Carlo Pisacane

 

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Il duca Carlo Pisacane di San Giovanni (Napoli, 22 agosto 1818 – Sanza, 2 luglio 1857) è stato un rivoluzionario e patriota italiano. Partecipò attivamente all'impresa della Repubblica Romana ed è celebre soprattutto per il tentativo di rivolta che iniziò con lo sbarco a Sapri e che fu represso nel sangue a Sanza.

Nacque da famiglia aristocratica decaduta, figlio del Duca Gennaro Pisacane di San Giovanni, e di Nicoletta Basile De Luna. Iniziò a coltivare la sua formazione marziale all'età di dodici anni, quando entrò nella Scuola militare di San Giovanni, a Carbonara. Due anni dopo passò nel collegio militare della Nunziatella. Anche suo fratello Filippo era allievo di quel collegio: sarebbe diventato tenente del reggimento degli Ussari e sarebbe rimasto fedele al proprio re sino all'esilio. Pisacane compì in giovinezza studi confusi ma appassionati che ne caratterizzarono una personalità idealista e visionaria, tanto da farlo considerare a taluni studiosi come uno dei primi socialisti propugnatori dell'utopia egualitaria. Nel 1839 venne nominato alfiere del "5º reggimento di linea Borbone". La brillante carriera militare che gli si prospetta tuttavia mal combaciava con il suo carattere e la sua personale visione del mondo. Nel 1840 venne inviato a Gaeta affinché coordinasse il lavoro di costruzione della ferrovia Napoli - Caserta, e l'anno successivo fu trasferito alla fortezza di Civitella del Tronto, condannato per adulterio. Quest'ultima esperienza venne riportata nell'opera Memoria sulla frontiera nord-orientale del Regno di Napoli. Intorno ai trent'anni diventò sempre più insofferente al conformismo caratteristico degli ambienti aristocratici e militari borbonici, abbandonò la carriera militare e fuggì, con la sua innamorata, Enrichetta De Lorenzo, da Napoli a Marsiglia, poi a Londra e a Parigi rifugio degli esuli politici italiani e non solo. Lì conobbe molti personaggi illustri come il generale Pepe, esule a Parigi sin dai tempi dei moti del 1820, Dumas, Hugo, Lamartine e George Sand. Nel 1847, a Parigi, abbandonò Enrichetta, si arruolò nella legione straniera francese come sottotenente e partì per l'Algeria, dove era da poco stata domata la guerriglia antifrancese capeggiata dall'Emiro 'Abd el-Qader. Quell'esperienza indusse il giovane Pisacane a riflettere sui vantaggi della tattica imprevedibile della guerriglia contro un esercito regolare ancora di stampo post-napoleonico, abituato ad agire secondo schemi fissi. Tuttavia, l'ozio e l'inattività non gli piacquero e appena seppe che la rivoluzione di Parigi del febbraio 1848 (che aveva rovesciato Luigi Filippo), si era allargata anche in Italia, si congedò dalla legione e si imbarcò per la patria.

In Veneto e in Lombardia combatté contro gli Austriaci come capitano comandante la 5ª Compagnia Cacciatori dei Corpi Volontari Lombardi e fu ferito a un braccio in uno scontro con gli austriaci a Monte Nota. Poi, entrò come volontario nell'esercito piemontese partecipando alla prima guerra d'indipendenza. Il conflitto si risolse in una sconfitta per il Piemonte, ma Pisacane non si lasciò abbattere e si trasferì a Roma dove, insieme a Goffredo Mameli, Giuseppe Garibaldi, Aurelio Saffi e Giuseppe Mazzini (che incontrò per la prima volta in quell'occasione e di cui divenne un seguace convinto) fondò la Repubblica Romana, difendendola con tenacia a capo dell'esercito popolare, ma con poca fortuna, dagli attacchi dei francesi chiamati da Papa Pio IX per reprimere, così sostenevano i papalini, la sovversione istigata dalla massoneria anticlericale. Con il fallimento dell'impresa, il 3 luglio 1849 venne arrestato e imprigionato in Castel Sant'Angelo. Liberato poco dopo, partì per Marsiglia, poi per Losanna e infine esule a Londra dove visse con la sua compagna Enrichetta.

Nel periodo londinese, rielaborò il proprio progetto politico, prima manifestazione di un nucleo italiano di pensiero socialista, in cui si collegava l'ideale dell'indipendenza nazionale alle aspirazioni di riscatto sociale e politico delle masse contadine. Avvicinandosi in parte al pensiero di Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo, fu profondamente influenzato dalle idee francesi del "socialismo utopistico" e libertario espresso dalla sua formula «libertà e associazione». Pisacane credeva che prima ancora dell'istruzione e formazione del popolo, secondo quanto predicava la dottrina mazziniana, occorresse risolvere la questione sociale, che poi era la questione contadina, con la riforma agraria. Negli anni tra il 1848 e quello della tragica spedizione in Campania, le meditate letture di Proudhon e Fourier lo portarono a polemizzare con Mazzini sul carattere della futura rivoluzione italiana. L'atteggiamento di Pisacane non si discostava sostanzialmente da quello dell'anarchico russo Bakunin nella sua fase panslavista. L'ideologia bakuniana del resto aveva una consistente influenza sulla formazione politica di una parte dei patrioti italiani come ad esempio Garibaldi. La rivoluzione nazionale doveva scaturire dalla rivoluzione sociale. Per liberare la nazione occorreva che prima insorgessero le plebi contadine offrendo loro la liberazione economica con l'affrancamento dai loro tiranni immediati: i proprietari terrieri. Come Proudhon, Pisacane teorizzava che a ciascuno fosse garantito il frutto del suo lavoro e che ogni altra proprietà non fosse solamente abolita, ma «dalle leggi fulminata come il furto» e, oltre Proudhon, si dichiarava sostenitore della proprietà collettiva delle fabbriche e dei terreni agricoli. Coerentemente alle idee di Proudhon per Pisacane lo scopo ultimo della rivoluzione non era lo stato centralizzato dei giacobini o dei blanquisti, ma l'unica forma di governo giusta e sicura: l'anarchia. Chiese la semplificazione delle istituzioni sociali, e affermò che la società «costituita nei suoi reali e necessari rapporti, esclude ogni idea di governo».

Pisacane fu il teorizzatore in Italia di quella che sarebbe poi diventata la "propaganda del fatto", ovvero l'azione avanguardista che genera l'insurrezione, l'esempio che consente l'innesco per il propagarsi della necessaria rivoluzione sociale e da questo la necessità di impegnarsi fisicamente e attivamente nell'impresa rivoluzionaria. Solo dopo aver liberato il popolo dalle sue necessità materiali si sarebbe potuto istruirlo ed educarlo per condurlo alla rivoluzione. Ribadiva ancora infatti nel suo testamento politico posto in appendice al Saggio sulla rivoluzione: «profonda mia convinzione di essere la propaganda dell'idea una chimera e l'istruzione popolare un'assurdità. Le idee nascono dai fatti e non questi da quelle, e il popolo non sarà libero perché sarà istrutto, ma sarà ben tosto istrutto quando sarà libero». Questo il senso del suo affermare che «L'Italia trionferà quando il contadino cambierà spontaneamente la marra con il fucile». Nello stesso scritto, egli polemicamente sosteneva che «la dominazione della casa Savoia e la dominazione della casa d'Austria sono precisamente la stessa cosa» e che «il regime costituzionale del Piemonte è più nocivo all'Italia di quello che lo sia la tirannia di Ferdinando II». Espressioni questi di un socialismo radicale avverso a ogni riformismo e alle soluzioni della questione sociale in senso interclassista come auspicava lo stesso Mazzini. Per questo Carlo Pisacane è da molti considerato non solo un patriota ma un precursore dell'anarchismo, se non un vero e proprio anarchico. Si trasferì a Genova, sempre tenuto d'occhio dalla polizia, per proseguire i suoi studi. Qui frequentò il filosofo russo Aleksandr Herzen che lo persuase del potenziale che avevano le masse. Carlo Pisacane iniziò a pensare a un'azione che partisse dal profondo Sud dello stivale coinvolgendo le grandi masse di contadini.

Allo scopo di mettere in atto le proprie convinzioni, iniziò a prendere contatti con altri patrioti e cospiratori che condividevano le sue stesse idee. Fra questi si ricorda Nicola Fabrizi, conosciuto all'epoca della difesa di Roma e col quale strinse una forte amicizia. Fabrizi contattò diversi patrioti intenzionati a portare la guerriglia nel Meridione: Giuseppe Fanelli, ex combattente per la Repubblica Romana, aveva seguito Fabrizi nell'esilio in Corsica e a Malta, operava segretamente a Napoli e in seguito sarà propagatore dell'anarchismo bakuniano in Spagna; Luigi Dragone e sua moglie Rosa che militavano anch'essi a Napoli; Nicola Mignogna ricercato dalla polizia come complice dell'attentato a Pio IX nel settembre 1849; Giovanni Nicotera che diventerà ministro dell'interno nel governo dell'Italia unita; Giovan Battista Falcone, giovane cospiratore rifugiato a Malta; Rosolino Pilo. In principio, si pensò di partire dalla Sicilia dove era molto diffuso il dissapore contro i Borbone, ma il piano definitivo della spedizione previde la partenza dal porto di Genova e lo sbarco a Ponza per liberare alcuni prigionieri politici lì rinchiusi. Dopo di che partire per Sapri, al confine tra Campania e Basilicata, in un punto strategico ideale per attendere i rinforzi che si attendevano numerosi e con i quali marciare su Napoli. Il 4 giugno 1857 Pisacane si riunì con gli alti capi della guerriglia per stabilire tutti i particolari dell'impresa. Un primo tentativo si ebbe il 6 giugno, ma fallì perché l'avanguardia di Rosolino Pilo aveva perso il carico di armi in una tempesta. Con l'intento di raccogliere armi e consensi, Pisacane si recò a Napoli, travestito da prete. Ma l'esito fu molto deludente. Pisacane, però, non si lasciò scoraggiare persistendo nei suoi intenti. Lo sbarco di Carlo Pisacane è ricordato a Sapri con un monumento nei pressi della spiaggia «Eran trecento, eran giovan e forti e sono morti....»

Il 25 giugno 1857 Pisacane s'imbarcò con altri ventiquattro rivoluzionari, tra cui Giovanni Nicotera e Giovan Battista Falcone, sul piroscafo di linea Cagliari, della Società Rubattino, originariamente diretto a Tunisi. Venti tra i partecipanti alla spedizione redassero e sottoscrissero un documento che ben rifletteva l'ideologia politica di Pisacane fondata sulla "propaganda del fatto": « Noi qui sottoscritti dichiariamo altamente, che, avendo tutti congiurato, sprezzando le calunnie del volgo, forti nella giustizia della causa e della gagliardia del nostro animo, ci dichiaramo gli iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non risponderà al nostro appello, non senza maledirlo, sapremo morire da forti, seguendo la nobile falange de' martiri italiani. Trovi altra nazione al mondo uomini, che, come noi, s'immolano alla sua libertà, e allora solo potrà paragonarsi all'Italia, benché sino a oggi ancora schiava » (Su Il Cagliari la sera del 25 Giugno 1857, alle 21.30) La spedizione ebbe un contributo economico da Adriano Lemmi banchiere livornese di stampo mazziniano. Pilo si occupò nuovamente del trasporto delle armi, e partì il giorno dopo su alcuni pescherecci. Ma anche questa volta Pilo fallì nel compito assegnatogli e lasciò Pisacane senza le armi e i rinforzi che gli erano necessari. Pisacane continuò senza cambiare piani: impadronitosi della nave durante la notte, con la complicità dei due macchinisti britannici, si dovette accontentare delle poche armi che erano imbarcate sul Cagliari. Il 26 giugno sbarcò a Ponza dove, sventolando il tricolore, riuscì agevolmente a liberare 323 detenuti, poche decine dei quali per reati politici, aggregandoli quasi tutti alla spedizione. Il 28, il Cagliari ripartì carico di detenuti comuni e delle armi sottratte al presidio borbonico. La sera i congiurati sbarcarono presso Sapri, probabilmente, per la precisione, in contrada Uliveto nel comune di Vibonati, a circa 1,5 km dal confine con il comune di Sapri. Lo sbarco, infatti difficilmente sarebbe potuto avvenire nella baia di Sapri in quanto i fondali non lo permettevano. Inoltre, la mappa trovata addosso a Pisacane riportava una X sulla località "Oliveto", territorio di Vibonati. Cippo sepolcrale di Carlo Pisacane, presso il luogo della morte, località Salemme, Sanza (SA). Il 30 giugno Pisacane giunse a Casalnuovo (dopo l'Unità, Casalbuono) dove fu ben accolto dalla popolazione che rimase però malamente impressionata dalla condanna a morte inflitta, per dare prova di onestà e come ammonimento ai galeotti liberati a Ponza, al rivoluzionario Eusebio Bucci, che aveva derubato una donna.

Nella sua marcia verso Napoli, Pisacane decise di fermarsi a Padula dove era attivo un gruppo settario mazziniano i cui capi erano stati da poco arrestati dalla polizia. Qui fu ospitato nel palazzo di un simpatizzante della rivoluzione, Don Federico Romano che cercò nella notte tra il 30 giugno e il 1º luglio di convincere Pisacane a rinunciare all'impresa improvvisata. La mattina seguente accadde un episodio che impressionò i rivoluzionari: una donna, Giuseppina Puglisi, che si era imbarcata a Ponza, per vendetta ammazzò un membro della spedizione, un tale Michelangelo Esposito , un ex militare borbonico in congedo che anni prima le aveva ucciso il marito. I rivoltosi non trovarono ad attenderli quelle masse rivoltose che si sarebbero aspettati ma iniziarono lo stesso la rivolta liberando i carcerati di Padula e assaltando le case dei nobili. Nel frattempo i "ciaurri" sobillavano i contadini contro i ribelli tra i quali erano banditi conosciuti e attivi in quei territori. L'arrivo dei gendarmi borbonici e del VII Cacciatori costrinse Pisacane e i suoi a ritirarsi nell'abitato di Padula dove tra gli spari, provenienti dalle finestre delle case e dagli angusti vicoli, morirono 53 dei suoi seguaci. Gli altri, per un totale di 150, vennero catturati e consegnati ai gendarmi. Pisacane, con Nicotera, Falcone e gli ultimi superstiti, riuscì a fuggire a Sanza dove all'alba del 2 luglio il parroco don Francesco Bianco fece suonare le campane per avvertire il popolo dell'arrivo dei "briganti". I ribelli furono ancora una volta aggrediti e massacrati uno a uno a colpi di roncola, pale, falci. Perirono in 83 e tra questi Pisacane e Falcone. Secondo un diverso resoconto, i due si suicidarono con le loro pistole a Sanza vicino "Buonabitacolo", mentre quelli scampati all'ira popolare furono poi processati nel gennaio del 1858: condannati a morte, furono graziati dal Re, che tramutò la pena in ergastolo. I due macchinisti britannici, che avevano favorito l'imbarco di Pisacane sul piroscafo "Cagliari", per intervento del loro governo furono dichiarati non perseguibili per infermità mentale. Nicotera, gravemente ferito, fu portato in catene a Salerno dove venne processato e condannato a morte. Anche per lui la pena fu tramutata in ergastolo solo per l'intervento del governo inglese che guardava con crescente preoccupazione la furia repressiva di Ferdinando II. Con il successivo intervento di Garibaldi fu liberato e si avviò alla carriera politica.

Come lasciò scritto nel suo testamento politico, Pisacane ribadiva l'ideale mazziniano del «sacrificio senza speranza di premio»: «ogni mia ricompensa io la troverò nel fondo della mia coscienza e nell'animo di questi cari e generosi amici... che se il nostro sacrifico non apporta alcun bene all'Italia, sarà almeno una gloria per essa aver prodotto figli che vollero immolarsi al suo avvenire». Ciò che contava dunque era dare l'esempio per stimolare gli animi all'azione, un'azione volta non alla mera sostituzione di un potere con un altro, bensì alla rivoluzionaria ricostruzione di una società più equa e libera. La spedizione fallita ebbe in effetti il merito di riproporre all'opinione pubblica italiana la "questione napoletana", la liberazione cioè del Mezzogiorno italiano da quel governo borbonico che il ministro inglese Gladstone definiva «negazione di Dio eretta a sistema di governo». Infine il tentativo di Pisacane sembrava riproporre la possibilità di un'alternativa democratico-popolare come soluzione al problema italiano: era un segnale d'allarme che costituì per il governo di Vittorio Emanuele II uno stimolo ad affrettare i tempi dell'azione. Carlo Pisacane non si lasciò dietro nessun movimento. Esercitò tuttavia una profonda influenza sui repubblicani più giovani, sia attraverso i suoi personali collaboratori, sia, dopo la sua morte, attraverso i suoi scritti. Questa influenza contribuì a creare il clima favorevole che accolse Bakunin arrivando a Firenze nel 1864. È significativo il fatto che sia della Fratellanza Fiorentina che della Fratellanza Internazionale, fondata più tardi a Napoli, fecero parte vecchi compagni di Pisacane. La figura di Pisacane rimane tutt'oggi fra le più importanti del Risorgimento italiano.