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Critico e scrittore italiano
(Casalincontrada 1863 - ivi 1928); prof. di lingue e letterature
neolatine all'univ. di Genova (1891), passò all'univ. di Roma
per insegnarvi dapprima (1905) la letteratura francese e la
spagnola, e quindi ancora (dal 1918) lingue e letterature neolatine.
Dopo i primi lavori filologici (su Sordello; edizione degli Scritti
di C. Colombo, 1892-94; ecc.), si volse allo studio delle
letterature moderne: tedesca (G. Hauptmann e l'opera sua letteraria,
1899); spagnola (Cervantes reazionario, 1924); francese (Saggi di
letteratura francese, 1920); italiana, specie dell'Ottocento (A.
Manzoni e gli storici liberali francesi della Restaurazione, 1926;
Saggi sulla forma poetica italiana dell'Ottocento, a cura di B.
Croce, 1929). Sensibilissimo ai problemi dell'indagine
linguistico-stilistica, polemizzò contro l'enciclopedismo
farraginoso, il tecnicismo e l'angusta specializzazione, in nome di
un ideale umanistico della cultura sempre legata alla concreta
storia. La sua rivista La cultura e il gruppo di studiosi che vi
faceva capo rappresentarono, specie nel decennio 1920-30, un
importante punto d'incontro tra filologia e crocianesimo.
*
DBI
di Leandro Angeletti
Nacque a Casalincontrada
(prov. di Chieti) il 13 sett. 1863, da Alceste e da Filomena
Colalongo. Nella primissima formazione una notevole influenza ebbe
il padre, uomo di cultura, legato alle personalità più
rappresentative del liberalismo meridionale, da cui derivò la
passione per lo studio e la poesia.
Gli anni degli studi ginnasiali e liceali, a L'Aquila, a Chieti,
Teramo non lasciarono tracce particolari, né i primi approcci
con l'ambiente dell'istituto di studi superiori a Firenze, dove
s'iscrisse nel 1880, offrirono particolare interesse, benché
vi insegnassero personalità di rilievo come i filologi P.
Villari e D. Comparetti. Solo in G. Vitelli, insegnante di
grammatica greca e latina, egli trovò un'accesa spinta allo
studio, tanto da trarne "un amore furibondo per la letteratura
greca"; nell'insieme, però, l'anno di Firenze fu
un'esperienza di cui restò "fortemente deluso".
All'università di Napoli, invece, dove fu iscritto dal 1881
al 1883, incontrò, oltre a V. Imbriani e B. Spaventa, la
figura che dette il primo indirizzo preciso ai suoi interessi e ai
suoi studi: F. D'Ovidio, professore di filologia romanza.
Da Napoli si trasferì a Roma, per seguire i corsi di
perfezionamento tenuti da E. Monaci, nel 1884; a questa data risale
la sua prima pubblicazione, Dei raddoppiamenti postonici, in Studi
di filologia romanza, I (1884), 2, pp. 407-24. Se il suo primo
lavoro ebbe un carattere strettamente glottologico, risultano forti
fin dalla primissima bibliografia anche interessi letterari che lo
spingono in diverse direzioni.
Dopo aver insegnato, nel 1887, al liceo di Cremona, una borsa di
studio gli permise di frequentare a Parigi i corsi di G. Paris e di
P. Meyer. Intanto le sue ricerche si concentrarono sui canzonieri
provenzali e gallego-portoghesi, dedicandosi, nello stesso periodo,
allo studio del dialetto natio casalese in rapporto a quello
teramano; frutto di questo studio sono i due saggi sulla metafonesi
della vocale tonica davanti ad i e j, e sulle a finali. Seguono
studi sull'italiano antico e sulle etimologie spagnole.
Divenuto segretario dell'Istituto storico italiano, gli venne
affidato l'incarico d'affiancare l'americanista franco-statunitense
H. Harrisse nella direzione per la pubblicazione degli scritti di C.
Colombo, in occasione del quarto centenario della nascita. Gli
scritti erano quasi del tutto inediti e disseminati in varie
città spagnole; dall'aprile al dicembre del 1889, il D.
frugò Madrid, Siviglia, Barcellona, per la raccolta dei
documenti dai vari archivi e la trascrizione degli autografi. Nel
1891 Harrisse si dimise e il D. restò il solo responsabile
dell'opera: il primo volume uscì a Genova nel 1892, gli altri
due a Roma, due anni dopo.
Con scrupolo filologico, il D. riuscì a ricostruire, sulla
base delle opere di Las Casas (Derrotero) e del figlio di Colombo,
Fernando (Historie), sia il giornale di bordo - del primo viaggio,
con la lettera che annunciava la scoperta ai cardinali Santangel e
Sanchez, sia i giornali di bordo dei viaggi successivi, liberando la
vita del navigatore da alcune leggende e fissandone definitivamente
i punti principali. Sulla base del vastissimo materiale raccolto, il
D. scrisse poi C. Colombo nella leggenda e nella storia (Milano
1892), dove tracciava un profilo del navigatore senza scendere nello
psicologismo delle biografie romanzate, ma con l'intento di fare un
vero e proprio libro di "storia".
Avuta la cattedra di letterature neolatine a Genova (1891-94),
riprese gli studi nel campo provenzale pubblicando una fitta serie
di lavori (fra cui Vita e poesia di Sordello di Goito, Dolce stil
novo e "Noet dig de nova maestria") sulla rivista Studi di filologia
romanza diretta dal Monaci. Dal 1899 al 1903, anno di chiusura della
rivista il D. affiancò l'antico maestro nella direzione; ma
furono proprio i contrasti nati tra loro la causa della sospensione.
Mentre nel Monaci, grande ricercatore e scopritore di testi,
l'impegno si consumava esclusivamente nel campo filologico, nel D.
cresceva sempre più la necessità d'uscire da una
pratica che, così com'era generalmente condotta, con un
"carattere d'intransigente storicismo", finiva "nell'atrofizzazione
della sensibilità letteraria" (Scrittori d'Italia, Napoli
1968, p. 593). Nel D. le due esigenze, la ricerca filologica e la
critica letteraria, erano state sempre presenti, senza però
una fertile integrazione: due attività parallele, staccate
l'una dall'altra che, proprio per questo, in questi anni lo tennero
in una situazione di "crisi" e di "turbamento" (p. Trompeo, D.
scrittore, in Cultura, s. 5, VII [1928], pp. 481 s.).
Ad uscire definitivamente da, questa crisi, che era generata non
certo da un rifiuto della filologia (il D. conserverà sempre,
anche quando avrà abbandonato gli studi puramente filologici,
lo scrupolo della ricerca e i criteri della ricostruzione attenta)
ma dalla polemica contro il nozionismo astratto, "la lue dello
storicismo", furono due avvenimenti decisivi: il passaggio alla
cattedra di letterature francese e spagnole moderne, che
terrà dal 1905 al 1915, a Roma, e l'incontro con l'Estetica
di B. Croce, uscita nel 1902. Per un decennio pubblicherà
ininterrottamente saggi sulla letteratura francese, riuniti nel 1920
in Saggi di letteratura francese, editi a Bari; di letteratura
spagnola, riuniti nel 1924 in Cervantes reazionario, edito a Roma;
di letteratura italiana, raccolti nel volume, curato da B. Croce,
Saggi sulla forma poetica italiana dell'Ottocento (Bari 1929). La
guerra cui partecipò volontario più che cinquantenne,
e in cui fu decorato per meriti di guerra, pur dopo aver condotto
una, battaglia antinterventista, interruppe ogni attività
culturale; il Taccuino di guerra (Firenze 1955), è l'unico
scritto del periodo.
Ma già nel 1919, su richiesta del Monaci che aveva, lasciato
l'insegnamento l'anno prima, occupava la cattedra di. storia
comparata delle lingue e letterature neolatine a Roma; fatto che non
costituì un ritorno ad interessi esclusivamente filologici e
linguistici, né ad un'area di lavoro chiusa all'età
più moderna. Infatti l'attività che più
impegnò il D. da questo momento fu quella che condusse con la
rivista Cultura (anno di nascita 1921).
Il titolo voleva richiamarsi programmaticamente a quella fondata nel
1881 da R. Bonghi, che aveva tentato un vasto programma di
sprovincializzazione in tutti i campi del sapere. Già nel
1906, con il linguista L. Ceci e il grecista N. Festa, il D. aveva
ereditato gli stessi intenti entrando.nella direzione della rivista
del Bonghi, cercando di superare l'eclettismo nel quale, anche sotto
la direzione di E. De Ruggiero (1895-1906) la rivista era restata
incagliata. Erano state poi le divergenze con G. A. Borgese, entrato
nella direzione nel '12, a farla chiudere; causa della polemica il
crocianesimo, che per il D. era diventato "ragione costitutiva della
sua stessa natura", mentre il Borgese era impegnato a distruggere
ogni supremazia del Croce e della sua estetica. Dopo un altro
tentativo di mettere su, nel 1929, una Rivista di cultura insieme al
Festa, al Gentile, al Volpi, al Zottoli, solo nel '21 riusciva, da
solo, a creare una rivista più vitale e duratura.
Vi condurra fino alla morte un'intensa attività di recensore,
pubblicando saggi in tutte le aree dei suoi interessi: dal Medioevo
(La fede di Dante nell'arte, 1921, Arnaldo e Guittone, 1922) ai
problemi dell'antica lirica gallego-portoghese (Dalle "cantigas de
amor" a quelle "de amigo"), dalla letteratura francese (L'anno
ronsardiano, 1924, La marcia francese verso la rinascenza 1925) a
quella italiana (La monaca di Monza e madame Bovary, 1926, che poi
costituirà l'ultimo capitolo del suo ultimo libro, Alessandro
Manzoni e gli storici liberali francesi della Restaurazione, Bari
1926, dove cerca di mostrare alcune convergenze - il determinismo,
l'atteggiamento verso gli oppressi - del Manzoni con le posizioni
degli storici Fauriel e Thierry).
Il D. morì il 25 apr. 1928 a Casalincontrada.
Nella formazione dei D. le due esperienze ché contarono
principalmente furono: la preparazione e lo spirito filologici della
scuola dei Comparetti, Villari, D'Ovidio, Monaci, una filologia
tutta ispirata al rigore della scuola positivistica, e l'incontro
con l'Estetica crociana. Quest'incontro servì a chiarire
meglio le finalità personali della ricerca e a risolvere una
"crisi", anche se non rappresentò una conversione vera e
propria. Il D. ne derivò dei concetti - l'equazione
poesia-lingua poetica, quello dell'espressione - che servirono a
dare organicità alle osservazioni frammentarie, ai rilievi
filologici, retorici e formalistici quali erano stati i suoi lavori
fino ad allora. Senza arrivare mai ad una formulazione direttamente
teoretica ("De Lollis teorico dell'estetica si risolve in De Lollis
critico della letteratura" ha rilevato G. Calogero, in Estetica
delollisiana, in Cultura, s.5, VII [1928], pp . 492-95),
innestò il crocianesimo sul vecchio filone della critica
erudita, accentuando le esigenze d'una critica stilistica e storica,
mantenendo una continuità metodologica che gli
consentì sottili e ricche analisi dei linguaggi e degli stili
poetici. La ricerca filologica non sarà mai più fine a
se stessa, diverrà sempre più critica letteraria per
un giudizio sui momenti e le opere in esame, privilegiando a tal
punto il livello stilistico che i suoi saggi sulla forma poetica
italiana dell'800 sono stati considerati un "precoce documento di
stilistica letteraria" (A. Schiaffini, Momenti di storia della
lingua italiana, Roma 1958, p. 179).
II pensiero che lega sotterraneamente tutti i rilievi del D., quello
che fornisce i modelli di una retorica cui raffrontare le forme
particolari per un giudizio di valore, è "la restaurazione
del valore che spetta alla tradizione nella storia della poesia";
fuori della tradizione non può esservi che caos stilistico e
approssimazione, con un forte sospetto per "l'ispirazione", che
troppo spesso serve solo a nascondere una povertà letteraria.
Solo superficialmente può sembrare che l'attenzione posta ai
fenomeni d'innovazione linguistica, molto presenti in tutta l'opera
del D., contraddica questa direttiva di fondo. Nella dialettica
tradizione-rivoluzione, che trova il principio attivo nella figura
del poeta cui spetta il compito di rinnovare la lingua con arcaismi,
latinismi, neologismi, dialettismi, il polo della tradizione
è sempre quello che ricomprende ogni momento innovativo.
Questo spiega le preferenze del D. per le forme di letteratura
più raffinata e preziosa, quelle dove è più
evidente il lavoro del letterato, la "letteratura più
letteraria", quelle che s'impone per "classica solidità e
finitezza" - gli alessandrini, Orazio, il Trobar clus, il
preziosismo, il parnaso - con un rifiuto netto di quella letteratura
che "si contenta di lasciar correr la penna". E spiega anche la
scelta di quei periodi di crisi - il '600 (Cervantes, Corneille), il
romanticismo italiano e francese - dove l'istituzione
linguistico-letteraria ha subito stravolgimenti. L'intenzione di
queste scelte, infatti, è quella di dimostrare, con
accuratissimi scrutini glottostorici, che l'innovazione ha fruttato
poeticamente solo quando è riuscita a riconciliarsi con le
forme della tradizione, e quando non c'è riuscita ha dato
luogo sempre e solo a modi approssimativi, poeticamente disastrosi.
Corollario di questa tesi è la precedenza data alla
letteratura d'arte, quella linguisticamente "alta" e colta, rispetto
a qualsiasi forma di letteratura popolare. Nel saggio Dolce stil
novo e "Noel dig de nova maestria", in Studi medievali, I (1904),
pp. 5-23, è teso a dimostrare l'origine colta e non popolare
della poesia occitanica. Nel Cervantes reazionario s'oppone alla
teoria evoluzionistica, "la quale, a fondamento della poesia
ispano-portoghese provenzaleggiante, cioè poesia aulica e
d'arte, vuol porre una poesia popolare indigena preesistente"
(p.237), dimostrando che "le deliziose "cantigas de amigo"
anziché provenire dalla poesia popolare indigena
gallego-portoghese sono opera di poeti d'arte" (p. 243).
Ma è nei saggi sulla letteratura francese e in quelli sulla
forma, poetica italiana dell'800, che più chiari e perentori
diventano i criteri di giudizio. Ogni rilievo critico è mosso
dall'opposizione fra "elemento classico" e "elemento romantico", il
primo ponendosi sempre come termine positivo, il secondo come
degenerazione. La letteratura di interi periodi e di ogni opera
viene condotta su questo filo: in Francia è la tradizione
"gauloise", che trova la massima realizzazione ne la
"Pléiade" (Roncard) e successivamente in Corneille, a
precipitare col romanticismo, soprattutto con Chateaubriand, in un
processo involutivo; in Italia succede la stessa cosa.
Il realismo, nel quale il D. individua il carattere proprio del
romanticismo italiano, rappresenta una frattura nella linea della
tradizione, di cui Petrarca è il punto supremo; una
tradizione che è sempre stata una "gloriosa letteratura
impastata di eroico", "una poesia meditata e lavorata",
contrassegnata sempre da un suo carattere specifico: "la
pretenziosità". Col romanticismo si perde tutto, e Berchet
è l'esempio più clamoroso, nel suo tentativo di
ridurre e cancellare il tono aulico della poesia tradizionale con
l'introduzione di accenti più familiari e quotidiani. "La sua
lingua poetica è il più strano mostro che si possa
immaginare" (p. 38), ed è a lui che si deve la rovina di un
secolo di poesia: il Prati, che poteva sfruttare una "originaria
potenza alla maniera grande" e invece "s'impantana nel ridicolo
quando atteggia la sua bocca d'oro a quel tono familiare o popolare
ch'era stato la prima ambizione del romanticismo italiano" (p. 185);
Dall'Ongaro, dove "le smancerie popolareggianti ci stanno un po'
inchiodate" (p. 195). Il poeta che finalmente restituisce la poesia
alla sua dignità è Carducci, riportandola
all'aulicità della tradizione classica. È lui che
"sotterrata a furia la carogna di quell'alfana della poesia
romantica s'asside nel fresco tumulo a forbire con mano amorosa e
paziente una poesia che dell'acciaio abbia la robustezza e i baleni"
(p. 117). E questo può accadere perché in Carducci
quel realismo così funesto è stato prudentemente
disarmato: "quasi sempre l'elemento concreto, e per tal via
stilisticamente andante, sta quasi con intenzione e tono di satira"
(p., 119). Del nostro romanticismo solo chi richiama il Carducci per
qualche anticipazione può considerarsi salvo da questa
degenerazione generale: il Prati de La mia vita, il Tommaseo di A
Venezia, e soprattutto l'Aleardi, che fu "d'importanza veramente
singolare", perché "poeta di transizione dai romantici a
quelli che tornano ad essere poeti d'arte" (p. 239). Se Manzoni e
Leopardi sono delle grandi eccezioni è perché non
abdicarono mai al romanticismo - che è sempre "sciatteria di
stile", anarchia stilistica (p. 61), "deliqui di espressione",
approssimatività della lingua (p. 83) - e restarono sempre
nel gran filone della classicità.
Il quadro che del nostro romanticismo emerge dalle pagine del D.
risulta evidentemente mutilato in uno schema oppositivo che oltre a
lasciare fuori espressioni di rilievo (Nievo, Padula), e congelare
tutto in caratteri unilaterali, non riesce a cogliere le esigenze di
rinnovamento linguistico e stilistico che mossero il romanticismo,
esigenze non puramente formali ma che riguardavano la materia
profonda della poesia. Né il D. riesce ad affrancarsi da una
certa genericità di superfice, quando costruisce i suoi
giudizi di valore su delle coppie oppositive del genere:
finitezza-immediatezza, misura-dismisura,
distinzione-familiarità, aulico-concreto, difficile-facile,
grandioso-minuto, solenne-intimo, sostenuto-andante,
dignitoso-semplice, eccezionale-quotidiano, eroico-umile,
nobile-popolare (come puntualmente enumerate da V. Santoli, D. e la
stilistica letteraria, in Rivista di letterature moderne e
comparate, XI[1958], pp. 5-11); opposizioni che discendono tutte da
quella fondamentale classico-romanticol e che hanno ossificato un
complesso rapporto a funestare gran parte della critica venuta dopo.
Al di là di questi limiti, l'opera critica dei D. conserva i
suoi meriti storici per essere stata un antecedente della critica
stilistica, nell'equivalenza - già della critica
classicistica e positivistica, quest'ultima conosciuta dal D. - di
filologia e critica letteraria. Un antecedente che tuttavia non
costituisce qualcosa di più che un termine di raffronto, per
le attenzioni rivolte al fatto stilistico, ma che è privo di
anticipazioni teoriche e metodologiche di rilievo.