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Immanuel Kant (Königsberg, 22 aprile 1724 – Königsberg, 12
febbraio 1804) è stato un filosofo tedesco. Fu uno dei
più importanti esponenti dell'illuminismo tedesco, e
anticipatore - nella fase finale della sua speculazione - degli
elementi fondanti della filosofia idealistica.
Uno dei principali contributi della dottrina kantiana è
l'aver superato la metafisica dogmatica operando una rivoluzione
filosofica tramite una critica della ragione che determina le
condizioni e i limiti delle capacità conoscitive dell'uomo
nell'ambito teoretico, pratico ed estetico.
La Critica della ragion pura, pubblicata nel 1781, definisce il
metodo del filosofare a cui Kant si atterrà anche nelle due
opere successive (Critica della ragion pratica e Critica del
giudizio), come pure in altri lavori posteriori. La sua
attività di pensatore riguarda prevalentemente la
gnoseologia, l'etica e l'arte, ma ebbe in gioventù anche
interessi scientifici, che coltivò sino al 1760.
L'ipotesi cosmogonica della nebulosa primitiva, esposta nel 1755
nella Storia universale della natura e teoria del cielo (che egli
desunse da Buffon), ebbe molta fortuna e gli diede fama anche nel
campo dell'astronomia. Essa fu enunciata proprio da Laplace che la
rielaborò e la rilanciò nel 1796 in Esposizione del
sistema del mondo.
Biografia
Le fonti: l'epistolario e i primi biografi
« Kant non ha altra biografia che la storia
del proprio filosofare. »
(Otfried Höffe, Immanuel Kant, cit., 1997, p. 9)
Gran parte della sua biografia è conosciuta attraverso
l'epistolario, da cui traspare un resoconto asciutto dei rapporti
con gli studenti, i colleghi, gli amici e i parenti, nonché
interessanti dettagli sui rapporti intercorsi tra lui e alcune
importanti personalità del secolo e sulle prime reazioni
ottenute dal pensiero kantiano. In tale epistolario, però,
mancano riferimenti a particolari stati d'animo. Importanti sono
anche le prime biografie a lui dedicate, quali quelle di Ludwig
Ernst Borowski, di Reinhold Bernhard Jachmann, di Ehregott Andreas
Wasianski, di Johann Gottfried Hassee di Friedrich Theodor Rink,
tutte del 1804 e a opera di persone che ebbero modo di conoscerlo
personalmente e di frequentarlo anche in qualità di
collaboratori. Pure, l'epistolario di Kant contiene lettere non
precedenti il 1770, quando il filosofo era già maturo negli
anni, mentre le biografie menzionate lo ritraggono soprattutto a
partire dalle esperienze che gli autori ebbero di Kant quando egli
era sul finire della vita, per cui questo repertorio biografico
rischia di produrre un ritratto sbilanciato verso la rigidità
tipica dell'età senile, quando invece in generale Kant fu
personaggio "socievole e, nel suo stile di vita, addirittura
galante".
Le origini e l'infanzia
Kant nacque nel 1724, nella periferia di Königsberg, allora
capitale della Prussia Orientale e attualmente, con il nome di
Kaliningrad, città principale di un'exclave russa tra Polonia
e Lituania. Era quarto di undici figli (o nove, secondo altri), dei
quali solo cinque raggiunsero l'età adulta.
Nello stesso anno in cui nacque Kant, la città venne
unificata a partire dai conglomerati di Altstadt, Löbenicht e
Kneiphof. A Königsberg si affacciavano numerosi commercianti
inglesi, che scambiavano articoli russi (cereali e bestiame) con
vino e spezie. Kant riteneva che il nonno paterno fosse un immigrato
scozzese, supposizione che non è possibile confermare: il
bisnonno Richard era del Kurland, anche se due sue figlie erano
effettivamente sposate con scozzesi. Il padre di Immanuel, Johann
Georg Kant (1682-1746), era un sellaio originario di Memel, al tempo
la città prussiana più settentrionale (oggi Klaipėda,
in Lituania); la madre, Anna Regina Reuter (1697-1737), proveniente
da una famiglia originaria di Norimberga e Tubinga, era una seguace
del pietismo. Kant condivise dunque con molti illuministi tedeschi
origini povere.
In età infantile frequentò la scuola dell'ospizio
suburbano.
Al Collegium Fridericianum e all'università
L'educazione religiosa impartitagli dalla madre continuò
anche nel Collegium Fridericianum, che Kant frequentò a
partire dall'età di otto anni e il cui direttore era da poco
diventato Franz Albert Schultz (1692-1763). Costui era allievo di
Christian Wolff e importante esponente del pietismo, nonché
professore di teologia: soccorse finanziariamente, così come
fecero altri amici di Kant, gli studi dell'indigente ragazzo.
Al Collegio, indicato dalla gente di Königsberg come un
"rifugio di Pietisti", aveva larghissimo spazio un rigoroso
catechismo: Kant vi studiò molto il latino, l'ebraico
(dall'Antico Testamento), poco il greco antico (limitato al Nuovo
Testamento) e quasi per nulla le materie scientifiche. Kant
ricorderà il Fridericianum come una "schiavitù
giovanile", e anche avanti negli anni vi penserà con "paura e
angoscia".
Nel 1737 muore la madre: Kant, tredicenne, la consegnò alla
tomba il 23 dicembre.
Nel 1740, Kant, secondo miglior allievo della classe, uscì
dal Collegio per intraprendere studi filosofici, di teologia, di
letteratura latina e di matematica all'Università di
Königsberg, la cosiddetta Albertina, dove fu allievo di Martin
Knutzen (1713-1751), docente di logica e metafisica, egli stesso
allievo di Wolff. Kant spese sei anni all'Albertina: l'interesse per
Newton, scomparso nel 1727, ma anche per le scienze in generale, si
manifestò proprio in questo periodo: grazie all'estro di
Knutzen, Kant si legò alla fisica di Newton, che
diventò per lui un modello di scienza esatta.
Nel 1746 morì il padre e Kant lasciò l'Albertina,
procurandosi da vivere come maestro di casa, inizialmente presso il
predicatore Andresch, poi presso il maggiore von Hülsen
all'incirca fino al 1753, infine presso il conte Keyserling.
È del 1746, pubblicato però tre anni dopo, il primo
scritto, Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive, nel quale
Kant si soffermò sul problema del calcolo dell'energia
cinetica dei corpi. È questa un'opera dalla forte e chiara
impronta illuministica: possiamo infatti ritrovarvi le prime tracce
del suo "sapere aude", con il quale demolisce l'autorità dei
pensatori precedenti in nome di nuove scoperte sorrette
dall'intelletto, con un chiaro rinvio a Francesco Bacone.
La maturità
Nel 1755 ottenne la licenza di magister, mansione che
esercitò per quindici anni. Non aveva però ancora uno
stipendio fisso, in quanto pagato direttamente dagli studenti, e
ciò lo obbligava a lavorare molto; preparava meticolosamente
le lezioni, dimostrandosi un buon insegnante, piacevole da
ascoltare. Nel 1770 lavorò come vice-bibliotecario presso la
Reale Biblioteca, stesso anno in cui pubblicò la
Dissertazione (Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova
delucidatio), testo grazie al quale riuscì a ottenere la
cattedra di metafisica e logica all'Università di
Königsberg, dove svolse la professione sino alla morte avvenuta
nel 1804, compiendo con scrupolosità i suoi obblighi
accademici anche quando, per debolezza senile, gli divennero
estremamente gravosi. È in questi anni che scrisse le sue tre
più grandi opere: la Critica della ragion pura, la Critica
della ragion pratica e la Critica del giudizio. Herder, che fu suo
allievo negli anni 1762-1774, ha lasciato questa immagine di lui:
« Io ho avuto la felicità di
conoscere un filosofo, che fu mio maestro. Nei suoi anni giovanili,
egli aveva la gaia vivacità di un giovane, e questa, credo,
non lo abbandonò neppure nella tarda vecchiaia. La sua fronte
aperta, costruita per il pensiero, era la sede di una imperturbabile
serenità e gioia; il discorso più ricco di pensiero
fluiva dalle sue labbra; aveva sempre pronto lo scherzo, l'arguzia e
l'umorismo, e la sua lezione erudita aveva l'andamento più
divertente. Con lo stesso spirito col quale esaminava Leibniz,
Wolff, Baumgarten, Crusius, Hume, e seguiva le leggi naturali
scoperte da Newton, da Keplero e dai fisici, accoglieva anche gli
scritti allora apparsi di Rousseau, il suo Emilio e la sua Eloisa,
come ogni altra scoperta naturale che venisse a conoscere:
valorizzava tutto e tutto riconduceva a una conoscenza della natura
e al valore morale degli uomini priva di pregiudizi. La storia degli
uomini, dei popoli e della natura, la dottrina della natura, la
matematica e l'esperienza, erano le sorgenti che avvivavano la sua
lezione e la sua conversazione. Nulla che fosse degno di essere
conosciuto gli era indifferente; nessuna cabala, nessuna
sètta, nessun pregiudizio, nessun nome superbo, aveva per lui
il minimo pregio di fronte all'incremento e al chiarimento della
verità. Egli incoraggiava e costringeva dolcemente a pensare
da sé; il dispotismo era estraneo al suo spirito. Quest'uomo,
che io nomino con la massima gratitudine e venerazione, è
Immanuel Kant: la sua immagine mi sta sempre dinanzi. »
La vita di Kant, priva di avvenimenti notevoli, fu dedicata
interamente alle attività intellettive, a cui fece da cornice
uno stile di vita regolare e abitudinario. La sua giornata
cominciava alle cinque, subito dedicata al lavoro, e continuava con
la colazione, poi una passeggiata, il riposo alle dieci. Non
lasciò mai la sua città natale, neanche dopo la
chiamata dell'Università di Halle che gli offriva uno
stipendio più alto, un maggior numero di studenti e di
conseguenza anche maggior prestigio. Era convinto che
Königsberg fosse il posto ideale per i suoi studi.
La censura
L'unico fatto che uscì davvero fuori dai canoni di una vita
completamente dedicata allo studio fu lo screzio che ebbe con il
governo prussiano a seguito della seconda edizione, pubblicata nel
1794, dell'opera Religione nei limiti della semplice ragione, ma con
l'incoronazione di Federico Guglielmo III la libertà di
stampa venne ripristinata e Kant rivendicò la libertà
di pensiero nel Conflitto delle facoltà, del 1798.
La morte
Morì nel 1804, per una malattia con sintomi riconducibili al
morbo di Alzheimer, mormorando "Es ist gut" ("Va bene").
Sulla sua tomba vi è un epitaffio che recita un passo tratto
dalla Critica della ragion pratica a significare la coerenza della
sua vita, vissuta all'insegna della sua dottrina che ha rivelato
all'umanità il riconoscimento della pochezza della sua
esistenza di fronte all'opera del Creatore ma anche la scoperta,
attraverso la bellezza della natura, della grandezza che è in
ogni uomo che aspira al bene:
(DE)
« Zwei Dinge erfüllen das Gemüt mit immer neuer und
zunehmender Bewunderung und Ehrfurcht, je öfter und anhaltender
sich das Nachdenken damit beschäftigt: Der bestirnte Himmel
über mir und das moralische Gesetz in mir. »
(IT)
« Due cose hanno soddisfatto la mia mente con nuova e
crescente ammirazione e soggezione e hanno occupato persistentemente
il mio pensiero: il cielo stellato sopra di me e la legge morale
dentro di me. »
Le opere e il pensiero
Le fasi del pensiero kantiano
La filosofia di Kant si può dividere in due grandi momenti:
il periodo definito "precritico", che arriva fino alla "gran luce"
del 1769, propedeutica alla pubblicazione della Dissertatio nel 1770
e il periodo cosiddetto "critico" , (dal 1771 al 1790) che
comprende: la Critica della ragion pura (1781), la Critica della
ragion pratica (1788) e la Critica del Giudizio (1790), precedute da
una notevole serie di opere minori scritte in età giovanile.
In seguito Kant si orientò sempre di più verso gli
interessi teologici e di questo periodo sono due opere fondamentali
del suo pensiero maturo: La religione nei limiti della semplice
ragione, del 1793, e La metafisica dei costumi, del 1797. Segue nel
1798 L'antropologia dal punto di vista pragmatico e altre opere
minori.
Durante la fase pre-critica Kant mantiene un pensiero filosofico che
oscilla fra il Razionalismo e l'Empirismo di Hume al quale Kant
riconosce il merito di averlo svegliato dal "sonno dogmatico" quando
"sognava" e credeva al dogma che la metafisica potesse offrire una
vera conoscenza:
« L'avvertimento di David Hume fu proprio quello che, molti
anni or sono, primo mi svegliò dal sonno dogmatico e dette un
tutt'altro indirizzo alle mie ricerche nel campo della filosofia
speculativa »
(Immanuel Kant, Prolegomeni ad ogni metafisica futura che
potrà presentarsi come scienza, 1783)
Attraverso quella che definì una rivoluzione copernicana Kant
aprirà una nuova era per la filosofia indirizzata a ricercare
la verità abbandonando la metafisica puntando lo sguardo
sulle cose terrene così come per conoscere la verità
Copernico la ricercò non nel moto apparente dei cieli ma in
quello reale della Terra.
Nel 1770 pubblica infatti la dissertazione De mundi sensibilis atque
intellegibilis forma et principiis, comunemente detta Dissertazione,
che lascia intravedere i primi originali sviluppi della nuova
filosofia critica kantiana. La Dissertazione segna pertanto una
tappa fondamentale per lo sviluppo del suo pensiero, e può
essere vista come una sorta di "trait d'union" tra la vecchia
filosofia e la nuova filosofia critica che Kant delineerà
compiutamente, ben dodici anni dopo, con la Critica della ragion
pura nel 1781.
La Critica della ragion pura
Il tema principale trattato da Kant nella Critica della ragion pura
è quello della conoscenza e della correlazione sussistente
tra metafisica e scienza. Gli interrogativi che si pone sono come
siano possibili la matematica e la fisica in quanto scienze e la
metafisica in quanto disposizione naturale e in quanto scienza.
Il giudizio corrisponde per Kant all'unione di un predicato e un
soggetto tramite una copula. Egli distingue quindi i giudizi
analitici a priori, i giudizi sintetici a posteriori e i giudizi
sintetici a priori.
Il giudizio analitico a priori
I giudizi analitici a priori sono tautologici perché
affermano solamente ciò che è già noto e quindi
non danno alcuna informazione aggiuntiva, sono però
universali e necessari, ma non ampliano la conoscenza. L'esempio
kantiano «Il triangolo ha tre angoli» è un
giudizio analitico. Se io analizzo, scompongo il soggetto
(triangolo) vedo che esso è costituito da diverse
caratteristiche connesse col concetto stesso di triangolo: ha tre
angoli, ha tre lati. Di queste caratteristiche, che conosco senza
averne fatto esperienza (a priori), ne metto in evidenza una (ha tre
angoli) nel predicato dove dunque non si dice niente di nuovo
rispetto al soggetto. Un giudizio analitico può, semmai,
aiutare a comprendere più facilmente i concetti impliciti
contenuti in un soggetto ma non dà nuove informazioni e non
ha un carattere produttivo; è però universale, vale
per tutti gli uomini dotati di ragione, e necessario, una volta
affermato non può più essere negato. Se dico che il
triangolo ha tre angoli rimarrò fisso per sempre a
quest'affermazione. Questo è il tipo di giudizio usato dai
razionalisti.
Il giudizio sintetico a posteriori
Il giudizio sintetico accresce il mio conoscere, aggiungendo
qualcosa di nuovo. Nel giudizio sintetico, così chiamato
perché si può pronunciare in sintesi, in unione con
l'esperienza, la connessione fra soggetto e predicato viene pensata
"senza identità": il predicato contiene qualcosa di nuovo che
non è compreso nel concetto del soggetto, come nell'esempio
"alcuni corpi sono pesanti". Infatti alcuni corpi sono pesanti altri
leggeri. Il fatto cioè che certi corpi siano leggeri non
è compreso nel soggetto "corpi". L'elemento nuovo della
"leggerezza" si potrà riscontrare solo dopo averne fatto
esperienza.
Si ricordi che l'esempio kantiano si rifà ad
Aristotele, per il quale alcuni corpi - terra e acqua - sono per
natura pesanti, mentre altri - aria e fuoco - sono per loro natura
leggeri.
Il predicato, nel giudizio sintetico, è collegato al soggetto
in forza dell'esperienza: i giudizi sintetici sono dunque a
posteriori, si possono pronunciare solo dopo aver fatto esperienza e
per questo essendo collegati alla sensibilità non hanno
universalità e necessità ma sono estensivi della
conoscenza. Questo è il tipo di giudizio usato dagli
empiristi.
Il giudizio sintetico a priori
Il giudizio sintetico a priori è un giudizio che, pur
ampliando la conoscenza, perché aggiunge qualcosa di nuovo
nel predicato, che in questo caso non è implicito nel
soggetto (come nei giudizi analitici), presenta i caratteri di
universalità e necessità, perché non deriva
dall'esperienza (infatti è a priori).
L'esempio kantiano di 7 più 5 eguale 12 mostra come il
predicato (dodici) non è compreso, come nei giudizi
analitici, nel soggetto, ma c'è qualcosa di più: il
rapporto di addizione che in 5 e in 7 presi di per sé non
hanno. Dunque questo giudizio per un verso non dipende
dall'esperienza, e quindi è necessario e universale, e per
altro verso nel predicato dice qualcosa che non era contenuto nel
soggetto e quindi è estensivo della conoscenza.
La validità universale e la certezza che caratterizzano il
giudizio sintetico a priori derivano infatti dalla
possibilità dell'intelletto di «uscire a priori dal
concetto», rivolgendosi all'intuizione pura attraverso la
«guida» di un termine medio, cioè dello schema
prodotto dall'immaginazione trascendentale. Quando cioè si
passa da un concetto a un'intuizione per ottenere un giudizio
sintetico a priori occorre stabilire un rapporto con la forma del
senso esterno (forma pura spaziale) da parte del senso interno
(forma pura temporale) autodeterminata intellettualmente attraverso
l'identità dell'appercezione.
I giudizi sintetici a priori sono i fondamenti su cui poggia la
scienza poiché accrescono il sapere (in quanto sintetici), ma
non necessitano di essere riconfermati ogni volta dall'esperienza
perché universali e necessari. In questo caso Kant ha una
posizione nettamente distinta da quella di Hume, in quanto il
filosofo scozzese, essendo empirista, riterrebbe necessaria ogni
volta una conferma giacché a suo parere non si sarebbe in
grado di dire che le cose in futuro non potrebbero cambiare.
La conoscenza umana
Giunto a questo punto Kant stabilisce un nuovo sistema conoscitivo
per determinare da dove arrivino i giudizi sintetici a priori, se
questi non derivano dall'esperienza. Questa nuova teoria della
conoscenza è una sintesi di materia (empirica) e forma
(razionale e innata). La prima è “la molteplicità
caotica e mutevole delle impressioni sensibili che provengono
dall'esperienza”. La seconda invece è la legge che ordina la
materia sensibile indipendentemente dalla sensibilità. In
questo modo la realtà non modella la nostra mente su di
sé, ma è la mente che modella la realtà
attraverso le forme tramite cui la percepisce. La realtà come
ci appare in base alle forme a priori è il fenomeno, mentre
la realtà così com'è, è indipendente da
noi ed è inconoscibile. Quest'ultima è detta noumeno.
Kant definisce quindi la conoscenza come ciò che scaturisce
da tre facoltà: la sensibilità, l'intelletto e la
ragione. La sensibilità è la facoltà con cui
percepiamo i fenomeni e poggia su due forme a priori, lo spazio e il
tempo. L'intelletto è invece la facoltà con cui
pensiamo i dati sensibili tramite i concetti puri o categorie. La
ragione è la facoltà attraverso la quale cerchiamo di
spiegare la realtà oltre il limite dell'esperienza tramite le
tre idee di anima, mondo e Dio, ossia rispettivamente, la
totalità dei fenomeni interni, la totalità dei
fenomeni esterni e l'unione delle due totalità. Su questa
tripartizione del processo conoscitivo si articola la Critica della
ragione pura suddivisa in dottrina degli elementi e dottrina del
metodo. La prima si occupa di studiare le tre facoltà
conoscitive tramite l'estetica trascendentale (sensibilità) e
la logica trascendentale, a sua volta suddivisa in analitica
(intelletto) e dialettica (ragione).
La suddivisione della Critica della ragion pura può essere
così schematizzata:
Dottrina trascendentale degli elementi
Estetica trascendentale
Kant usa il termine "estetica" intendendo il suo significato
etimologico: aisthesis in greco significa "sensazione",
"percezione". Infatti, in questa parte della Critica, Kant si occupa
della sensibilità e delle sue forme a priori. La
sensibilità svolge due ruoli nel processo conoscitivo. Il
primo di questi è recettivo (passivo) ed è il
procedimento attraverso cui prende i propri contenuti dalla
realtà esterna. In seguito la sensibilità svolge il
suo secondo ruolo (attivo) e cioè riordina le informazioni
empiriche tramite le forme a priori. Queste sono lo spazio e il
tempo. Lo spazio è la forma del senso esterno e si occupa
dell'intuizione della sola disposizione delle cose esterne. Il tempo
è la forma del senso interno e regola la successione delle
cose interne.
Spazio e tempo, secondo Kant,
* sono forme "pure" a priori dell'intuizione, che
sussistono prima di ogni esperienza, entro le quali connettiamo i
dati fenomenici; sono quindi "funzioni", ovvero modi di
funzionamento della nostra mente;
* sono trascendentali, in quanto, pur acquistando
senso e significato solo se riferiti all'esperienza, tuttavia non
appartengono a quest'ultima poiché esistono, come a priori,
prima dell'esperienza;
* sono inoltre necessari, dato che neppure se
volessi potrei farne a meno nella conoscenza empirica;
* sono infine universali, poiché
appartengono a tutti gli uomini dotati di ragione.
Spazio e tempo hanno quindi natura intuitiva (cioè non
subiscono la mediazione delle categorie), e non discorsiva in quanto
non concepiamo lo spazio attraverso le percezioni sensibili dei
diversi oggetti spaziali, ma intuiamo i vari spazi, riferiti agli
oggetti, come un unico spazio (dimostrazione metafisica
dell'apriorità dello spazio e del tempo).
Secondo Kant la matematica e la geometria sono sintetiche e a
priori, in quanto la loro validità è indipendente
dall'esperienza e aggiungono qualcosa di nuovo al soggetto. La
geometria usa intuitivamente lo spazio e la matematica fa lo stesso
con il tempo, basandosi sulla successione dei numeri, senza
ricavarli da altro (dimostrazione matematica dell'apriorità
dello spazio e del tempo).
Di conseguenza, essendo aritmetica e geometria basate su spazio e
tempo, così come la sensibilità umana, esse possono
essere applicate al mondo fenomenico.
Logica trascendentale
La logica trascendentale è determinata dalle tre forme a
priori dell'intelletto: spazio, tempo e le cosiddette 12 categorie.
Essa si divide in: Analitica Trascendentale e Dialettica
Trascendentale.
Analitica trascendentale
L'Analitica trascendentale studia l'intelletto e le sue forme a
priori. Kant ritiene che le intuizioni siano delle affezioni
(passive) mentre i concetti sono funzioni (attive) che riordinano e
unificano più rappresentazioni.
I concetti possono essere empirici, cioè derivare
dall'esperienza, o puri, cioè essere contenuti a priori
dall'intelletto. Ciascun concetto è il predicato di un
giudizio possibile (esempio: il metallo [soggetto] è un corpo
[predicato]) e tutti questi sono posti in alcune caselle a priori
che sono i concetti puri. I concetti puri vengono chiamati da Kant
categorie sull'esempio aristotelico. Tuttavia Kant ne elimina alcune
che non hanno a che fare con l'intelletto puro ma con modi della
sensibilità pura (tempo e luogo) e anche un modo empirico
(moto) e alcuni concetti derivati (azione e passione).
Differentemente da Aristotele, per il quale le categorie sono
principi del pensiero logico e della realtà, quelle kantiane
sono modi di funzionamento dell'intelletto che svolgono una funzione
trascendentale di ordinamento dei fenomeni nel senso che sono forme
a priori, precedenti ogni esperienza ma che nello stesso tempo
acquistano valore e significato solo quando si applicano
all'esperienza stessa. A ciascun giudizio Kant fa coincidere una
categoria.
Dopo aver formulato questa teoria, Kant ne deve dimostrare la
validità (deduzione trascendentale). In questo caso il
termine deduzione implica la dimostrazione della legittimità
di una pretesa di fatto. La deduzione riguarda il "quid iuris" (le
cose come le giudichiamo) e non il "quid facti" (le cose come sono
in realtà).
Per giustificare quindi ciò che ci garantisce che la natura
obbedirà alle categorie, manifestandosi in esperienza come
noi crediamo, Kant procede secondo questo ragionamento:
1. l'unificazione del molteplice non è fatta
dalla sensibilità (che è passiva), ma da
un'attività sintetica che ha sede nell'intelletto;
2. distinguendo l'unificazione dall'unità, Kant
identifica la suprema unità fondatrice della conoscenza con
il centro mentale unificatore, denominato "Io penso", che è
comune a tutte le persone ed è quindi universale;
3. l'io penso opera tramite i giudizi e cioè il
modo in cui il molteplice dell'intuizione viene pensato;
4. i giudizi si basano sulle categorie, cioè sui
vari modi in cui l'io penso agisce.
Di conseguenza un oggetto non può essere pensato senza
ricorrere alle categorie. Riassumendo:
* tutti i pensieri presuppongono l'io penso;
* l'io penso opera tramite le categorie;
* tutti gli oggetti pensati presuppongono le
categorie.
L'io penso è quindi il principio supremo della conoscenza
umana, ma non deve essere inteso come creatore della realtà,
ma solo come colui che l'ordina. Kant afferma «l'Io è
il legislatore della natura». Di conseguenza
l'interiorità necessita dell'esteriorità per essere
concepita.
Kant deve quindi spiegare come le categorie possano operare sulla
realtà fenomenica. Ciò avviene in quanto il tempo
condiziona gli oggetti, ma è a sua volta condizionato
dall'intelletto. Di conseguenza, tramite il tempo, l'intelletto
è in grado di condizionare gli oggetti fenomenici. Questa
soluzione richiama la dottrina dello schematismo, intendendo per
schema la rappresentazione intuitiva di un concetto.
Con la dottrina dello schematismo trascendentale Kant abbina a ogni
categoria aristotelica (quantità, qualità, etc.) una
forma spazio-temporale, facendo vedere che le categorie sono leggi
della mente in quanto lo spazio e il tempo senza oggetti sono
un'astrazione che esiste solo nell'io-penso che li colloca sulla
"cosa-in-sé" per ordinare il mondo. La sensibilità
è la ricezione della "cosa-in-sé", la sua
modellazione-ordinamento inconsapevole con lo spazio e il tempo e la
visione cosciente del risultato. Essa non è un sogno scelto
dall'io, ma un'interpretazione che dipende e varia con gli input che
vengono dalla "cosa-in-sé" che è indefinita, ma non
indeterminata.
Da qui Kant definisce i principi dell'intelletto puro, cioè
le regole di fondo tramite cui avviene l'applicazione delle
categorie agli oggetti. Questi sono quattro come le categorie:
1. Assiomi dell'intuizione (categoria della
quantità): affermano a priori che tutti i fenomeni intuiti
costituiscono delle quantità estensive e per tanto sono
conoscibili solo attraverso la sintesi successiva delle sue parti;
2. Anticipazioni della percezione (categorie della
qualità): affermano a priori che ogni fenomeno percepito ha
una quantità intensiva e per tanto sono suddivisibili
indefinitamente;
3. Analogie dell'esperienza (categorie della
relazione): affermano a priori che l'esperienza costituisce una
trama necessaria di rapporti basata sui principi:
* a) della
permanenza della sostanza;
* b) della
causalità;
* c)
dell'azione reciproca;
4. Postulati del pensiero empirico in generale
(categorie di modalità): stabiliscono
* a)
ciò che è possibile;
* b)
ciò che è reale;
* c)
ciò che è necessariamente.
Le leggi particolari possono essere desunte soltanto
dall'esperienza.
Il conoscere ha come limite l'esperienza, in quanto, procedendo
oltre questa, non vi sono prove della sua fondatezza. Noi possiamo
quindi solo conoscere la realtà fenomenica, cioè la
realtà per-noi, ma mai la realtà in-sé. Questo
"in-sé", che per noi è precluso, può essere
conosciuto solo da un'eventuale intelligenza divina superiore, ma
non può essere in rapporto conoscitivo con noi. Kant
identifica l'"in-sé" con il termine greco noumeno. Kant
distingue l'esperienza secondo due accezioni. La prima implica la
sola esperienza sensoriale, la seconda invece comprende la
totalità della conoscenza fenomenica, cioè la
conoscenza sensoriale tramite le forme a priori della mente.
Dialettica trascendentale
In quest'ultima parte dell'opera Kant si occupa del problema della
metafisica come scienza.
Ritorna nel pensiero kantiano il problema che aveva abitato la
filosofia moderna da Cartesio in poi: il significato della
realtà nella sua totalità e, quindi, la
possibilità di fare della metafisica una scienza. La
questione era stata accantonata dall'Illuminismo anglo-francese, che
si era dedicato, con aspirazioni scientifiche, a ricerche in campi
particolari secondo un criterio utilitaristico sia in ambito
conoscitivo sia morale. Per Kant, la ragione non si limita a
dominare il terreno dell'esperienza: anche generando errori e
illusioni, essa tende ad agire nell'orizzonte della metafisica:
«La ragione umana, anche senza il pungolo della semplice
vanità dell'onniscienza, è perpetuamente sospinta da
un proprio bisogno verso quei problemi che non possono in nessun
modo esser risolti da un uso empirico della ragione... e così
in tutti gli uomini una qualche metafisica è sempre esistita
e sempre esisterà, appena che la ragione s'innalzi alla
speculazione»
Con Kant s'attua il distacco sia dalla tradizione della metafisica
razionalista (secondo la quale era possibile cogliere razionalmente
la totalità), sia dalla tradizione illuminista settecentesca
(che attribuiva alla ragione l'unico compito di dare rigore al
sapere scientifico).
Il termine "dialettica" assume il significato di logica della
parvenza, arte sofistica in grado di dare alla proprie illusioni
l'aspetto della verità, a prescindere dal sapere fondato.
Nella dialettica trascendentale Kant intende motivare la
necessità profonda che spinge l'uomo a indagare su argomenti
che vanno oltre l'esperienza tramite ragionamenti fallaci.
Ciò è dovuto al desiderio innato della mente umana che
la spinge a voler trovare una conoscenza totale della realtà.
Questo si fonda su tre idee trascendentali:
- l'anima: totalità dei fenomeni interni;
- il mondo (o cosmo): totalità dei fenomeni esterni;
- Dio: totalità di tutte le totalità e fondamento di
ogni cosa.
A ciascuna di queste tre associa una scienza che, procedendo
erroneamente oltre il limiti del pensiero, giunge a conclusioni
sbagliate.
* L'anima è studiata dalla psicologia
razionale che è fondata, secondo Kant, su un paralogismo,
cioè su un ragionamento errato che consiste nell'applicare la
categoria di sostanza all'io penso rendendolo così una
realtà eterna, spirituale, immortale, incorruttibile e
personale. In realtà l'io penso è un'unita formale che
non ha nessuna prova empirica e di cui quindi non è possibile
conoscere nulla, ma è soprattutto una funzione logica a cui
non si possono applicare le categorie che agiscono solo sugli
elementi di derivazione empirica.
* Il mondo è studiato dalla cosmologia
razionale che pretende di riuscire a spiegare il cosmo nella sua
totalità, cosa impossibile a partire dal fatto che è
impossibile avere un'esperienza di tutti i fenomeni, ma si
può avere solo di alcuni. Pertanto i metafisici, quando
tentano di spiegarlo, cadono in procedimenti razionali
contraddittori con sé stessi (antinomie) e cioè due
ragionamenti egualmente validi e dimostrabili dal punto di vista
razionale, ma opposti tra di loro e tra cui è quindi
impossibile operare una scelta poiché manca un criterio
valido. Le antinomie sono quattro: finità/infinità del
mondo, semplicità/complessità del mondo,
libertà/non libertà della causalità delle leggi
di natura, ente necessario/contingente delle cause cosmiche.
* Dio è invece l'oggetto di studio della
teologia razionale, ma è al tempo stesso una concezione che
trae le proprie origini da semplici passaggi razionali e non
empirici. Per tanto nulla può essere detto sulla sua natura,
ma i teologi hanno elaborato, per colmare questa mancanza, tre prove
dell'esistenza di Dio:
o Ontologica:
Questa dimostrazione di Dio viene proposta per la prima volta da
Sant'Anselmo d'Aosta. Delle tre prese in considerazione da Kant,
questa è forse la più raffinata dal punto di vista
logico, basandosi su di un solido ragionamento deduttivo a priori.
Se Dio viene definito come l'essere perfettissimo, del quale non si
può pensare niente di maggiore, non può esistere solo
nella mente ma anche nella realtà. Da ciò segue che
non si può pensare Dio come essere perfettissimo, senza
postulare la sua esistenza, in quanto potrei pensare a un essere
uguale, ma non esistente nella realtà, ma questa è una
contraddizione interna al mio ragionamento, perciò Dio deve
esistere anche nella realtà. Kant dice che questo
ragionamento si basa su di un salto mortale metafisico, che dal
piano logico passa al piano ontologico. L'idea di perfezione non
contiene al suo interno l'esistenza, che quindi non può
essere dedotta a priori, ma solamente a posteriori; Anselmo
considerava l'esistenza un predicato, mentre è un
quantificatore, come dimostrato da Gottlob Frege nei suoi Scritti
postumi del 1986.
o
Cosmologica: La prova cosmologica dell'esistenza di Dio si basa
sulle cinque vie di San Tommaso d'Aquino. Queste si basano sulla
logica aristotelica. È evidente che il mondo sia regolato sul
principio di causa-effetto, e risalendo a ritroso la catena causale
si deve ammettere la presenza di una causa prima incausata,
poiché se non esiste la causa, non esisterebbe l'effetto, ma
se esiste l'effetto, deve necessariamente esistere la causa, che
coincide con Dio. Kant sostiene che questo argomento è
fondato sull'errata applicazione della categoria di
causalità, utilizzata per passare dal mondo fisico-fenomenico
al piano metafisico. Inoltre questa dimostrazione di Dio richiama
implicitamente la prova ontologica, in quanto la causa è
necessaria e perfetta non può fare a meno di esistere;
o
Fisico-teologica o Teleologica: Delle tre, questa è la prova
più intimamente accettabile, poiché afferma
l'esistenza di una realtà ordinata e strutturata, deve
esserci una mente ordinatrice, che viene associata con Dio. Per
spiegare l'ordine della natura, bastano le sole leggi scientifiche e
non un essere metafisico. Da questo punto di vista, basterebbe
soltanto un dio ordinatore e non creatore, quindi il Demiurgo
platonico e non il Dio creatore cristiano. Perciò si ricade
nella prova cosmologica, in quanto questo essere sarebbe la causa
della natura.
L'uomo ha sempre preteso di dimostrare l'esistenza di un Essere che
abbia le stesse caratteristiche del mondo (mirabile, saggiamente
conformato, ecc.), ma trascura che queste caratteristiche sono
determinate e relative a noi, che in quanto finiti non possiamo fare
esperienza dell'infinito – ed è in fondo anche per questo
motivo che il pensiero critico kantiano può essere definito
"ermeneutica della finitudine", interpretazione del finito o
filosofia del limite.
È comunque importante notare che Kant non assume una
posizione atea né agnostica, in quanto egli non nega
l'esistenza di Dio ma semplicemente la possibilità di
dimostrarla, e ciò proprio con l'intento di salvare la fede.
Secondo Kant, infatti, l'unico modo per sconfiggere lo scetticismo
consiste nel mettere in salvo le verità metafisiche dal
fallimento dei tentativi di dimostrarle razionalmente, approdandovi
per una via diversa da quella teoretica. «Ho eliminato la
scienza per far posto alla fede» scriverà nella
prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura. La
figura di Dio e le altre verità metafisiche saranno quindi
oggetto di altri ambiti, di cui si occuperà la Critica della
Ragion Pratica.
All'interno della pura speculazione filosofica invece, le idee
trascendentali o metafisiche non hanno una funzione costitutiva ma
soltanto regolativa. Esse rappresentano una sorta di idea limite
verso le quali dirigere la conoscenza del mondo. Il concetto di
noumeno perde così il suo attributo di esistenza, e
rappresenta solo il concetto limite di ogni nostra idea, assumendo
soltanto valenza logica. Per questo la filosofia kantiana viene
chiamata filosofia del limite.
Su queste basi Kant opera un nuovo concetto di metafisica come
"scienza dei concetti puri", intendendo ovvero la dialettica come
"studio delle idee" (significato ripreso da Platone ma in senso
trascendentale). Questa è divisa in "metafisica della
natura", che studia i principi a priori della conoscenza della
natura, e "metafisica dei costumi", che studia i principi a priori
dell'azione morale.
La Critica della ragion pratica
Contrapposta alla ragione teoretica è la ragione pratica. Una
volta negata la possibilità di una comunione universale, di
un "mondus intelligibilis" (Kant non può che distinguere,
secondo l'analisi eseguita sulla ragion pura, il mondo in fenomeno e
cosa in sé), viene introdotta l'ipotesi di un'unità
morale. La morale che propone Kant è uno studio sul giusto
agire degli uomini che non prescinde dalle regole dettate dalla
ragione, ossia l'etica per essere giusta deve seguire i percorsi
della ragione, ed è pur sempre ragione, non teoretica, ma
pratica.
In particolar modo Kant introduce il concetto di imperativo
categorico, ovvero un comportamento è da considerare morale
in modo categorico "senza possibilità di smentita" quando
è universalmente riconosciuto, giusto in ogni momento e in
ogni situazione umana. Questo comportamento diventa allora
vincolante per la morale di tutti gli uomini, e una sua mancata
applicazione significherebbe azione immorale.
L'idea è che l'uomo possa farsi guidare dalla ragione non
solamente nel campo delle scienze ma anche nel campo della pratica
morale dell'etica. In particolare l'imperativo categorico che deve
guidare l'uomo come necessità volontaria non è una
costrizione ma un aderire a una legge razionale che l'uomo stesso ha
formulato per mezzo della propria ragione.
L'etica e l'imperativo categorico
Kant distingue fra massime e imperativi. Le massime sono
prescrizioni di carattere puramente soggettivo (es. vendicarsi delle
offese subite), invece gli imperativi sono prescrizioni di carattere
oggettivo. Gli imperativi a loro volta si suddividono in imperativi
ipotetici e in imperativi categorici. I primi si presentano nella
forma "se... allora": possono essere regole dell'abilità (se
vuoi essere un bravo medico devi...) o consigli della prudenza (se
vuoi raggiungere il benessere devi...). Il rischio di una morale
utilitaristica come quella cui più tardi pervenne l'inglese
Bentham, portò il filosofo a cercare il fondamento della
morale in un comando non condizionale, l'imperativo categorico.
Dimostrato che la ragione che pretende di parlare
dell'incondizionato cade in contraddizione, una fondazione razionale
e non contraddittoria della morale doveva escludere un imperativo
non condizionale. Kant arriva a concludere che l'etica non è
fondabile razionalmente ma che è un imperativo categorico che
la volontà deve darsi liberamente.
Il fondamento dell'etica è lo stesso che fonda la ragione,
quel principio di non contraddizione scoperto da Aristotele, che,
prima che una legge logica, è una legge etica dell'Io. Una
vita conforme alla ragione equivale a un obbligo di coerenza che
vale sia nel pensiero sia nell'essere. L'Io è libero di
negare questo principio, ma si limita a vivere nel mondo
dell'opinione (non razionale) e della stoltezza (non etico).
Kant parte dalla volontà di dimostrare che l'io è
legato al rispetto dell'etica, che considera un giudizio sintetico a
priori che la ragione, dunque, conosce e può dimostrare. Lo
vuole dimostrare perché è convinto che l'io è
legato al rispetto dell'etica, quanto lo è del paradosso
della sofferenza del giusto.
Non stupisce che postuli l'esistenza di un imperativo categorico o
voce della coscienza, simile al demone socratico, che universalmente
in ogni individuo spinge al rispetto di regole morali universali che
si traducono in azioni differenti fra i vari contesti. Così
il giudizio etico come il giudizio estetico varia nel tempo e a
seconda della situazione, ma è sempre riconducibile in ogni
individuo all'applicazione di regole universali che fanno agire per
il giusto e contemplare per il bello, senza variare da individuo a
individuo: le regole etiche ed estetiche sono le stesse in ogni
individuo ed egualmente la loro applicazione: qualunque individuo
purché razionale, nella stessa situazione, avrebbe fatto la
stessa cosa e considerato bella una certa opera.
La ragione diventa l'ambito dell'universalità di tutti i
giudizi, etici ed estetici, del loro tradursi in atti pratici. Il
metro di valutazione del giusto può variare al massimo da una
generazione di umani a un'altra, ma le regole alla base rimangono
comuni, perché trascendentali a ogni spazio e a ogni tempo.
Come si vede, le scelte etiche e la fruizione del bello sono
ricondotti a principi collettivi: Kant non ha mai parlato dell'io
singolare (sé stesso o gli altri); quando parlava dell'io, si
riferiva sempre all'io trascendentale.
Un'etica con principi indipendenti dallo spazio e dal tempo è
posta in essere dall'io, pur venendo prima (ossia a priori) dell'io,
e la si può pensare innata. L'applicazione dei principi
dipende invece dallo spazio e dal tempo, dal contesto in cui l'io si
trova ad agire; tuttavia, spazio e tempo sono anch'essi
realtà trascendentali, rispetto agli individui: l'etica
dipende dallo spazio-tempo solamente in un contesto universale,
comune a tutti (intersoggettivamente); nei sogni, che sono uno
spazio-tempo soggettivo, diverso fra individui, ognuno è
libero dall'etica entro certi limiti. Se l'individuo non domina su
questa etica, poiché l'io soggiace a principi universali,
nemmeno ne è dominato, dato che l'io è il protagonista
del Regno dei Fini dove ogni persona è il fine delle azioni
degli altri.
Scontrandosi con l'affermazione della libertà dell'uomo,
l'etica kantiana non ha trovato esseri che agiscono necessariamente
per il giusto; ha creato un ambito, quello della ragione, in cui
l'io entrato liberamente ha accettato di "farsi costringere" dalla
ragione al rispetto di certe regole, pena la perdita del godimento
del bello che è negato ai bruti e di una consolante
universalità dell'agire umano.
L'imperativo categorico in questo sistema è un postulato non
fondabile, che forse lo sarebbe altrove; per Kant era prima di tutto
un dato di fatto come lo era per il pietismo tedesco, da lui
assimilato con la forte educazione materna basata su un senso etico
molto potente. Filosofiche sono però le conseguenze, ovvero
tre assiomi da ammettere come condizioni ineludibili di un agire
coerente, secondo i quali:
* sarebbe contraddittoria una ragione che comanda
cose che siamo costretti a raggiungere, da cui la fondazione della
libertà della volontà umana;
* sarebbe contraddittoria una ragione che
comandasse cose irraggiungibili, la cui affermazione si scontrerebbe
con il paradosso della sofferenza del giusto, e richiede
perciò una vita ultraterrena nella quale si afferma la
giustizia fra gli "io", ripagando le ingiustizie, bloccando
l'attività degli ingiusti, riservando il tempo e la
libertà a chi ha scelto dalla parte della ragione di vivere
secondo giustizia: da cui l'immortalità dell'anima;
* l'esistenza di un Dio, più forte degli
altri "io", con il ruolo di dare compensazione alle ingiustizie
terrene e privare gli empi della libertà, impedendo il
ripetersi di soprusi ultraterreni che riproporrebbero la
contraddizione all'infinito; una divinità la cui azione si
svolgerebbe principalmente o esclusivamente nell'altra vita,
sensibilmente diversa dalle concezioni tradizionali che non
concepirono mai una sorta di "Provvidenza ultraterrena".
L'imperativo categorico è pertanto un dato di fatto, un
postulato, un giudizio sintetico a priori, un comando di
razionalità che viene dalla ragione in quanto essa è
universale. Nel conformarsi al suo dettato, la ragion pratica non
è più vincolata dai limiti fenomenici in cui si
trovava a operare la pura ragione, e perciò a differenza di
quest'ultima sa attingere all'Assoluto, perché obbedisce
soltanto alle leggi che scopre dentro di sé.
L'uomo si ritrova così ad appartenere a due mondi: in quanto
dotato di sensi, egli appartiene a quello naturale, e perciò
è sottoposto alle leggi fenomeniche di causa-effetto; in
quanto creatura razionale, però, l'uomo appartiene anche al
cosiddetto noumeno, cioè il mondo com'è in sé
indipendentemente dalle nostre sensazioni o dai nostri legami
conoscitivi, e perciò in esso egli è assolutamente
libero, di una libertà che si manifesta nell'obbedienza alla
legge morale che lui stesso si è dato.
La Critica del giudizio
La critica del giudizio analizza il sentimento attraverso una
visione finalistica. I giudizi sentimentali costituiscono il campo
dei giudizi riflettenti, i quali si limitano a riflettere su una
natura già costituita mediante i giudizi determinanti e a
interpretarla secondo le nostre esigenze di finalità e
armonia. Mentre i giudizi determinanti sono oggettivamente validi,
quelli riflettenti esprimono un bisogno che è tipico di
quell'essere finito che è l'uomo. La critica del giudizio
quindi è un'analisi dei giudizi riflettenti. I giudizi
riflettenti sono di due tipi: estetici e teleologici, ed entrambi ci
pervengono a priori.
* I giudizi estetici vengono vissuti
immediatamente e intuitivamente dalla nostra mente in relazione con
l'oggetto e riguardano la bellezza dell'oggetto. È il
sentimento che ci pervade quando rimaniamo estasiati dal bello.
Questo è la chiave che la natura ci offre per farci scoprire,
attraverso il simbolo della bellezza naturale, la sua
finalità morale e la realtà di Dio, sommo Bene:
« Il bello è il simbolo del bene
morale »
(Immanuel Kant, Critica del giudizio, 1790)
* I giudizi teleologici invece pervengono al fine
dell'oggetto in relazione al mondo attraverso un ragionamento. Per
esempio riflettendo sullo scheletro di un animale diciamo che esso
è stato prodotto al fine di reggere l'animale. Il giudizio
teleologico è il sentimento che ci pervade quando avvertiamo
un'intima consonanza tra i fenomeni della natura e le nostre
finalità etiche.
Il giudizio estetico
Kant nella Critica del giudizio analizza il bello dandone quattro
definizioni, che delineano altrettante caratteristiche:
* il disinteresse: secondo la "qualità" un
oggetto è bello solo se è tale disinteressatamente,
quindi non per il suo possesso o per interessi di ordine morale,
utilitaristico ma solo per la sua rappresentazione;
* l'universalità: secondo la
"quantità" il bello è ciò che piace
universalmente, condiviso da tutti, senza che sia sottomesso a
qualche concetto o ragionamento, ma vissuto spontaneamente come
bello;
* la finalità senza scopo: secondo la
"relazione" un oggetto è bello non perché sia il suo
scopo esserlo ma perché un oggetto bello è tale nella
sua compiutezza anche se non esprime alcun fine;
* la necessità: secondo la
"modalità", è bello qualcosa su cui tutti devono
essere d'accordo necessariamente senza alcuna giustificazione
razionale; anzi, Kant pensa che il bello sia qualcosa che si
percepisce intuitivamente: non ci sono quindi "principi razionali"
del gusto, tanto che l'educazione alla bellezza non può
essere insegnata in un manuale, ma solo attraverso la contemplazione
stessa di ciò che è bello.
Ovviamente Kant cerca di far luce sull'universalità del bello
facendo la distinzione tra il piacevole legato ai sensi e quindi
dato da giudizi estetici empirici privi di universalità e il
piacere estetico puro che invece non subisce condizionamenti di
alcun tipo (quindi universale); tra bellezza aderente riferita a un
determinato modello come un edificio o un abito e bellezza libera
appresa senza alcun concetto come la musica senza testo (ovviamente
solo quest'ultima è universale).
Il filosofo trovandosi di fronte il problema della legittimazione
dell'universalità del giudizio estetico decide di spiegarlo
affermando che quest'ultimo nasce dall'armonia tra immaginazione
(irrazionale) e intelletto (razionale); questo meccanismo, uguale in
tutti gli uomini, dimostra che il gusto gode di universalità.
La "rivoluzione copernicana" operata nella Critica della ragion
pura, si ripropone nella Critica del Giudizio: il bello non è
più qualcosa di oggettivo e ontologico ma l'incontro tra
spirito e cose attraverso la mediazione della nostra mente
(perché è sempre il soggetto alla base di tutto).
Il giudizio riflettente riguarda la soggettività e la sfera
estetica, mentre quello determinante, proprio della conoscenza
oggettiva già analizzata nella Critica della ragion pura, ha
come finalità il perseguimento del “vero” e non del “bello”.
Entrambi però hanno un principio comune, perché:
« Il Giudizio in generale è sempre una facoltà
di pensare il particolare come parte dell'universale ed è
obbligato a risalire dal particolare della natura all'universale
». Il rapporto del particolare all'universale è
perciò “dovuto” e quindi necessario e da ciò lo
stretto rapporto tra il pensiero estetico e quello teleologico.
La natura è pura immanenza, non ha perciò caratteri di
universalità perché si manifesta nel disomogeneo, nel
differenziato, nel molteplice e nel particolare. Però nel
giudizio viene sempre subordinata all'universale, quindi al divino
che l'ha creata. Il sentimento individuale dà un giudizio
estetico che è sempre solo soggettivo, ma tende
all'unità oggettiva del trascendente. Elevandosi sopra la
percezione sensibile va verso la contemplazione del trascendente.
Il concetto di bellezza va perciò riferito a
un'idealità che è possibile definire e codificare in
un canone, con il sentimento che deve sempre essere pilotato dalla
ragione. La bellezza che si deve cercare è sempre quella
“ideale”, che non può mai essere qualcosa di “incerto; il
vero bello è sempre “definito” e fissato per il suo fine
oggettivo e razionale. Kant così afferma che la bellezza
teleologica è un a-priori e che: «La bellezza si
esprime come la forma finalizzata dell'oggetto, percepita non in
vista di alcun scopo pratico.» Perciò il sentire
estetico, per quanto basato sulla libertà individuale,
è veramente tale se mira alla necessità della sfera
ideale e universale, in modo da sottrarsi all'accidentalità
del particolare.
Nella Analitica del sublime, prima parte (2º Libro) della
Critica del giudizio, Kant spiega, rifacendosi a precedenti teorie
del sublime, che il sentimento va razionalizzato in un'analisi
rigorosa. Ciò anche perché secondo Kant vi sono due
tipi di sublime, il “matematico” e il “dinamico”, che vanno
distinti. Il matematico è uno stato sintonico con l'infinito,
il dinamico è il senso dell'inadeguatezza rispetto a un
“troppo”. Il sentimento del sublime è quindi un sentimento
dell'«assolutamente grande» attraverso una
«dinamica dell'animo», mentre quello del bello
«mette l'animo in una stasi contemplativa » Entrambi
così danno piacere, ma di diverso genere e intensità.
Il sublime, assai più del bello, va “oltre” gli aspetti della
natura immanente, andando verso la trascendenza del divino.
La filosofia della storia
La prima opera d'interesse per la concezione della filosofia della
storia in Kant è l'Idea per una storia universale dal punto
di vista cosmopolitico del 1784. Compaiono nel titolo le concezioni
illuministe della storia considerata universale, nel senso che si
prescinde dalle singole storie delle singole nazioni, volendo
indicare la storia come appartenente a tutti gli uomini senza
distinzioni: quindi essa non può essere che universale e
cosmopolita così come nel suo Saggio sui costumi la definiva
Voltaire, a cui d'altronde risale anche l'espressione filosofia
della storia (in La philosophie de l'histoire del 1765).
La riflessione kantiana sulla storia troverà poi un ulteriore
approfondimento nello scritto Per la pace perpetua: un progetto
filosofico del 1795, dove si terrà conto della situazione
storica contemporanea profondamente mutata con lo scoppio della
Rivoluzione francese.
Il discorso sulla filosofia della storia troverà infine la
sua conclusione ne Il conflitto delle facoltà (1798), dove si
analizza lo scontro tra le facoltà universitarie per
conquistare il primato nel mondo accademico. Quest'ultimo scritto
sembrerebbe estraneo al tema della filosofia della storia se non si
considerasse quanto dice Kant in un breve frammento: «Se il
genere umano sia in costante progresso verso il meglio.» Qui
comincia ad apparire una certa vena di scetticismo per cui Kant
inizia, con la visione del Terrore giacobino sotto gli occhi, ad
avere dei dubbi sull'effettivo valore della Rivoluzione francese.
Idea per una storia universale...
In particolare nell'Idea per una storia universale... Kant afferma
che «poiché gli uomini, nei loro sforzi, non si
comportano semplicemente in modo istintivo, come gli animali, ma
neppure in modo prestabilito [...] di loro non pare possibile una
storia sistematica, come ad esempio quella delle api o dei
castori» per cui non esiste una storia progressiva ed eterna,
quasi regolata da quelle stesse leggi che regolano la natura,
poiché l'uomo è in grado di costruire liberamente la
sua storia ma non è detto che lo faccia perseguendo il bene.
Aggiunge Kant: «non si può trattenere un certo fastidio
a vedere rappresentato il loro [degli uomini] fare e omettere sulla
grande scena del mondo, e pur con l'apparenza, di tanto in tanto,
della saggezza [...] si trova il fare e omettere intessuto di
vanità infantile», tanto che le azioni umane, sia pure
talora guidate dalla razionalità, il più delle volte
sembrano dirette a mettere in opera il male, quasi senza rendersene
conto, come fanno i bambini nella loro ingenuità. Allora
«Per il filosofo non c'è altra via d'uscita [...] che
quella di tentare se, in questo assurdo andamento delle cose umane,
possa scoprire uno scopo della natura»: il filosofo
cioè non può rinunciare ad avere fiducia negli uomini
e quindi si domanda se alla fine, nonostante l'infantile e stupido
agire degli uomini, non vi sia una sorta di laica provvidenza
storica che, incarnatasi nella natura, guidi gli uomini e le loro
azioni verso i migliori fini («tutte le disposizioni naturali
di una creatura sono destinate a dispiegarsi un giorno in modo
completo e conforme al fine»). Una storia dove gli uomini come
marionette sono manovrati per mettere in atto «una storia
secondo un determinato piano della natura» che persegue i suoi
fini anche contro la stessa volontà degli uomini.
Il conflitto delle facoltà
Dubitando che «il genere umano sia in costante progresso verso
il meglio», quale sarà allora, si chiede Kant, il
futuro della storia umana? Ragionevolmente si possono ipotizzare tre
strade:
* quella terroristica: una storia cioè
indirizzata al sempre peggio, con una conclusione visionaria
apocalittica e con la vittoria dell'Anticristo, che segni la fine
della storia.
Concezione questa poco accettabile, poiché in questo modo la
storia «distruggerebbe se stessa» a meno che non la si
intenda come millenarismo, per cui dalla massima negatività e
dalle macerie della vecchia storia non avvenga la nascita di una
nuova e migliore storia;
* quella abderistica, della follia e
stupidità degli abitanti di Abdera. Gli uomini si aggirano in
una storia senza senso, in un guazzabuglio caotico compiendo azioni
insensate: «si rovescia - dice Kant - il piano del progresso,
si costruisce per poter abbattere». Come il mitico Sisifo, gli
uomini si affannano a costruire l'edificio della storia che
però essi stessi distruggeranno, per ricominciare poi
daccapo.
Una storia ferma quindi, che si muove per tornare su i suoi stessi
passi. Una storia naturale come quella degli animali, che non
può essere progressiva perché dominata dall'istinto
che li guida sempre allo stesso modo; una storia questa che non
può appartenere agli uomini perché essi seguono nelle
loro azioni il lume della ragione.
* quella eudemonistica, quella felicemente, ma
non inevitabilmente, progressiva. Poiché l'uomo è
libero, osserva Kant, non è detto che egli scelga sempre e
comunque di realizzare il bene per cui se «quand'anche fosse
provato che il genere umano [...] abbia a lungo progredito e possa
ancora progredire [...], nessuno può sostenere che non possa
ora iniziare il suo regresso».
L'uomo è un legno storto, una mescolanza di bene e male, che
rende difficile, ma tuttavia non impossibile, una visione
ottimistica della sua storia. Kant vuole a tutti i costi avere
fiducia nell'uomo e cerca riscontri in avvenimenti storici che
confortino la sua speranza che da un legno storto possa nascere un
albero dritto.
Questo evento storico che possa dare conforto alla fiducia in una
storia progressiva, Kant lo identifica nella Rivoluzione francese
che va considerata in modo distaccato - secondo un giudizio storico,
avrebbe detto Benedetto Croce - e non lasciandoci trascinare da un
passionale giudizio morale che ce la farebbe considerare come una
congerie di «fatti e misfatti». Una giusta visione
sarà quindi quella per cui «La Rivoluzione di un popolo
di ricca spiritualità [...] può riuscire o fallire,
essa può accumulare miseria e crudeltà tali che un
uomo benpensante esiterebbe a ripeterla», ma essa «trova
negli spiriti di tutti gli spettatori [...] una partecipazione e
aspirazione che rasenta l'entusiasmo». Questo consenso
universale è il segno che anche un fatto storico così
imbevuto di violenza segna comunque un progresso della storia.
La libertà politica
Il Diritto
Secondo Kant, il diritto consiste nella «limitazione della
libertà di ciascuno alla condizione che essa si accordi con
la libertà di ogni altro».
La libertà di ognuno coesiste con la libertà degli
altri. Ovviamente l'uomo kantiano non può non avere bisogno
di un padrone, data la facilità con cui cede all'istinto
egoistico. Ma il padrone non è un altro uomo, bensì il
diritto stesso.
Kant analizza l'uomo e in lui trova una tendenza egoistica,
ovverosia una "insocievole socievolezza".
« Ogni cultura e arte, ornamento
dell'umanità, e il migliore ordinamento sociale sono frutti
dell'insocievolezza, la quale si costringe da sé a
disciplinarsi e a svolgere quindi compiutamente con arte forzata i
germi della natura »
(Immanuel Kant, Idea per una storia universale dal punto di vista
cosmopolitico, 1784)
Alla fine dunque gli uomini tendono a unirsi in società, ma
con una riluttanza a farlo davvero, con il rischio di disunire
questa società. In poche parole: si associano per la propria
sicurezza e si dissociano per i propri interessi. Ma è
proprio questa conflittualità a favorire il progresso e le
capacità del genere umano, perché lottano per
primeggiare sugli altri, come gli alberi: «si costringono
reciprocamente a cercare l'uno e l'altro al di sopra di sé, e
perciò crescono belli dritti, mentre gli altri, che, in
libertà e isolati fra loro, mettono rami a piacere, crescono
storpi, storti e tortuosi».
La libertà e i limiti dello Stato
Kant non ignora affatto le tesi lockiane sul liberalismo,
perché anche lui afferma che lo Stato mira a garantire la
libertà di ogni persona contro chiunque altro. Lo "Stato
repubblicano" che delinea si basa su "Tre principi della ragione":
* La Libertà (in quanto uomo).
* L'Uguaglianza di tutti quanti di fronte alla
legge (in quanto sudditi).
* L'Indipendenza dell'individuo (in quanto
cittadino).
Questa visione dello Stato va in conflitto con un qualsiasi
dispotismo presente, anche paternalistico. Contrariamente
all'ammirazione dei filosofi a lui contemporanei per i cosiddetti
sovrani illuminati Kant diffida della politica che ha come guida
l'uso della forza:
« Non c'è da attendersi che i re
filosofeggino o che i filosofi diventino re, e neppure è da
desiderarlo, perché il possesso della forza corrompe il
libero giudizio della ragione »
(Immanuel Kant, Per la pace perpetua, 1795)
Secondo Kant infatti, «un governo paternalistico è il
peggiore dispotismo che si possa immaginare», dato che
costringe i sudditi ad attendere che il capo dello Stato giudichi
solo mediante la sua bontà.
C'è solo una soluzione a questo problema: «essere
liberi per poter esercitare le proprie forze nella
libertà».
Teologia
Un interesse specifico Kant ebbe per la teologia di cui è
intrisa la sua speculazione. Ne sono chiara testimonianza le
numerose opere di carattere teologico come L'unico argomento
possibile per la dimostrazione dell'esistenza di Dio pubblicato nel
1763, la Ricerca sulla chiarezza del principio della teologia
naturale e della morale (1764), Sull'uso dei principi teologici
nella filosofia del 1788, La religione nei limiti della sola ragione
pubblicato nel 1793, una Dottrina filosofica della religione (uscita
postuma nel 1817).
Ma è tutto il suo pensiero a essere fondato sulla
realtà di Dio e sul modello morale da Lui posto come
itinerario verso la santità morale. In La religione nei
limiti della sola ragione Kant riassume in funzione religiosa il suo
metodo, già preparato nelle precedenti Critica della ragion
pura e nella Critica della ragion pratica, per arrivare a definire
la sua filosofia cristiana basata sull'idea morale dell'Imperativo
come dovere dell'uomo di diventare degno di Dio.
Ne La religione nei limiti della sola ragione Kant dice che
l'umanità tende a Dio per il dovere di realizzare la
"perfezione morale". L'uomo morale è santo, «È
il solo gradevole a Dio». Ma proprio in questo scritto propone
il concetto del male radicale, sull'impossibilità di
raggiungere un simile scopo con le sole nostre forze e senza
ricorrere a un «completamento soprannaturale» tramite la
grazia divina.
In un tardo scritto dell'Opus postumum scrive che Dio farà in
modo che si realizzi il suo regno anche sulla terra, però
anche l'uomo deve fare la sua parte «Ma non è permesso
all'uomo di restare inattivo e di lasciar fare alla Provvidenza
[...]. Il compito degli uomini di buona volontà è "Che
venga il regno di Dio e sia fatta la sua volontà sulla
terra.»
In una lettera al suo grande amico Stäudlin nel maggio del 1793
afferma che tutto il suo lavoro speculativo è rivolto alla
riforma della filosofia in funzione della religione, perché
il fondamento della propria formazione culturale è
«principalmente nelle cose di religione» (O. P.
Akademie-Ausgabe, Prima Edizione, vol. VIII, p. 41)
Contributi nell'astronomia
Un certa fama postuma venne a Kant dalla sua ipotesi cosmogonica
esposta nel 1755 nell'opera Storia naturale universale e teoria dei
cieli, dove propose la teoria del collasso di una nebulosa per
spiegare la formazione del Sistema solare. La teoria venne poi
ripresa e rielaborata da Laplace ed è diventata nota come
ipotesi di Kant-Laplace. La tesi durante tutto l'Ottocento ebbe
molto credito ma nel Novecento risultò superata dalla nuova
astrofisica. Inoltre egli pensò anche alle galassie quali
"Universi-Isola" ma in modo impreciso e vago. C'è qualcuno
che attribuisce anche a Kant di aver precorso la definizione del
concetto di buco nero. Egli affermò: «Se l'attrazione
agisce sola, tutte le parti della materia dovrebbero avvicinarsi
sempre più, e diminuirebbe lo spazio che occupano le parti
unite, di modo che si riunirebbero finalmente in un solo punto
matematico».
Kant e il kantismo
La fama di Kant, che gli permise di esercitare un notevole influsso
sul pensiero europeo a cavallo tra Settecento e Ottocento, è
stata tradizionalmente attribuita non solo alla sua capacità
di accogliere le istanze provenienti da due tradizioni filosofiche
contrapposte come il razionalismo europeo e l'empirismo anglosassone, ma anche di averne tentato una riformulazione in chiave del
tutto nuova e originale.
Kant volle armonizzare il ragionamento di tipo matematico con quello
di tipo sperimentale e in questo senso si può dire che egli
raccoglie l'eredità di Galilei, che tuttavia era
essenzialmente uno scienziato. Kant invece lasciò a sé
stesso il compito di giustificare tale accordo tra matematica ed
esperimento sul piano filosofico: compito che Kant si assunse e per
questo fu da molti considerato, più che un punto di approdo,
come l'inizio di un nuovo modo di filosofare.
Difficoltà e problemi
La distinzione tra sensibilità e intelletto che ne era
conseguita, e che aveva permesso a Kant di ricondurre la conoscenza
umana a due fonti separate, fu in particolare al centro di un vivo
dibattito, tanto più che essa veniva situata al di qua di un
ulteriore dualismo tra fenomeno e noumeno.
Contro l'idealismo di Berkeley Kant aveva infatti ammesso che oltre
i limiti del sensibile esistono dei corpi reali, i quali, colpendo
la nostra sensibilità, determinano l'insorgere in noi delle
rappresentazioni fenomeniche. Ma poiché ogni rappresentazione
subisce inevitabilmente l'impronta dell'apparato soggettivo che la
riceve, veniva ad aprirsi un salto incolmabile tra le apparenze
sensibili e la cosa in sé: quest'ultima restava così
del tutto ignota e inattingibile. Fu per questo motivo che Kant
ricevette le accuse di fenomenismo e agnosticismo.
Ben presto si pose quindi il problema di come salvare la natura del
criticismo affrontando le difficoltà che Kant aveva
involontariamente sollevato. Friedrich Heinrich Jacobi per primo
mise in evidenza come Kant avesse assegnato al noumeno una funzione
causale, l'avesse cioè utilizzato come "causa" dell'insorgere
in noi dei fenomeni. Ciò contrastava non solo col carattere
inconoscibile della cosa in sé, ma anche con la concezione
kantiana della causalità come categoria dell'intelletto
valida solo per i fenomeni, mentre Kant l'aveva usata in un ambito
che travalicava i fenomeni stessi.
Lo stesso genere di critiche fu mosso anche da Gottlob Ernst
Schulze, secondo il quale Kant, postulando la cosa in sé,
sarebbe caduto nel dogmatismo che voleva combattere. Kant infatti,
ammettendo la necessità di supporre il noumeno, avrebbe fatto
derivare dalla pensabilità di un oggetto la sua esistenza, e
non sarebbe pertanto riuscito a superare lo scetticismo
anti-metafisico di David Hume.
Sul fronte opposto, già con Karl Leonhard Reinhold nel 1787
le critiche a Kant si erano di fatto tramutate in una prospettiva
idealistica che mirava esplicitamente a eliminare la cosa in
sé. Tra gli altri, Salomon Maimon fu tra coloro che
cercarono di dare maggior rigore al criticismo esprimendo l'esigenza
di attenersi a ciò che è contenuto nella coscienza,
senza andare alla ricerca di fittizie cause esterne; il noumeno ad
esempio fu da lui paragonato a un numero immaginario.
Sarà poi con Johann Gottlieb Fichte, e ancor più con
Friedrich Schelling, che le critiche a Kant assumeranno sempre
più una valenza ontologica: l'errore di Kant sarebbe stato
infatti quello di partire da una conoscenza necessaria e universale
senza basarsi sull'ontologia, ma è proprio da questa che
scaturisce il necessario e l'universale. Fichte racchiuse
così l'essere dentro l'autocoscienza, trasformando la cosa in
sé nel momento trascendentale di auto-formazione del
soggetto.