Giacobinismo

(in Gramsci)
da

Dominique Grisoni, Robert Maggiori
Guida a Gramsci
BUR, Milano 1975


 GIACOBINO-GIACOBINISMO

Nel pensiero di Gramsci, il termine «giacobino» assume il significato di creazione di una «volontà collettiva» attraverso una cosciente politica di alleanze di una classe organizzata che vuole diventare dominante, e quindi egemonica, con una classe subalterna disorganizzata che conduce sulle sue posizioni assumendone contemporaneamente le «aspirazioni elementari immediate».

Due esigenze fondamentali caratterizzano e giustificano tale politica e tale stile di azione pratica: «la prima... era quella di annientare le forze avversarie o almeno di ridurle all'impotenza per rendere impossibile una controrivoluzione»; «la seconda... era quella di allargare i quadri della borghesia (la classe che ha preso l'iniziativa del movimento, nel caso della rivoluzione francese) e di porla a capo di tutte le forze nazionali identificando gli interessi e le esigenze comuni a tutte le forze nazionali, per mettere in moto queste forze» (R, EI p. 85, ER p. 112).

Tuttavia Gramsci rileva che «il termine di "giacobino" ha finito per assumere due significati: uno è quello proprio storicamente determinato, caratterizzato, di un determinato partito della rivoluzione francese» (R, EI p. 75, ER p. 100), che utilizza metodi energici e le cui decisioni e deliberazioni si spiegano con la sua fede fanatica nei valori del suo programma e nei mezzi scelti per applicarli; il secondo consiste nell'elaborazione di un programma economico-sociale fondato sulle aspirazioni delle classi sociali subalterne che permette la costituzione di un blocco borghesia-intellettuali-masse contadine intorno a un nucleo egemone (politico e militare), Parigi.

Perciò quando Gramsci indica al «principe moderno» il modello giacobino, si riferisce alla sua forma esteriore, cioè all'uomo politico «caratterizzato da estrema decisione, energia, risolutezza, e dipendente dalla credenza fanatica nelle virtù "taumaturgiche" delle sue idee, qualunque siano» (R, EI p. 75, ER p. 100), che si oppone a qualsiasi «sosta "intermedia" del processo rivoluzionario e manda alla ghigliottina non solo gli elementi della vecchia società dura a morire, ma anche i rivoluzionari di ieri, oggi diventati reazionari» (R, EI p. 84, ER p. Ili), e alla sua forma interna, cioè ai suoi contenuti economico-sociali che si sviluppano secondo due direzioni: «verso i contadini di base, accettandone le rivendicazioni elementari e facendo di esse parte integrante del nuovo programma di governo, e sugli intellettuali degli strati medi e inferiori concentrandoli e insistendo sui motivi che più li potevano interessare (e già la prospettiva della formazione di un nuovo apparato di governo con le possibilità di impiego che offre...)» (R, EI p. 81, ER p. 107).

Ciò che Gramsci cerca di definire con il termine di giacobinismo è da un lato un metodo «radicale» fondato su una determinazione rivoluzionaria «realistica» e, dall'altro, un contenuto economico e sociale che allarga la base sociale del partito attraverso un sistema di alleanze e che prelude alla formazione di una «volontà collettiva».

 da

Gramsci
le sue idee nel nostro tempo
Editrice l'Unità, Roma 1987

Giuseppe Prestipino

Giacobinismo

In vari contesti degli scritti gramsciani, «giacobino» è sinonimo di politico settario ed elitario in senso deteriore (cfr. Lessico gramsciano di Umberto Cerroni). Ma nei Quaderni vi è anche un giacobinismo «riscattato», di fatto, in quanto proteso, sia pure autoritariamente, verso una larga mobilitazione nazionale e popolare (cfr. il Glossario, in Lire Gramsci di Dominique Grisoni e Robert Maggiori - Paris Editions Universitaires, 1973).

Per intendere questo «giacobinismo» positivo, dobbiamo rifarci al concetto di «egemonia» che, a sua volta, non può esser compreso se lo si restringe al suo significato politico (tralasciandone quello «filosofico») e, soprattutto, se gli si attribuisce un significato politico uniforme in tutta la riflessione di Gramsci. Nelle note sulla Questione meridionale, l'egemonia era, ' essenzialmente, un compito politico- strategico del proletariato in lotta per il potere e interessato a far leva sull'alleanza con i ceti contadini. Nei primi Quaderni del carcere, l'egemonia politica e culturale è compito storico delle classi dirigenti, o virtualmente dirigenti, in genere. Infine, nei quaderni 7 e 8, essa si inquadra in «tutta una concezione specifica delle sovrastrutture» e comporta «un allargamento del concetto di Stato» (Buci-Glucksmann) di cui diviene una tipica funzione. All'egemonia di una classe o di un gruppo sociale, come funzione dirigente sorretta dal consenso, che integra e insieme toglie la semplice funzione di dominio, si sostituisce gradualmente l'egemonia come dominanza della forma superstruttura- le superiore, «etico-politica», su quella «economico-corporativa».

Il giacobinismo proprio della concezione e dell'azione leniniane, che attribuivano una funzione-guida ai rivoluzionari di avanguardia, viene dunque da Gramsci reinterpretato e dislocato altrove, ossia nell'ambito più generale e impersonale delle forme o delle categorie analitiche della prassi storica: nell'ambito ove si instaurano i compiti egemonici della nuova filosofia nel mutare il senso comune (riforma intellettuale) e, più ancora, del nuovo Stato nel rinnovare la società civile (riforma morale).

Per il carattere «sistematico» che egli scorge nel livello statuale, in confronto alle spinte particolaristiche degli interessi economico-corporativi, Gramsci attribuisce un significato positivo anche al termine «totalitario», considerandolo sinonimo di «autonomo» e «coerente». Ma, a suo giudizio, lo Stato «totalitario» dev'essere capace di coinvol­gere le masse popolari in un vasto impegno riformatore. Perciò l'uso gramsciano di quel termine si distanzia nettamente dall'uso attualistico-gentiliano o attivistico-reazionario e si richiama, invece, ai valori progressivi della tradizione democratico-giacobina.

Per concludere: nella versione integrata, post-leniniana, del «giacobinismo» proposta da Gramsci, è sempre meno rilevante indicare il soggetto sociale (la classe o il partito) che esercita l'egemonia o la coercizione, e quello che subisce l'una o l'altra, ed è sempre più significante localizzare il luogo storico-categoriale in cui esse sono esercitate o subite. Quando Stato e società civile, che sono i luoghi, appunto, dell'egemonia e/o della coercizione, si differenziano e insieme si incardinano l'uno nell'altro, come accade nell'occidente europeo più evoluto, interviene un visibile scambio delle parti: la società civile, da arena degli interessi economico-corporativi, e quindi dei rapporti di forza tra le classi, si trasforma nel terreno su cui la partita dell'egemonia è giocata dallo Stato. Lo Stato, a sua volta proprio perché promotore e garante delle funzioni di egemonia, avoca a sé (sottraendolo alla sfera conflittuale, economico-corporati­va, delle parti contrapposte nella società civile) il «monopolio» della forza, che perciò diviene, affermava Weber, «forza legittima».

In termini gramsciani, diremo: «il giacobinismo (nel significato integrale che questa nozione ha avuto storicamente e deve avere concettualmente)» concorre a definire «la volontà collettiva e la volontà politica in generale nel senso moderno» (Quaderni, p. 1559).


da www.treccani.it

di Mona Ozouf e Massimo L. Salvadori

(in Politologia)

GIACOBINISMO

Giacobinismo
di Mona Ozouf

sommario: 1. Introduzione. 2. Storia di una società. 3. L'estensione di un concetto. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Il termine 'giacobino' è stato coniato nel corso della Rivoluzione francese, insieme a una gran quantità di vocaboli destinati a designare le fazioni che si dividevano il potere. Ma, a differenza di tanti altri - foglianti, hébertisti, rolandisti, cordiglieri - che oggi sono compresi solo dagli storici specialisti del periodo, i termini 'giacobino' e 'giacobinismo' hanno avuto una fortuna straordinaria nel repertorio politico delle nazioni. Innanzitutto nel repertorio politico francese. Sebbene non indichi più un partito politico organizzato, ma un'ideologia che attraversa tutti i partiti, il giacobinismo continua ad alimentare le controversie tra Francesi. Esso ha senza alcun dubbio perso la carica passionale per la quale fin dal 1796 Joseph de Maistre lo interpretava come lo strumento del castigo inflitto da Dio ai Francesi, e Babeuf - e in seguito Buonarroti - al contrario come la promessa dell'eguaglianza, l'abbozzo di una società senza classi. Ma la sua capacità di dividere non è esaurita.

Talvolta esso viene celebrato come ciò che alimenta l'energia patriottica, il senso dello Stato, il gusto dell'indipendenza nazionale: tale celebrazione, propugnata tradizionalmente dalla sinistra, è stata a poco a poco condivisa dalla destra e ciò spiega come possa essere sorto - configurazione assolutamente inedita alla fine della Rivoluzione francese - un giacobinismo di destra. Altre volte invece esso viene vilipeso come il male francese per eccellenza, il freno imposto alla diversità feconda, il responsabile del 'genocidio' delle lingue e delle culture locali, l'ostacolo al libero movimento associazionistico: tale processo, per molto tempo intentato dalla destra (che, al di là dell''episodio' della Rivoluzione francese, ha per molto tempo lavorato alla ricostruzione di una Francia monarchica eterogenea e ricca di particolarismi), è stato ripreso dalla sinistra, a partire dal momento in cui questa ha riscoperto la strenua opposizione della campagna francese all'integrazione culturale e la sua capacità di contestazione.

La fortuna del giacobinismo appare ancora più sorprendente quando si oltrepassano i confini francesi: infatti il partito giacobino è divenuto nel corso del XIX e del XX secolo un punto di riferimento per tutti i movimenti rivoluzionari che hanno creduto nella trasformazione del mondo e sperato nella nascita dell'uomo nuovo. Nel club della rue Saint-Honoré i partiti rivoluzionari hanno riconosciuto il loro antenato. Il dibattito sul giacobinismo è dunque proseguito all'interno del pensiero socialista, che a volte lo ha esaltato come un'anticipazione, altre volte lo ha condannato come pura difesa degli interessi borghesi. Due interpretazioni delle quali Gramsci darà un esempio.

Tale fortuna è possibile solo con uno slittamento semantico: nel corso della storia il giacobinismo è diventato una nebulosa di significati. Nell'accezione del termine entra innanzitutto la storia della società dei giacobini; poi gli aspetti che nel corso dei quattordici mesi della dittatura montagnarda hanno caratterizzato, giustificato ed esemplificato la pratica giacobina; infine il percorso dei ricordi giacobini nella storia vissuta e nella storia immaginata. Per comprendere la fortuna del concetto si devono perciò distinguere tutti questi elementi e ripercorrere la strada che porta dalla storia alla filosofia politica e alla psicologia collettiva.

2. Storia di una società

Nel senso più immediato la storia del giacobinismo è quella di un club, erede della lunga vicenda delle società di pensiero della Francia dell'ancien régime, luoghi di rimescolamento sociale in cui si è fatto l'apprendistato dell'eguaglianza democratica e del linguaggio universalistico. La società dei giacobini nasce nel celebre club bretone sorto a Versailles alla vigilia degli Stati Generali. L'elemento originale dell'associazione dei quarantaquattro deputati del Terzo stato della Bretagna che giungono a Versailles è dato meno dal programma - vogliono tutti senza eccezioni il voto individuale e la deliberazione comune - che dalla determinazione di esprimere, tutti insieme, un giudizio unanime: essi decidono che tutte le questioni proposte agli Stati Generali saranno, il giorno stesso, discusse all'Assemblea bretone, in modo da ottenere una posizione comune della provincia. Questa ricerca dell'unanimità persiste anche quando il club inizia ad accogliere i 'patrioti' venuti da altre province e si trasferisce da Versailles a Parigi, con sede nella biblioteca del convento dei giacobini. Questa ubicazione sarà all'origine del suo nome, benché la denominazione ufficiale del club sia Société des amis de la Constitution e le società di provincia affiliate alla società parigina prendano nomi diversi.

Il reclutamento della società, all'inizio solo parlamentare (il club accoglie le personalità eminenti del partito patriota, quali Mirabeau, Barnave, Robespierre, Lafayette, Pétion), si estende in breve tempo: in provincia si sono costituite spontaneamente altre società, alle quali il club parigino trasmette presto i suoi statuti. In breve tempo esso assume il ruolo di una società-madre, dispensatrice di legittimità, e fa del suo Comitato di corrispondenza, responsabile dei rapporti fra Parigi e la provincia, un ingranaggio essenziale. Nella primavera del 1790 conta già una sessantina di filiali, in autunno più del doppio; alla fine della Costituente ve ne saranno un migliaio. Esse disegnano però una rete molto irregolare sul territorio francese, e dall'altra parte il controllo della società-madre sulle società affiliate non è accettato subito. Anche i confini politici restano a lungo confusi: non di certo sulla destra, dove le società giacobine si trovano di fronte come antagonisti alcuni club monarchici, ma sulla sinistra, dove è sorta fin dalla primavera del 1790 una società più radicale, che si riunisce nel convento dei cordiglieri: può succedere così che i grandi leaders politici facciano parte al tempo stesso dei cordiglieri e dei giacobini. Insomma, questo giacobinismo delle origini, che riunisce i notabili del Terzo stato (la quota associativa, piuttosto elevata, non è alla portata degli artigiani e dei commercianti), sorprende più per la sua rapida crescita quantitativa che per la costituzione di un potere politico realmente coerente.

Il momento decisivo, per questa miriade di società, è Varennes: la fuga del re, che fa 'saltare' l'unità della Rivoluzione, fa andare in frantumi anche il club dei giacobini. Durante la crisi i giacobini non sono giunti né a rinnegare i cordiglieri - i quali, nel momento stesso in cui l'Assemblea si sforza di tenere la persona del re fuori dal dibattito, hanno lanciato una petizione a favore della repubblica, con un'audacia che costa loro la chiusura del club - né a seguirli realmente. Molti di essi - poco più di trecento deputati - si trasferiscono quindi in un convento vicino, quello dei foglianti, uno spostamento topografico che è espressione di uno spostamento politico. La scissione va all'inizio a vantaggio dei foglianti, il cui schieramento si ingrandisce grazie all'adesione di gran parte di quei deputati 'costituzionali' che hanno appena scagionato i sovrani e salvato la monarchia, seguiti da buona parte delle società affiliate. A luglio, tuttavia, il movimento si ribalta. Intorno alla manciata di deputati rimasti ai giacobini e riuniti intorno a Pétion e a Robesbierre, incomincia un movimento di riflusso, poiché essi hanno mantenuto il controllo dei giornali ai quali sono abbonate le società di provincia e utilizzano con grande abilità la loro rete di corrispondenti. Soprattutto, essi hanno compreso che agli occhi degli affiliati lontani era essenziale occupare sempre il luogo sacro originario - "primo asilo della libertà", secondo Pétion - una decisione che Michelet commenta in maniera pregnante: "Non era un locale qualsiasi, che si potesse lasciare". Nel momento in cui la Costituente si divide, la rete giacobina è non soltanto riassestata, ma anche completata e arricchita.

A questo punto finisce anche il giacobinismo delle origini. Dopo una nascita tanto difficile, infatti, le società giacobine si trasformano: il club non è più soltanto la sede di una discussione che precede quella parlamentare, ma è divenuto un potere autonomo, che si proclama garante dei diritti del popolo, che vuole esaminare non solo le leggi in preparazione, ma anche quelle che si dovrebbero fare, che pretende di denunziare le cattive leggi e di vegliare a che le buone vengano rispettate. Insomma, è divenuto una contro-assemblea. È al suo interno che si tengono i grandi dibattiti dell'Assemblea legislativa e Brissot e Robespierre si affrontano sul problema cruciale della guerra. All'origine di tale trasformazione non vi è tanto il reclutamento (la quota associativa annua rimane elevata), quanto le procedure: sedute ormai pubbliche e quindi teatro permanente del crescendo di promesse fatte al popolo, imposizione severa della giusta linea alle società di provincia, istituzione di un Comitato dei rapporti e di un Comitato di sorveglianza, e infine rafforzamento di quel Comitato di corrispondenza in cui entrano per qualche tempo tutti i grandi leaders, dai girondini ai montagnardi, dagli esagerati agli indulgenti. Una coabitazione che dura poco, poiché dopo la giornata del 10 agosto, alla quale i giacobini hanno certamente contribuito, e la riunione della Convenzione, il club cambia nuovamente fisionomia e diviene l'intermediario della frazione più radicale dell'Assemblea e il luogo in cui si prepara la conquista del potere da parte della Montagna. La cosa non avviene senza fatica, dato che l'unità del movimento non è ancora totale, le filiali di provincia sono spesso in mani girondine, e la primavera del 1793 vede anche raddoppiarsi l'attività delle società moderate. Con l'atto di forza del 31 maggio, quando i sanculotti ottengono dalla Convenzione l'espulsione di ventidue deputati accusati di essere 'faziosi', viene portata a compimento l'unificazione del movimento giacobino: nell'estate del 1793 gran parte delle società vengono epurate, alcune radiate, e la società-madre è in corrispondenza con 798 club, punto di partenza di un ulteriore allargamento.

La data del 31 maggio 1793 è, per la storia del giacobinismo, importante quanto quella della fuga di Varennes. Fino al 31 maggio, infatti, le società giacobine si sono poste come espressione delle istanze popolari di fronte alla sovranità legittima, e hanno esaltato l'intervento diretto del popolo nella vita politica. Dopo il 31 maggio i giacobini saranno i custodi della maggioranza robespierrista alla Convenzione: essi non impongono più la volontà popolare, ma sanzionano le direttive governative e danno una mano alle successive epurazioni. Nel corso di queste fasi il club svolge una duplice funzione: da una parte continua a formare l'opinione, le società restano gli 'arsenali dell'opinione pubblica', ma il loro ruolo si riduce sempre più a ratificare le decisioni della Convenzione; dall'altra, in provincia, sotto l'autorità dei rappresentanti in missione, i militanti giacobini sono incaricati di 'riscaldare lo spirito pubblico', di sostenere lo sforzo bellico, di denunziare gli individui sospetti, di braccare i nobili e i preti refrattari: sono lo strumento della dittatura parigina e il braccio del Terrore, al tempo stesso un tribunale e un esercito.

È a questa particolare fase della storia del club dei giacobini che si pensa abitualmente quando si parla di giacobinismo. I quattordici mesi della dittatura montagnarda costituiscono i confini storici effettivi del potere giacobino. È allora che il giacobinismo diviene, come ha mostrato Michelet, un'oligarchia di militanti manipolata da pochi iniziati: una macchina efficientissima, utilizzata da Robespierre con grande abilità, fino al punto di identificarsi con essa, di esserne la voce e l'incarnazione.

La storia del giacobinismo ha perciò una base cronologica più ristretta di quella della società dei giacobini, come è dimostrato anche dall'ultima fase delle vicende del club. Infatti la società dei giacobini sembra dapprima sopravvivere a Robespierre, la cui caduta viene accolta dalle società di provincia come una banale epurazione: gli artefici del 9 termidoro, del resto, non sono certo sospettati di moderatismo. Ma l'apertura delle prigioni, il ritorno dei proscritti, lo shock provocato dal processo Carrier, la pressione dell'opinione pubblica contro i responsabili del Terrore, minacciano in breve tempo l'esistenza della società. Si incomincia, nell'ottobre del 1794, con il privarla della sua arma essenziale, la corrispondenza con le filiali. Nel novembre del 1794 viene chiuso il club parigino e un anno dopo non vi saranno più società popolari. A questo punto può dirsi conclusa la storia del giacobinismo in quanto 'società'. Inizia la storia del giacobinismo in quanto 'concetto' e in quanto 'ricordo'.

3. L'estensione di un concetto

L'elemento che appare oggi come il nocciolo del concetto di giacobinismo è il centralismo. Spesso, nei dibattiti francesi, proclamarsi giacobino significa soltanto affermare la propria fede nell'indipendenza nazionale e nella grandezza dello Stato-nazione. Ma il centralismo politico - che si può definire, sulla scia di Tocqueville, come la concentrazione in uno stesso luogo e in una stessa mano del potere di dirigere gli interessi comuni a tutte le parti della nazione - non è certamente un'invenzione giacobina, e nemmeno rivoluzionaria. È la forte drammaticità degli eventi rivoluzionari che, conferendo al sentimento dell'indipendenza nazionale la sua iconografia epica, ha svolto un proprio ruolo nell'attribuzione dell'aggettivo 'giacobino' a un'idea che ha avuto forme storiche diverse e non è certo nata nell'anno II.

L'altro centralismo, quello amministrativo, consiste, sempre secondo Tocqueville, nel concentrare in uno stesso luogo e in una stessa persona il potere di dirigere gli interessi non più comuni, ma propri di ciascuna componente della nazione, e nel riferirsi, per fare ciò, non ai costumi, alle abitudini e alle convenienze locali, ma a un sistema elaborato in sede di governo e applicato dovunque dai suoi agenti. Tale genere di centralismo sembra più vicino al giacobinismo, che raccomandava, con Saint-Just, "la totale astrazione da ogni luogo". È il giacobinismo, comunque, che viene costantemente denunciato nel discorso regionalista per aver imbrigliato nell''unitarismo' il rigoglio ricco e vivace delle differenze locali.

Il centralismo amministrativo, tuttavia, non è né completamente né esclusivamente giacobino. Non completamente, perché definire - come fanno i movimenti regionalisti - il giacobinismo come un antifederalismo significa ignorare che il federalismo è stato un 'mostro' polemico, che non celava nessuna rivendicazione reale dei diritti regionali particolari. Non esclusivamente, perché gli intendenti dell'ancien régime e i prefetti napoleonici potrebbero incarnare il centralismo amministrativo francese tanto quanto i rappresentanti montagnardi in missione, anzi molto meglio. L'accentramento giacobino, opera del decreto di frimaio, anno II, è un provvedimento sbrigativo, frettolosamente sovrapposto al decentramento avviato nel 1789. Esso consiste nel sostituire i procuratori-rappresentanti dei distretti e dei comuni con agenti nazionali che il Comitato di salute pubblica nomina e revoca. Distretti e comuni vedono perciò scomparire la loro indipendenza amministrativa, mentre il dipartimento resta fuori dell'accentramento. Il carattere dilettantesco, improvvisato e affannoso del decreto di frimaio non permette dunque di attribuire ai soli giacobini la responsabilità di un processo di accentramento avviato prima di loro, perfezionato dopo di loro, e da loro accettato in una situazione di emergenza, con la guerra civile che si aggiungeva alla guerra fuori dei confini.

Se tuttavia il giacobinismo ha potuto rappresentare la resistenza francese alle tendenze centrifughe, l'impoverimento della vita locale, il rispetto della gerarchia, è stato grazie al fatto che, per quanto improvvisato, per quanto disuguale all'atto pratico, l'accentramento giacobino si è rivelato un provvedimento efficace. Gli agenti nazionali, incaricati dal Comitato di salute pubblica di tenere sotto controllo il territorio, rendevano conto a Parigi ogni dieci giorni, curavano l'applicazione dei decreti e rischiavano la revoca se non lo facevano o lo facevano male. La scomparsa dei corpi intermedi rendeva, com'è ovvio, ancora più pesante il dispositivo, così come in seguito faciliterà la preparazione della Costituzione dell'anno VIII che si troverà di fronte solo degli individui, un gentile dono fatto dalla Rivoluzione a Napoleone. Nonostante parli di prefetti e si riferisca perciò al sistema dell'anno VIII, è il ricordo dell'efficienza giacobina che suggerisce a L.-M. Cormenin la seguente incisiva descrizione del centralismo: "Nello stesso istante il governo vuole, il ministro ordina, il prefetto trasmette, il sindaco esegue, i reggimenti si mettono in moto, le flotte avanzano, le campane suonano, il cannone tuona e la Francia è in piedi" (cfr. Droit administratif, Paris 1840, vol. I, p. VIII).

Questo tipo di accentramento ha incontrato l'adesione di famiglie politiche molto diverse, concordi nel giudicare positivamente il controllo del territorio francese da parte di un potere centrale, si tratti di monarchia assoluta, di cesarismo, o di governo rivoluzionario. L'accentramento ha beneficiato del romanticismo austero della politica di salute pubblica, altro elemento necessario per una definizione del giacobinismo, poiché il centralismo amministrativo dell'anno II nasce dalla tragedia della guerra, interna ed esterna, che impone la sospensione della Costituzione dell'anno I e costringe a dichiarare prorogato fino alla pace il governo rivoluzionario. Tutto ciò è sintetizzato nella celebre frase pronunciata da Saint-Just il 10 ottobre del 1793 nel Discours sur le gouvernement révolutionnaire: "Nelle circostanze in cui versa la Repubblica, la Costituzione non può essere instaurata, significherebbe votarla al suicidio". Ancora una volta, non è il giacobinismo a inventarsi le necessità della salute pubblica, che erano già note alla monarchia. Augustin Thierry ha scritto che Richelieu aveva saputo portare la regalità a essere l'idea vivente della salute pubblica: si può quindi respingere l'identificazione di giacobinismo e salute pubblica. Allo stesso modo si può capire perché è diventato usuale identificare il giacobinismo con l'argomentazione delle circostanze particolari, con la comprensione delle necessità di una dittatura provvisoria. Anche in questo caso ha avuto la sua parte l'attualità forte della Rivoluzione, così come la chiarezza delle formule con le quali i giacobini hanno definito il governo rivoluzionario.

Innanzitutto il prevalere dell'eccezionalità non è per nulla nascosto in quelle formule. Esso è stato definito giuridicamente: "In un governo ordinario - ha detto Couthon - appartiene al popolo il diritto di eleggere i suoi rappresentanti, non può esserne privato. In un governo straordinario tutti gli impulsi devono venire dal centro, mentre le elezioni devono venire dalla Convenzione". È stato metaforicamente esaltato - "la Convenzione risuonò allora delle invocazioni ai fulmini dell'autorità centrale" - e metafisicamente fondato come mondo alla rovescia. Nessuno ha illustrato meglio di Robespierre tale capovolgimento della Rivoluzione, in cui si ribalta tutto l'individualismo dei diritti dell'uomo: "Sotto il regime costituzionale è pressoché sufficiente proteggere gli individui dall'abuso del potere pubblico; sotto il regime rivoluzionario il potere pubblico è costretto a difendersi dalle fazioni che lo attaccano" (cfr. Discours sur les principes du gouvernement révolutionnaire, in Textes choisis, Paris 1958, vol. III, p. 99). L'antinomia fra epoca rivoluzionaria ed epoca costituzionale è al centro del giacobinismo.Di qui, ovviamente, nascono l'identificazione dei nemici interni con i nemici esterni e la necessità di spezzare ogni resistenza per mezzo di una 'forza costrittiva' unica, il Terrore. Terrore accettato e persino esaltato, poiché in virtù di quest'assimilazione fra tutti i nemici della Rivoluzione esso sembra colpire solo individui estranei al corpo nazionale senza toccare la Nazione vera e propria; Terrore necessario e buono come la Natura, semplice colpo di vento che, come dice Garnier de Saintes, fa cadere "i frutti bacati e lascia sull'albero i frutti buoni" (cit. in Aulard, 1889-1897, vol. VI, p. 47). È questo consenso al Terrore che conferisce al giacobinismo la sua carica di tragico fascino e fa capire perché, pur non essendo stato l'unico episodio della storia francese a elevare a dogma la salute pubblica, esso abbia finito con il rappresentarne l'incarnazione.

Il giacobinismo non ha quindi inventato nulla? L'elemento al quale, paradossalmente, oggi non si pensa più quando ci si dichiara giacobini, o anche antigiacobini, è proprio quello tipicamente giacobino, cioè l'insieme dei mezzi con i quali un club esercita il proprio dominio su un'assemblea eletta. Nulla permette di capire i meccanismi con i quali si impone questo dominio meglio delle prime settimane della Convenzione, quando gli schieramenti sono ancora mal delineati e i gruppi permeabili, quando il club dei giacobini ha dei concorrenti e non c'è ancora il regno del Terrore. Dal settembre 1792 al gennaio 1793 si mettono a punto gli elementi essenziali del sistema. Il giorno stesso in cui la Convenzione si riunisce il club si arroga il diritto di sciogliere gli altri club, che vengono assimilati agli assembramenti equivoci in cui può cercare di esprimersi solo l''intrigo'. Poi è la volta dei deputati: perché non sono tutti presenti nella sala dei giacobini? Ve li spingono dentro, e se sono riluttanti, si mette in moto la macchina dell'espulsione. Si inizia con Fauchet, poi tocca a Brissot: l'epurazione continuerà a inasprirsi fino a essere sistematicamente organizzata mediante l'obbligo per ciascuno dei membri del club di presentare la propria biografia (Cos'eri nel 1789? Qual era il tuo patrimonio? Se si è accresciuto, con quali sistemi?). Contemporaneamente si prepara l'eliminazione dei testimoni delle sedute.nUn controllo così severo mira in primo luogo alle operazioni della stessa Convenzione, sulla quale si intende pesare in maniera efficace. Non appena si forma il Comitato di costituzione, il 29 settembre 1792, Danton pensa di raddoppiarlo creando per i giacobini un Comitato ausiliario di costituzione con lo scopo di elaborare un contro-progetto. È in rue Saint-Honoré che devono prepararsi, devono "maturare", come dice Saint-Just, le leggi e i decreti della Convenzione e gli interventi che si terranno dalla tribuna. Presto sarà detto in maniera molto chiara: nell'aprile del 1793 si sentirà Robespierre apostrofare le tribune del club (il club dei giacobini, e questo è un tratto essenziale, riunisce membri iscritti sotto gli occhi di partecipanti non iscritti): "Dovete venire alla sbarra della Convenzione a costringerci a mettere in stato d'arresto i deputati infedeli" (cit. in Aulard, 1889-1897, vol. V, p. 125).

Ben prima che il Terrore invii alla ghigliottina i deputati che non sono stati 'epurati', si mette dunque in opera presso i giacobini il controllo della Convenzione da parte dei gruppi che, sotto le insegne più disparate (vincitori della Bastiglia, donne patriote, uomini del 10 agosto), porteranno al suo interno la rivendicazione giacobina.
Attraverso tutti questi procedimenti si afferma la preminenza di un luogo e di una parola. Il luogo è quello delimitato dai muri conventuali del club, unico spazio in cui può concentrarsi il bene pubblico; il 21 settembre 1792, giorno in cui si apre la Convenzione, il cittadino Guiraut proclama che "soltanto qui si dibattono tutte le grandi questioni relative all'interesse del popolo" (cit. in Aulard, 1889-1897, vol. IV, p. 319). Otto giorni dopo il presidente dei giacobini invita tutti i membri della Convenzione a riunirsi all'interno del club; invito che, se accolto, condurrebbe a consacrare un unico spazio legittimo di discussione: dai giacobini e soltanto dai giacobini si è sotto gli occhi del popolo. In qualsiasi altro luogo possono formarsi solo 'intrighi'.

Nello spazio legittimo nasce la parola consacrata: la 'mozione' o la circolare stampata, tanto più costrittiva in quanto anonima e trasmessa dalla società-madre alle due o tremila società di provincia. La forza del giacobinismo non viene infatti solo dal club parigino, ma anche dalle società affiliate che rimandano la buona novella. In rue Saint-Honoré si attribuisce una particolare importanza al Comitato di corrispondenza, scrupoloso custode dell'ortodossia, incaricato di trasmettere alla provincia francese il linguaggio perentorio e scarno delle circolari, ma anche attento a emendare il discorso che da questa 'Francia profonda' risale verso Parigi. Si nota, ad esempio, che gli indirizzi di alcune società di provincia abbinano con sgradevole sbadataggine i nomi di Robespierre e di Marat? Immediatamente il Comitato di corrispondenza invia alle società-figlie i 'ritratti' di questi due amici del popolo. Ciascuno potrà notarvi delle sensibili sfumature, dispenserà la sua stima secondo i meriti e cesserà di confonderli. Si tratta di produrre la retta interpretazione e di farla riprodurre: è in gioco l'educazione politica di tutto un popolo.

È stato spesso sottolineato, soprattutto da parte di Gramsci, il carattere volontaristico di questa organizzazione, come se essa fosse il frutto di una volontà del tutto consapevole e sicura di sé, in grado di adeguare in ogni momento la propria strategia al proprio compito storico, e come se il consenso ottenuto fosse frutto di semplice abilità. Questo però significa accentuare troppo le differenze esteriori fra manipolatori e manipolati, sopravvalutare il cinismo e sottovalutare la sincerità, badare troppo alle persone e non abbastanza al gruppo, del quale si sottostimano le capacità di funzionamento autonomo. Lo stesso Cochin, che per primo ha percepito e descritto la forza di questi meccanismi anonimi, esita sempre fra due immagini del giacobinismo: quella in cui l'ortodossia si produce con mezzi consapevoli e quella in cui trionfa l'inconscio collettivo. Ora nulla, nel nostro caso, induce a presupporre il calcolo cinico dei partecipanti. Il giacobinismo è il prodotto di una fede collettiva tale che la libertà degli individui non la danneggia, che le bocche possono pur aprirsi, esse non faranno null'altro che ripetere la buona novella. Non diciamo 'buona' in senso ironico: qualsiasi membro dei giacobini è certo che la società-madre è una buona madre che lo protegge dall'aggressione del reale. Benché il gruppo continui a escludere alcuni degli iscritti (o proprio grazie a questa operazione che colloca nelle 'tenebre esterne' i nemici della società), nessuno dei membri percepisce il gruppo come gruppo ma come un tutto. Se i giacobini sono una 'fazione', come viene rimproverato loro da ogni parte, allora lo è anche il popolo. I giacobini non possono essere una fazione, perché le hanno distrutte tutte, essi sono il popolo finalmente restituito alla sua purezza. In questa equivalenza consiste il giacobinismo.

Come diventa possibile una tale fede? Innanzitutto mediante la chiusura della società, che comporta una sospensione del principio di realtà: il disinvestimento in rapporto alla realtà esterna è, come nel sogno, massimo. Ascoltiamo Camille Desmoulins: "In materia di cospirazione è assurdo chiedere fatti dimostrativi, bastano indizi violenti" (Histoire des Brissotins, ou fragment de l'histoire secrète de la Révolution, Paris 1793, p. 5). Il 'principio' trionfa sempre sul fatto. Ciò che d'altronde genera la fede è la fusione dei membri della società all'interno di un linguaggio arcaico, ripetitivo, incantatorio, anonimo, in cui ciò che conta non è la capacità di informazione, ma il ritorno delle parole-chiave, il martellamento delle formule, il vocabolario ridotto (anch'esso 'epurato'); un discorso in cui la parola conta più come segnale che come segno e che sostituisce in ciascuno l'io ideale della società giacobina all'io individuale: coercizione interiorizzata, riuscita ben al di là della manipolazione cinica o del controllo politico.

Questa illusione giacobina - al tempo stesso 'utopia' e 'ucronia' - sottende la virtù indivisibile del popolo, da cui deriva la sua unità obbligata. 'Il popolo è buono, i delegati sono corruttibili'. La rappresentanza va perciò soppressa e superata da rapporti diretti, trasparenti, con il popolo. La diffidenza nei confronti di ogni mediazione, l'orrore per ogni tipo di isolamento - sempre sospettato di celare una volontà criminale di separazione - spiegano la trasformazione giacobina del rappresentante del popolo in mandatario. Basato sull'idea che non si può rappresentare la volontà generale, sostenuto dalle stampelle del mandato imperativo e dalla sua frequente rimessa in discussione, il giacobinismo concepisce la libertà come il contrario dell'indipendenza individuale. Dalla convinzione che uomini egualmente solleciti del bene pubblico non possano essere divisi deriva, nella logica stessa del sistema, l'impossibilità di immaginare dei diritti per un'opposizione. Al Parlamento inglese Robespierre dice altezzosamente: "Sublime Parlamento di Gran Bretagna, diteci chi sono i vostri eroi. Avete un partito di opposizione. Da voi il patriottismo si oppone, quindi trionfa il dispotismo. La minoranza si oppone, quindi la maggioranza è corrotta" (cfr. Réponse aux manifestes des rois, in Textes choisis, Paris 1958, vol. III, p. 97). L'essenza del giacobinismo sta nell'impossibilità di concepire una volontà popolare divisa, un confine fra minoranza e maggioranza, tra sfera pubblica e sfera privata. Il mondo del giacobinismo è quello della dichiarazione pubblica, quello in cui Saint-Just immagina che ogni anno, al Tempio, ciascun uomo debba dichiarare chi sono i suoi amici, annunciare i suoi impegni e motivare i suoi disaccordi; in cui ogni dieci giorni i cittadini riuniti in assemblee esaminano la vita privata degli adolescenti e... dei funzionari, in cui ogni raggruppamento, foss'anche quello dei 'pasti fraterni' denunziati da Barère, è una consorteria, presto infiltrata di elementi sospetti, in cui lo stesso 'foro interiore' è criminale. Questo ideale di perfetta visibilità sociale e psicologica è lo sfondo del giacobinismo.

Centralismo governativo, centralismo amministrativo, politica di salute pubblica, manipolazione degli eletti, educazione politica delle masse nella prospettiva di creare l'unità, sospensione della realtà, abolizione del confine fra pubblico e privato, ecco dunque gli elementi di cui si compone il giacobinismo. Alla fine della Rivoluzione tutti questi elementi godono di una relativa autonomia e il giacobinismo non è ancora un sistema, ma una nebulosa. La storia del concetto nel XIX secolo lo dimostra perfettamente: si ammette senza problemi che si può essere fautori del centralismo politico senza esserlo di quello amministrativo, come confermano Auguste Comte e Tocqueville; si può essere fautori dell'uno e dell'altro senza sembrare per questo partigiani della dittatura, come mostra Michelet; si può anche esaltare l'eredità rivoluzionaria, pur ripudiando fermamente il Terrore, come fanno Quinet e Ferry. Insomma, il XIX secolo ritiene che si possa, che si debba operare una scelta nell'eredità giacobina (e non manca di farlo) e la opera, al tempo stesso, nell'intera eredità rivoluzionaria, che non limita al breve periodo della dittatura montagnarda. La Rivoluzione è ancora lungi dall'essere considerata come un blocco: vi sono coloro i quali celebrano il '93 e disapprovano l"89; vi sono anche coloro i quali celebrano l"89 e disapprovano il '93. Il XX secolo semplificherà queste reminescenze, le stilizzerà, le impoverirà, in nome dell'identificazione retrospettiva di ogni partito rivoluzionario con il giacobinismo. (V. anche Rivoluzione).

bibliografia

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Il giacobinismo come 'paradigma' ideologico-politico
di Massimo L. Salvadori

sommario: 1. Le origini del mito nell'Ottocento. 2. Il marxismo tra filo- e anti-giacobini. 3. La storiografia da Mathiez a Talmon. □ Bibliografia.

1. Le origini del mito nell'Ottocento

Nella storiografia, nella cultura politica e negli orientamenti ideologici delle forze politiche otto-novecentesche il giudizio sul giacobinismo ha acquistato un'importanza davvero centrale, anzi illuminante. E ciò per la convinzione che il giacobinismo storico avesse introdotto nella storia politica un punto di riferimento ineludibile, vale a dire un 'modello' da riprendere e sviluppare o un 'contromodello' da combattere e ricacciare.

L'assunzione del giacobinismo a 'paradigma' ebbe inizio poco dopo la caduta nel 1794 di Robespierre, allorché la dittatura giacobina venne considerata dai suoi seguaci sconfitti e dai babuvisti un esempio positivo di potere popolare, e dai controrivoluzionari un'inaudita violenza 'contro la storia' e una catastrofica minaccia che gravava sul futuro.Gli storici francesi dell'Ottocento si divisero nettamente in relazione alle risposte da dare anzitutto al seguente interrogativo: i giacobini sono i padri della democrazia politica e sociale moderna oppure gli iniziatori del dispotismo moderno? Per P. Buchez, P.C. Roux e L. Blanc il giacobinismo ha aperto la strada alla democrazia proprio perché ha stretto un vincolo organico e profondo con le masse lavoratrici favorendo la loro emancipazione. J. Michelet, A. de Tocqueville ed E. Quinet condivisero l'idea che le istituzioni costruite dai giacobini si ponessero in diretta e stretta continuità con il tradizionale centralismo dello Stato francese. In particolare, il primo parlò, a proposito del 'partito' giacobino, di una "macchina politica" che, mentre ridava linfa al vecchio centralismo, al tempo stesso, alimentandosi di ortodossia ideologica, direzione delle masse, sospetto ed epurazione, era di tipo nuovo; il secondo insistette sul riemergere, al di sotto della rottura politica, della spinta al controllo burocratico del centro sulle periferie; laddove il terzo vide nel "sistema giacobino" il riapparire dell'"antico dispotismo" e nell'ideologia che lo sorreggeva un nuovo clericalismo, strumento di soggiogamento delle masse. Poco dopo la Comune di Parigi del 1871, A.-H. Taine, esprimendo uno spirito di avversione reazionaria, considerò la dittatura giacobina l'archetipo della manipolazione moderna delle masse da parte di minoranze rivoluzionarie che usano il mito democratico in chiave cinicamente strumentale.

Mentre la storiografia ottocentesca elaborava i suoi diversi moduli interpretativi, nel movimento operaio e socialista europeo l'atteggiamento di fronte al giacobinismo diventò una sorta di spartiacque, ponendo su un versante coloro che, favorevoli alla centralizzazione istituzionale, al ruolo di guida delle élites e alla dittatura quale forma di potere rivoluzionario, guardarono a esso come a un modello cui ispirarsi; sull'altro quanti, anticentralisti e ostili alla dittatura di una minoranza, lo denunciarono come un fenomeno piccolo borghese e un ostacolo all'emancipazione delle masse. Questa contrapposizione segnò, nei tratti essenziali, una linea di demarcazione destinata a rinnovarsi nel Novecento tra filo- o neogiacobini e loro avversari.

A trasferire il robespierrismo a livello di 'leggenda', fu il cospiratore comunista F. Buonarroti, l'autore della Conspiration pour l'Égalité (1828), secondo cui la dittatura giacobina rappresentava l'istituto cui dovevano guardare le nuove generazioni di rivoluzionari al fine di attuare la transizione dal vecchio al nuovo ordine. Un ammiratore senza riserve di Robespierre fu altresì il comunista É. Cabet, che nel 1839-1840 lo definì 'vate' della democrazia popolare, un vero Cristo-Rousseau redivivo. Un atteggiamento accentuatamente critico nei confronti del giacobinismo assunse invece A. Blanqui, l'instancabile cospiratore rivoluzionario attivo per un cinquantennio nelle lotte sociali e politiche della Francia tra gli anni trenta e settanta. Egli, che individuò il suo eroe nell'estremista Hébert, definì Robespierre un piccolo borghese, troppo poco radicale sul piano ideologico e sociale. Comunque, anche Blanqui vide nella dittatura giacobina e nel Terrore strumenti indispensabili. Per questa via il giacobinismo diventò una componente positiva dell'ideologia dell'ala blanquista del socialismo francese, guidata da J. Guesde ed É. Vaillant. Neogiacobini e blanquisti allo stesso tempo si sentirono i cospiratori terroristi russi della seconda metà dell'Ottocento. In prima fila tra essi stava P. N. Tkačëv, il quale sostenne che, senza il ruolo preminente dell'intelligencija rivoluzionaria, del centralismo organizzativo e del metodo cospirativo di matrice giacobina, l'azione popolare era condannata all'impotenza.

Decisamente avverso al giacobinismo invece l'anarchismo. Il motivo è chiaro: quest'ultimo osteggiò il centralismo statalistico e la dittatura di minoranza. Perciò P.-J. Proudhon, M. Bakunin e P. A. Kropotkin furono tutti 'antigiacobini', in quanto individuarono nei giacobini storici e nei neogiacobini all'interno del movimento operaio i sostenitori di una concezione dispotica del potere.

2. Il marxismo tra filo- e anti-giacobini

Il dilemma filogiacobinismo-antigiacobinismo ha esercitato un ruolo enorme nella storia del marxismo, facendone venire alla luce anime contraddittorie. Le quali si scorgono nel pensiero stesso di K. Marx e F. Engels. Infatti, quando essi inneggiano alla liberazione della società civile dall'oppressione dello Stato e all'autoemancipazione delle masse, allora considerano il giacobinismo espressione di un ideologismo piccolo borghese e il Terrore una forzatura antistorica; quando invece si pongono il problema della dittatura rivoluzionaria, allora esaltano anch'essi il potere eccezionale, la concentrazione dei poteri, lo stesso Terrore, manifestando in tal modo un orientamento scopertamente filogiacobino. Questa di Marx ed Engels era una antinomia che si collocava nel cuore del marxismo, destinata perciò a riprodursi nei suoi vari filoni. Al punto che prima nella Seconda e poi nella Terza Internazionale i socialisti e i comunisti o si divisero stabilmente tra neogiacobini e antigiacobini oppure oscillarono passando da una posizione all'altra.

Toccò al movimento rivoluzionario russo del Novecento rilanciare in grande stile il giacobinismo come 'paradigma'. Dopo che E. Bernstein, il padre del revisionismo, alla fine del XIX secolo aveva esortato il socialismo a liberarsi dalle sue componenti cospirative, terroristiche, eversivo-rivoluzionarie di matrice giacobino-blanquista, optando per una strategia pacifica, evoluzionistica e legalitaria, nella socialdemocrazia russa scoppiò violento fra il 1902 e il 1904 - negli anni, insomma, in cui maturò la divisione fra bolscevichi e menscevichi - il dissidio che mise agli antipodi neogiacobini e neogirondini. A capo dei primi si pose N. Lenin, il quale individuò nel giacobinismo un esempio di autentico elitismo rivoluzionario. Nel 1904, in Un passo avanti e due indietro, egli teorizzò la totale incompatibilità tra i bolscevichi, "nuovi giacobini", fautori del ruolo dirigente dei rivoluzionari di professione e del centralismo in materia organizzativa, e i menscevichi, "nuovi girondini", apologeti della spontaneità rivoluzionaria delle masse, vale a dire dell'opportunismo. In prima fila a denunciare il neogiacobinismo dei bolscevichi si trovarono L. D. Trockij e R. Luxemburg, ai cui occhi Lenin incarnava il ritorno al fanatismo politico e ideologico piccolo borghese di Robespierre e la sfiducia verso le capacità di autoemancipazione del proletariato moderno.

La Rivoluzione del 1917 e la costruzione della dittatura della minoranza bolscevica riaccesero la controversia su scala internazionale. Trockij, convertitosi al bolscevismo, raggiunse Lenin sulla frontiera del neogiacobinismo, esaltando contro K. Kautsky il terrorismo di tipo giacobino come arma necessaria della dittatura proletaria. Per contro, da un lato la comunista 'occidentale' Rosa Luxemburg definì i due capi della Rivoluzione russa eredi dei livellatori inglesi e dei giacobini francesi, ovvero continuatori di una pratica di soggettivismo volontaristico che contraddiceva i mezzi e le finalità di una rivoluzione propriamente proletaria; dall'altro il menscevico J. O. Martov e il socialdemocratico Kautsky condivisero il giudizio che il potere bolscevico neogiacobino incarnasse il progetto di una minoranza autoritaria incapace di comprendere che nessuna energia rivoluzionaria poteva compensare il dato che la Russia era del tutto immatura per il socialismo. Al pari di Trockij, A. Gramsci passò dall'antigiacobinismo al filogiacobinismo. In un primo tempo, tra il 1917 e il 1920, ancorato a una visione che individuava nelle masse operaie il soggetto rivoluzionario maturo che si auto-organizza, Gramsci considerò il giacobinismo nei termini di una forza rivoluzionaria tipica della rivoluzione borghese e un esempio negativo di dittatura di una minoranza; dopo la sconfitta nel 1920 del movimento di massa in Italia e in Europa e una più compiuta conoscenza del leninismo, fece interamente propria l'analogia bolscevica tra comunisti-giacobini e socialisti-girondini, giungendo infine, nei suoi Quaderni del carcere, a criticare il Partito d'Azione perché nel corso del Risorgimento italiano non aveva saputo, a differenza dei giacobini in Francia, legarsi agli interessi delle masse contadine e dirigerle. Il giacobino diventa, insomma, per Gramsci il prototipo del rivoluzionario moderno.

3. La storiografia da Mathiez a Talmon

Il parallelo giacobinismo-bolscevismo venne messo al centro della riflessione storiografica da A. Mathiez in un saggio del 1920, dove si sottolineava come Lenin si fosse nutrito dell'esempio di Robespierre e si delineava, in termini apertamente simpatetici, un'analisi comparativa tra il percorso della dittatura giacobina e quello della dittatura bolscevica, dettati entrambi dalla logica interna propria delle rivoluzioni popolari. Un vero e proprio controcanto rispetto al saggio di Mathiez fu il libro, uscito nel 1921 e dedicato allo "spirito del giacobinismo", di A. Cochin. Per quest'ultimo la dittatura giacobina rappresenta l'ascesa al potere dell'homo ideologicus, nutrito dell'astrattismo roussoiano e quindi artefice di una violenza che parte dalla presunzione dell'ideologia e perviene alla pratica criminale. All'inizio degli anni cinquanta J. L. Talmon, in un libro volto a rintracciare le radici della "democrazia totalitaria", trovava anch'egli nel pensiero di Rousseau la radice del giacobinismo e del babuvismo e in questi ultimi la radice del totalitarismo comunista.
La parabola del giacobinismo - dalla storia concreta terminata nel 1794 al suo decorso, in quanto paradigma, nella storiografia, nelle ideologie e nella politica dei due secoli seguenti - si era così compiuta. (V. anche Comunismo; Marxismo; Totalitarismo).

bibliografia

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