Giacobinismo
(in Gramsci)
da
Dominique Grisoni, Robert Maggiori
Guida a Gramsci
BUR, Milano 1975
GIACOBINO-GIACOBINISMO
Nel pensiero di Gramsci, il termine «giacobino» assume
il significato di creazione di una «volontà
collettiva» attraverso una cosciente politica di alleanze di
una classe organizzata che vuole diventare dominante, e quindi
egemonica, con una classe subalterna disorganizzata che conduce
sulle sue posizioni assumendone contemporaneamente le
«aspirazioni elementari immediate».
Due esigenze fondamentali caratterizzano e giustificano tale
politica e tale stile di azione pratica: «la prima... era
quella di annientare le forze avversarie o almeno di ridurle
all'impotenza per rendere impossibile una controrivoluzione»;
«la seconda... era quella di allargare i quadri della
borghesia (la classe che ha preso l'iniziativa del movimento, nel
caso della rivoluzione francese) e di porla a capo di tutte le forze
nazionali identificando gli interessi e le esigenze comuni a tutte
le forze nazionali, per mettere in moto queste forze» (R, EI
p. 85, ER p. 112).
Tuttavia Gramsci rileva che «il termine di "giacobino" ha
finito per assumere due significati: uno è quello proprio
storicamente determinato, caratterizzato, di un determinato partito
della rivoluzione francese» (R, EI p. 75, ER p. 100), che
utilizza metodi energici e le cui decisioni e deliberazioni si
spiegano con la sua fede fanatica nei valori del suo programma e nei
mezzi scelti per applicarli; il secondo consiste nell'elaborazione
di un programma economico-sociale fondato sulle aspirazioni delle
classi sociali subalterne che permette la costituzione di un blocco
borghesia-intellettuali-masse contadine intorno a un nucleo egemone
(politico e militare), Parigi.
Perciò quando Gramsci indica al «principe
moderno» il modello giacobino, si riferisce alla sua forma
esteriore, cioè all'uomo politico «caratterizzato da
estrema decisione, energia, risolutezza, e dipendente dalla credenza
fanatica nelle virtù "taumaturgiche" delle sue idee,
qualunque siano» (R, EI p. 75, ER p. 100), che si oppone a
qualsiasi «sosta "intermedia" del processo rivoluzionario e
manda alla ghigliottina non solo gli elementi della vecchia
società dura a morire, ma anche i rivoluzionari di ieri, oggi
diventati reazionari» (R, EI p. 84, ER p. Ili), e alla sua
forma interna, cioè ai suoi contenuti economico-sociali che
si sviluppano secondo due direzioni: «verso i contadini di
base, accettandone le rivendicazioni elementari e facendo di esse
parte integrante del nuovo programma di governo, e sugli
intellettuali degli strati medi e inferiori concentrandoli e
insistendo sui motivi che più li potevano interessare (e
già la prospettiva della formazione di un nuovo apparato di
governo con le possibilità di impiego che offre...)»
(R, EI p. 81, ER p. 107).
Ciò che Gramsci cerca di definire con il termine di
giacobinismo è da un lato un metodo «radicale»
fondato su una determinazione rivoluzionaria
«realistica» e, dall'altro, un contenuto economico e
sociale che allarga la base sociale del partito attraverso un
sistema di alleanze e che prelude alla formazione di una
«volontà collettiva».
da
Gramsci
le sue idee nel nostro tempo
Editrice l'Unità, Roma 1987
Giuseppe Prestipino
Giacobinismo
In vari contesti degli scritti gramsciani, «giacobino»
è sinonimo di politico settario ed elitario in senso
deteriore (cfr. Lessico gramsciano di Umberto Cerroni). Ma nei
Quaderni vi è anche un giacobinismo «riscattato»,
di fatto, in quanto proteso, sia pure autoritariamente, verso una
larga mobilitazione nazionale e popolare (cfr. il Glossario, in Lire
Gramsci di Dominique Grisoni e Robert Maggiori - Paris Editions
Universitaires, 1973).
Per intendere questo «giacobinismo» positivo, dobbiamo
rifarci al concetto di «egemonia» che, a sua volta, non
può esser compreso se lo si restringe al suo significato
politico (tralasciandone quello «filosofico») e,
soprattutto, se gli si attribuisce un significato politico uniforme
in tutta la riflessione di Gramsci. Nelle note sulla Questione
meridionale, l'egemonia era, ' essenzialmente, un compito politico-
strategico del proletariato in lotta per il potere e interessato a
far leva sull'alleanza con i ceti contadini. Nei primi Quaderni del
carcere, l'egemonia politica e culturale è compito storico
delle classi dirigenti, o virtualmente dirigenti, in genere. Infine,
nei quaderni 7 e 8, essa si inquadra in «tutta una concezione
specifica delle sovrastrutture» e comporta «un
allargamento del concetto di Stato» (Buci-Glucksmann) di cui
diviene una tipica funzione. All'egemonia di una classe o di un
gruppo sociale, come funzione dirigente sorretta dal consenso, che
integra e insieme toglie la semplice funzione di dominio, si
sostituisce gradualmente l'egemonia come dominanza della forma
superstruttura- le superiore, «etico-politica», su
quella «economico-corporativa».
Il giacobinismo proprio della concezione e dell'azione leniniane,
che attribuivano una funzione-guida ai rivoluzionari di avanguardia,
viene dunque da Gramsci reinterpretato e dislocato altrove, ossia
nell'ambito più generale e impersonale delle forme o delle
categorie analitiche della prassi storica: nell'ambito ove si
instaurano i compiti egemonici della nuova filosofia nel mutare il
senso comune (riforma intellettuale) e, più ancora, del nuovo
Stato nel rinnovare la società civile (riforma morale).
Per il carattere «sistematico» che egli scorge nel
livello statuale, in confronto alle spinte particolaristiche degli
interessi economico-corporativi, Gramsci attribuisce un significato
positivo anche al termine «totalitario», considerandolo
sinonimo di «autonomo» e «coerente». Ma, a
suo giudizio, lo Stato «totalitario» dev'essere capace
di coinvolgere le masse popolari in un vasto impegno
riformatore. Perciò l'uso gramsciano di quel termine si
distanzia nettamente dall'uso attualistico-gentiliano o
attivistico-reazionario e si richiama, invece, ai valori progressivi
della tradizione democratico-giacobina.
Per concludere: nella versione integrata, post-leniniana, del
«giacobinismo» proposta da Gramsci, è sempre meno
rilevante indicare il soggetto sociale (la classe o il partito) che
esercita l'egemonia o la coercizione, e quello che subisce l'una o
l'altra, ed è sempre più significante localizzare il
luogo storico-categoriale in cui esse sono esercitate o subite.
Quando Stato e società civile, che sono i luoghi, appunto,
dell'egemonia e/o della coercizione, si differenziano e insieme si
incardinano l'uno nell'altro, come accade nell'occidente europeo
più evoluto, interviene un visibile scambio delle parti: la
società civile, da arena degli interessi
economico-corporativi, e quindi dei rapporti di forza tra le classi,
si trasforma nel terreno su cui la partita dell'egemonia è
giocata dallo Stato. Lo Stato, a sua volta proprio perché
promotore e garante delle funzioni di egemonia, avoca a sé
(sottraendolo alla sfera conflittuale, economico-corporativa,
delle parti contrapposte nella società civile) il
«monopolio» della forza, che perciò diviene,
affermava Weber, «forza legittima».
In termini gramsciani, diremo: «il giacobinismo (nel
significato integrale che questa nozione ha avuto storicamente e
deve avere concettualmente)» concorre a definire «la
volontà collettiva e la volontà politica in generale
nel senso moderno» (Quaderni, p. 1559).
da www.treccani.it
di Mona Ozouf e Massimo L. Salvadori
(in Politologia)
GIACOBINISMO
Giacobinismo
di Mona Ozouf
sommario: 1. Introduzione. 2. Storia di una società. 3.
L'estensione di un concetto. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Il termine 'giacobino' è stato coniato nel corso della
Rivoluzione francese, insieme a una gran quantità di vocaboli
destinati a designare le fazioni che si dividevano il potere. Ma, a
differenza di tanti altri - foglianti, hébertisti,
rolandisti, cordiglieri - che oggi sono compresi solo dagli storici
specialisti del periodo, i termini 'giacobino' e 'giacobinismo'
hanno avuto una fortuna straordinaria nel repertorio politico delle
nazioni. Innanzitutto nel repertorio politico francese. Sebbene non
indichi più un partito politico organizzato, ma un'ideologia
che attraversa tutti i partiti, il giacobinismo continua ad
alimentare le controversie tra Francesi. Esso ha senza alcun dubbio
perso la carica passionale per la quale fin dal 1796 Joseph de
Maistre lo interpretava come lo strumento del castigo inflitto da
Dio ai Francesi, e Babeuf - e in seguito Buonarroti - al contrario
come la promessa dell'eguaglianza, l'abbozzo di una società
senza classi. Ma la sua capacità di dividere non è
esaurita.
Talvolta esso viene celebrato come ciò che alimenta l'energia
patriottica, il senso dello Stato, il gusto dell'indipendenza
nazionale: tale celebrazione, propugnata tradizionalmente dalla
sinistra, è stata a poco a poco condivisa dalla destra e
ciò spiega come possa essere sorto - configurazione
assolutamente inedita alla fine della Rivoluzione francese - un
giacobinismo di destra. Altre volte invece esso viene vilipeso come
il male francese per eccellenza, il freno imposto alla
diversità feconda, il responsabile del 'genocidio' delle
lingue e delle culture locali, l'ostacolo al libero movimento
associazionistico: tale processo, per molto tempo intentato dalla
destra (che, al di là dell''episodio' della Rivoluzione
francese, ha per molto tempo lavorato alla ricostruzione di una
Francia monarchica eterogenea e ricca di particolarismi), è
stato ripreso dalla sinistra, a partire dal momento in cui questa ha
riscoperto la strenua opposizione della campagna francese
all'integrazione culturale e la sua capacità di
contestazione.
La fortuna del giacobinismo appare ancora più sorprendente
quando si oltrepassano i confini francesi: infatti il partito
giacobino è divenuto nel corso del XIX e del XX secolo un
punto di riferimento per tutti i movimenti rivoluzionari che hanno
creduto nella trasformazione del mondo e sperato nella nascita
dell'uomo nuovo. Nel club della rue Saint-Honoré i partiti
rivoluzionari hanno riconosciuto il loro antenato. Il dibattito sul
giacobinismo è dunque proseguito all'interno del pensiero
socialista, che a volte lo ha esaltato come un'anticipazione, altre
volte lo ha condannato come pura difesa degli interessi borghesi.
Due interpretazioni delle quali Gramsci darà un esempio.
Tale fortuna è possibile solo con uno slittamento semantico:
nel corso della storia il giacobinismo è diventato una
nebulosa di significati. Nell'accezione del termine entra
innanzitutto la storia della società dei giacobini; poi gli
aspetti che nel corso dei quattordici mesi della dittatura
montagnarda hanno caratterizzato, giustificato ed esemplificato la
pratica giacobina; infine il percorso dei ricordi giacobini nella
storia vissuta e nella storia immaginata. Per comprendere la fortuna
del concetto si devono perciò distinguere tutti questi
elementi e ripercorrere la strada che porta dalla storia alla
filosofia politica e alla psicologia collettiva.
2. Storia di una società
Nel senso più immediato la storia del giacobinismo è
quella di un club, erede della lunga vicenda delle società di
pensiero della Francia dell'ancien régime, luoghi di
rimescolamento sociale in cui si è fatto l'apprendistato
dell'eguaglianza democratica e del linguaggio universalistico. La
società dei giacobini nasce nel celebre club bretone sorto a
Versailles alla vigilia degli Stati Generali. L'elemento originale
dell'associazione dei quarantaquattro deputati del Terzo stato della
Bretagna che giungono a Versailles è dato meno dal programma
- vogliono tutti senza eccezioni il voto individuale e la
deliberazione comune - che dalla determinazione di esprimere, tutti
insieme, un giudizio unanime: essi decidono che tutte le questioni
proposte agli Stati Generali saranno, il giorno stesso, discusse
all'Assemblea bretone, in modo da ottenere una posizione comune
della provincia. Questa ricerca dell'unanimità persiste anche
quando il club inizia ad accogliere i 'patrioti' venuti da altre
province e si trasferisce da Versailles a Parigi, con sede nella
biblioteca del convento dei giacobini. Questa ubicazione sarà
all'origine del suo nome, benché la denominazione ufficiale
del club sia Société des amis de la Constitution e le
società di provincia affiliate alla società parigina
prendano nomi diversi.
Il reclutamento della società, all'inizio solo parlamentare
(il club accoglie le personalità eminenti del partito
patriota, quali Mirabeau, Barnave, Robespierre, Lafayette,
Pétion), si estende in breve tempo: in provincia si sono
costituite spontaneamente altre società, alle quali il club
parigino trasmette presto i suoi statuti. In breve tempo esso assume
il ruolo di una società-madre, dispensatrice di
legittimità, e fa del suo Comitato di corrispondenza,
responsabile dei rapporti fra Parigi e la provincia, un ingranaggio
essenziale. Nella primavera del 1790 conta già una sessantina
di filiali, in autunno più del doppio; alla fine della
Costituente ve ne saranno un migliaio. Esse disegnano però
una rete molto irregolare sul territorio francese, e dall'altra
parte il controllo della società-madre sulle società
affiliate non è accettato subito. Anche i confini politici
restano a lungo confusi: non di certo sulla destra, dove le
società giacobine si trovano di fronte come antagonisti
alcuni club monarchici, ma sulla sinistra, dove è sorta fin
dalla primavera del 1790 una società più radicale, che
si riunisce nel convento dei cordiglieri: può succedere
così che i grandi leaders politici facciano parte al tempo
stesso dei cordiglieri e dei giacobini. Insomma, questo giacobinismo
delle origini, che riunisce i notabili del Terzo stato (la quota
associativa, piuttosto elevata, non è alla portata degli
artigiani e dei commercianti), sorprende più per la sua
rapida crescita quantitativa che per la costituzione di un potere
politico realmente coerente.
Il momento decisivo, per questa miriade di società, è
Varennes: la fuga del re, che fa 'saltare' l'unità della
Rivoluzione, fa andare in frantumi anche il club dei giacobini.
Durante la crisi i giacobini non sono giunti né a rinnegare i
cordiglieri - i quali, nel momento stesso in cui l'Assemblea si
sforza di tenere la persona del re fuori dal dibattito, hanno
lanciato una petizione a favore della repubblica, con un'audacia che
costa loro la chiusura del club - né a seguirli realmente.
Molti di essi - poco più di trecento deputati - si
trasferiscono quindi in un convento vicino, quello dei foglianti,
uno spostamento topografico che è espressione di uno
spostamento politico. La scissione va all'inizio a vantaggio dei
foglianti, il cui schieramento si ingrandisce grazie all'adesione di
gran parte di quei deputati 'costituzionali' che hanno appena
scagionato i sovrani e salvato la monarchia, seguiti da buona parte
delle società affiliate. A luglio, tuttavia, il movimento si
ribalta. Intorno alla manciata di deputati rimasti ai giacobini e
riuniti intorno a Pétion e a Robesbierre, incomincia un
movimento di riflusso, poiché essi hanno mantenuto il
controllo dei giornali ai quali sono abbonate le società di
provincia e utilizzano con grande abilità la loro rete di
corrispondenti. Soprattutto, essi hanno compreso che agli occhi
degli affiliati lontani era essenziale occupare sempre il luogo
sacro originario - "primo asilo della libertà", secondo
Pétion - una decisione che Michelet commenta in maniera
pregnante: "Non era un locale qualsiasi, che si potesse lasciare".
Nel momento in cui la Costituente si divide, la rete giacobina
è non soltanto riassestata, ma anche completata e arricchita.
A questo punto finisce anche il giacobinismo delle origini. Dopo una
nascita tanto difficile, infatti, le società giacobine si
trasformano: il club non è più soltanto la sede di una
discussione che precede quella parlamentare, ma è divenuto un
potere autonomo, che si proclama garante dei diritti del popolo, che
vuole esaminare non solo le leggi in preparazione, ma anche quelle
che si dovrebbero fare, che pretende di denunziare le cattive leggi
e di vegliare a che le buone vengano rispettate. Insomma, è
divenuto una contro-assemblea. È al suo interno che si
tengono i grandi dibattiti dell'Assemblea legislativa e Brissot e
Robespierre si affrontano sul problema cruciale della guerra.
All'origine di tale trasformazione non vi è tanto il
reclutamento (la quota associativa annua rimane elevata), quanto le
procedure: sedute ormai pubbliche e quindi teatro permanente del
crescendo di promesse fatte al popolo, imposizione severa della
giusta linea alle società di provincia, istituzione di un
Comitato dei rapporti e di un Comitato di sorveglianza, e infine
rafforzamento di quel Comitato di corrispondenza in cui entrano per
qualche tempo tutti i grandi leaders, dai girondini ai montagnardi,
dagli esagerati agli indulgenti. Una coabitazione che dura poco,
poiché dopo la giornata del 10 agosto, alla quale i giacobini
hanno certamente contribuito, e la riunione della Convenzione, il
club cambia nuovamente fisionomia e diviene l'intermediario della
frazione più radicale dell'Assemblea e il luogo in cui si
prepara la conquista del potere da parte della Montagna. La cosa non
avviene senza fatica, dato che l'unità del movimento non
è ancora totale, le filiali di provincia sono spesso in mani
girondine, e la primavera del 1793 vede anche raddoppiarsi
l'attività delle società moderate. Con l'atto di forza
del 31 maggio, quando i sanculotti ottengono dalla Convenzione
l'espulsione di ventidue deputati accusati di essere 'faziosi',
viene portata a compimento l'unificazione del movimento giacobino:
nell'estate del 1793 gran parte delle società vengono
epurate, alcune radiate, e la società-madre è in
corrispondenza con 798 club, punto di partenza di un ulteriore
allargamento.
La data del 31 maggio 1793 è, per la storia del giacobinismo,
importante quanto quella della fuga di Varennes. Fino al 31 maggio,
infatti, le società giacobine si sono poste come espressione
delle istanze popolari di fronte alla sovranità legittima, e
hanno esaltato l'intervento diretto del popolo nella vita politica.
Dopo il 31 maggio i giacobini saranno i custodi della maggioranza
robespierrista alla Convenzione: essi non impongono più la
volontà popolare, ma sanzionano le direttive governative e
danno una mano alle successive epurazioni. Nel corso di queste fasi
il club svolge una duplice funzione: da una parte continua a formare
l'opinione, le società restano gli 'arsenali dell'opinione
pubblica', ma il loro ruolo si riduce sempre più a ratificare
le decisioni della Convenzione; dall'altra, in provincia, sotto
l'autorità dei rappresentanti in missione, i militanti
giacobini sono incaricati di 'riscaldare lo spirito pubblico', di
sostenere lo sforzo bellico, di denunziare gli individui sospetti,
di braccare i nobili e i preti refrattari: sono lo strumento della
dittatura parigina e il braccio del Terrore, al tempo stesso un
tribunale e un esercito.
È a questa particolare fase della storia del club dei
giacobini che si pensa abitualmente quando si parla di giacobinismo.
I quattordici mesi della dittatura montagnarda costituiscono i
confini storici effettivi del potere giacobino. È allora che
il giacobinismo diviene, come ha mostrato Michelet, un'oligarchia di
militanti manipolata da pochi iniziati: una macchina
efficientissima, utilizzata da Robespierre con grande
abilità, fino al punto di identificarsi con essa, di esserne
la voce e l'incarnazione.
La storia del giacobinismo ha perciò una base cronologica
più ristretta di quella della società dei giacobini,
come è dimostrato anche dall'ultima fase delle vicende del
club. Infatti la società dei giacobini sembra dapprima
sopravvivere a Robespierre, la cui caduta viene accolta dalle
società di provincia come una banale epurazione: gli artefici
del 9 termidoro, del resto, non sono certo sospettati di
moderatismo. Ma l'apertura delle prigioni, il ritorno dei
proscritti, lo shock provocato dal processo Carrier, la pressione
dell'opinione pubblica contro i responsabili del Terrore, minacciano
in breve tempo l'esistenza della società. Si incomincia,
nell'ottobre del 1794, con il privarla della sua arma essenziale, la
corrispondenza con le filiali. Nel novembre del 1794 viene chiuso il
club parigino e un anno dopo non vi saranno più
società popolari. A questo punto può dirsi conclusa la
storia del giacobinismo in quanto 'società'. Inizia la storia
del giacobinismo in quanto 'concetto' e in quanto 'ricordo'.
3. L'estensione di un concetto
L'elemento che appare oggi come il nocciolo del concetto di
giacobinismo è il centralismo. Spesso, nei dibattiti
francesi, proclamarsi giacobino significa soltanto affermare la
propria fede nell'indipendenza nazionale e nella grandezza dello
Stato-nazione. Ma il centralismo politico - che si può
definire, sulla scia di Tocqueville, come la concentrazione in uno
stesso luogo e in una stessa mano del potere di dirigere gli
interessi comuni a tutte le parti della nazione - non è
certamente un'invenzione giacobina, e nemmeno rivoluzionaria.
È la forte drammaticità degli eventi rivoluzionari
che, conferendo al sentimento dell'indipendenza nazionale la sua
iconografia epica, ha svolto un proprio ruolo nell'attribuzione
dell'aggettivo 'giacobino' a un'idea che ha avuto forme storiche
diverse e non è certo nata nell'anno II.
L'altro centralismo, quello amministrativo, consiste, sempre secondo
Tocqueville, nel concentrare in uno stesso luogo e in una stessa
persona il potere di dirigere gli interessi non più comuni,
ma propri di ciascuna componente della nazione, e nel riferirsi, per
fare ciò, non ai costumi, alle abitudini e alle convenienze
locali, ma a un sistema elaborato in sede di governo e applicato
dovunque dai suoi agenti. Tale genere di centralismo sembra
più vicino al giacobinismo, che raccomandava, con Saint-Just,
"la totale astrazione da ogni luogo". È il giacobinismo,
comunque, che viene costantemente denunciato nel discorso
regionalista per aver imbrigliato nell''unitarismo' il rigoglio
ricco e vivace delle differenze locali.
Il centralismo amministrativo, tuttavia, non è né
completamente né esclusivamente giacobino. Non completamente,
perché definire - come fanno i movimenti regionalisti - il
giacobinismo come un antifederalismo significa ignorare che il
federalismo è stato un 'mostro' polemico, che non celava
nessuna rivendicazione reale dei diritti regionali particolari. Non
esclusivamente, perché gli intendenti dell'ancien
régime e i prefetti napoleonici potrebbero incarnare il
centralismo amministrativo francese tanto quanto i rappresentanti
montagnardi in missione, anzi molto meglio. L'accentramento
giacobino, opera del decreto di frimaio, anno II, è un
provvedimento sbrigativo, frettolosamente sovrapposto al
decentramento avviato nel 1789. Esso consiste nel sostituire i
procuratori-rappresentanti dei distretti e dei comuni con agenti
nazionali che il Comitato di salute pubblica nomina e revoca.
Distretti e comuni vedono perciò scomparire la loro
indipendenza amministrativa, mentre il dipartimento resta fuori
dell'accentramento. Il carattere dilettantesco, improvvisato e
affannoso del decreto di frimaio non permette dunque di attribuire
ai soli giacobini la responsabilità di un processo di
accentramento avviato prima di loro, perfezionato dopo di loro, e da
loro accettato in una situazione di emergenza, con la guerra civile
che si aggiungeva alla guerra fuori dei confini.
Se tuttavia il giacobinismo ha potuto rappresentare la resistenza
francese alle tendenze centrifughe, l'impoverimento della vita
locale, il rispetto della gerarchia, è stato grazie al fatto
che, per quanto improvvisato, per quanto disuguale all'atto pratico,
l'accentramento giacobino si è rivelato un provvedimento
efficace. Gli agenti nazionali, incaricati dal Comitato di salute
pubblica di tenere sotto controllo il territorio, rendevano conto a
Parigi ogni dieci giorni, curavano l'applicazione dei decreti e
rischiavano la revoca se non lo facevano o lo facevano male. La
scomparsa dei corpi intermedi rendeva, com'è ovvio, ancora
più pesante il dispositivo, così come in seguito
faciliterà la preparazione della Costituzione dell'anno VIII
che si troverà di fronte solo degli individui, un gentile
dono fatto dalla Rivoluzione a Napoleone. Nonostante parli di
prefetti e si riferisca perciò al sistema dell'anno VIII,
è il ricordo dell'efficienza giacobina che suggerisce a L.-M.
Cormenin la seguente incisiva descrizione del centralismo: "Nello
stesso istante il governo vuole, il ministro ordina, il prefetto
trasmette, il sindaco esegue, i reggimenti si mettono in moto, le
flotte avanzano, le campane suonano, il cannone tuona e la Francia
è in piedi" (cfr. Droit administratif, Paris 1840, vol. I, p.
VIII).
Questo tipo di accentramento ha incontrato l'adesione di famiglie
politiche molto diverse, concordi nel giudicare positivamente il
controllo del territorio francese da parte di un potere centrale, si
tratti di monarchia assoluta, di cesarismo, o di governo
rivoluzionario. L'accentramento ha beneficiato del romanticismo
austero della politica di salute pubblica, altro elemento necessario
per una definizione del giacobinismo, poiché il centralismo
amministrativo dell'anno II nasce dalla tragedia della guerra,
interna ed esterna, che impone la sospensione della Costituzione
dell'anno I e costringe a dichiarare prorogato fino alla pace il
governo rivoluzionario. Tutto ciò è sintetizzato nella
celebre frase pronunciata da Saint-Just il 10 ottobre del 1793 nel
Discours sur le gouvernement révolutionnaire: "Nelle
circostanze in cui versa la Repubblica, la Costituzione non
può essere instaurata, significherebbe votarla al suicidio".
Ancora una volta, non è il giacobinismo a inventarsi le
necessità della salute pubblica, che erano già note
alla monarchia. Augustin Thierry ha scritto che Richelieu aveva
saputo portare la regalità a essere l'idea vivente della
salute pubblica: si può quindi respingere l'identificazione
di giacobinismo e salute pubblica. Allo stesso modo si può
capire perché è diventato usuale identificare il
giacobinismo con l'argomentazione delle circostanze particolari, con
la comprensione delle necessità di una dittatura provvisoria.
Anche in questo caso ha avuto la sua parte l'attualità forte
della Rivoluzione, così come la chiarezza delle formule con
le quali i giacobini hanno definito il governo rivoluzionario.
Innanzitutto il prevalere dell'eccezionalità non è per
nulla nascosto in quelle formule. Esso è stato definito
giuridicamente: "In un governo ordinario - ha detto Couthon -
appartiene al popolo il diritto di eleggere i suoi rappresentanti,
non può esserne privato. In un governo straordinario tutti
gli impulsi devono venire dal centro, mentre le elezioni devono
venire dalla Convenzione". È stato metaforicamente esaltato -
"la Convenzione risuonò allora delle invocazioni ai fulmini
dell'autorità centrale" - e metafisicamente fondato come
mondo alla rovescia. Nessuno ha illustrato meglio di Robespierre
tale capovolgimento della Rivoluzione, in cui si ribalta tutto
l'individualismo dei diritti dell'uomo: "Sotto il regime
costituzionale è pressoché sufficiente proteggere gli
individui dall'abuso del potere pubblico; sotto il regime
rivoluzionario il potere pubblico è costretto a difendersi
dalle fazioni che lo attaccano" (cfr. Discours sur les principes du
gouvernement révolutionnaire, in Textes choisis, Paris 1958,
vol. III, p. 99). L'antinomia fra epoca rivoluzionaria ed epoca
costituzionale è al centro del giacobinismo.Di qui,
ovviamente, nascono l'identificazione dei nemici interni con i
nemici esterni e la necessità di spezzare ogni resistenza per
mezzo di una 'forza costrittiva' unica, il Terrore. Terrore
accettato e persino esaltato, poiché in virtù di
quest'assimilazione fra tutti i nemici della Rivoluzione esso sembra
colpire solo individui estranei al corpo nazionale senza toccare la
Nazione vera e propria; Terrore necessario e buono come la Natura,
semplice colpo di vento che, come dice Garnier de Saintes, fa cadere
"i frutti bacati e lascia sull'albero i frutti buoni" (cit. in
Aulard, 1889-1897, vol. VI, p. 47). È questo consenso al
Terrore che conferisce al giacobinismo la sua carica di tragico
fascino e fa capire perché, pur non essendo stato l'unico
episodio della storia francese a elevare a dogma la salute pubblica,
esso abbia finito con il rappresentarne l'incarnazione.
Il giacobinismo non ha quindi inventato nulla? L'elemento al quale,
paradossalmente, oggi non si pensa più quando ci si dichiara
giacobini, o anche antigiacobini, è proprio quello
tipicamente giacobino, cioè l'insieme dei mezzi con i quali
un club esercita il proprio dominio su un'assemblea eletta. Nulla
permette di capire i meccanismi con i quali si impone questo dominio
meglio delle prime settimane della Convenzione, quando gli
schieramenti sono ancora mal delineati e i gruppi permeabili, quando
il club dei giacobini ha dei concorrenti e non c'è ancora il
regno del Terrore. Dal settembre 1792 al gennaio 1793 si mettono a
punto gli elementi essenziali del sistema. Il giorno stesso in cui
la Convenzione si riunisce il club si arroga il diritto di
sciogliere gli altri club, che vengono assimilati agli assembramenti
equivoci in cui può cercare di esprimersi solo l''intrigo'.
Poi è la volta dei deputati: perché non sono tutti
presenti nella sala dei giacobini? Ve li spingono dentro, e se sono
riluttanti, si mette in moto la macchina dell'espulsione. Si inizia
con Fauchet, poi tocca a Brissot: l'epurazione continuerà a
inasprirsi fino a essere sistematicamente organizzata mediante
l'obbligo per ciascuno dei membri del club di presentare la propria
biografia (Cos'eri nel 1789? Qual era il tuo patrimonio? Se si
è accresciuto, con quali sistemi?). Contemporaneamente si
prepara l'eliminazione dei testimoni delle sedute.nUn controllo
così severo mira in primo luogo alle operazioni della stessa
Convenzione, sulla quale si intende pesare in maniera efficace. Non
appena si forma il Comitato di costituzione, il 29 settembre 1792,
Danton pensa di raddoppiarlo creando per i giacobini un Comitato
ausiliario di costituzione con lo scopo di elaborare un
contro-progetto. È in rue Saint-Honoré che devono
prepararsi, devono "maturare", come dice Saint-Just, le leggi e i
decreti della Convenzione e gli interventi che si terranno dalla
tribuna. Presto sarà detto in maniera molto chiara:
nell'aprile del 1793 si sentirà Robespierre apostrofare le
tribune del club (il club dei giacobini, e questo è un tratto
essenziale, riunisce membri iscritti sotto gli occhi di partecipanti
non iscritti): "Dovete venire alla sbarra della Convenzione a
costringerci a mettere in stato d'arresto i deputati infedeli" (cit.
in Aulard, 1889-1897, vol. V, p. 125).
Ben prima che il Terrore invii alla ghigliottina i deputati che non
sono stati 'epurati', si mette dunque in opera presso i giacobini il
controllo della Convenzione da parte dei gruppi che, sotto le
insegne più disparate (vincitori della Bastiglia, donne
patriote, uomini del 10 agosto), porteranno al suo interno la
rivendicazione giacobina.
Attraverso tutti questi procedimenti si afferma la preminenza di un
luogo e di una parola. Il luogo è quello delimitato dai muri
conventuali del club, unico spazio in cui può concentrarsi il
bene pubblico; il 21 settembre 1792, giorno in cui si apre la
Convenzione, il cittadino Guiraut proclama che "soltanto qui si
dibattono tutte le grandi questioni relative all'interesse del
popolo" (cit. in Aulard, 1889-1897, vol. IV, p. 319). Otto giorni
dopo il presidente dei giacobini invita tutti i membri della
Convenzione a riunirsi all'interno del club; invito che, se accolto,
condurrebbe a consacrare un unico spazio legittimo di discussione:
dai giacobini e soltanto dai giacobini si è sotto gli occhi
del popolo. In qualsiasi altro luogo possono formarsi solo
'intrighi'.
Nello spazio legittimo nasce la parola consacrata: la 'mozione' o la
circolare stampata, tanto più costrittiva in quanto anonima e
trasmessa dalla società-madre alle due o tremila
società di provincia. La forza del giacobinismo non viene
infatti solo dal club parigino, ma anche dalle società
affiliate che rimandano la buona novella. In rue Saint-Honoré
si attribuisce una particolare importanza al Comitato di
corrispondenza, scrupoloso custode dell'ortodossia, incaricato di
trasmettere alla provincia francese il linguaggio perentorio e
scarno delle circolari, ma anche attento a emendare il discorso che
da questa 'Francia profonda' risale verso Parigi. Si nota, ad
esempio, che gli indirizzi di alcune società di provincia
abbinano con sgradevole sbadataggine i nomi di Robespierre e di
Marat? Immediatamente il Comitato di corrispondenza invia alle
società-figlie i 'ritratti' di questi due amici del popolo.
Ciascuno potrà notarvi delle sensibili sfumature,
dispenserà la sua stima secondo i meriti e cesserà di
confonderli. Si tratta di produrre la retta interpretazione e di
farla riprodurre: è in gioco l'educazione politica di tutto
un popolo.
È stato spesso sottolineato, soprattutto da parte di Gramsci,
il carattere volontaristico di questa organizzazione, come se essa
fosse il frutto di una volontà del tutto consapevole e sicura
di sé, in grado di adeguare in ogni momento la propria
strategia al proprio compito storico, e come se il consenso ottenuto
fosse frutto di semplice abilità. Questo però
significa accentuare troppo le differenze esteriori fra manipolatori
e manipolati, sopravvalutare il cinismo e sottovalutare la
sincerità, badare troppo alle persone e non abbastanza al
gruppo, del quale si sottostimano le capacità di
funzionamento autonomo. Lo stesso Cochin, che per primo ha percepito
e descritto la forza di questi meccanismi anonimi, esita sempre fra
due immagini del giacobinismo: quella in cui l'ortodossia si produce
con mezzi consapevoli e quella in cui trionfa l'inconscio
collettivo. Ora nulla, nel nostro caso, induce a presupporre il
calcolo cinico dei partecipanti. Il giacobinismo è il
prodotto di una fede collettiva tale che la libertà degli
individui non la danneggia, che le bocche possono pur aprirsi, esse
non faranno null'altro che ripetere la buona novella. Non diciamo
'buona' in senso ironico: qualsiasi membro dei giacobini è
certo che la società-madre è una buona madre che lo
protegge dall'aggressione del reale. Benché il gruppo
continui a escludere alcuni degli iscritti (o proprio grazie a
questa operazione che colloca nelle 'tenebre esterne' i nemici della
società), nessuno dei membri percepisce il gruppo come gruppo
ma come un tutto. Se i giacobini sono una 'fazione', come viene
rimproverato loro da ogni parte, allora lo è anche il popolo.
I giacobini non possono essere una fazione, perché le hanno
distrutte tutte, essi sono il popolo finalmente restituito alla sua
purezza. In questa equivalenza consiste il giacobinismo.
Come diventa possibile una tale fede? Innanzitutto mediante la
chiusura della società, che comporta una sospensione del
principio di realtà: il disinvestimento in rapporto alla
realtà esterna è, come nel sogno, massimo. Ascoltiamo
Camille Desmoulins: "In materia di cospirazione è assurdo
chiedere fatti dimostrativi, bastano indizi violenti" (Histoire des
Brissotins, ou fragment de l'histoire secrète de la
Révolution, Paris 1793, p. 5). Il 'principio' trionfa sempre
sul fatto. Ciò che d'altronde genera la fede è la
fusione dei membri della società all'interno di un linguaggio
arcaico, ripetitivo, incantatorio, anonimo, in cui ciò che
conta non è la capacità di informazione, ma il ritorno
delle parole-chiave, il martellamento delle formule, il vocabolario
ridotto (anch'esso 'epurato'); un discorso in cui la parola conta
più come segnale che come segno e che sostituisce in ciascuno
l'io ideale della società giacobina all'io individuale:
coercizione interiorizzata, riuscita ben al di là della
manipolazione cinica o del controllo politico.
Questa illusione giacobina - al tempo stesso 'utopia' e 'ucronia' -
sottende la virtù indivisibile del popolo, da cui deriva la
sua unità obbligata. 'Il popolo è buono, i delegati
sono corruttibili'. La rappresentanza va perciò soppressa e
superata da rapporti diretti, trasparenti, con il popolo. La
diffidenza nei confronti di ogni mediazione, l'orrore per ogni tipo
di isolamento - sempre sospettato di celare una volontà
criminale di separazione - spiegano la trasformazione giacobina del
rappresentante del popolo in mandatario. Basato sull'idea che non si
può rappresentare la volontà generale, sostenuto dalle
stampelle del mandato imperativo e dalla sua frequente rimessa in
discussione, il giacobinismo concepisce la libertà come il
contrario dell'indipendenza individuale. Dalla convinzione che
uomini egualmente solleciti del bene pubblico non possano essere
divisi deriva, nella logica stessa del sistema,
l'impossibilità di immaginare dei diritti per un'opposizione.
Al Parlamento inglese Robespierre dice altezzosamente: "Sublime
Parlamento di Gran Bretagna, diteci chi sono i vostri eroi. Avete un
partito di opposizione. Da voi il patriottismo si oppone, quindi
trionfa il dispotismo. La minoranza si oppone, quindi la maggioranza
è corrotta" (cfr. Réponse aux manifestes des rois, in
Textes choisis, Paris 1958, vol. III, p. 97). L'essenza del
giacobinismo sta nell'impossibilità di concepire una
volontà popolare divisa, un confine fra minoranza e
maggioranza, tra sfera pubblica e sfera privata. Il mondo del
giacobinismo è quello della dichiarazione pubblica, quello in
cui Saint-Just immagina che ogni anno, al Tempio, ciascun uomo debba
dichiarare chi sono i suoi amici, annunciare i suoi impegni e
motivare i suoi disaccordi; in cui ogni dieci giorni i cittadini
riuniti in assemblee esaminano la vita privata degli adolescenti
e... dei funzionari, in cui ogni raggruppamento, foss'anche quello
dei 'pasti fraterni' denunziati da Barère, è una
consorteria, presto infiltrata di elementi sospetti, in cui lo
stesso 'foro interiore' è criminale. Questo ideale di
perfetta visibilità sociale e psicologica è lo sfondo
del giacobinismo.
Centralismo governativo, centralismo amministrativo, politica di
salute pubblica, manipolazione degli eletti, educazione politica
delle masse nella prospettiva di creare l'unità, sospensione
della realtà, abolizione del confine fra pubblico e privato,
ecco dunque gli elementi di cui si compone il giacobinismo. Alla
fine della Rivoluzione tutti questi elementi godono di una relativa
autonomia e il giacobinismo non è ancora un sistema, ma una
nebulosa. La storia del concetto nel XIX secolo lo dimostra
perfettamente: si ammette senza problemi che si può essere
fautori del centralismo politico senza esserlo di quello
amministrativo, come confermano Auguste Comte e Tocqueville; si
può essere fautori dell'uno e dell'altro senza sembrare per
questo partigiani della dittatura, come mostra Michelet; si
può anche esaltare l'eredità rivoluzionaria, pur
ripudiando fermamente il Terrore, come fanno Quinet e Ferry.
Insomma, il XIX secolo ritiene che si possa, che si debba operare
una scelta nell'eredità giacobina (e non manca di farlo) e la
opera, al tempo stesso, nell'intera eredità rivoluzionaria,
che non limita al breve periodo della dittatura montagnarda. La
Rivoluzione è ancora lungi dall'essere considerata come un
blocco: vi sono coloro i quali celebrano il '93 e disapprovano l"89;
vi sono anche coloro i quali celebrano l"89 e disapprovano il '93.
Il XX secolo semplificherà queste reminescenze, le
stilizzerà, le impoverirà, in nome
dell'identificazione retrospettiva di ogni partito rivoluzionario
con il giacobinismo. (V. anche Rivoluzione).
bibliografia
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voll., Milano 1955-1956).
Il giacobinismo come 'paradigma' ideologico-politico
di Massimo L. Salvadori
sommario: 1. Le origini del mito nell'Ottocento. 2. Il marxismo tra
filo- e anti-giacobini. 3. La storiografia da Mathiez a Talmon. □
Bibliografia.
1. Le origini del mito nell'Ottocento
Nella storiografia, nella cultura politica e negli orientamenti
ideologici delle forze politiche otto-novecentesche il giudizio sul
giacobinismo ha acquistato un'importanza davvero centrale, anzi
illuminante. E ciò per la convinzione che il giacobinismo
storico avesse introdotto nella storia politica un punto di
riferimento ineludibile, vale a dire un 'modello' da riprendere e
sviluppare o un 'contromodello' da combattere e ricacciare.
L'assunzione del giacobinismo a 'paradigma' ebbe inizio poco dopo la
caduta nel 1794 di Robespierre, allorché la dittatura
giacobina venne considerata dai suoi seguaci sconfitti e dai
babuvisti un esempio positivo di potere popolare, e dai
controrivoluzionari un'inaudita violenza 'contro la storia' e una
catastrofica minaccia che gravava sul futuro.Gli storici francesi
dell'Ottocento si divisero nettamente in relazione alle risposte da
dare anzitutto al seguente interrogativo: i giacobini sono i padri
della democrazia politica e sociale moderna oppure gli iniziatori
del dispotismo moderno? Per P. Buchez, P.C. Roux e L. Blanc il
giacobinismo ha aperto la strada alla democrazia proprio
perché ha stretto un vincolo organico e profondo con le masse
lavoratrici favorendo la loro emancipazione. J. Michelet, A. de
Tocqueville ed E. Quinet condivisero l'idea che le istituzioni
costruite dai giacobini si ponessero in diretta e stretta
continuità con il tradizionale centralismo dello Stato
francese. In particolare, il primo parlò, a proposito del
'partito' giacobino, di una "macchina politica" che, mentre ridava
linfa al vecchio centralismo, al tempo stesso, alimentandosi di
ortodossia ideologica, direzione delle masse, sospetto ed
epurazione, era di tipo nuovo; il secondo insistette sul riemergere,
al di sotto della rottura politica, della spinta al controllo
burocratico del centro sulle periferie; laddove il terzo vide nel
"sistema giacobino" il riapparire dell'"antico dispotismo" e
nell'ideologia che lo sorreggeva un nuovo clericalismo, strumento di
soggiogamento delle masse. Poco dopo la Comune di Parigi del 1871,
A.-H. Taine, esprimendo uno spirito di avversione reazionaria,
considerò la dittatura giacobina l'archetipo della
manipolazione moderna delle masse da parte di minoranze
rivoluzionarie che usano il mito democratico in chiave cinicamente
strumentale.
Mentre la storiografia ottocentesca elaborava i suoi diversi moduli
interpretativi, nel movimento operaio e socialista europeo
l'atteggiamento di fronte al giacobinismo diventò una sorta
di spartiacque, ponendo su un versante coloro che, favorevoli alla
centralizzazione istituzionale, al ruolo di guida delle
élites e alla dittatura quale forma di potere rivoluzionario,
guardarono a esso come a un modello cui ispirarsi; sull'altro
quanti, anticentralisti e ostili alla dittatura di una minoranza, lo
denunciarono come un fenomeno piccolo borghese e un ostacolo
all'emancipazione delle masse. Questa contrapposizione segnò,
nei tratti essenziali, una linea di demarcazione destinata a
rinnovarsi nel Novecento tra filo- o neogiacobini e loro avversari.
A trasferire il robespierrismo a livello di 'leggenda', fu il
cospiratore comunista F. Buonarroti, l'autore della Conspiration
pour l'Égalité (1828), secondo cui la dittatura
giacobina rappresentava l'istituto cui dovevano guardare le nuove
generazioni di rivoluzionari al fine di attuare la transizione dal
vecchio al nuovo ordine. Un ammiratore senza riserve di Robespierre
fu altresì il comunista É. Cabet, che nel 1839-1840 lo
definì 'vate' della democrazia popolare, un vero
Cristo-Rousseau redivivo. Un atteggiamento accentuatamente critico
nei confronti del giacobinismo assunse invece A. Blanqui,
l'instancabile cospiratore rivoluzionario attivo per un
cinquantennio nelle lotte sociali e politiche della Francia tra gli
anni trenta e settanta. Egli, che individuò il suo eroe
nell'estremista Hébert, definì Robespierre un piccolo
borghese, troppo poco radicale sul piano ideologico e sociale.
Comunque, anche Blanqui vide nella dittatura giacobina e nel Terrore
strumenti indispensabili. Per questa via il giacobinismo
diventò una componente positiva dell'ideologia dell'ala
blanquista del socialismo francese, guidata da J. Guesde ed
É. Vaillant. Neogiacobini e blanquisti allo stesso tempo si
sentirono i cospiratori terroristi russi della seconda metà
dell'Ottocento. In prima fila tra essi stava P. N. Tkačëv, il
quale sostenne che, senza il ruolo preminente dell'intelligencija
rivoluzionaria, del centralismo organizzativo e del metodo
cospirativo di matrice giacobina, l'azione popolare era condannata
all'impotenza.
Decisamente avverso al giacobinismo invece l'anarchismo. Il motivo
è chiaro: quest'ultimo osteggiò il centralismo
statalistico e la dittatura di minoranza. Perciò P.-J.
Proudhon, M. Bakunin e P. A. Kropotkin furono tutti 'antigiacobini',
in quanto individuarono nei giacobini storici e nei neogiacobini
all'interno del movimento operaio i sostenitori di una concezione
dispotica del potere.
2. Il marxismo tra filo- e anti-giacobini
Il dilemma filogiacobinismo-antigiacobinismo ha esercitato un ruolo
enorme nella storia del marxismo, facendone venire alla luce anime
contraddittorie. Le quali si scorgono nel pensiero stesso di K. Marx
e F. Engels. Infatti, quando essi inneggiano alla liberazione della
società civile dall'oppressione dello Stato e
all'autoemancipazione delle masse, allora considerano il
giacobinismo espressione di un ideologismo piccolo borghese e il
Terrore una forzatura antistorica; quando invece si pongono il
problema della dittatura rivoluzionaria, allora esaltano anch'essi
il potere eccezionale, la concentrazione dei poteri, lo stesso
Terrore, manifestando in tal modo un orientamento scopertamente
filogiacobino. Questa di Marx ed Engels era una antinomia che si
collocava nel cuore del marxismo, destinata perciò a
riprodursi nei suoi vari filoni. Al punto che prima nella Seconda e
poi nella Terza Internazionale i socialisti e i comunisti o si
divisero stabilmente tra neogiacobini e antigiacobini oppure
oscillarono passando da una posizione all'altra.
Toccò al movimento rivoluzionario russo del Novecento
rilanciare in grande stile il giacobinismo come 'paradigma'. Dopo
che E. Bernstein, il padre del revisionismo, alla fine del XIX
secolo aveva esortato il socialismo a liberarsi dalle sue componenti
cospirative, terroristiche, eversivo-rivoluzionarie di matrice
giacobino-blanquista, optando per una strategia pacifica,
evoluzionistica e legalitaria, nella socialdemocrazia russa
scoppiò violento fra il 1902 e il 1904 - negli anni, insomma,
in cui maturò la divisione fra bolscevichi e menscevichi - il
dissidio che mise agli antipodi neogiacobini e neogirondini. A capo
dei primi si pose N. Lenin, il quale individuò nel
giacobinismo un esempio di autentico elitismo rivoluzionario. Nel
1904, in Un passo avanti e due indietro, egli teorizzò la
totale incompatibilità tra i bolscevichi, "nuovi giacobini",
fautori del ruolo dirigente dei rivoluzionari di professione e del
centralismo in materia organizzativa, e i menscevichi, "nuovi
girondini", apologeti della spontaneità rivoluzionaria delle
masse, vale a dire dell'opportunismo. In prima fila a denunciare il
neogiacobinismo dei bolscevichi si trovarono L. D. Trockij e R.
Luxemburg, ai cui occhi Lenin incarnava il ritorno al fanatismo
politico e ideologico piccolo borghese di Robespierre e la sfiducia
verso le capacità di autoemancipazione del proletariato
moderno.
La Rivoluzione del 1917 e la costruzione della dittatura della
minoranza bolscevica riaccesero la controversia su scala
internazionale. Trockij, convertitosi al bolscevismo, raggiunse
Lenin sulla frontiera del neogiacobinismo, esaltando contro K.
Kautsky il terrorismo di tipo giacobino come arma necessaria della
dittatura proletaria. Per contro, da un lato la comunista
'occidentale' Rosa Luxemburg definì i due capi della
Rivoluzione russa eredi dei livellatori inglesi e dei giacobini
francesi, ovvero continuatori di una pratica di soggettivismo
volontaristico che contraddiceva i mezzi e le finalità di una
rivoluzione propriamente proletaria; dall'altro il menscevico J. O.
Martov e il socialdemocratico Kautsky condivisero il giudizio che il
potere bolscevico neogiacobino incarnasse il progetto di una
minoranza autoritaria incapace di comprendere che nessuna energia
rivoluzionaria poteva compensare il dato che la Russia era del tutto
immatura per il socialismo. Al pari di Trockij, A. Gramsci
passò dall'antigiacobinismo al filogiacobinismo. In un primo
tempo, tra il 1917 e il 1920, ancorato a una visione che individuava
nelle masse operaie il soggetto rivoluzionario maturo che si
auto-organizza, Gramsci considerò il giacobinismo nei termini
di una forza rivoluzionaria tipica della rivoluzione borghese e un
esempio negativo di dittatura di una minoranza; dopo la sconfitta
nel 1920 del movimento di massa in Italia e in Europa e una
più compiuta conoscenza del leninismo, fece interamente
propria l'analogia bolscevica tra comunisti-giacobini e
socialisti-girondini, giungendo infine, nei suoi Quaderni del
carcere, a criticare il Partito d'Azione perché nel corso del
Risorgimento italiano non aveva saputo, a differenza dei giacobini
in Francia, legarsi agli interessi delle masse contadine e
dirigerle. Il giacobino diventa, insomma, per Gramsci il prototipo
del rivoluzionario moderno.
3. La storiografia da Mathiez a Talmon
Il parallelo giacobinismo-bolscevismo venne messo al centro della
riflessione storiografica da A. Mathiez in un saggio del 1920, dove
si sottolineava come Lenin si fosse nutrito dell'esempio di
Robespierre e si delineava, in termini apertamente simpatetici,
un'analisi comparativa tra il percorso della dittatura giacobina e
quello della dittatura bolscevica, dettati entrambi dalla logica
interna propria delle rivoluzioni popolari. Un vero e proprio
controcanto rispetto al saggio di Mathiez fu il libro, uscito nel
1921 e dedicato allo "spirito del giacobinismo", di A. Cochin. Per
quest'ultimo la dittatura giacobina rappresenta l'ascesa al potere
dell'homo ideologicus, nutrito dell'astrattismo roussoiano e quindi
artefice di una violenza che parte dalla presunzione dell'ideologia
e perviene alla pratica criminale. All'inizio degli anni cinquanta
J. L. Talmon, in un libro volto a rintracciare le radici della
"democrazia totalitaria", trovava anch'egli nel pensiero di Rousseau
la radice del giacobinismo e del babuvismo e in questi ultimi la
radice del totalitarismo comunista.
La parabola del giacobinismo - dalla storia concreta terminata nel
1794 al suo decorso, in quanto paradigma, nella storiografia, nelle
ideologie e nella politica dei due secoli seguenti - si era
così compiuta. (V. anche Comunismo; Marxismo; Totalitarismo).
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