Immanuel Kant

 

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Immanuel Kant (Königsberg, 22 aprile 1724 – Königsberg, 12 febbraio 1804) è stato un filosofo tedesco. Fu uno dei più importanti esponenti dell'illuminismo tedesco, e anticipatore - nella fase finale della sua speculazione - degli elementi fondanti della filosofia idealistica.

Uno dei principali contributi della dottrina kantiana è l'aver superato la metafisica dogmatica operando una rivoluzione filosofica tramite una critica della ragione che determina le condizioni e i limiti delle capacità conoscitive dell'uomo nell'ambito teoretico, pratico ed estetico.

La Critica della ragion pura, pubblicata nel 1781, definisce il metodo del filosofare a cui Kant si atterrà anche nelle due opere successive (Critica della ragion pratica e Critica del giudizio), come pure in altri lavori posteriori. La sua attività di pensatore riguarda prevalentemente la gnoseologia, l'etica e l'arte, ma ebbe in gioventù anche interessi scientifici, che coltivò sino al 1760.

L'ipotesi cosmogonica della nebulosa primitiva, esposta nel 1755 nella Storia universale della natura e teoria del cielo (che egli desunse da Buffon), ebbe molta fortuna e gli diede fama anche nel campo dell'astronomia. Essa fu enunciata proprio da Laplace che la rielaborò e la rilanciò nel 1796 in Esposizione del sistema del mondo.

Biografia

Le fonti: l'epistolario e i primi biografi
    « Kant non ha altra biografia che la storia del proprio filosofare. »
   
(Otfried Höffe, Immanuel Kant, cit., 1997, p. 9)

Gran parte della sua biografia è conosciuta attraverso l'epistolario, da cui traspare un resoconto asciutto dei rapporti con gli studenti, i colleghi, gli amici e i parenti, nonché interessanti dettagli sui rapporti intercorsi tra lui e alcune importanti personalità del secolo e sulle prime reazioni ottenute dal pensiero kantiano. In tale epistolario, però, mancano riferimenti a particolari stati d'animo. Importanti sono anche le prime biografie a lui dedicate, quali quelle di Ludwig Ernst Borowski, di Reinhold Bernhard Jachmann, di Ehregott Andreas Wasianski, di Johann Gottfried Hassee di Friedrich Theodor Rink, tutte del 1804 e a opera di persone che ebbero modo di conoscerlo personalmente e di frequentarlo anche in qualità di collaboratori. Pure, l'epistolario di Kant contiene lettere non precedenti il 1770, quando il filosofo era già maturo negli anni, mentre le biografie menzionate lo ritraggono soprattutto a partire dalle esperienze che gli autori ebbero di Kant quando egli era sul finire della vita, per cui questo repertorio biografico rischia di produrre un ritratto sbilanciato verso la rigidità tipica dell'età senile, quando invece in generale Kant fu personaggio "socievole e, nel suo stile di vita, addirittura galante".

Le origini e l'infanzia

Kant nacque nel 1724, nella periferia di Königsberg, allora capitale della Prussia Orientale e attualmente, con il nome di Kaliningrad, città principale di un'exclave russa tra Polonia e Lituania. Era quarto di undici figli (o nove, secondo altri), dei quali solo cinque raggiunsero l'età adulta.

Nello stesso anno in cui nacque Kant, la città venne unificata a partire dai conglomerati di Altstadt, Löbenicht e Kneiphof. A Königsberg si affacciavano numerosi commercianti inglesi, che scambiavano articoli russi (cereali e bestiame) con vino e spezie. Kant riteneva che il nonno paterno fosse un immigrato scozzese, supposizione che non è possibile confermare: il bisnonno Richard era del Kurland, anche se due sue figlie erano effettivamente sposate con scozzesi. Il padre di Immanuel, Johann Georg Kant (1682-1746), era un sellaio originario di Memel, al tempo la città prussiana più settentrionale (oggi Klaipėda, in Lituania); la madre, Anna Regina Reuter (1697-1737), proveniente da una famiglia originaria di Norimberga e Tubinga, era una seguace del pietismo. Kant condivise dunque con molti illuministi tedeschi origini povere.

In età infantile frequentò la scuola dell'ospizio suburbano.

Al Collegium Fridericianum e all'università

L'educazione religiosa impartitagli dalla madre continuò anche nel Collegium Fridericianum, che Kant frequentò a partire dall'età di otto anni e il cui direttore era da poco diventato Franz Albert Schultz (1692-1763). Costui era allievo di Christian Wolff e importante esponente del pietismo, nonché professore di teologia: soccorse finanziariamente, così come fecero altri amici di Kant, gli studi dell'indigente ragazzo.

Al Collegio, indicato dalla gente di Königsberg come un "rifugio di Pietisti", aveva larghissimo spazio un rigoroso catechismo: Kant vi studiò molto il latino, l'ebraico (dall'Antico Testamento), poco il greco antico (limitato al Nuovo Testamento) e quasi per nulla le materie scientifiche. Kant ricorderà il Fridericianum come una "schiavitù giovanile", e anche avanti negli anni vi penserà con "paura e angoscia".

Nel 1737 muore la madre: Kant, tredicenne, la consegnò alla tomba il 23 dicembre.

Nel 1740, Kant, secondo miglior allievo della classe, uscì dal Collegio per intraprendere studi filosofici, di teologia, di letteratura latina e di matematica all'Università di Königsberg, la cosiddetta Albertina, dove fu allievo di Martin Knutzen (1713-1751), docente di logica e metafisica, egli stesso allievo di Wolff. Kant spese sei anni all'Albertina: l'interesse per Newton, scomparso nel 1727, ma anche per le scienze in generale, si manifestò proprio in questo periodo: grazie all'estro di Knutzen, Kant si legò alla fisica di Newton, che diventò per lui un modello di scienza esatta.

Nel 1746 morì il padre e Kant lasciò l'Albertina, procurandosi da vivere come maestro di casa, inizialmente presso il predicatore Andresch, poi presso il maggiore von Hülsen all'incirca fino al 1753, infine presso il conte Keyserling. È del 1746, pubblicato però tre anni dopo, il primo scritto, Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive, nel quale Kant si soffermò sul problema del calcolo dell'energia cinetica dei corpi. È questa un'opera dalla forte e chiara impronta illuministica: possiamo infatti ritrovarvi le prime tracce del suo "sapere aude", con il quale demolisce l'autorità dei pensatori precedenti in nome di nuove scoperte sorrette dall'intelletto, con un chiaro rinvio a Francesco Bacone.

La maturità

Nel 1755 ottenne la licenza di magister, mansione che esercitò per quindici anni. Non aveva però ancora uno stipendio fisso, in quanto pagato direttamente dagli studenti, e ciò lo obbligava a lavorare molto; preparava meticolosamente le lezioni, dimostrandosi un buon insegnante, piacevole da ascoltare. Nel 1770 lavorò come vice-bibliotecario presso la Reale Biblioteca, stesso anno in cui pubblicò la Dissertazione (Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova delucidatio), testo grazie al quale riuscì a ottenere la cattedra di metafisica e logica all'Università di Königsberg, dove svolse la professione sino alla morte avvenuta nel 1804, compiendo con scrupolosità i suoi obblighi accademici anche quando, per debolezza senile, gli divennero estremamente gravosi. È in questi anni che scrisse le sue tre più grandi opere: la Critica della ragion pura, la Critica della ragion pratica e la Critica del giudizio. Herder, che fu suo allievo negli anni 1762-1774, ha lasciato questa immagine di lui:
    « Io ho avuto la felicità di conoscere un filosofo, che fu mio maestro. Nei suoi anni giovanili, egli aveva la gaia vivacità di un giovane, e questa, credo, non lo abbandonò neppure nella tarda vecchiaia. La sua fronte aperta, costruita per il pensiero, era la sede di una imperturbabile serenità e gioia; il discorso più ricco di pensiero fluiva dalle sue labbra; aveva sempre pronto lo scherzo, l'arguzia e l'umorismo, e la sua lezione erudita aveva l'andamento più divertente. Con lo stesso spirito col quale esaminava Leibniz, Wolff, Baumgarten, Crusius, Hume, e seguiva le leggi naturali scoperte da Newton, da Keplero e dai fisici, accoglieva anche gli scritti allora apparsi di Rousseau, il suo Emilio e la sua Eloisa, come ogni altra scoperta naturale che venisse a conoscere: valorizzava tutto e tutto riconduceva a una conoscenza della natura e al valore morale degli uomini priva di pregiudizi. La storia degli uomini, dei popoli e della natura, la dottrina della natura, la matematica e l'esperienza, erano le sorgenti che avvivavano la sua lezione e la sua conversazione. Nulla che fosse degno di essere conosciuto gli era indifferente; nessuna cabala, nessuna sètta, nessun pregiudizio, nessun nome superbo, aveva per lui il minimo pregio di fronte all'incremento e al chiarimento della verità. Egli incoraggiava e costringeva dolcemente a pensare da sé; il dispotismo era estraneo al suo spirito. Quest'uomo, che io nomino con la massima gratitudine e venerazione, è Immanuel Kant: la sua immagine mi sta sempre dinanzi. »

La vita di Kant, priva di avvenimenti notevoli, fu dedicata interamente alle attività intellettive, a cui fece da cornice uno stile di vita regolare e abitudinario. La sua giornata cominciava alle cinque, subito dedicata al lavoro, e continuava con la colazione, poi una passeggiata, il riposo alle dieci. Non lasciò mai la sua città natale, neanche dopo la chiamata dell'Università di Halle che gli offriva uno stipendio più alto, un maggior numero di studenti e di conseguenza anche maggior prestigio. Era convinto che Königsberg fosse il posto ideale per i suoi studi.

La censura

L'unico fatto che uscì davvero fuori dai canoni di una vita completamente dedicata allo studio fu lo screzio che ebbe con il governo prussiano a seguito della seconda edizione, pubblicata nel 1794, dell'opera Religione nei limiti della semplice ragione, ma con l'incoronazione di Federico Guglielmo III la libertà di stampa venne ripristinata e Kant rivendicò la libertà di pensiero nel Conflitto delle facoltà, del 1798.

La morte

Morì nel 1804, per una malattia con sintomi riconducibili al morbo di Alzheimer, mormorando "Es ist gut" ("Va bene").

Sulla sua tomba vi è un epitaffio che recita un passo tratto dalla Critica della ragion pratica a significare la coerenza della sua vita, vissuta all'insegna della sua dottrina che ha rivelato all'umanità il riconoscimento della pochezza della sua esistenza di fronte all'opera del Creatore ma anche la scoperta, attraverso la bellezza della natura, della grandezza che è in ogni uomo che aspira al bene:
(DE)
« Zwei Dinge erfüllen das Gemüt mit immer neuer und zunehmender Bewunderung und Ehrfurcht, je öfter und anhaltender sich das Nachdenken damit beschäftigt: Der bestirnte Himmel über mir und das moralische Gesetz in mir. »
    (IT)
« Due cose hanno soddisfatto la mia mente con nuova e crescente ammirazione e soggezione e hanno occupato persistentemente il mio pensiero: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me. »

Le opere e il pensiero

Le fasi del pensiero kantiano

La filosofia di Kant si può dividere in due grandi momenti: il periodo definito "precritico", che arriva fino alla "gran luce" del 1769, propedeutica alla pubblicazione della Dissertatio nel 1770 e il periodo cosiddetto "critico" , (dal 1771 al 1790) che comprende: la Critica della ragion pura (1781), la Critica della ragion pratica (1788) e la Critica del Giudizio (1790), precedute da una notevole serie di opere minori scritte in età giovanile.

In seguito Kant si orientò sempre di più verso gli interessi teologici e di questo periodo sono due opere fondamentali del suo pensiero maturo: La religione nei limiti della semplice ragione, del 1793, e La metafisica dei costumi, del 1797. Segue nel 1798 L'antropologia dal punto di vista pragmatico e altre opere minori.

Durante la fase pre-critica Kant mantiene un pensiero filosofico che oscilla fra il Razionalismo e l'Empirismo di Hume al quale Kant riconosce il merito di averlo svegliato dal "sonno dogmatico" quando "sognava" e credeva al dogma che la metafisica potesse offrire una vera conoscenza:
 
« L'avvertimento di David Hume fu proprio quello che, molti anni or sono, primo mi svegliò dal sonno dogmatico e dette un tutt'altro indirizzo alle mie ricerche nel campo della filosofia speculativa »
   
(Immanuel Kant, Prolegomeni ad ogni metafisica futura che potrà presentarsi come scienza, 1783)

Attraverso quella che definì una rivoluzione copernicana Kant aprirà una nuova era per la filosofia indirizzata a ricercare la verità abbandonando la metafisica puntando lo sguardo sulle cose terrene così come per conoscere la verità Copernico la ricercò non nel moto apparente dei cieli ma in quello reale della Terra.

Nel 1770 pubblica infatti la dissertazione De mundi sensibilis atque intellegibilis forma et principiis, comunemente detta Dissertazione, che lascia intravedere i primi originali sviluppi della nuova filosofia critica kantiana. La Dissertazione segna pertanto una tappa fondamentale per lo sviluppo del suo pensiero, e può essere vista come una sorta di "trait d'union" tra la vecchia filosofia e la nuova filosofia critica che Kant delineerà compiutamente, ben dodici anni dopo, con la Critica della ragion pura nel 1781.

La Critica della ragion pura

Il tema principale trattato da Kant nella Critica della ragion pura è quello della conoscenza e della correlazione sussistente tra metafisica e scienza. Gli interrogativi che si pone sono come siano possibili la matematica e la fisica in quanto scienze e la metafisica in quanto disposizione naturale e in quanto scienza.

Il giudizio corrisponde per Kant all'unione di un predicato e un soggetto tramite una copula. Egli distingue quindi i giudizi analitici a priori, i giudizi sintetici a posteriori e i giudizi sintetici a priori.
Il giudizio analitico a priori

I giudizi analitici a priori sono tautologici perché affermano solamente ciò che è già noto e quindi non danno alcuna informazione aggiuntiva, sono però universali e necessari, ma non ampliano la conoscenza. L'esempio kantiano «Il triangolo ha tre angoli» è un giudizio analitico. Se io analizzo, scompongo il soggetto (triangolo) vedo che esso è costituito da diverse caratteristiche connesse col concetto stesso di triangolo: ha tre angoli, ha tre lati. Di queste caratteristiche, che conosco senza averne fatto esperienza (a priori), ne metto in evidenza una (ha tre angoli) nel predicato dove dunque non si dice niente di nuovo rispetto al soggetto. Un giudizio analitico può, semmai, aiutare a comprendere più facilmente i concetti impliciti contenuti in un soggetto ma non dà nuove informazioni e non ha un carattere produttivo; è però universale, vale per tutti gli uomini dotati di ragione, e necessario, una volta affermato non può più essere negato. Se dico che il triangolo ha tre angoli rimarrò fisso per sempre a quest'affermazione. Questo è il tipo di giudizio usato dai razionalisti.

Il giudizio sintetico a posteriori

Il giudizio sintetico accresce il mio conoscere, aggiungendo qualcosa di nuovo. Nel giudizio sintetico, così chiamato perché si può pronunciare in sintesi, in unione con l'esperienza, la connessione fra soggetto e predicato viene pensata "senza identità": il predicato contiene qualcosa di nuovo che non è compreso nel concetto del soggetto, come nell'esempio "alcuni corpi sono pesanti". Infatti alcuni corpi sono pesanti altri leggeri. Il fatto cioè che certi corpi siano leggeri non è compreso nel soggetto "corpi". L'elemento nuovo della "leggerezza" si potrà riscontrare solo dopo averne fatto esperienza.

Si ricordi che l'esempio kantiano  si rifà ad Aristotele, per il quale alcuni corpi - terra e acqua - sono per natura pesanti, mentre altri - aria e fuoco - sono per loro natura leggeri.

Il predicato, nel giudizio sintetico, è collegato al soggetto in forza dell'esperienza: i giudizi sintetici sono dunque a posteriori, si possono pronunciare solo dopo aver fatto esperienza e per questo essendo collegati alla sensibilità non hanno universalità e necessità ma sono estensivi della conoscenza. Questo è il tipo di giudizio usato dagli empiristi.

Il giudizio sintetico a priori

Il giudizio sintetico a priori è un giudizio che, pur ampliando la conoscenza, perché aggiunge qualcosa di nuovo nel predicato, che in questo caso non è implicito nel soggetto (come nei giudizi analitici), presenta i caratteri di universalità e necessità, perché non deriva dall'esperienza (infatti è a priori).

L'esempio kantiano di 7 più 5 eguale 12 mostra come il predicato (dodici) non è compreso, come nei giudizi analitici, nel soggetto, ma c'è qualcosa di più: il rapporto di addizione che in 5 e in 7 presi di per sé non hanno. Dunque questo giudizio per un verso non dipende dall'esperienza, e quindi è necessario e universale, e per altro verso nel predicato dice qualcosa che non era contenuto nel soggetto e quindi è estensivo della conoscenza.

La validità universale e la certezza che caratterizzano il giudizio sintetico a priori derivano infatti dalla possibilità dell'intelletto di «uscire a priori dal concetto», rivolgendosi all'intuizione pura attraverso la «guida» di un termine medio, cioè dello schema prodotto dall'immaginazione trascendentale. Quando cioè si passa da un concetto a un'intuizione per ottenere un giudizio sintetico a priori occorre stabilire un rapporto con la forma del senso esterno (forma pura spaziale) da parte del senso interno (forma pura temporale) autodeterminata intellettualmente attraverso l'identità dell'appercezione.

I giudizi sintetici a priori sono i fondamenti su cui poggia la scienza poiché accrescono il sapere (in quanto sintetici), ma non necessitano di essere riconfermati ogni volta dall'esperienza perché universali e necessari. In questo caso Kant ha una posizione nettamente distinta da quella di Hume, in quanto il filosofo scozzese, essendo empirista, riterrebbe necessaria ogni volta una conferma giacché a suo parere non si sarebbe in grado di dire che le cose in futuro non potrebbero cambiare.

La conoscenza umana

Giunto a questo punto Kant stabilisce un nuovo sistema conoscitivo per determinare da dove arrivino i giudizi sintetici a priori, se questi non derivano dall'esperienza. Questa nuova teoria della conoscenza è una sintesi di materia (empirica) e forma (razionale e innata). La prima è “la molteplicità caotica e mutevole delle impressioni sensibili che provengono dall'esperienza”. La seconda invece è la legge che ordina la materia sensibile indipendentemente dalla sensibilità. In questo modo la realtà non modella la nostra mente su di sé, ma è la mente che modella la realtà attraverso le forme tramite cui la percepisce. La realtà come ci appare in base alle forme a priori è il fenomeno, mentre la realtà così com'è, è indipendente da noi ed è inconoscibile. Quest'ultima è detta noumeno.

Kant definisce quindi la conoscenza come ciò che scaturisce da tre facoltà: la sensibilità, l'intelletto e la ragione. La sensibilità è la facoltà con cui percepiamo i fenomeni e poggia su due forme a priori, lo spazio e il tempo. L'intelletto è invece la facoltà con cui pensiamo i dati sensibili tramite i concetti puri o categorie. La ragione è la facoltà attraverso la quale cerchiamo di spiegare la realtà oltre il limite dell'esperienza tramite le tre idee di anima, mondo e Dio, ossia rispettivamente, la totalità dei fenomeni interni, la totalità dei fenomeni esterni e l'unione delle due totalità. Su questa tripartizione del processo conoscitivo si articola la Critica della ragione pura suddivisa in dottrina degli elementi e dottrina del metodo. La prima si occupa di studiare le tre facoltà conoscitive tramite l'estetica trascendentale (sensibilità) e la logica trascendentale, a sua volta suddivisa in analitica (intelletto) e dialettica (ragione).

La suddivisione della Critica della ragion pura può essere così schematizzata:


Dottrina trascendentale degli elementi

Estetica trascendentale

Kant usa il termine "estetica" intendendo il suo significato etimologico: aisthesis in greco significa "sensazione", "percezione". Infatti, in questa parte della Critica, Kant si occupa della sensibilità e delle sue forme a priori. La sensibilità svolge due ruoli nel processo conoscitivo. Il primo di questi è recettivo (passivo) ed è il procedimento attraverso cui prende i propri contenuti dalla realtà esterna. In seguito la sensibilità svolge il suo secondo ruolo (attivo) e cioè riordina le informazioni empiriche tramite le forme a priori. Queste sono lo spazio e il tempo. Lo spazio è la forma del senso esterno e si occupa dell'intuizione della sola disposizione delle cose esterne. Il tempo è la forma del senso interno e regola la successione delle cose interne.

Spazio e tempo, secondo Kant,

    * sono forme "pure" a priori dell'intuizione, che sussistono prima di ogni esperienza, entro le quali connettiamo i dati fenomenici; sono quindi "funzioni", ovvero modi di funzionamento della nostra mente;
    * sono trascendentali, in quanto, pur acquistando senso e significato solo se riferiti all'esperienza, tuttavia non appartengono a quest'ultima poiché esistono, come a priori, prima dell'esperienza;
    * sono inoltre necessari, dato che neppure se volessi potrei farne a meno nella conoscenza empirica;
    * sono infine universali, poiché appartengono a tutti gli uomini dotati di ragione.

Spazio e tempo hanno quindi natura intuitiva (cioè non subiscono la mediazione delle categorie), e non discorsiva in quanto non concepiamo lo spazio attraverso le percezioni sensibili dei diversi oggetti spaziali, ma intuiamo i vari spazi, riferiti agli oggetti, come un unico spazio (dimostrazione metafisica dell'apriorità dello spazio e del tempo).

Secondo Kant la matematica e la geometria sono sintetiche e a priori, in quanto la loro validità è indipendente dall'esperienza e aggiungono qualcosa di nuovo al soggetto. La geometria usa intuitivamente lo spazio e la matematica fa lo stesso con il tempo, basandosi sulla successione dei numeri, senza ricavarli da altro (dimostrazione matematica dell'apriorità dello spazio e del tempo).

Di conseguenza, essendo aritmetica e geometria basate su spazio e tempo, così come la sensibilità umana, esse possono essere applicate al mondo fenomenico.

Logica trascendentale

La logica trascendentale è determinata dalle tre forme a priori dell'intelletto: spazio, tempo e le cosiddette 12 categorie. Essa si divide in: Analitica Trascendentale e Dialettica Trascendentale.

Analitica trascendentale

L'Analitica trascendentale studia l'intelletto e le sue forme a priori. Kant ritiene che le intuizioni siano delle affezioni (passive) mentre i concetti sono funzioni (attive) che riordinano e unificano più rappresentazioni.

I concetti possono essere empirici, cioè derivare dall'esperienza, o puri, cioè essere contenuti a priori dall'intelletto. Ciascun concetto è il predicato di un giudizio possibile (esempio: il metallo [soggetto] è un corpo [predicato]) e tutti questi sono posti in alcune caselle a priori che sono i concetti puri. I concetti puri vengono chiamati da Kant categorie sull'esempio aristotelico. Tuttavia Kant ne elimina alcune che non hanno a che fare con l'intelletto puro ma con modi della sensibilità pura (tempo e luogo) e anche un modo empirico (moto) e alcuni concetti derivati (azione e passione). Differentemente da Aristotele, per il quale le categorie sono principi del pensiero logico e della realtà, quelle kantiane sono modi di funzionamento dell'intelletto che svolgono una funzione trascendentale di ordinamento dei fenomeni nel senso che sono forme a priori, precedenti ogni esperienza ma che nello stesso tempo acquistano valore e significato solo quando si applicano all'esperienza stessa. A ciascun giudizio Kant fa coincidere una categoria.

Dopo aver formulato questa teoria, Kant ne deve dimostrare la validità (deduzione trascendentale). In questo caso il termine deduzione implica la dimostrazione della legittimità di una pretesa di fatto. La deduzione riguarda il "quid iuris" (le cose come le giudichiamo) e non il "quid facti" (le cose come sono in realtà).

Per giustificare quindi ciò che ci garantisce che la natura obbedirà alle categorie, manifestandosi in esperienza come noi crediamo, Kant procede secondo questo ragionamento:

   1. l'unificazione del molteplice non è fatta dalla sensibilità (che è passiva), ma da un'attività sintetica che ha sede nell'intelletto;
   2. distinguendo l'unificazione dall'unità, Kant identifica la suprema unità fondatrice della conoscenza con il centro mentale unificatore, denominato "Io penso", che è comune a tutte le persone ed è quindi universale;
   3. l'io penso opera tramite i giudizi e cioè il modo in cui il molteplice dell'intuizione viene pensato;
   4. i giudizi si basano sulle categorie, cioè sui vari modi in cui l'io penso agisce.

Di conseguenza un oggetto non può essere pensato senza ricorrere alle categorie. Riassumendo:

    * tutti i pensieri presuppongono l'io penso;
    * l'io penso opera tramite le categorie;
    * tutti gli oggetti pensati presuppongono le categorie.

L'io penso è quindi il principio supremo della conoscenza umana, ma non deve essere inteso come creatore della realtà, ma solo come colui che l'ordina. Kant afferma «l'Io è il legislatore della natura». Di conseguenza l'interiorità necessita dell'esteriorità per essere concepita.

Kant deve quindi spiegare come le categorie possano operare sulla realtà fenomenica. Ciò avviene in quanto il tempo condiziona gli oggetti, ma è a sua volta condizionato dall'intelletto. Di conseguenza, tramite il tempo, l'intelletto è in grado di condizionare gli oggetti fenomenici. Questa soluzione richiama la dottrina dello schematismo, intendendo per schema la rappresentazione intuitiva di un concetto.

Con la dottrina dello schematismo trascendentale Kant abbina a ogni categoria aristotelica (quantità, qualità, etc.) una forma spazio-temporale, facendo vedere che le categorie sono leggi della mente in quanto lo spazio e il tempo senza oggetti sono un'astrazione che esiste solo nell'io-penso che li colloca sulla "cosa-in-sé" per ordinare il mondo. La sensibilità è la ricezione della "cosa-in-sé", la sua modellazione-ordinamento inconsapevole con lo spazio e il tempo e la visione cosciente del risultato. Essa non è un sogno scelto dall'io, ma un'interpretazione che dipende e varia con gli input che vengono dalla "cosa-in-sé" che è indefinita, ma non indeterminata.

Da qui Kant definisce i principi dell'intelletto puro, cioè le regole di fondo tramite cui avviene l'applicazione delle categorie agli oggetti. Questi sono quattro come le categorie:

   1. Assiomi dell'intuizione (categoria della quantità): affermano a priori che tutti i fenomeni intuiti costituiscono delle quantità estensive e per tanto sono conoscibili solo attraverso la sintesi successiva delle sue parti;
   2. Anticipazioni della percezione (categorie della qualità): affermano a priori che ogni fenomeno percepito ha una quantità intensiva e per tanto sono suddivisibili indefinitamente;
   3. Analogie dell'esperienza (categorie della relazione): affermano a priori che l'esperienza costituisce una trama necessaria di rapporti basata sui principi:
          * a) della permanenza della sostanza;
          * b) della causalità;
          * c) dell'azione reciproca;
   4. Postulati del pensiero empirico in generale (categorie di modalità): stabiliscono
          * a) ciò che è possibile;
          * b) ciò che è reale;
          * c) ciò che è necessariamente.

Le leggi particolari possono essere desunte soltanto dall'esperienza.

Il conoscere ha come limite l'esperienza, in quanto, procedendo oltre questa, non vi sono prove della sua fondatezza. Noi possiamo quindi solo conoscere la realtà fenomenica, cioè la realtà per-noi, ma mai la realtà in-sé. Questo "in-sé", che per noi è precluso, può essere conosciuto solo da un'eventuale intelligenza divina superiore, ma non può essere in rapporto conoscitivo con noi. Kant identifica l'"in-sé" con il termine greco noumeno. Kant distingue l'esperienza secondo due accezioni. La prima implica la sola esperienza sensoriale, la seconda invece comprende la totalità della conoscenza fenomenica, cioè la conoscenza sensoriale tramite le forme a priori della mente.
Dialettica trascendentale

In quest'ultima parte dell'opera Kant si occupa del problema della metafisica come scienza.

Ritorna nel pensiero kantiano il problema che aveva abitato la filosofia moderna da Cartesio in poi: il significato della realtà nella sua totalità e, quindi, la possibilità di fare della metafisica una scienza. La questione era stata accantonata dall'Illuminismo anglo-francese, che si era dedicato, con aspirazioni scientifiche, a ricerche in campi particolari secondo un criterio utilitaristico sia in ambito conoscitivo sia morale. Per Kant, la ragione non si limita a dominare il terreno dell'esperienza: anche generando errori e illusioni, essa tende ad agire nell'orizzonte della metafisica: «La ragione umana, anche senza il pungolo della semplice vanità dell'onniscienza, è perpetuamente sospinta da un proprio bisogno verso quei problemi che non possono in nessun modo esser risolti da un uso empirico della ragione... e così in tutti gli uomini una qualche metafisica è sempre esistita e sempre esisterà, appena che la ragione s'innalzi alla speculazione»

Con Kant s'attua il distacco sia dalla tradizione della metafisica razionalista (secondo la quale era possibile cogliere razionalmente la totalità), sia dalla tradizione illuminista settecentesca (che attribuiva alla ragione l'unico compito di dare rigore al sapere scientifico).

Il termine "dialettica" assume il significato di logica della parvenza, arte sofistica in grado di dare alla proprie illusioni l'aspetto della verità, a prescindere dal sapere fondato.
Nella dialettica trascendentale Kant intende motivare la necessità profonda che spinge l'uomo a indagare su argomenti che vanno oltre l'esperienza tramite ragionamenti fallaci. Ciò è dovuto al desiderio innato della mente umana che la spinge a voler trovare una conoscenza totale della realtà. Questo si fonda su tre idee trascendentali:
- l'anima: totalità dei fenomeni interni;
- il mondo (o cosmo): totalità dei fenomeni esterni;
- Dio: totalità di tutte le totalità e fondamento di ogni cosa.
A ciascuna di queste tre associa una scienza che, procedendo erroneamente oltre il limiti del pensiero, giunge a conclusioni sbagliate.

    * L'anima è studiata dalla psicologia razionale che è fondata, secondo Kant, su un paralogismo, cioè su un ragionamento errato che consiste nell'applicare la categoria di sostanza all'io penso rendendolo così una realtà eterna, spirituale, immortale, incorruttibile e personale. In realtà l'io penso è un'unita formale che non ha nessuna prova empirica e di cui quindi non è possibile conoscere nulla, ma è soprattutto una funzione logica a cui non si possono applicare le categorie che agiscono solo sugli elementi di derivazione empirica.

    * Il mondo è studiato dalla cosmologia razionale che pretende di riuscire a spiegare il cosmo nella sua totalità, cosa impossibile a partire dal fatto che è impossibile avere un'esperienza di tutti i fenomeni, ma si può avere solo di alcuni. Pertanto i metafisici, quando tentano di spiegarlo, cadono in procedimenti razionali contraddittori con sé stessi (antinomie) e cioè due ragionamenti egualmente validi e dimostrabili dal punto di vista razionale, ma opposti tra di loro e tra cui è quindi impossibile operare una scelta poiché manca un criterio valido. Le antinomie sono quattro: finità/infinità del mondo, semplicità/complessità del mondo, libertà/non libertà della causalità delle leggi di natura, ente necessario/contingente delle cause cosmiche.

    * Dio è invece l'oggetto di studio della teologia razionale, ma è al tempo stesso una concezione che trae le proprie origini da semplici passaggi razionali e non empirici. Per tanto nulla può essere detto sulla sua natura, ma i teologi hanno elaborato, per colmare questa mancanza, tre prove dell'esistenza di Dio:
          o Ontologica: Questa dimostrazione di Dio viene proposta per la prima volta da Sant'Anselmo d'Aosta. Delle tre prese in considerazione da Kant, questa è forse la più raffinata dal punto di vista logico, basandosi su di un solido ragionamento deduttivo a priori. Se Dio viene definito come l'essere perfettissimo, del quale non si può pensare niente di maggiore, non può esistere solo nella mente ma anche nella realtà. Da ciò segue che non si può pensare Dio come essere perfettissimo, senza postulare la sua esistenza, in quanto potrei pensare a un essere uguale, ma non esistente nella realtà, ma questa è una contraddizione interna al mio ragionamento, perciò Dio deve esistere anche nella realtà. Kant dice che questo ragionamento si basa su di un salto mortale metafisico, che dal piano logico passa al piano ontologico. L'idea di perfezione non contiene al suo interno l'esistenza, che quindi non può essere dedotta a priori, ma solamente a posteriori; Anselmo considerava l'esistenza un predicato, mentre è un quantificatore, come dimostrato da Gottlob Frege nei suoi Scritti postumi del 1986.
          o Cosmologica: La prova cosmologica dell'esistenza di Dio si basa sulle cinque vie di San Tommaso d'Aquino. Queste si basano sulla logica aristotelica. È evidente che il mondo sia regolato sul principio di causa-effetto, e risalendo a ritroso la catena causale si deve ammettere la presenza di una causa prima incausata, poiché se non esiste la causa, non esisterebbe l'effetto, ma se esiste l'effetto, deve necessariamente esistere la causa, che coincide con Dio. Kant sostiene che questo argomento è fondato sull'errata applicazione della categoria di causalità, utilizzata per passare dal mondo fisico-fenomenico al piano metafisico. Inoltre questa dimostrazione di Dio richiama implicitamente la prova ontologica, in quanto la causa è necessaria e perfetta non può fare a meno di esistere;
          o Fisico-teologica o Teleologica: Delle tre, questa è la prova più intimamente accettabile, poiché afferma l'esistenza di una realtà ordinata e strutturata, deve esserci una mente ordinatrice, che viene associata con Dio. Per spiegare l'ordine della natura, bastano le sole leggi scientifiche e non un essere metafisico. Da questo punto di vista, basterebbe soltanto un dio ordinatore e non creatore, quindi il Demiurgo platonico e non il Dio creatore cristiano. Perciò si ricade nella prova cosmologica, in quanto questo essere sarebbe la causa della natura.

L'uomo ha sempre preteso di dimostrare l'esistenza di un Essere che abbia le stesse caratteristiche del mondo (mirabile, saggiamente conformato, ecc.), ma trascura che queste caratteristiche sono determinate e relative a noi, che in quanto finiti non possiamo fare esperienza dell'infinito – ed è in fondo anche per questo motivo che il pensiero critico kantiano può essere definito "ermeneutica della finitudine", interpretazione del finito o filosofia del limite.
È comunque importante notare che Kant non assume una posizione atea né agnostica, in quanto egli non nega l'esistenza di Dio ma semplicemente la possibilità di dimostrarla, e ciò proprio con l'intento di salvare la fede. Secondo Kant, infatti, l'unico modo per sconfiggere lo scetticismo consiste nel mettere in salvo le verità metafisiche dal fallimento dei tentativi di dimostrarle razionalmente, approdandovi per una via diversa da quella teoretica. «Ho eliminato la scienza per far posto alla fede» scriverà nella prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura. La figura di Dio e le altre verità metafisiche saranno quindi oggetto di altri ambiti, di cui si occuperà la Critica della Ragion Pratica.

All'interno della pura speculazione filosofica invece, le idee trascendentali o metafisiche non hanno una funzione costitutiva ma soltanto regolativa. Esse rappresentano una sorta di idea limite verso le quali dirigere la conoscenza del mondo. Il concetto di noumeno perde così il suo attributo di esistenza, e rappresenta solo il concetto limite di ogni nostra idea, assumendo soltanto valenza logica. Per questo la filosofia kantiana viene chiamata filosofia del limite.

Su queste basi Kant opera un nuovo concetto di metafisica come "scienza dei concetti puri", intendendo ovvero la dialettica come "studio delle idee" (significato ripreso da Platone ma in senso trascendentale). Questa è divisa in "metafisica della natura", che studia i principi a priori della conoscenza della natura, e "metafisica dei costumi", che studia i principi a priori dell'azione morale.

La Critica della ragion pratica

Contrapposta alla ragione teoretica è la ragione pratica. Una volta negata la possibilità di una comunione universale, di un "mondus intelligibilis" (Kant non può che distinguere, secondo l'analisi eseguita sulla ragion pura, il mondo in fenomeno e cosa in sé), viene introdotta l'ipotesi di un'unità morale. La morale che propone Kant è uno studio sul giusto agire degli uomini che non prescinde dalle regole dettate dalla ragione, ossia l'etica per essere giusta deve seguire i percorsi della ragione, ed è pur sempre ragione, non teoretica, ma pratica.

In particolar modo Kant introduce il concetto di imperativo categorico, ovvero un comportamento è da considerare morale in modo categorico "senza possibilità di smentita" quando è universalmente riconosciuto, giusto in ogni momento e in ogni situazione umana. Questo comportamento diventa allora vincolante per la morale di tutti gli uomini, e una sua mancata applicazione significherebbe azione immorale.

L'idea è che l'uomo possa farsi guidare dalla ragione non solamente nel campo delle scienze ma anche nel campo della pratica morale dell'etica. In particolare l'imperativo categorico che deve guidare l'uomo come necessità volontaria non è una costrizione ma un aderire a una legge razionale che l'uomo stesso ha formulato per mezzo della propria ragione.
L'etica e l'imperativo categorico

Kant distingue fra massime e imperativi. Le massime sono prescrizioni di carattere puramente soggettivo (es. vendicarsi delle offese subite), invece gli imperativi sono prescrizioni di carattere oggettivo. Gli imperativi a loro volta si suddividono in imperativi ipotetici e in imperativi categorici. I primi si presentano nella forma "se... allora": possono essere regole dell'abilità (se vuoi essere un bravo medico devi...) o consigli della prudenza (se vuoi raggiungere il benessere devi...). Il rischio di una morale utilitaristica come quella cui più tardi pervenne l'inglese Bentham, portò il filosofo a cercare il fondamento della morale in un comando non condizionale, l'imperativo categorico.

Dimostrato che la ragione che pretende di parlare dell'incondizionato cade in contraddizione, una fondazione razionale e non contraddittoria della morale doveva escludere un imperativo non condizionale. Kant arriva a concludere che l'etica non è fondabile razionalmente ma che è un imperativo categorico che la volontà deve darsi liberamente.

Il fondamento dell'etica è lo stesso che fonda la ragione, quel principio di non contraddizione scoperto da Aristotele, che, prima che una legge logica, è una legge etica dell'Io. Una vita conforme alla ragione equivale a un obbligo di coerenza che vale sia nel pensiero sia nell'essere. L'Io è libero di negare questo principio, ma si limita a vivere nel mondo dell'opinione (non razionale) e della stoltezza (non etico).

Kant parte dalla volontà di dimostrare che l'io è legato al rispetto dell'etica, che considera un giudizio sintetico a priori che la ragione, dunque, conosce e può dimostrare. Lo vuole dimostrare perché è convinto che l'io è legato al rispetto dell'etica, quanto lo è del paradosso della sofferenza del giusto.

Non stupisce che postuli l'esistenza di un imperativo categorico o voce della coscienza, simile al demone socratico, che universalmente in ogni individuo spinge al rispetto di regole morali universali che si traducono in azioni differenti fra i vari contesti. Così il giudizio etico come il giudizio estetico varia nel tempo e a seconda della situazione, ma è sempre riconducibile in ogni individuo all'applicazione di regole universali che fanno agire per il giusto e contemplare per il bello, senza variare da individuo a individuo: le regole etiche ed estetiche sono le stesse in ogni individuo ed egualmente la loro applicazione: qualunque individuo purché razionale, nella stessa situazione, avrebbe fatto la stessa cosa e considerato bella una certa opera.

La ragione diventa l'ambito dell'universalità di tutti i giudizi, etici ed estetici, del loro tradursi in atti pratici. Il metro di valutazione del giusto può variare al massimo da una generazione di umani a un'altra, ma le regole alla base rimangono comuni, perché trascendentali a ogni spazio e a ogni tempo. Come si vede, le scelte etiche e la fruizione del bello sono ricondotti a principi collettivi: Kant non ha mai parlato dell'io singolare (sé stesso o gli altri); quando parlava dell'io, si riferiva sempre all'io trascendentale.

Un'etica con principi indipendenti dallo spazio e dal tempo è posta in essere dall'io, pur venendo prima (ossia a priori) dell'io, e la si può pensare innata. L'applicazione dei principi dipende invece dallo spazio e dal tempo, dal contesto in cui l'io si trova ad agire; tuttavia, spazio e tempo sono anch'essi realtà trascendentali, rispetto agli individui: l'etica dipende dallo spazio-tempo solamente in un contesto universale, comune a tutti (intersoggettivamente); nei sogni, che sono uno spazio-tempo soggettivo, diverso fra individui, ognuno è libero dall'etica entro certi limiti. Se l'individuo non domina su questa etica, poiché l'io soggiace a principi universali, nemmeno ne è dominato, dato che l'io è il protagonista del Regno dei Fini dove ogni persona è il fine delle azioni degli altri.

Scontrandosi con l'affermazione della libertà dell'uomo, l'etica kantiana non ha trovato esseri che agiscono necessariamente per il giusto; ha creato un ambito, quello della ragione, in cui l'io entrato liberamente ha accettato di "farsi costringere" dalla ragione al rispetto di certe regole, pena la perdita del godimento del bello che è negato ai bruti e di una consolante universalità dell'agire umano.

L'imperativo categorico in questo sistema è un postulato non fondabile, che forse lo sarebbe altrove; per Kant era prima di tutto un dato di fatto come lo era per il pietismo tedesco, da lui assimilato con la forte educazione materna basata su un senso etico molto potente. Filosofiche sono però le conseguenze, ovvero tre assiomi da ammettere come condizioni ineludibili di un agire coerente, secondo i quali:

    * sarebbe contraddittoria una ragione che comanda cose che siamo costretti a raggiungere, da cui la fondazione della libertà della volontà umana;
    * sarebbe contraddittoria una ragione che comandasse cose irraggiungibili, la cui affermazione si scontrerebbe con il paradosso della sofferenza del giusto, e richiede perciò una vita ultraterrena nella quale si afferma la giustizia fra gli "io", ripagando le ingiustizie, bloccando l'attività degli ingiusti, riservando il tempo e la libertà a chi ha scelto dalla parte della ragione di vivere secondo giustizia: da cui l'immortalità dell'anima;
    * l'esistenza di un Dio, più forte degli altri "io", con il ruolo di dare compensazione alle ingiustizie terrene e privare gli empi della libertà, impedendo il ripetersi di soprusi ultraterreni che riproporrebbero la contraddizione all'infinito; una divinità la cui azione si svolgerebbe principalmente o esclusivamente nell'altra vita, sensibilmente diversa dalle concezioni tradizionali che non concepirono mai una sorta di "Provvidenza ultraterrena".

L'imperativo categorico è pertanto un dato di fatto, un postulato, un giudizio sintetico a priori, un comando di razionalità che viene dalla ragione in quanto essa è universale. Nel conformarsi al suo dettato, la ragion pratica non è più vincolata dai limiti fenomenici in cui si trovava a operare la pura ragione, e perciò a differenza di quest'ultima sa attingere all'Assoluto, perché obbedisce soltanto alle leggi che scopre dentro di sé.

L'uomo si ritrova così ad appartenere a due mondi: in quanto dotato di sensi, egli appartiene a quello naturale, e perciò è sottoposto alle leggi fenomeniche di causa-effetto; in quanto creatura razionale, però, l'uomo appartiene anche al cosiddetto noumeno, cioè il mondo com'è in sé indipendentemente dalle nostre sensazioni o dai nostri legami conoscitivi, e perciò in esso egli è assolutamente libero, di una libertà che si manifesta nell'obbedienza alla legge morale che lui stesso si è dato.

La Critica del giudizio

La critica del giudizio analizza il sentimento attraverso una visione finalistica. I giudizi sentimentali costituiscono il campo dei giudizi riflettenti, i quali si limitano a riflettere su una natura già costituita mediante i giudizi determinanti e a interpretarla secondo le nostre esigenze di finalità e armonia. Mentre i giudizi determinanti sono oggettivamente validi, quelli riflettenti esprimono un bisogno che è tipico di quell'essere finito che è l'uomo. La critica del giudizio quindi è un'analisi dei giudizi riflettenti. I giudizi riflettenti sono di due tipi: estetici e teleologici, ed entrambi ci pervengono a priori.

    * I giudizi estetici vengono vissuti immediatamente e intuitivamente dalla nostra mente in relazione con l'oggetto e riguardano la bellezza dell'oggetto. È il sentimento che ci pervade quando rimaniamo estasiati dal bello. Questo è la chiave che la natura ci offre per farci scoprire, attraverso il simbolo della bellezza naturale, la sua finalità morale e la realtà di Dio, sommo Bene:

    « Il bello è il simbolo del bene morale »
   
(Immanuel Kant, Critica del giudizio, 1790)

    * I giudizi teleologici invece pervengono al fine dell'oggetto in relazione al mondo attraverso un ragionamento. Per esempio riflettendo sullo scheletro di un animale diciamo che esso è stato prodotto al fine di reggere l'animale. Il giudizio teleologico è il sentimento che ci pervade quando avvertiamo un'intima consonanza tra i fenomeni della natura e le nostre finalità etiche.

Il giudizio estetico

Kant nella Critica del giudizio analizza il bello dandone quattro definizioni, che delineano altrettante caratteristiche:

    * il disinteresse: secondo la "qualità" un oggetto è bello solo se è tale disinteressatamente, quindi non per il suo possesso o per interessi di ordine morale, utilitaristico ma solo per la sua rappresentazione;
    * l'universalità: secondo la "quantità" il bello è ciò che piace universalmente, condiviso da tutti, senza che sia sottomesso a qualche concetto o ragionamento, ma vissuto spontaneamente come bello;
    * la finalità senza scopo: secondo la "relazione" un oggetto è bello non perché sia il suo scopo esserlo ma perché un oggetto bello è tale nella sua compiutezza anche se non esprime alcun fine;
    * la necessità: secondo la "modalità", è bello qualcosa su cui tutti devono essere d'accordo necessariamente senza alcuna giustificazione razionale; anzi, Kant pensa che il bello sia qualcosa che si percepisce intuitivamente: non ci sono quindi "principi razionali" del gusto, tanto che l'educazione alla bellezza non può essere insegnata in un manuale, ma solo attraverso la contemplazione stessa di ciò che è bello.

Ovviamente Kant cerca di far luce sull'universalità del bello facendo la distinzione tra il piacevole legato ai sensi e quindi dato da giudizi estetici empirici privi di universalità e il piacere estetico puro che invece non subisce condizionamenti di alcun tipo (quindi universale); tra bellezza aderente riferita a un determinato modello come un edificio o un abito e bellezza libera appresa senza alcun concetto come la musica senza testo (ovviamente solo quest'ultima è universale).

Il filosofo trovandosi di fronte il problema della legittimazione dell'universalità del giudizio estetico decide di spiegarlo affermando che quest'ultimo nasce dall'armonia tra immaginazione (irrazionale) e intelletto (razionale); questo meccanismo, uguale in tutti gli uomini, dimostra che il gusto gode di universalità. La "rivoluzione copernicana" operata nella Critica della ragion pura, si ripropone nella Critica del Giudizio: il bello non è più qualcosa di oggettivo e ontologico ma l'incontro tra spirito e cose attraverso la mediazione della nostra mente (perché è sempre il soggetto alla base di tutto).

Il giudizio riflettente riguarda la soggettività e la sfera estetica, mentre quello determinante, proprio della conoscenza oggettiva già analizzata nella Critica della ragion pura, ha come finalità il perseguimento del “vero” e non del “bello”. Entrambi però hanno un principio comune, perché: « Il Giudizio in generale è sempre una facoltà di pensare il particolare come parte dell'universale ed è obbligato a risalire dal particolare della natura all'universale ». Il rapporto del particolare all'universale è perciò “dovuto” e quindi necessario e da ciò lo stretto rapporto tra il pensiero estetico e quello teleologico.

La natura è pura immanenza, non ha perciò caratteri di universalità perché si manifesta nel disomogeneo, nel differenziato, nel molteplice e nel particolare. Però nel giudizio viene sempre subordinata all'universale, quindi al divino che l'ha creata. Il sentimento individuale dà un giudizio estetico che è sempre solo soggettivo, ma tende all'unità oggettiva del trascendente. Elevandosi sopra la percezione sensibile va verso la contemplazione del trascendente.

Il concetto di bellezza va perciò riferito a un'idealità che è possibile definire e codificare in un canone, con il sentimento che deve sempre essere pilotato dalla ragione. La bellezza che si deve cercare è sempre quella “ideale”, che non può mai essere qualcosa di “incerto; il vero bello è sempre “definito” e fissato per il suo fine oggettivo e razionale. Kant così afferma che la bellezza teleologica è un a-priori e che: «La bellezza si esprime come la forma finalizzata dell'oggetto, percepita non in vista di alcun scopo pratico.» Perciò il sentire estetico, per quanto basato sulla libertà individuale, è veramente tale se mira alla necessità della sfera ideale e universale, in modo da sottrarsi all'accidentalità del particolare.

Nella Analitica del sublime, prima parte (2º Libro) della Critica del giudizio, Kant spiega, rifacendosi a precedenti teorie del sublime, che il sentimento va razionalizzato in un'analisi rigorosa. Ciò anche perché secondo Kant vi sono due tipi di sublime, il “matematico” e il “dinamico”, che vanno distinti. Il matematico è uno stato sintonico con l'infinito, il dinamico è il senso dell'inadeguatezza rispetto a un “troppo”. Il sentimento del sublime è quindi un sentimento dell'«assolutamente grande» attraverso una «dinamica dell'animo», mentre quello del bello «mette l'animo in una stasi contemplativa » Entrambi così danno piacere, ma di diverso genere e intensità.

Il sublime, assai più del bello, va “oltre” gli aspetti della natura immanente, andando verso la trascendenza del divino.

La filosofia della storia

La prima opera d'interesse per la concezione della filosofia della storia in Kant è l'Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico del 1784. Compaiono nel titolo le concezioni illuministe della storia considerata universale, nel senso che si prescinde dalle singole storie delle singole nazioni, volendo indicare la storia come appartenente a tutti gli uomini senza distinzioni: quindi essa non può essere che universale e cosmopolita così come nel suo Saggio sui costumi la definiva Voltaire, a cui d'altronde risale anche l'espressione filosofia della storia (in La philosophie de l'histoire del 1765).

La riflessione kantiana sulla storia troverà poi un ulteriore approfondimento nello scritto Per la pace perpetua: un progetto filosofico del 1795, dove si terrà conto della situazione storica contemporanea profondamente mutata con lo scoppio della Rivoluzione francese.

Il discorso sulla filosofia della storia troverà infine la sua conclusione ne Il conflitto delle facoltà (1798), dove si analizza lo scontro tra le facoltà universitarie per conquistare il primato nel mondo accademico. Quest'ultimo scritto sembrerebbe estraneo al tema della filosofia della storia se non si considerasse quanto dice Kant in un breve frammento: «Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio.» Qui comincia ad apparire una certa vena di scetticismo per cui Kant inizia, con la visione del Terrore giacobino sotto gli occhi, ad avere dei dubbi sull'effettivo valore della Rivoluzione francese.

Idea per una storia universale...

In particolare nell'Idea per una storia universale... Kant afferma che «poiché gli uomini, nei loro sforzi, non si comportano semplicemente in modo istintivo, come gli animali, ma neppure in modo prestabilito [...] di loro non pare possibile una storia sistematica, come ad esempio quella delle api o dei castori» per cui non esiste una storia progressiva ed eterna, quasi regolata da quelle stesse leggi che regolano la natura, poiché l'uomo è in grado di costruire liberamente la sua storia ma non è detto che lo faccia perseguendo il bene. Aggiunge Kant: «non si può trattenere un certo fastidio a vedere rappresentato il loro [degli uomini] fare e omettere sulla grande scena del mondo, e pur con l'apparenza, di tanto in tanto, della saggezza [...] si trova il fare e omettere intessuto di vanità infantile», tanto che le azioni umane, sia pure talora guidate dalla razionalità, il più delle volte sembrano dirette a mettere in opera il male, quasi senza rendersene conto, come fanno i bambini nella loro ingenuità. Allora «Per il filosofo non c'è altra via d'uscita [...] che quella di tentare se, in questo assurdo andamento delle cose umane, possa scoprire uno scopo della natura»: il filosofo cioè non può rinunciare ad avere fiducia negli uomini e quindi si domanda se alla fine, nonostante l'infantile e stupido agire degli uomini, non vi sia una sorta di laica provvidenza storica che, incarnatasi nella natura, guidi gli uomini e le loro azioni verso i migliori fini («tutte le disposizioni naturali di una creatura sono destinate a dispiegarsi un giorno in modo completo e conforme al fine»). Una storia dove gli uomini come marionette sono manovrati per mettere in atto «una storia secondo un determinato piano della natura» che persegue i suoi fini anche contro la stessa volontà degli uomini.

Il conflitto delle facoltà

Dubitando che «il genere umano sia in costante progresso verso il meglio», quale sarà allora, si chiede Kant, il futuro della storia umana? Ragionevolmente si possono ipotizzare tre strade:

    * quella terroristica: una storia cioè indirizzata al sempre peggio, con una conclusione visionaria apocalittica e con la vittoria dell'Anticristo, che segni la fine della storia.

Concezione questa poco accettabile, poiché in questo modo la storia «distruggerebbe se stessa» a meno che non la si intenda come millenarismo, per cui dalla massima negatività e dalle macerie della vecchia storia non avvenga la nascita di una nuova e migliore storia;

    * quella abderistica, della follia e stupidità degli abitanti di Abdera. Gli uomini si aggirano in una storia senza senso, in un guazzabuglio caotico compiendo azioni insensate: «si rovescia - dice Kant - il piano del progresso, si costruisce per poter abbattere». Come il mitico Sisifo, gli uomini si affannano a costruire l'edificio della storia che però essi stessi distruggeranno, per ricominciare poi daccapo.

Una storia ferma quindi, che si muove per tornare su i suoi stessi passi. Una storia naturale come quella degli animali, che non può essere progressiva perché dominata dall'istinto che li guida sempre allo stesso modo; una storia questa che non può appartenere agli uomini perché essi seguono nelle loro azioni il lume della ragione.

    * quella eudemonistica, quella felicemente, ma non inevitabilmente, progressiva. Poiché l'uomo è libero, osserva Kant, non è detto che egli scelga sempre e comunque di realizzare il bene per cui se «quand'anche fosse provato che il genere umano [...] abbia a lungo progredito e possa ancora progredire [...], nessuno può sostenere che non possa ora iniziare il suo regresso».

L'uomo è un legno storto, una mescolanza di bene e male, che rende difficile, ma tuttavia non impossibile, una visione ottimistica della sua storia. Kant vuole a tutti i costi avere fiducia nell'uomo e cerca riscontri in avvenimenti storici che confortino la sua speranza che da un legno storto possa nascere un albero dritto.

Questo evento storico che possa dare conforto alla fiducia in una storia progressiva, Kant lo identifica nella Rivoluzione francese che va considerata in modo distaccato - secondo un giudizio storico, avrebbe detto Benedetto Croce - e non lasciandoci trascinare da un passionale giudizio morale che ce la farebbe considerare come una congerie di «fatti e misfatti». Una giusta visione sarà quindi quella per cui «La Rivoluzione di un popolo di ricca spiritualità [...] può riuscire o fallire, essa può accumulare miseria e crudeltà tali che un uomo benpensante esiterebbe a ripeterla», ma essa «trova negli spiriti di tutti gli spettatori [...] una partecipazione e aspirazione che rasenta l'entusiasmo». Questo consenso universale è il segno che anche un fatto storico così imbevuto di violenza segna comunque un progresso della storia.

La libertà politica

Il Diritto

Secondo Kant, il diritto consiste nella «limitazione della libertà di ciascuno alla condizione che essa si accordi con la libertà di ogni altro».

La libertà di ognuno coesiste con la libertà degli altri. Ovviamente l'uomo kantiano non può non avere bisogno di un padrone, data la facilità con cui cede all'istinto egoistico. Ma il padrone non è un altro uomo, bensì il diritto stesso.

Kant analizza l'uomo e in lui trova una tendenza egoistica, ovverosia una "insocievole socievolezza".
    « Ogni cultura e arte, ornamento dell'umanità, e il migliore ordinamento sociale sono frutti dell'insocievolezza, la quale si costringe da sé a disciplinarsi e a svolgere quindi compiutamente con arte forzata i germi della natura »
   
(Immanuel Kant, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, 1784)

Alla fine dunque gli uomini tendono a unirsi in società, ma con una riluttanza a farlo davvero, con il rischio di disunire questa società. In poche parole: si associano per la propria sicurezza e si dissociano per i propri interessi. Ma è proprio questa conflittualità a favorire il progresso e le capacità del genere umano, perché lottano per primeggiare sugli altri, come gli alberi: «si costringono reciprocamente a cercare l'uno e l'altro al di sopra di sé, e perciò crescono belli dritti, mentre gli altri, che, in libertà e isolati fra loro, mettono rami a piacere, crescono storpi, storti e tortuosi».

La libertà e i limiti dello Stato

Kant non ignora affatto le tesi lockiane sul liberalismo, perché anche lui afferma che lo Stato mira a garantire la libertà di ogni persona contro chiunque altro. Lo "Stato repubblicano" che delinea si basa su "Tre principi della ragione":

    * La Libertà (in quanto uomo).
    * L'Uguaglianza di tutti quanti di fronte alla legge (in quanto sudditi).
    * L'Indipendenza dell'individuo (in quanto cittadino).

Questa visione dello Stato va in conflitto con un qualsiasi dispotismo presente, anche paternalistico. Contrariamente all'ammirazione dei filosofi a lui contemporanei per i cosiddetti sovrani illuminati Kant diffida della politica che ha come guida l'uso della forza:
    « Non c'è da attendersi che i re filosofeggino o che i filosofi diventino re, e neppure è da desiderarlo, perché il possesso della forza corrompe il libero giudizio della ragione »
   
(Immanuel Kant, Per la pace perpetua, 1795)

Secondo Kant infatti, «un governo paternalistico è il peggiore dispotismo che si possa immaginare», dato che costringe i sudditi ad attendere che il capo dello Stato giudichi solo mediante la sua bontà.

C'è solo una soluzione a questo problema: «essere liberi per poter esercitare le proprie forze nella libertà».

Teologia

Un interesse specifico Kant ebbe per la teologia di cui è intrisa la sua speculazione. Ne sono chiara testimonianza le numerose opere di carattere teologico come L'unico argomento possibile per la dimostrazione dell'esistenza di Dio pubblicato nel 1763, la Ricerca sulla chiarezza del principio della teologia naturale e della morale (1764), Sull'uso dei principi teologici nella filosofia del 1788, La religione nei limiti della sola ragione pubblicato nel 1793, una Dottrina filosofica della religione (uscita postuma nel 1817).

Ma è tutto il suo pensiero a essere fondato sulla realtà di Dio e sul modello morale da Lui posto come itinerario verso la santità morale. In La religione nei limiti della sola ragione Kant riassume in funzione religiosa il suo metodo, già preparato nelle precedenti Critica della ragion pura e nella Critica della ragion pratica, per arrivare a definire la sua filosofia cristiana basata sull'idea morale dell'Imperativo come dovere dell'uomo di diventare degno di Dio.

Ne La religione nei limiti della sola ragione Kant dice che l'umanità tende a Dio per il dovere di realizzare la "perfezione morale". L'uomo morale è santo, «È il solo gradevole a Dio». Ma proprio in questo scritto propone il concetto del male radicale, sull'impossibilità di raggiungere un simile scopo con le sole nostre forze e senza ricorrere a un «completamento soprannaturale» tramite la grazia divina.

In un tardo scritto dell'Opus postumum scrive che Dio farà in modo che si realizzi il suo regno anche sulla terra, però anche l'uomo deve fare la sua parte «Ma non è permesso all'uomo di restare inattivo e di lasciar fare alla Provvidenza [...]. Il compito degli uomini di buona volontà è "Che venga il regno di Dio e sia fatta la sua volontà sulla terra.»

In una lettera al suo grande amico Stäudlin nel maggio del 1793 afferma che tutto il suo lavoro speculativo è rivolto alla riforma della filosofia in funzione della religione, perché il fondamento della propria formazione culturale è «principalmente nelle cose di religione» (O. P. Akademie-Ausgabe, Prima Edizione, vol. VIII, p. 41)

Contributi nell'astronomia

Un certa fama postuma venne a Kant dalla sua ipotesi cosmogonica esposta nel 1755 nell'opera Storia naturale universale e teoria dei cieli, dove propose la teoria del collasso di una nebulosa per spiegare la formazione del Sistema solare. La teoria venne poi ripresa e rielaborata da Laplace ed è diventata nota come ipotesi di Kant-Laplace. La tesi durante tutto l'Ottocento ebbe molto credito ma nel Novecento risultò superata dalla nuova astrofisica. Inoltre egli pensò anche alle galassie quali "Universi-Isola" ma in modo impreciso e vago. C'è qualcuno che attribuisce anche a Kant di aver precorso la definizione del concetto di buco nero. Egli affermò: «Se l'attrazione agisce sola, tutte le parti della materia dovrebbero avvicinarsi sempre più, e diminuirebbe lo spazio che occupano le parti unite, di modo che si riunirebbero finalmente in un solo punto matematico».

Kant e il kantismo

La fama di Kant, che gli permise di esercitare un notevole influsso sul pensiero europeo a cavallo tra Settecento e Ottocento, è stata tradizionalmente attribuita non solo alla sua capacità di accogliere le istanze provenienti da due tradizioni filosofiche contrapposte come il razionalismo europeo e l'empirismo anglosassone, ma anche di averne tentato una riformulazione in chiave del tutto nuova e originale.

Kant volle armonizzare il ragionamento di tipo matematico con quello di tipo sperimentale e in questo senso si può dire che egli raccoglie l'eredità di Galilei, che tuttavia era essenzialmente uno scienziato. Kant invece lasciò a sé stesso il compito di giustificare tale accordo tra matematica ed esperimento sul piano filosofico: compito che Kant si assunse e per questo fu da molti considerato, più che un punto di approdo, come l'inizio di un nuovo modo di filosofare.

Difficoltà e problemi

La distinzione tra sensibilità e intelletto che ne era conseguita, e che aveva permesso a Kant di ricondurre la conoscenza umana a due fonti separate, fu in particolare al centro di un vivo dibattito, tanto più che essa veniva situata al di qua di un ulteriore dualismo tra fenomeno e noumeno.

Contro l'idealismo di Berkeley Kant aveva infatti ammesso che oltre i limiti del sensibile esistono dei corpi reali, i quali, colpendo la nostra sensibilità, determinano l'insorgere in noi delle rappresentazioni fenomeniche. Ma poiché ogni rappresentazione subisce inevitabilmente l'impronta dell'apparato soggettivo che la riceve, veniva ad aprirsi un salto incolmabile tra le apparenze sensibili e la cosa in sé: quest'ultima restava così del tutto ignota e inattingibile. Fu per questo motivo che Kant ricevette le accuse di fenomenismo e agnosticismo.

Ben presto si pose quindi il problema di come salvare la natura del criticismo affrontando le difficoltà che Kant aveva involontariamente sollevato. Friedrich Heinrich Jacobi per primo mise in evidenza come Kant avesse assegnato al noumeno una funzione causale, l'avesse cioè utilizzato come "causa" dell'insorgere in noi dei fenomeni. Ciò contrastava non solo col carattere inconoscibile della cosa in sé, ma anche con la concezione kantiana della causalità come categoria dell'intelletto valida solo per i fenomeni, mentre Kant l'aveva usata in un ambito che travalicava i fenomeni stessi.
Lo stesso genere di critiche fu mosso anche da Gottlob Ernst Schulze, secondo il quale Kant, postulando la cosa in sé, sarebbe caduto nel dogmatismo che voleva combattere. Kant infatti, ammettendo la necessità di supporre il noumeno, avrebbe fatto derivare dalla pensabilità di un oggetto la sua esistenza, e non sarebbe pertanto riuscito a superare lo scetticismo anti-metafisico di David Hume.

Sul fronte opposto, già con Karl Leonhard Reinhold nel 1787 le critiche a Kant si erano di fatto tramutate in una prospettiva idealistica che mirava esplicitamente a eliminare la cosa in sé. Tra gli altri, Salomon Maimon fu tra coloro che cercarono di dare maggior rigore al criticismo esprimendo l'esigenza di attenersi a ciò che è contenuto nella coscienza, senza andare alla ricerca di fittizie cause esterne; il noumeno ad esempio fu da lui paragonato a un numero immaginario. Sarà poi con Johann Gottlieb Fichte, e ancor più con Friedrich Schelling, che le critiche a Kant assumeranno sempre più una valenza ontologica: l'errore di Kant sarebbe stato infatti quello di partire da una conoscenza necessaria e universale senza basarsi sull'ontologia, ma è proprio da questa che scaturisce il necessario e l'universale. Fichte racchiuse così l'essere dentro l'autocoscienza, trasformando la cosa in sé nel momento trascendentale di auto-formazione del soggetto.