    assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli, a cui è di
    corona la gloria, cioè l'approvazione del genere umano, ed è di base
    la virtù o il carattere: «altere et pati fortia».
Il fondamento scientifico di questo mondo è la cosa effettuale, come
    te la porge l'esperienza e l'osservazione. L'immaginazione, il
    sentimento, l'astrazione sono così perniciosi nella scienza come
    nella vita. Muore la scolastica : nasce la scienza.
    
    Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi giovane ancora. E' il
    programma del mondo moderno, sviluppato, corretto, ampliato, più o
    meno realizzato. E sono grandi le nazioni che più vi si avvicinano.
    Siano dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui quando
    crolla alcuna parte dell'antico edificio, e gloria a lui quando si
    fabbrica alcuna parte del nuovo ! In questo momento che scrivo
    (1870), le campane suonano a distesa e annunziano l'entrata
    degl'italiani a Roma. Il potere temporale crolla, e si grida il
    «viva» all'unità d'Italia. Sia gloria al Machiavelli !
    
    Scrittore non solo profondo, ma simpatico. Perchè nelle sue
    transazioni politiche discerni sempre le sue vere inclinazioni.
    Antipapale, antifeudale, civile, moderno. E quando, stretto dal suo
    scopo, propone certi mezzi, non di rado s'interrompe, protesta, ha
    quasi aria di chiederti scusa e di dirti: - Guarda che siamo in
    tempi corrotti; e se i mezzi son questi e il mondo è fatto così, la
    colpa non è mia.
    
    Ciò che è morto del Machiavelli non e il sistema, è la sua
    esagerazione. La sua «patria» mi rassomiglia troppo l'antica
    divinità, e assorbe in sè religione, moralità, individualità. Il suo
    «Stato» non è contento di essere esso autonomo, ma toglie
    l'autonomia a tutto il rimanente. Ci sono i dritti dello Stato:
    mancano i dritti dell'uomo. La «ragione di Stato» ebbe le sue
    forche, come l'Inquisizione ebbe i suoi roghi, e la «salute
    pubblica» le sue mannaie.
Fu Stato di guerra, e in quel furore di lotte religiose e politiche
    ebbe la sua culla sanguinosa il mondo moderno. Dalla forza uscì la
    giustizia. Da quelle lotte uscì la libertà di coscienza,
    l'indipendenza del potere civile e più tardi la libertà e la
    nazionalità. E se chiamate «machiavellismo» quei mezzi, vogliate
    chiamare «machiavellismo» quei fini. Ma i mezzi sono relativi e si
    trasformano, sono la parte che muore: i fini rimangono eterni.
    
    Gloria del Machiavelli è il suo programma; e non è sua colpa che
    l'intelletto gli abbia indicati de' mezzi, i quali la storia
    posteriore dimostrò conformi alla logica del mondo. Fu più facile il
    biasimarli che sceglierne altri. «Dura lex, sed ita lex».
Certo, oggi il mondo è migliorato in questo aspetto. Certi mezzi non
    sarebbero più tollerati e produrrebbero un effetto opposto a quello
    che se ne attendeva Machiavelli: allontanerebbero dallo scopo.
    L'assassinio politico, il tradimento, la frode, le sètte, le
    congiure sono mezzi che tendono a scomparire. Presentiamo già tempi
    più umani e civili, dove non sono più possibili la guerra, il
    duello, le rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato e la salute
    pubblica. Sarà l'età dell'oro. Le nazioni saranno confederate, e non
    ci sarà altra gara che d'industrie, di commerci e di studi.
    
    E' un bel programma. E quantunque sembri un'utopia, non dispero. Ciò
    che lo spirito concepisce, presto o tardi viene a maturità. Ho fede
    nel progresso e nell'avvenire.
Ma siamo ben lontani dal Machiavelli. E anche dai nostri tempi. E
    non è con i criteri di un mondo nascosto ancora nelle ombre
    dell'avvenire che possiamo giudicare e condannare Machiavelli. Anche
    oggi siamo costretti a dire: - Crudele è la logica della storia; ma
    quella è.
    Nel machiavellismo c'è una parte variabile nella qualità e nella
    quantità, relativa al tempo, al luogo, allo stato della coltura,
    alle condizioni morali de' popoli. Questa parte, che riguarda i
    mezzi, è molto mutata, e muterà in tutto, quando la società sarà
    radicalmente rinnovata. Ma la teoria de' mezzi è assoluta ed eterna,
    perchè fondata sulle qualità immutabili della natura umana. Il
    principio, dal quale si sviluppa quella teoria, è questo: che i
    mezzi debbono avere per base l'intelligenza e il calcolo delle forze
    che muovono gli uomini. E' chiaro che in queste forze c'è l'assoluto
    e il relativo; e il torto del Machiavelli, comunissimo a tutti i
    grandi pensatori, è di avere espresso in modo assoluto tutto, anche
    ciò che è essenzialmente relativo e variabile.
    
    Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è
    l'uomo considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso,
    che ha nella sua natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo
    sviluppo, della sua grandezza e della sua decadenza, come uomo e
    come società. Su questa base sorgono la storia, la politica, e tutte
    le scienze sociali. Gli inizi della scienza sono ritratti, discorsi,
    osservazioni di uomo che alla coltura classica unisca esperienza
    grande e un intelletto chiaro e libero. Questo è il machiavellismo,
    come scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno trova la sua
    base e il suo linguaggio. Come contenuto, il machiavellismo sui
    rottami del medio evo abbozza un mondo intenzionale, visibile tra le
    transazioni e i vacillamenti dell'uomo politico: un mondo fondato
    sulla patria, sulla nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza,
    sul lavoro, sulla virilità e serietà dell'uomo.
    
    In letteratura, l'effetto immediato del machiavellismo è la storia e
    la politica emancipate da elementi fantastici, etici, sentimentali,
    e condotte in forma razionale; è il pensiero volto agli studi
    positivi dell'uomo e della natura, messe da parte le speculazioni
    teologiche e ontologiche; è il linguaggio purificato della scoria
    scolastica e del meccanismo classico, e ridotto nella forma spedita
    e naturale della conversazione e del discorso. E' l'ultimo e più
    maturo frutto del genio toscano. Su questa via incontriamo prima
    Francesco Guicciardini, con tutti gli scrittori politici della
    scuola fiorentina e veneta; poi Galileo Galilei, con la sua illustre
    coorte di naturalisti.
    
    Francesco Guicciardini, di pochi anni più giovane di Machiavelli e
    di Michelangelo, già non sembra della stessa generazione. Senti in
    lui il precursore di una generazione più fiacca e più corrotta,
    della quale egli ha scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le stesse aspirazioni del Machiavelli. Odia i preti. Odia lo
    straniero. Vuole l'Italia unita. Vuole anche la libertà, concepita a
    modo suo, con una immagine di governo stretto e temperato, che si
    avvicina ai presenti ordini costituzionali o misti. Ma sono semplici
    desidèri, e non metterebbe un dito a realizzarli.
    
    "Tre cose - scrive - desidero vedere innanzi alla mia morte; ma
    dubito che io viva molto, da non vederne alcuna: uno vivere in una
    repubblica bene ordinata nella città nostra; l'Italia liberata da
    tutti i barbari; e liberato il mondo della tirannide di questi
    scellerati preti".
    
    Una libertà bene ordinata, l'indipendenza e l'autonomia delle
    nazioni, l'affrancamento del laicato: ecco il programma del
    Machiavelli, divenuto il testamento del Guicciardini, e che oggi è
    ancora la bandiera di tutta la parte civile europea.
Si può credere che questi fossero i desidèri anche delle classi colte.
Ma erano amori platonici, senza influsso nella pratica della vita. Il
ritratto di quella società è il Guicciardini, che scrive: « Conoscere
non è mettere in atto». Altro è desiderare, altro è fare. La teoria non
è la pratica. Pensa come vuoi, ma fai come ti torna. La regola della
vita è «l'interesse proprio», «il tuo particulare».
    
Il Guicciardini biasima «l'ambizione, l'avarizia e la mollezza de'
preti» e il dominio temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, per
vedere ridurre «questa caterva di scellerati ai tempi debiti, a restare
o senza vizi o senza autorità» ; ma «per il suo particulare» è
necessitato amare la grandezza de' pontefici e servire ai preti e al
dominio temporale. Vuole emendata la religione in molte parti; ma non
ci si mescola, lui, «non combatte con la religione nè con le cose che
pare che dipendono da Dio, perchè questo ha troppa forza nella mente
delli sciocchi». Ama la gloria e desidera di fare «cose grandi ed
eccelse», ma a patto che non sia «con suo danno o incomodità». Ama la
patria, e, se perisce, gliene duole, non per lei, perchè «così ha a
essere», ma per sè, «nato in tempi di tanta infelicità». E' zelante del
ben pubblico, ma «non s'ingolfa tanto nello Stato» da mettere in quello
tutta la sua fortuna. Vuole la libertà, ma, quando la sia perduta, non
è bene fare mutazioni, perchè «mutano i visi delle persone, non le
cose, e non puoi fare fondamento sul popolo», e, quando la vada male,
ti tocca «la vita spregiata del fuoruscito». Miglior consiglio è
portarsi in modo che quelli che «governano non ti abbiano in sospetto e
neppure ti pongano fra' malcontenti». Quelli che altrimenti fanno sono
uomini «leggeri». Molti, è vero, gridano «libertà», ma «in quasi tutti
prepondera il rispetto dell'interesse suo». Essendo il mondo fatto
così, devi pigliare il mondo com'è, e far in modo che non te ne venga
danno, anzi la maggiore comodità possibile. Così fanno gli uomini
«savi».
    
    La corruttela italiana era appunto in questo: che la coscienza era
    vuota e mancava ogni degno scopo alla vita. Machiavelli ti addita in
    fondo al cammino della vita terrestre la patria, la nazione, la
    libertà. Non c'è più il cielo per lui, ma c'è ancora la terra.
    Il Guicciardini ammette anche lui questi fini, come cose belle e
    buone e desiderabili; ma li ammette sub conditione, a patto che
    sieno conciliabili col tuo «particulare», come dice, cioè col tuo
    interesse personale. Non crede alla virtù, alla generosità, al
    patriottismo, al sacrificio, al disinteresse. Ne' più prepondera
    l'interesse proprio, e mette sè francamente tra questi più, che sono
    i «savi»; gli altri li chiama «pazzi», come furono i fiorentini,
    che «vollero contro ogni ragione opporsi», quando «i savi di
    Firenze avrebbono ceduto alla tempesta», e intende dell'assedio di
    Firenze, illustrato dall'eroica resistenza di quei pazzi, tra' quali
    erano Michelangelo e Ferruccio.
    
    Machiavelli combatte la corruttela italiana e non dispera del suo
    paese. Ha le illusioni di un nobile cuore. Appartiene a quella
    generazione di patrioti fiorentini, che in tanta rovina cercavano i
    rimedi, e non si rassegnavano, e illustrarono l'Italia con la loro
    caduta. Nel Guicciardini compare una generazione già rassegnata. Non
    ha illusioni. E perché non vede rimedio a quella corruttela, vi si
    avvolge egli pure e ne fa la sua saviezza e la sua aureola. I suoi
    Ricordi sono la corruttela italiana codificata e innalzata a regola
    della vita.
Il Dio del Guicciardini è il suo particolare. Ed è un Dio non meno
    assorbente che il Dio degli ascetici o lo Stato del Machiavelli.
    Tutti gl'ideali scompaiono. Ogni vincolo religioso, morale,
    politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla
    scena del mondo che l'individuo. Ciascuno per sè, verso e contro
    tutti. Questo non è più corruzione, contro la quale si gridi: è
    saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l'arte della vita.
Il Guicciardini si crede più savio del Machiavelli, perché non ha le
    sue illusioni. Quel venir fuori sempre con l'antica Roma lo
    infastidisce, e rompe in questo motto sanguinoso:
"Quanto si ingannano coloro che ad ogni parola allegano e' romani!
    Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro, e poi
    governarsi secondo quello esemplo: il quale a chi ha le qualità
    disproporzionali è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che
    uno asino facesse il corso di un cavallo".
    
    In questo concetto della vita il Guicciardini è di così buona fede,
    che non sente rimorso e non mostra la minima esitazione, e guarda
    con un'aria di superiorità sprezzante gli uomini che fanno
    altrimenti. Il che avviene, a suo avviso, non per virtù o altezza
    d'animo, ma «per debolezza di cervello», avendo offuscato lo
    spirito dalle apparenze, dalle impressioni, dalle vane immaginazioni
    e dalle passioni. Ci si vede l'ultimo risultato a cui giunge lo
    spirito italiano, già adulto e progredito, che caccia via
    l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed è tutto e solo cervello o,
    come dice il Guicciardini, «ingegno positivo».
Perché l'ingegno sia positivo si richiede la «prudenza naturale»,
    la «dottrina» che dà le regole, l' «esperienza» che dà gli
    esempli, e il «naturale buono», tale cioè che stia al reale e non
    abbia illusioni. E non basta. Si richiede anche la «discrezione» o
    il discernimento, perché è «grande errore parlare delle cose del
    mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola,
    perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione, e queste
    distinzioni e eccezioni non si trovano scritte in su' libri, ma
    bisogna le insegni la discrezione».
Il vero libro della vita è dunque «il libro della discrezione», a
leggere il quale si richiede da natura «buono e perspicace occhio». La
dottrina sola non basta, e non è bene «stare al giudicio di quelli che
scrivono, e in ogni cosa volere vedere ognuno che scrive: così quello
tempo che s'arebbe a mettere in speculare, si consuma a leggere libri
con stracchezza d'animo e di corpo, in modo che l'ha quasi più
similitudine a una fatica di facchini che di dotti».
    
    L'uomo positivo vede il mondo diverso da quello che «ai volgari»
    pare. Non crede agli astrologi, ai teologi, ai filosofi e a tutti
    quelli che scrivono le cose sopra natura o che non si vedono «e
    dicono mille pazzie» : perchè in effetti gli uomini sono al buio
    delle cose, e questa indagine ha servito e serve più a esercitare
    gli ingegni che a trovare la verità.
Questa base intellettuale è quella medesima del Machiavelli:
l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo «speculare» o l'osservare.
Nè altro è il sistema. Il Guicciardini nega tutto quello che il
Machiavelli nega, e in forma anche più recisa; e ammette quello che il
Machiavelli ammette. Ma è più logico e più conseguente. Poichè la base
è il mondo com'è, crede un illusione a volerlo riformare, e volergli
dare le gambe di cavallo quando esso le ha di asino; e lo piglia com'è,
e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo istrumento. Conoscere
non è mettere in atto. Ciò che è nella tua mente e nella tua coscienza
non può essere di regola alla tua vita. Vivere è conoscere il mondo e
voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con tutti, perchè «gli uomini si
riscontrano». Stai con chi vince, perchè «te ne viene parte di lode e
di premio». «Abbi appetito della roba», perchè la ti dà reputazione, e
la povertà è spregiata. Sii schietto, perchè, «quando sia il caso di
simulare, più facilmente acquisti fede». Sii stretto nello spendere,
perchè «più onore ti fa uno ducato che tu hai in borsa, che dieci che
tu ne hai spesi».
    Studia di «parer buono», perchè «il buon nome vale più che molte
    ricchezze». Non meritarti nome di sospettoso; ma, perchè più sono i
    cattivi che i buoni, «credi poco e fidati poco».
Questo è il succo dell'arte della vita seguita da' più, ancorchè con
    qualche ipocrisia, come se ne vergognassero. Ma il Guicciardini ne
    fa un codice, fondato sul divorzio tra l'uomo e la coscienza e
    sull'interesse individuale. E' il codice di quella borghesia
    italiana, tranquilla, scettica, intelligente, e positiva, succeduto
    ai codici d'amore e alle regole della cavalleria.
Ma il Guicciardini, con tutta la sua saggezza, trovò un altro più
    saggio di lui, e, volendo usare Cosimo a benefizio suo, avvenne che
    fu lui istrumento di Cosimo. Così finì la vita, come il Machiavelli,
    nella solitudine e nell'abbandono. Ebbe anche lui le sue illusioni e
    i suoi disinganni, meno nobili, meno degni della posterità, perchè
    si riferivano al suo particolare. Ritirato nella sua villa
    d'Arcetri, il Guicciardini usò gli ozi a scrivere la Storia
    d'Italia.
    
    Se guardiamo alla potenza intellettuale, è il lavoro più importante
    che sia uscito da da mente italiana. Ciò che lo interessa non è la
    scena, la parte teatrale o poetica, sulla quale facevano i loro
    esercizi rettorici il Giovio, il Varchi, il Giambullari e gli altri
    storici. I fatti più meravigliosi o commoventi sono da lui
    raccontati con una certa sprezzatura, come di uomo che ne ha viste
    assai e non si maraviglia e non si commuove più di nulla. Non ha
    simpatie o antipatie, non ha tenerezze e indignazioni, e neppure ha
    programmi o preconcetti intorno ai risultati generali dei fatti e
    alle sorti del suo paese. Il suo intelletto chiaro e tranquillo è
    chiuso in sè, e non vi entra nulla dal di fuori che lo turbi o lo
    svii. E' l'intelletto positivo, con quelle qualità che abbiamo
    notate e che in lui sono egregie: la prudenza naturale, la dottrina,
    l'esperienza, il naturale buono e la discrezione.
Meravigliosa è soprattutto la sua discrezione nel non riconoscere
    principi nè regole assolute, e giudicare caso per caso, guardando in
    ciascun fatto la sua individualità, quel complesso di circostanze
    sue proprie, che lo fanno esser quello e non un altro; dov'è la vera
    distinzione tra il pedante e l'uomo d'ingegno. Con queste
    disposizioni, è naturale che lo interessa meno la scena che il
    dietroscena, dove penetra con sicurezza il suo occhio perspicace. Ha
    comune col Machiavelli il disprezzo della superficie, di ciò che si
    vede e si dice il parere; e lo studio dell'essere, di ciò che è al
    di sotto e che non si vede. Hai innanzi non la sola descrizione de'
    fatti, ma la loro genesi e la loro preparazione: li vedi nascere e
    svilupparsi. I motivi più occulti e vergognosi sono rivelati con la
    stessa calma di spirito che i motivi più nobili. Ciò che l'interessa
    non è il carattere etico o morale di quelli, ma la loro azione sui
    fatti. Il motivo determinante è l'interesse, ed è sagacissimo
    nell'indagine non meno degl'interessi privati che degl'interessi
    detti pubblici, e sono interessi di re e di corti. Ma gl'interessi
    hanno la loro ipocrisia, e si nascondono sotto il manto di fini più
    nobili, come la gloria, l'onore, la libertà, l'indipendenza: fini
    che escono in mezzo quando si vuol cattivare i popoli o gli
    eserciti. Di che nasce, massime nelle concioni, una specie di
    rettorica ad usum delphini, voglio dire ad uso dei volgari, che non
    guardano nel fondo e si lasciano trarre alle belle apparenze. I
    popoli e gli eserciti vi stanno come strumenti, e i veri e
    principali attori sono pochi uomini, che li muovono con la violenza
    e con l'astuzia, e li usano ai fini loro.
    
    Lo storico avea intenzioni letterarie. La sua prosa, massime nei
    Ricordi, ha la precisione lapidaria di Machiavelli, con quella
    rapidità e semplicità e perfetta evidenza che l'avvicina agli
    esempli più finiti della prosa francese, senza che ne abbia i
    difetti. Lo stile e la lingua in questi due scrittori giunge per
    vigore intellettuale ad un grado di perfezione che non è stato più
    raggiunto. Ma il Guicciardini, di un giudizio così sano
    nell'andamento de' fatti umani, aveva de' preconcetti in
    letteratura: opinioni ammesse senza esame, solo perchè ammesse da
    tutti. Lo scrivere è per lui, come per i letterati di quel tempo, la
    tradizione del parlare e del discorso naturale in un certo
    meccanismo molto complicato e a lui faticoso, quasi vi facesse
    allora per la prima volta le sue prove.
Molti uomini mediocri, quali il Casa e il Castiglione e il Salviati
    e lo Speroni, vi riescono con minore difficoltà, come disciplinati
    ed educati a quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la sua
    rapida percezione è in visibile contrasto con quei giri avviluppati
    e affannosi del suo periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici
    per inviluppare in quelle pieghe i suoi concetti e le sue
    intenzioni, se non fosse manifesta la sua franchezza spinta sino al
    cinismo. Sono artifici puramente letterari e rettorici. E sono
    rettorica le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue
    orazioni, le sue sentenze morali, un certo calore d'immaginazione e
    di sentimento, una certa solennità di tuono. Al di sotto di questi
    splendori artificiali trovi un mondo di una ossatura solida e di un
    perfetto organismo, freddo come la logica ed esatto come la
    meccanica, e che non è forse in fondo se non un corso di forze e
    d'interessi seguiti nei loro più intimi recessi da un intelletto
    superiore.
La Storia d'Italia è in venti libri e si stende dal 1494 al 1534.
    Comincia con la calata di Carlo ottavo: finisce con la caduta di
    Firenze. Appare in ultimo, come un funebre annunzio di tempi
    peggiori, Paolo terzo, il papa della Inquisizione e del concilio di
    Trento. Questo periodo storico si può chiamare la «tragedia
    italiana», perchè in questo spazio di tempo l'Italia dopo un vano
    dibattersi passa in potestà dello straniero.
    
    Ma lo storico non ha pur sentore dell'unità e del significato di
    questa tragedia; e il protagonista non è l'Italia e non è il popolo
    italiano. La tragedia c'è, e sono le grandi calamità che colpiscono
    gl'individui: le arcioni, le prede, gli stupri, tutti i mali della
    guerra. Avvolto fra tanti «atrocissimi accidenti», sagacissimo a
    indagarne i più riposti motivi nel carattere degli attori e nelle
    loro forze, l'insieme gli fugge.
    La Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo quinto e
    Francesco primo, la trasformazione del papato, la caduta di Firenze,
    e l'Italia bilanciata di Lorenzo divenuta un'Italia definitivamente
    smembrata e soggetta: questi fatti generali preoccupano meno lo
    storico che l'assedio di Pisa e i più oscuri pettegolezzi tra'
    principi. Sembra un naturalista, che studi e classifichi erbe,
    piante e minerali, e indaghi la loro struttura interna e la loro
    fisiologia, che li fa essere così o così.
L'uomo vi appare come un essere naturale, che operi così fatalmente
    come un animale, determinato all'azione da passioni, opinioni,
    interessi, dalla sua natura o carattere, con la stessa necessità che
    l'animale è determinato da' suoi istinti e qualunque essere vivente
    dalle sue leggi costitutive. Considerando l'uomo a questo modo, lo
    storico conserva quella calma dell'intelletto, quell'apatia e
    indifferenza che ha un filosofo nella spiegazione de' fenomeni
    naturali. Ferruccio e Malatesta gl'ispirano lo stesso interesse;
    anzi Malatesta è più interessante, perchè la sua azione è meno
    spiegabile e attira più la sua attenzione intellettuale. Di che si
    stacca questo concetto della storia: che l'uomo, ancora che sembri
    nelle sue azioni libero, è determinato da motivi interni o dal suo
    carattere, e si può calcolare quello che farà e come riuscirà, quasi
    con quella sicurezza che si ha nella storia naturale. Perciò chi
    perde ha sempre torto, dovendo recarne la causa a se stesso, che ha
    mal calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa specie di
    fisica storica non oltrepassa gl'individui, i quali ci appaiono qui
    come una specie di macchinette, maravigliose, anzi miracolose alla
    plebe: a noi poco interessanti, perchè sappiamo il segreto,
    conosciamo l'ingegno da cui escono quei miracoli, e tutto il nostro
    interesse è concentrato nello studio dell'ingegno.
    
    Il Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie di fisica
    sociale, come si direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano
    non solo gli individui, ma la società e il genere umano. Perciò
    patria, libertà, nazione, umanità, classi sociali sono per lui fatti
    non meno interessanti che le passioni, gli interessi, le opinioni,
    le forze che muovono gl'individui. E se vogliamo trovare lo spirito
    o il significato di questa epoca, molto abbiamo da imparare nelle
    sue opere.
Indi è che, come carattere morale, il segretario fiorentino ispira
    anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti elevati, che sanno
    mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine; e, come
    forza intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini
    una virtù sintetica, una larghezza di vedute, che manca in quello.
    
    E' un punto di partenza nella storia, destinato a svilupparsi.
*
Biblioteca dei Classici Italiani di Giuseppe Bonghi
Francesco De Sanctis
 
MACHIAVELLI
 
CONFERENZE [1].
 
 
edizione di riferimento
Francesco De Sanctis, Saggi critici, vol. II a cura di Luigi Russo, Edizioni Laterza, Bari 1965 (prima ed.: 1952)
 
 
Tutto questo saggio del D. S. ha serbato un valore suggestivo per gli
interpreti successivi dello scrittore fiorentino: sicché dal De Sanctis
si son prese le mosse per intendere nei particolari il pensiero del
Machiavelli. Non è il caso di elencare qui le varie correzioni o
integrazioni che si sono portate a tale interpretazione, e per il
concetto di nazione, e per altri motivi speculativi o storici o
artistici del fiorentino. Il D. S. non ci ha volato dare una storia
analitica di quel pensiero e di quell'arte; ha voluto soltanto
impiantare il problema di Machiavelli per dir cosí, all' in grande,
coinvolgendo la storia particolare di Machiavelli con la storia
generale dello spirito italiano e europeo. Cotesta è la singolaritá del
nostro critico, e però tutta la letteratura machiavellica successiva ha
preso gli auspici dal De Sanctis.
Luigi Russo
 
I
 
Le conferenze sono il portato della democrazia. Per esse la scienza
esce dalle anticamere dove è mantenuta e protetta, e giunge nel popolo,
a cui serve direttamente e da cui vien pagata. Quando diventerá comune
convincimento che sia obbrobrioso accettar servigi senza remunerazione
e che, d'altra parte, l'onesto guadagno come remunerazione del lavoro
sia cosa che onori e sollevi l'uomo al piú alto grado di dignitá,
allora queste conferenze popolari pagate verranno presso di noi in
onoranza, come sono giá presso i piú civili e culti popoli del mondo.
Anche a Parigi si è creduto testé un gran trionfo del progresso il
poter ottenere di conferire liberamente in adunanze popolari su'
problemi della scienza. In Italia, sventuratamente, il sistema delle
conferenze non è attecchito finora per le costumanze arcadiche ed
accademiche che abbiamo. Qui tutto viene ordinato a spettacolo: gli
oratori parlano per fare effetto e per farsi applaudire; gli uditori
intervengono per applaudire e proteggere, a seconda delle loro
simpatie, atteggiandosi ognuno di essi alla Leone X. Qui ogni atto
della vita pubblica ha due lati, uno apparente ed un altro nascosto; vi
è la scena e la controscena, perché le tradizioni della tirannide
secolare ci hanno abituati alla cospirazione. 
Onde non sappiamo pensare a qualche cosa che dovrebbe per sé stessa
prodursi alla luce del giorno senza apparecchiarla colla cospirazione.
In Italia gli elettori cospirano per fare i deputati, e costoro a loro
volta cospirano per fare i ministri.
Non è guari celebravasi a Firenze il centenario [2] della nascita di
Niccolò Machiavelli; ma questa solennitá non è stata punto popolare,
non è stata avvertita dall'universale, non ha lasciato vestigia,
appunto perché non si è saputo uscire dall'Arcadia e dall'Accademia: i
soliti discorsi, le solite poesie, e null'altro che questo. Insomma,
dalla festa di Machiavelli non è uscito altro che la conferma della
tradizione popolare, secondo la quale Machiavelli sarebbe stato un gran
furbo. Il popolo fiorentino, con quell'argutezza che lo distingue,
disse che la vera festa di Machiavelli s'era celebrata nella sala dei
Cinquecento, perché appunto in quel giorno nel Parlamento giuocavasi di
destrezza e di furberia. Quanta diversitá tra noi e la Germania! Anche
la Germania si apparecchia a celebrare un centenario: quello di Giorgio
Hegel; e filosofi e scienziati scrivono libri intorno a lui e
diffondono nel pubblico la notizia delle sue idee. Ora io mi domandai
se non ci fosse miglior modo di celebrare veramente l'anniversario di
Niccolò Machiavelli, e pensai che, per onorare la sua memoria, il
meglio che si potesse fare era di ergere la sua statua intellettuale,
presentandolo al popolo nella veritá del suo carattere. Ed accettando
il suggerimento di alcuni amici, sono venuto a fare queste conferenze
intorno a lui, qui a Napoli, la cittá dai liberi corsi scientifici,
dall'ingegno vivace e penetrante, dalla gioventú appassionata pei
nobili studii.
Mettiamoci dunque insieme a studiare Niccolò Machiavelli. Ma qual
metodo adopereremo? Piglieremo a guida estetiche ed etiche vecchie e
nuove? Ci ispireremo in Aristotele o in Hegel, in quanto a metodo? No,
questa sarebbe scolastica. Ci metteremo noi a giudicar Machiavelli per
dire se quel tale dei suoi libri fu morale od immorale? Ma questa
sarebbe una piccineria inconcludente. Il critico deve farsi la
coscienza e l'occhio di quella produzione dell'ingegno umano che vuole
esaminare. Deve prendere l'autore e rifarlo vivo come fu nei misteri
della sua produzione. La critica comprende, e alla comprensione segue
il giudizio. Ogni produzione adunque ha la sua critica speciale. Qual
sará quella che si conviene a Niccolò Machiavelli? Se la posteritá,
soffermandosi ad una parte piú appariscente e piú palpabile dei
prodotti dell'ingegno di Niccolò Machiavelli, ha detto: — Per me questo
è Machiavelli —; noi non accetteremo questa critica, perché essa è
unilaterale e superficiale. Noi invece dobbiamo prendere Machiavelli
nel suo intero. Ma, prima di studiarlo per conto nostro, bisogna vedere
come è stato studiato dagli altri.
Ogni uomo ha il suo lato esteriore ed appariscente, ed il suo lato
interiore e nascosto. Sovente quella esteriorità calunnia la sostanza,
per cosí dire, dell'uomo: sovente la adula. Nella prima ipotesi avete
degli uomini troppo severamente e forse ingiustamente giudicati; nella
seconda, avete le reputazioni usurpate. Machiavelli ha avuto la
sventura di produrre il Principe con una brutta esterioritá. Onde non
ci è da meravigliare se ai suoi contemporanei parve uno scandalo. Egli
ebbe il coraggio di dire quello che a' tempi suoi tutti avevano il
coraggio di fare; ma per quella specie di pudore pubblico, che vuole
taciuto anche quello che tutti praticano, le sue idee produssero una
penosa impressione. Erano i tempi di Alessandro VI e di Cesare Borgia.
Ma fu peggio ancora, quando sopraggiunse la reazione cattolica:
Machiavelli diventò allora proprio intollerabile.
Quando fu sanzionata la libertá di coscienza, i tempi volsero propizii
al Machiavelli, e venne l'epoca della riabilitazione per lui. Insomma,
il Machiavelli era pretesto ad una grande lotta che si combatteva, e
l'assolverlo o il condannarlo era lo stendardo delle parti che si
contendevano il terreno. Però gli sforzi stessi dei suoi difensori ce
lo dipingono sempre come un accusato, come colui che ha bisogno della
difesa.
Io riassumerò in poche parole molti e molti volumi, che si sono scritti
per difenderlo. Uno scrittore si diede la pena di spigolare in tutte le
opere di Machiavelli e raccogliere tutte le sentenze morali di lui per
contrapporle alle immorali. Queste poi si ebbe cura di dimostrare che
non eran nuove di conio, ma desunte da scrittori che maggiormente erano
in reputazione di gente morale, come a dire da s. Tommaso d'Aquino e da
altri scrittori di tal fatta. Altri, non potendo salvare il libro,
procurarono di salvare la persona, additando la sua vita come un
esempio di moralitá. Altri ancora gettarono tutta la responsabilitá sui
tempi nei quali visse e scrisse il Machiavelli. Ma queste sono sempre
circostanze attenuanti, che suppongono l'esistenza della colpa, e non
l'assolvono. Bacone da Verulamio [3] disse che Machiavelli, fingendo di
insegnare ai principi le arti del dispotismo, volle insegnare
indirettamente ai popoli la maniera di disfarsene. Rousseau chiamò il
Principe il codice dei repubblicani [4]. Fu detto pure che con quei
consigli il Machiavelli volesse perdere i Medici, spingendo la loro
tirannia all'estremo e provocando cosí contro di essi la reazione. Ecco
quanto si è detto in difesa. Ma che valore hanno e l'accusa e la
difesa? L'accusa è rettorica, perché allora essa avrebbe forza, quando
dimostrasse che coi mezzi morali o immorali del Machiavelli non si
mantengono, ma si perdono gli Stati. Nessun accusatore del Machiavelli
è passato ai posteri. Un gesuita disse « machiavellismo » quello che
dipoi doveva dirsi « gesuitismo ». La difesa è sofistica, e non giunge
a riabilitare Machiavelli. Insomma, due secoli e mezzo di critica,
fatta intorno al gran pensatore politico, non sono altro che una
quistione posta male. Il Machiavelli, quale ce lo han presentato
finora, è una creazione delle passioni politiche; è un riflesso
subbiettivo, non è il Machiavelli per sé stesso. Per ritrovarlo,
bisogna spogliarlo delle sue esterioritá ed entrare nei misteri della
sua produzione intellettuale.
 
Io chiamo secolo non la ordinaria misura del tempo, ma quelle grandi
tappe dell'umanitá, in cui appariscono dei principii nuovi e si
trasforma, la faccia del mondo. Questo avviene per una lenta e costante
elaborazione di tutti gli elementi sociali, i quali vi lavorano
inconsapevolmente; ma, prima di dare il colpo mortale all'edificio
crollante, si aspetta un uomo che è destinato a riassumere in sé tutto
quel movimento, al quale tanti elementi cospirarono senza saperlo, e
che è destinato a dargli il nome. Machiavelli fu l'uomo appunto di
questo passaggio da un secolo all'altro.
Machiavelli vede lo Stato dei suoi tempi, sente la «corruttela» che la
circonda, e vi getta dentro l'immagine di tempi migliori, facendo
rivivere le memorie del classicismo romano. Negando il Medio evo,
facendo rivivere l'antichitá gloriosa, egli afferma i tempi moderni, e
si dimostra cosí il piú moderno di tutti i suoi contemporanei. In altre
parole, Machiavelli comprendeva che quella « corruttela» che lo
circondava era la putrefazione di tutto il Medio evo, e cominció a
scavare sotto quell'edificio per trovare la base intellettuale, e pose
le fondamenta di un altro tempo e di un altro edifizio. Egli, adunque,
si presenta alla posteritá, appunto come la negazione del Medio evo e
come l'affermazione dei tempi moderni.
Noi, per conseguenza, per intendere Machiavelli, dobbiamo seguire il
suo intelletto a traverso la corruttela dei tempi in cui viveva, e
tenergli dietro in tutto il suo lavorio. Allora, alla frase vacua:
«tanto nomini nullum par elogium», sostituiremo l'altra, significativa
: «al fondatore dei tempi moderni»
 
II
 
È innegabile che l'Europa ancor mezzo barbara fra il decimoquinto e il
decimosesto secolo sopraffece l'Italia civile. Come spiegare questo
fenomeno? Bisogna vedere innanzi tutto in quale stato si trovavano
l'Europa e l'Italia. L'Europa era nel suo periodo di formazione. Essa
poteva dirsi il vasto campo di una lotta generale: i vassalli lottavano
contro i feudatarii, questi contro i feudatarii maggiori o piccoli
monarchi, e questi contro l'imperatore. La Spagna cacciava i Mori e si
costituiva sotto le case di Aragona e di Castiglia; la Francia usciva
dalla sua lotta contro l'Inghilterra; l'Alemagna era in aperta
insurrezione contro i due piú grandi poteri che l'occupavano, il papato
e l'impero. Con ciò l'Europa veniva compiendo il suo periodo di
formazione ed entrava in quello della sua costituzione. L'Italia, per
contrario, in qual periodo si trovava della sua vita? L'Italia aveva
giá prodotta una civiltá; per lei era giá un passato quello che era
l'avvenire pel resto dell'Europa. Ma perché essa non ebbe la forza di
condurre piú innanzi la sua civiltá?
Quando le idee, che hanno prodotto la vita di un popolo, muoiono, la
vita puó continuare per poco, ma giá si prepara la morte. Ciò accade
costantemente degli individui, ma non è men vero dei popoli. Essi,
quando perdono le idee da cui ripetono la propria civiltá, conservano
le apparenze della vita; ma di essi puó ripetersi col Berni : «Andavan
combattendo ed eran morti!».
Quali erano le idee che avevano prodotto in Italia la grandezza del
Medio evo? Erano la Chiesa, il Comune, l'Impero. Ma all'epoca del
decadimento che cosa furono piú queste idee? V'era forse piú la Chiesa
coi suoi concetti arditi di monarchia universale? col suo giure
canonico che s'era sostituito al feudale? A tutto ciò era succeduto
l'interesse personale. Togliere qualche brandello di Stato ai vicini,
arricchire i nepoti: ecco a che eran ridotte le grandi aspirazioni
della Chiesa!
E l'idea dell'Impero, a che era essa ridotta? l'idea ghibellina dove
stava piú? L'Italia indubitatamente si credeva regina del mondo non
solo pel concetto del papato, ma anche perché credevasi l'erede
naturale dell'impero romano a causa del ghibellinismo: ma, se,
all'epoca di cui discorriamo, il partito guelfo non aveva piú idee, il
partito ghibellino era spento. Molti Comuni, vedendo da vicino i Cesari
tedeschi, ebbero a toccar con mano la picciolezza di questi e scadde
nella coscienza universale anche l'idea dell'impero. Ed i Comuni, che
cosa divennero? Essi, nella loro epoca di splendore, furon la libertá:
furono i cittadini che disfecero le castella e costrinsero i signori a
soggiacere al diritto comune, furono la lotta della borghesia contro la
feudalitá. La libertá, rappresentata allora dai Comuni, era qualche
cosa di concreto, non di sentimentale o di astratto come ai tempi
nostri: onde il Machiavelli ebbe a definire Stato libero quello in cui
tutto è a beneficio di tutti.
Ebbene, questo concetto splendido del Comune libero era eziandio
scaduto, perché i Comuni divennero monopolio di pochi ambiziosi ricchi
e potenti, che ne agognarono il dominio: onde si vede un nuvolo di
tirannelli, che fu la degenere trasformazione dei Comuni medesimi.
L'antico valore dei guerrieri degenerò anch'esso, e la potenza del
brando si riassunse negli avventurieri, specie di briganti dei tempi
nostri, che taglieggiavano dovunque e mercanteggiavano coi piccoli
Stati per vendere la loro potenza. L'Italia adunque, a differenza
dell'Europa che si formava, s'era giá formata, ed aveva anzi
oltrepassata la sua civiltá, di cui erano morti tutti i fattori. Ma, se
è cosí, perché mai quel secolo fu chiamato «il secolo del risorgimento»
?
Anche la decadenza ha la sua storia ed il suo processo. Essa nel suo
primo momento è tutta interiore, è una specie di vuoto che si forma
nella coscienza; ma l'esterno è galvanizzato ed ha ancora le sembianze
della vita. Cosí accadeva allora dell'Italia, la quale non aveva avuto
tempo sufficiente per svolgere la sua civiltá del Medio evo, del XII e
XIII secolo: due secoli appena non potevano bastarle. Erano, adunque,
gli ultimi bagliori di una civiltá al tramonto, i quali si perpetuavano
nel periodo di decadenza, quasi per allargare i confini del precedente
ciclo troppo angusto; ma anche questi avanzi di civiltá subivano
l'influenza dei tempi e avevano in sé i germi della morte. Infatti,
ultimi fenomeni di questa civiltá furono il lusso e l'eleganza. Il
lusso è la ricchezza non adoperata a produrre ricchezza, ma a godimento
materiale: gl'infingardi nepoti godono delle fatiche degli avi!
L'eleganza non è il portato dell'ingegno vero, ma di quello che
ammaniera, che liscia, che abbella. L'arte, infatti, manifestavasi
nelle sue ultime pulitezze e finitezze colle opere di Raffaello e del
Tiziano, colle produzioni letterarie del Poliziano e dell'Ariosto.
Lucrezia Borgia, quella donna che tutti sanno, era una signora
elegantissima. Cesare Borgia era uno dei piú distinti cavalieri dei
suoi tempi. Su questa societá tutta lisciata soppraggiunsero i barbari.
Quale antemurale essi potevano trovare? Trovarono uno sciame di
principotti dissoluti e banchettatori, con tutto quel séguito di vizii
e di putredine, che il Machiavelli chiamò s corruttela italiana».
L'Italia cadde, perché era corrotta.
Savonarola avvertí questa corruzione, e l'andava predicando per
ottenerne l'emenda. Ma per questa minaccia di morte della nazione non
c' è forse un rimedio? Sí; ci è la riforma. Epperò tutti coloro che in
quei tempi avevano lo sguardo lungo non pensavano che alla riforma.
Quando però la corruttela è infiltrata dovunque, non può bastare piú la
riforma a dare la vita: bisogna che si compiano i destini; e la riforma
può preparare solo la lontana resurrezione. Allora vedete sorgere dei
pensatori solitarii, che, spingendo il loro sguardo nel futuro,
consegnano nei libri la parola dell'avvenire. Essi rimangono ignoti od
oscuri nel loro paese per un certo tempo; ma intanto i semi da essi
gettati cominciano a germogliare contemporaneamente fuori, dove per
avventura il terreno è piú adatto a comprenderli. Accanto a
Machiavelli, ricordate i nomi di Bruno, Campanella, Galileo, Giannone.
Di qui due modi di riforma.
Il primo modo s'indirizza a correggere coll'esempio e coi precetti
morali la vita ed i costumi corrotti di un popolo; il secondo agisce
colla scienza e tenta di rifare addirittura lo spirito. Il primo fu
tentato da Savonarola dal pergamo. Egli vagheggiò nel segreto della sua
cella di rifare la base imputridita dell'edificio sociale, rifacendo la
Chiesa, che voleva ricondurre alla purezza dei suoi primi tempi, e
ridonando la libertá all'antico Comune, che l'aveva perduta; ma il
popolo lo abbandonò, la Chiesa lo uccise.
Perché intanto il Savonarola non riuscí nel suo compito? Perché non
comprese né la malattia che affliggeva la patria, né le medicine di cui
aveva bisogno: egli si arrestò ai fenomeni del morbo senza
rintracciarne e curarne le cagioni. L'ascetismo ed il misticismo furono
la negazione della vita operosa ed utile. Chi si ritira dalla vita
attiva e sconosce la sua missione in questo mondo, è indegno di questa
e dell'altra vita.
Ciò avrebbe segnato un regresso anche rispetto al papato, il quale ebbe
i suoi momenti di maggior grandezza quando, uscendo dalla vita inerte e
contemplativa, si mischiò nel movimento della vita esteriore ed ebbe
ambizioni secolari. Ora, il Savonarola voleva curare il male dei suoi
tempi colle penitenze e colle giaculatorie, credendo cosí di moderare
il mal costume; ma egli doveva invece combattere l'ozio. All'ozio ed
all'infingardaggine sociale egli propose dei rimedii da convento. Una
riforma tentata su queste basi non poteva certamente riuscire.
Disperato di riuscire colla persuasione, e' ricorse alla violenza; onde
si videro le pene corporali per il mal costume, ed ai bestemmiatori si
dovevano bruciar le lingue, ad altri peccatori infliggere altre specie
di torture. Però la fine di Savonarola, tutti la sanno, fu una fine
tragica. Quando Savonarola cadde, cadde con lui la libertá di Firenze;
e questo ha contribuito a tramandare il nome di lui ai posteri
circondato d'una certa aureola gloriosa. I Medici rientrarono in
Firenze col solito corteggio di scherani vendicatori e di persecutori.
I seguaci del Savonarola furono tutti puniti; ma si risparmiarono
coloro a cui fu schermo l'etá soverchiam