ARDIGÒ, Roberto.

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Filosofo e pedagogista italiano (Casteldidone 1828-Mantova 1920).

Fu uno tra i più notevoli filosofi italiani dell'ultimo quarto del sec. XIX. Sacerdote, dopo lunga crisi lasciò la veste talare (1871) ritenendola oramai incompatibile con le convinzioni antimetafisiche che era andato maturando ed esprimendo nel discorso su Pomponazzi (1869) e nella Psicologia come scienza positiva (1870). Con La formazione naturale nel fatto del sistema solare (1877), Il vero (1891), La ragione (1894), L'unità della coscienza (1898) elaborò una forma originale di positivismo, caratterizzato da: una concezione della filosofia come peratologia, cioè scienza che va oltre le scienze particolari, di cui pur costituisce la sintesi; una critica del concetto di inconoscibile come assoluto e incondizionato, proposto da H. Spencer, cui Ardigò oppone un concetto di inconoscibile equivalente al semplice ignoto (cioè “non ancora” noto); una definizione dell'evoluzione in termini psichici (perciò come passaggio dall'indistinto al distinto) anziché nei termini biologici propri di Spencer; una dottrina del “caso”, con la quale attenuava il determinismo rigoroso tipico del positivismo; una dottrina morale (La morale dei positivisti, 1889), che vede l'origine dei doveri e delle idealità morali non in un valore ma in un principio psicologico: l'interiorizzazione delle norme sociali.

Anche sul piano pedagogico (La scienza dell'educazione) Ardigò applica il procedimento evolutivo nei termini di indistinto e distinto, ma considera che esso debba essere corretto con l'impiego di “anticipazioni” che sono in realtà “i simboli riassuntivi della sapienza dell'umanità passata”; l'individuo è così in grado di servirsi dei risultati dell'attività culturale delle generazioni precedenti.

Per Ardigò l'educazione è una somma di abitudini acquisite per mezzo dell'esercizio che deve essere opportunamente stimolato: in questa programmatica e scientifica stimolazione è l'essenza del fatto educativo.

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Txt.: La psicologia come scienza positiva

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DBI

di Alessandro Bortone

Nacque a Casteldidone (Cremona) il 28 genn. 1828, da Ferdinando e da Angela Tabaglio. Per le condizioni d'indigenza in cui era caduto, il padre nel 1836 si trasferì con i familiari a Mantova, dove poté occuparsi come custode di un magazzino. L'A., dopo aver compiuto nel 1845 gli studi ginnasiali, ottenne l'aiuto di una famiglia mantovana, che lo investì di un beneficio ecclesiastico di trecento lire annue. In tal modo egli, che per l'educazione ricevuta dalla madre sentiva un'inclinazione vivissima al sacerdozio, poté essere accolto nel locale seminario e iniziarvi gli studi liceali. Conclusi questi, cominciò nel 1848 il corso di teologia nel seminario vescovile di Milano, in cui aveva ottenuto un posto gratuito; ma tornò a Mantova in quello stesso anno e poi, per il minacciato assedio della fortezza, si ritirò a Rivarolo Fuori. Passò quindi nel 1849 a Quingentole, ove, sotto la guida di Luigi Martini, parroco di Ostiglia, era stato allora aperto, per i chierici di provincia, il seminario mantovano. Quando per gli eventi bellici fu chiuso, il Martini condusse a Ostiglia l'A., che tenne in seguito presso di sé, per quasi un ventennio, anche a Mantova, ove si trasferì nel 185o. Terminato a Mantova il corso di teologia, l'A. fu ordinato prete il 22 giugno 1851.

Il clero mantovano in mezzo al quale si formò l'A. era in genere colto e di sentimenti liberali, attestati dalle persecuzioni della polizia austriaca che culminarono nelle condanne a morte del 1851, 1852e 1853. Esso aveva il suo centro ideale nel seminario: tra gli insegnanti la figura eminente era quella di Enrico Tazzoli, titolare dal 1836 di filosofia e di storia universale. Conoscitore dell'opera del Galluppi, della quale si valeva nell'insegnamento, di quella del Rosmini e soprattutto di quella del Gioberti, il Tazzoli, che seguiva attentamente l'attività pubblicistica del Lambruschini, del Vieusseux, del Valerio, del Cattaneo, ed era in relazione con l'Aporti, propugnava la necessità per il clero di un'istruzione razionale e positiva, che facesse largo posto alle scienze, e perseguiva un ideale di religiosità illuminata, operosa e non soffocata da sovraccarichi cultuali e teologici. Di particolare rilievo era, anche se avanzata cautamente, la sua affermazione dell'opportunità di sottoporre a disamina razionale i fondamenti e gli atti di ogni autorità, sia politica sia religiosa.

Legati al Tazzoli da comunanza di ideali politici e di orientamento culturale erano Giuseppe Muti, seguace, pare, del Galluppi, e Giuseppe Pezzarossa, commentatore del Rosmini: durante il corso degli studi dell'A. in seminario, il primo fu docente di religione e poi di teologia morale, il secondo di eloquenza sacra e di archeologia biblica. Il Martini insegnava dogmatica, pastorale ed ermeneutica. La cosiddetta "sconsacrazione" del Tazzoli, avvenuta nel novembre del 1852 per ordine di Roma alla vigilia della sua uccisione a Belfiore, segnò il prodursi di una profonda frattura tra la parte liberale del clero mantovano e le superiori gerarchie ecclesiastiche.

Tale frattura, più tardi, si ritrova configurata, in numerosi passi autobiografici dell'A., nell'opposizione di religione illuminata e razionale e di clericalismo politico, e indicata come la prima - in ordine cronologico - delle circostanze che lo condussero all'apostasia. Ad approfondire nell'A. la coscienza di quell'opposizione contribuirono da un lato la familiarità sua con il Martini, che dei "martiri di Belfiore" fu assistente spirituale e poi, nel Confortatorio, apologeta, nonché la vicinanza di altri ecclesiastici liberali (quali Giovanni Battista Avignone, rettore del seminario prima del 1859,e Giovanni Corti, vescovo dal 1847al 1868), dall'altro la politica perseguita dalla Chiesa e, in particolare, le vicende della sua diocesi. Dopo che per determinazione pontificia erano stati destituiti tutti i professori del seminario, eredi della tradizione tazzoliana, e congedati gli allievi, nel dicembre del 1871 fu inviato a Mantova il vescovo Pietro Rota, notissimo per l'asprezza dei suoi sentimenti antiliberali e antinazionali, con l'ordine, tra l'altro, di rimuovere il Martini dalla carica di vicario e di rinnovare la curia. I fermenti antiautoritari profondamente radicati nella diocesi mantovana si espressero allora, tra le fila del clero, in più d'una apostasia e sfociarono, per quanto concerne il laicato, nelle elezioni popolari di parroci del 1873e 1874.

Divenuto prete, l'A., che per la morte dei genitori doveva provvedere al sostentamento di tre fratelli minori, tenne fino al 1854 l'incarico di prefetto disciplinare assegnatogli sin dal 1851 nel seminario mantovano; ma già nel 1852-53, dopo aver sostenuto l'esame di abilitazione prescritto, vi era diventato maestro di terza elementare. Era l'inizio di una carriera, che "a passo a passo, penosissimamente" (Opere filosofiche, II, p. 4oo) doveva condurlo alla cattedra universitaria. Nell'autunno del 1854 si recò a Vienna, avendo ottenuto un posto di perfezionamento nell'Istituto di teologia sublime di S. Agostino, annesso alla facoltà teologica dell'università; ma, trovatosi subito a disagio per il genere di studi a lui non congeniale, tornò dopo pochi giorni a Mantova. Ripreso l'insegnamento, fu docente nel ginnasio del seminario: dapprima di geografia, storia e italiano, poi di italiano, storia naturale e fisica, quindi, nel 1856, di lingua tedesca. Vi insegnò sino al 1867. Il 16 apr. 1856 l'A. fu assunto come catechista interinale nell'Imperiale regio ginnasio liceale di Mantova: nel dicembre divenne supplente. Soltanto il 21 ott. 1865 fu nominato catechista effettivo, per le quattro classi superiori. Dal novembre del 1864 ottenne, in via suppletoria, l'incarico di filosofia nel medesimo ginnasio liceale.

Il 3 maggio 1866, presentatosi all'università di Padova alla commissione del Regno lombardo-veneto per gli esami degli aspiranti alle cattedre ginnasiali, l'A. fu dichiarato idoneo all'insegnamento della filosofia. Dopo l'unione di Mantova al Regno d'Italia, l'A. sollecitò più volte la nomina a titolare di filosofia. Per il risultato favorevole dell'ispezione ministeriale fattagli il 4 giugno 1867 da Giulio Carcano ebbe la conferma dell'incarico, e poi, con decorrenza 1º ag. 1869, fu nominato, titolare di filosofia. Lasciò allora l'insegnamento della religione. Dal 1º genn. del 1862 a tutto il 1867 l'A. fu consigliere per il tribunale delle cause ecclesiastiche; il 26 luglio 1863 fu assunto al canonicato dei SS. Filippo e Giacomo, nella cattedrale; dal 28 apr. 1865 fu fabbriciere della cattedrale.

Conclusi nel 1851 gli studi in seminario, l'A. li aveva continuati privatamente con somma assiduità. Tali studi furono di triplice ordine: di teologia, soprattutto dogmatica e apologetica; di storia della filosofia; di scienze naturali, segnatamente di fisiologia. Dei primi rimane testimonianza nella polemica condotta dall'A., tra il luglio e il settembre del 1867, a difesa della confessione auricolare, contro alcuni scritti comparsi sulla mantovana Favilla a firma prima di un certo Eugenio Pettoello e poi del teologo evangelico Luigi De Sanctis, direttore del fiorentino Eco della verità.

L'A. si limitò a difendere, con innumerevoli citazioni, l'assunto che la confessione auricolare nella storia della Chiesa è sempre esistita. Le sue pagine, raccolte in opuscolo quello stesso anno, offrono marginalmente spunti di un certo interesse, quali i giudizi di condanna della teoria teocratica, della persecuzione degli eretici, dell'Inquisizione. Ambiguo è un accenno alla infallibilità papale.A questo primo ordine di studi l'A. scrisse poi di essersi dedicato nell'intento di combattere i dubbi precocemente sorti nel suo animo circa le istituzioni e i dogmi della Chiesa. Gli studi di filosofia dell'A. dapprima concernettero, per sua testimonianza, i grandi autori greci e medievali, in particolare Agostino e Tommaso, e in special modo la Summa theologica di quest'ultimo; in un secondo tempo si orientarono verso gli autori moderni, e i suoi interessi si polarizzarono allora sul problema gnoseologico.

Dagli studi di scienze naturali, mai trascurati e condotti sulla letteratura più recente, come dall'approfondita conoscenza del pensiero filosofico rinascimentale, l'A. trasse poi soprattutto il concetto della natura come insieme unitario di fenomeni retti da intrinseche leggi e il convincimento dell'eccellenza del metodo sperimentale. Più tardi, l'A. attribuì grande importanza, nella storia della propria evoluzione intellettuale, alla lettura da lui fatta del discorso di Pasquale Villari su La filosofia positiva e il metodo storico (1866). Indizio della sua insoddisfazione per le posizioni speculative tradizionali può considerarsi l'abbandono, nell'insegnamento al liceo, a partire dal 1867-68, dei consueti compendi di filosofia. È anche indicativo che a Giulio Carcano, nel giugno del 1867, il suo insegnamento apparisse improntato all'eclettismo. Il 17 marzo 1869, in occasione della festa del suo liceo, denominato "Virgilio" dal 21 giugno 1867, l'A. lesse un discorso su Pietro Pomponazzi.

Nel Discorso, celebrata l'irresistibile efficacia del pensiero nel determinare il progresso umano, si esaltano la Riforma, insorta contro le "innaturali pretese di una assorbente autorità", la Rivoluzione francese, "che promulgò le nuove tavole dei diritti dell'uomo", e il Rinascimento, che pose i principî razionali da cui nacquero le moderne scienze positive. In particolare, al Pomponazzi l'A. ascrive il merito di avere intuito il principio della naturalità dei fenomeni, cioè della loro universale connessione sotto leggi puramente naturali, di avere esteso tale principio al mondo morale, di aver portato nelle indagini filosofiche il metodo positivo dell'osservazione e infine di aver sostenuto "la necessità assoluta dell'organismo per tutti indistintamente gli atti del pensiero".

Il discorso, subito stampato, fu messo all'Indice con decreto del 1º giugno 1869. Il 4 settembre successivo giunse poi al Martini, allora vicario capitolare, l'ordine di sospensione a divinis dell'A., colpevole di mancata ritrattazione. All'ordine l'A. si rassegnò, dichiarando tuttavia di ritenerlo ingiusto e dettato non da zelo di religione, ma da spirito di partito, convinto com'era dell'ortodossia delle proprie teorie (che gli parevano identiche a quelle sostenute da A. Secchi nell'Unità delle forze fisiche): espresse perciò la ferma risoluzione di non rinnegare nulla di ciò che aveva detto e stampato. Invano il Martini, che giudicava allo stesso modo il provvedimento, ne chiese la revoca con lettera del 2 nov. 1869 al cardinale A. Quaglia. Secondo il Martini, l'A. continuava frattanto le sue pratiche private di pietà; anche Giovanni Battista Gandino, nella relazione al ministero sull'ispezione da lui fatta al liceo il 9 giugno 1870, annotava che la vita privata e l'insegnamento dell'A. apparivano conformi all'ufficio suo di ministro della religione. Già nelle tornate dell'8 e del 22 maggio 187o dell'Accademia Virgiliana di Mantova, l'A. aveva tuttavia iniziato la lettura - conclusa il 12 giugno - di gran parte de La psicologia come scienza positiva, l'opera sua fondamentale, che fu poi stampata quello stesso anno in volume.

Premessa una critica dissolvente dei concetti metafisici di essenza (sostanza) e causa, l'A. ravvisa il compito della scienza nell'osservazione dei fenomeni e nella determinazione, progressiva e sempre riformabile, delle loro leggi. Queste vanno intese non quasi trascendenti norme, ma come gli stessi fenomeni considerati nei loro rapporti di somiglianza o coesistenza o successione. Il metodo positivo dell'osservazione, portato nello studio dei fenomeni psichici, elimina la presupposizione aprioristica di un soggetto sostanziale, di cui essi sarebbero manifestazione. Il dato originario è costituito dalle sensazioni. Esse, unica realtà e verità, non presuppongono né un soggetto né un oggetto esterno: me e non me sono associazioni, posteriori, di sensazioni. All'eliminazione di un soggetto degli atti psichici si accompagna quella delle tradizionali facoltà; cade la distinzione tra senso e intelletto: le idee sono associazioni di sensazioni; così è tolta la distinzione tra pensiero e volontà: ogni rappresentazione ha una propria intrinseca impulsività volontaria. Realtà ed idealità coincidendo nel fatto del sentire, l'A. ritiene di aver superato lo scetticismo e di aver dimostrato anche l'assurdità della disputa tra materialisti e spiritualisti: materia e spirito sono astrazioni oggettivate e, del resto, anche le cosiddette materialità sono atti psichici. A questa impostazione fenomenistica, già nella Psicologia, se ne intreccia un'altra, schiettamente naturalistica e destinata a prevalere nello svolgimento del pensiero dell'Ardigò. I fatti psichici e i fatti fisici sono presentati come ordini di una comune sostanza psicofisica; e i primi finiscono anzi con l'essere considerati, nel loro prodursi, un effetto dell'azione del mondo esterno sull'organismo.

Il valore della Psicologia appare essenzialmente critico e metodologico. Essa da un lato eliminava le basi della vecchia psicologia metafisica, dall'altro apriva una direzione nuova alle ricerche in quel campo. Il suo significato va ricercato nel quadro del coevo sorgere in Europa della moderna psicologia. In quel medesimo quadro si ravvisano pure i limiti dell'opera, che si arresta alle premesse metodologiche e a un accenno di elaborazione di temi di derivazione empiristica e segnatamente humiana. L'approdo naturalistico, cui essa nonostante quelle premesse giunge, indica il profondo legame dell'A. con la contemporanea cultura, soprattutto tedesca, naturalistica e materialistica. La tematica che l'A. mostra di avere familiare e congeniale - e le opere successive lo confermeranno - è quella stessa di Robert Mayer, Karl Vogt, Ludwig Büchner, Jakob, Moleschott, Hermann Helmholtz; è quella stessa, almeno in parte, di un Fechner. È importante rilevare che tra i numerosi filosofi che l'A. cita nella Psicologia - la sua buona conoscenza del tedesco, del francese e dell'inglese gli consentiva di leggerne gli scritti nel testo originale - non figurano il Comte, che l'A. non studiò mai a fondo, e neppure lo Spencer, il cui pensiero egli conobbe soltanto più tardi. Dei grandi positivisti, è citato lo Stuart Mill, già menzionato nel Discorso. È ricordato anche il Darwin, la cui opera proprio allora aveva a Mantova fortuna grandissima.

Il 2 sett. 1870 la Gazzetta di Mantova pubblicò una dichiarazione dell'A. contro il dogma, allora definito, dell'infallibilità papale: l'A. affermava di non accettarlo e di considerarlo anzi come una vera stoltezza. Il 7 apr. 1871 l'A. comunicò per iscritto al Martini la determinazione sua di svestire l'abito ecclesiastico, attuata il 10 di quel mese. Rammaricandosi che non gli si permettesse di essere buon prete, accompagnava il suo atto con il dichiarato proposito di rimanere buon secolare. Vani risultarono i tentativi fatti dal Martini, ed anche un colloquio, avvenuto non più tardi del febbraio del 1872, tra l'A. e Pietro Rota, non ebbe seguito; una lunga e acre polemica sulla Psicologia, condotta tra l'agosto e il dicembre del 1872 sulle colonne del Vessillo cattolico e della Provincia di Mantova, rispettivamente dal Rota e dall'A., sancì la definitiva rottura.

Significativa, nella polemica, è l'accusa di dispotismo e di avversione alla cultura, mossa dall'A. alla Chiesa da lui definita "sillabica". Quando, d'altra parte, il Rota gli attribuì l'espresso convincimento di essere sempre religioso e cattolico e la certezza di poterlo provare con la pubblicazione di ulteriori opere, l'A. non oppose alcuna contestazione. Altri documenti confermano che l'abbandono dell'abito ecclesiastico fu, nella vicenda dell'A., la premessa ancora inconsapevole - e non la conseguenza - di una piena e meditata apostasia religiosa.

L'A. continuava frattanto la sua attività didattica. Dal gennaio del 1871 ebbe anche l'incarico - che tenne stabilmente negli anni successivi - dell'insegnamento della lingua tedesca nell'istituto tecnico di Mantova. La generazione di allievi che l'A. trovò al liceo nell'autunno del 1871 fu la prima a vedere in lui un maestro: erano in quel corso Enrico Ferri, Achille Loria, Giulio Fano. L'adozione, in quell'anno scolastico, della Psicologia come libro di testo sembra sancire, da parte dell'A., la consapevolezza di questa sua nuova posizione. Ma tale consapevolezza - allora come poi - si accompagnava a un profondo rispetto per la libertà di coscienza degli allievi: l'anno successivo, essendo stata l'opera messa all'Indice (24 sett. 1872), l'A. rinunciò a valersene. Nel 1877 l'A. pubblicò la sua seconda estesa opera filosofica: La formazione naturale nel fatto del sistema solare, che comparve dapprima nell'annuario del liceo "Virgilio" per il 1875-76 e poi, con qualche modifica, in volume a sé. Soltanto con essa il distacco dell'A. dalla fede religiosa appare cosciente e radicalmente compiuto.

L'opera ora presentata come una sezione - quella dedicata al sistema solare - di un vasto lavoro, nel quale, premessa la teoria generale della formazione naturale, si sarebbe riscontrato il suo verificarsi nei diversi ordini della realtà, incluso quello del pensiero. In particolare, l'A. nega che di là dalla compatta trama dei fenomeni naturali resti una trascendente Causa prima. La legge genetica della realtà è il passaggio dall'indistinto al distinto; questa legge, mutuata dal risultato dell'osservazione dei fenomeni dell'ordine psichico, è precisata nel senso che ogni distinto è poi un indistinto rispetto al distinto successivo. Non esiste un principio assoluto all'origine e al di fuori della catena dei fenomeni: l'infinito è l'infinità stessa del processo naturale di distinzione.

Della Formazione naturale va sottolineato l'indirizzo integralmente e risolutamente mondano cui approda il pensiero dell'A.: tale indirizzo costituisce l'aspetto peculiare fondamentale del suo positivismo.

Attiva era allora anche la partecipazione dell'A. alla vita pubblica mantovana: dal 1871 al 1879 egli fu membro del Consiglio comunale. Radicale, l'A. ebbe stretti legami con vari democratici mantovani, quali Paride Suzzara Verdi e Arnaldo Nobis direttori della Favilla, e l'editore Luigi Colli, direttore dell'Affarista alla berlina.I due giornali attestano il rilievo emblematico rapidamente assunto dalla figura dell'A., nella cui vicenda intellettuale si volle esaltare la vittoria del libero pensiero scientifico sull'autoritarismo teologico-religioso. Nei primi mesi del 1882, l'A. tentò con il Colli, per "propaganda scientifica", un'edizione popolare dei propri scritti: dopo la pubblicazione di alcuni fascicoli l'iniziativa fu però abbandonata.

Quando nel 1878 Arcangelo Ghisleri fondò a Milano la Rivista Repubblicana,affidandone la direzione politica ad Alberto Mario, questi invitò l'A., cui lo legavano amicizia e ricambiata stima, a collaborarvi per la parte filosofica. L'A. improvvisò, per la Rivista,che usciva allora settimanalmente, La Morale dei positivisti, che vi fu pubblicata a partire dal numero del 28 aprile. (Nel 1886 l'A. ristampò poi a Padova, con molti rifacimenti, l'ultima parte della Morale, in un volume a sé: la Sociologia).

Movendo da premesse naturalistiche e rivendicando l'indipendenza della morale dalla religione, l'A. dà rilievo all'efficacia dell'ambiente sociale nella determinazione dei principi normativi che presiedono alla coscienza morale individuale. L'atto propriamente umano o morale è anzi, per l'A., appunto quello determinato dalla idealità sociale in contrapposizione alle tendenze egoistiche. Il patrimonio delle idealità sociali, che si evolvono perennemente perfezionandosi, opera altresì come idea di giustizia nella condotta collettiva e tende a realizzarsi, a tradursi da diritto naturale in diritto positivo, ossia a riformare incessantemente a propria immagine l'assetto sociale esistente.

Il pensiero ardigoiano offrì una base ideologica alla "democrazia positivistica", d'intonazione radical-repubblicana, propugnata dai redattori e dai collaboratori della Rivista:tra i primi era Filippo Turati, tra i secondi Leonida Bissolati. L'influenza che l'A. esercitò su di loro e sul Ghisleri fu grandissima sul piano intellettuale come su quello morale. Con il Ghisleri e il Turati egli ebbe lunga consuetudine di rapporti epistolari e personali. Fu la Rivista a dar notizia, con un articolo del Turati nel fascicolo del 31 genn. 1879, del saggio allora dedicato da Alfred Espinas all'opera dell'A. nella Revue philosophique del Ribot. Nel 188o l'A., conscio di condurre una polemica anche politica, si valse della Rivista e della Lega della democrazia,diretta dal Mario, per pubblicare alcuni scritti contro l'esanime spiritualismo, allora in auge, di Terenzio Mamiani e dei suoi seguaci. Più tardi l'A. collaborò alla Critica sociale,con il breve saggio su Senso comune e suggestione che, con il proemio scritto dal Turati, fu stampato poi a sé nel 1892.

Nel giugno del 1875 il ministero inviò in ispezione al "Virgilio" Francesco Acri. La sua dichiarata avversione al positivismo non gli impedì di giudicare l'A. meritevole di insegnare all'università. Quando tuttavia l'A. partecipò al concorso, indetto il 22 febbr. 1877, alla cattedra di storia della filosofia nell'Istituto di studi superiori di Firenze, i commissari lo giudicarono "ineleggibile" per insufficienza di titoli. L'A. ritentò nel 1878, partecipando al concorso, indetto il 22 gennaio, alla cattedra di storia della filosofia nell'università di Torino: risultò secondo fra gli eleggibili, essendo riuscito vincitore Romualdo Bobba.

Il 23 maggio 188o, nella relazione al ministero conclusiva dell'ispezione da lui compiuta al "Virgilio", Giosue Carducci auspicò che il governo desse all'A. - che gli era apparso "insegnante di forte ingegno, di molta dottrina, di ottimo metodo" - la possibilità di mostrare in più largo campo la sua valentia. Il 18 dic. 188o Francesco Tenerelli, segretario generale del De Sanctis, allora ministro della P. I., dispose invece, con una lettera al provveditore agli studi di Mantova, che l'A. fosse invitato a dare forma diversa, cioè dogmatica e non critica, al suo insegnamento, il quale, per non offendere le credenze comuni, avrebbe dovuto o aggirarsi sui principî ammessi dal maggior numero. La lettera diede origine a una violenta polemica, aperta dal Mario con un articolo comparso il 3o dic. 188o sulla Lega della democrazia;la Gazzetta di Mantova,quotidiano di destra, approvò invece l'intervento ministeriale. Il 9 genn. 1881 il neo-ministro della P. I. Guido Baccelli offrì telegraficamente all'A. il posto di insegnante straordinario di storia della filosofia all'università di Padova, che l'A. accettò. La nomina, ma ancora più il testo del telegramma - l'A. vi era definito "illustrazione filosofica italiana" - determinarono una nuova polemica. Nella seduta del 1º febbraio, rispondendo ad una interpellanza del Massari, il Baccelli, forte dell'appoggio del Cairoli, difese alla Camera il proprio operato, che aveva avuto, tra l'altro, l'approvazione del Fiorentino e dello Spaventa. L'A. iniziò i suoi corsi all'ateneo patavino, leggendo l'11 febbr. 1881 la prelezione su Lo studio della storia della filosofia.

L'A., che nel 1881 aveva scritto sulla Cronaca bizantina,in seguito venne sempre più orientando la sua collaborazione verso riviste specializzate, come la Rassegna critica dell'Angiulli e la Rivista di filosofia scientifica del Morselli. Nella Rassegna comparve, nel 1883, il suo primo studio critico approfondito sul concetto spenceriano di inconoscibile.

In corrispondenza al suo incipiente accademizzarsi, l'A. andava attenuando l'empito polemico della sua posizione politica. Sul finire del 1883 accettò di assumere la vicepresidenza del comitato provinciale mantovano per il pellegrinaggio nazionale alla tomba di Vittorio Emanuele II, attirandosi aspre accuse da parte degli elementi più intransigenti della sinistra locale. Quando però l'anno dopo il direttore della Gazzetta di Mantova, Alessandro Luzio, gli offrì un posto nella lista moderata per le elezioni comunali, l'A. respinse l'invito.

La nomina universitaria dell'A. - divenuto poi ordinario nel luglio del 1881 - aveva comportato il passaggio dello spiritualista Francesco Bonatelli all'insegnamento di filosofia della storia. L'insegnamento del Bonatelli si contrappose, non senza una certa efficacia, limitata peraltro all'ambito della facoltà filosofica patavina, a quello dell'A. che veniva acquistando sempre maggior risonanza nazionale. Sullo scorcio dell'anno accademico 1884-85 e poi nel 1885-86, l'A. ebbe l'incarico di lingua e letteratura tedesca; nel febbraio del 1888 ebbe quello di pedagogia, confermatogli nel 1888-89, nel 1889-90 e nel 1890-91. Le lezioni di pedagogia dell'A. furono raccolte e pubblicate da alcuni auditori con il titolo La scienza dell'educazione (Verona-Padova 1893: nel 1903 una seconda, più snella edizione, fu curata dall'Ardigò).

Fine del processo educativo non è l'acquisizione di nozioni, ma la formazione di abilità e abitudini positive per la società e quindi per l'individuo. Esse sono acquisibili con l'esercizio, e questo suppone l'attività. La presentazione, da parte di chi educa, degli stimoli intesi a determinarla, deve avvenire secondo il metodo intuitivo, che parte dalle cose e insegna più con le cose che con le parole, e deve inoltre rispondere al criterio della razionalità, che vuole che ciò che si espone sia di fatto comprensibile, e a quello della progressività, che stabilisce gradi e tappe nel processo educativo. Importante deroga al criterio della razionalità è costituita dalle "anticipazioni dogmatiche", delle quali va riconosciuta l'opportunità, in quanto rispondono al principio del lavoro abbreviato. L'anticipazione è la matrice indistinta della distinzione successiva: sulle medesime cose si ritorna nei vari gradi del processo in modo sempre più approfondito.

L'opera, che è anche un documento vivissimo dell'esperienza didattica dell'A., esercitò in Italia notevole influenza.

L'appesantirsi dei compiti di docente all'università di Padova costrinse l'A. a lasciare Mantova nel 1888. Nell'ultimo decennio del secolo l'A. pubblicò la sua trilogia sistematica: Il vero (Padova 1891), La ragione (ibid. 1894), L'unità della coscienza (ibid. 1898). In particolare, quest'ultimo scritto, presentato quasi testamento filosofico, non è privo di qualche interessante approfondimento speculativo. Le grandi onoranze tributate all'A. nel 1898 sottolinearono la posizione da lui raggiunta di "pontefice" del positivismo; in realtà, però, la fortuna del suo pensiero - il cui influsso era stato tanto notevole anche nel campo delle indagini giuridiche e sociologiche - volgeva ormai al tramonto. Mutava la temperie filosofica e culturale.

La crisi del positivismo, della quale già nel 1898 parlavano gli stessi discepoli dell'A. - i migliori, anzi, il Dandolo e il Tarozzi, concorrevano sin d'allora a determinarla, con la loro personale rimeditazione -, era piena, quando nel 1908 si rinnovarono quelle onoranze. Dal 1900 gli scritti ardigoiani comparvero, quasi tutti, nella Rivista di filosofia di Giovanni Marchesini: scritti di delucidazione, precisazione o riepilogo, insieme a quelli - da La nuova filosofia dei valori (1907) a Una pretesa pregiudiziale contro il positivismo (1908), da I presupposti massimi problemi (1910) a La filosofia vagabonda (1916) - di esame delle nuove correnti filosofiche e di difesa delle proprie posizioni. Del 1907 è il suggestivo scritto Guardando il rosso di una rosa, in cui l'A. sentì il bisogno di tornare sul momento cruciale della propria vicenda intellettuale.

L'A., che nel triennio 1899-1902 era stato preside della facoltà di filosofia e lettere, nel 1907-08 fu supplito nell'insegnamento, non essendo più in grado d'insegnare, per declino delle forze fisiche. Nel dicembre del 1908, il ministro Rava gli propose di chiedere il collocamento a riposo e gli offrì, a compenso del danno che gliene sarebbe venuto, l'incarico di un lavoro scientifico. Raggiunto l'accordo, l'A. fu collocato a riposo dal 1º giugno 1909. L'incarico, che si sottintendeva nominale, fu confermato negli anni successivi: non mancarono ingenerosi commenti.

Il 14 luglio 1903 l'A. divenne socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei, il 21 ag. 1905 socio nazionale; ebbe la cittadinanza onoraria di Mantova il 27 luglio 1904, di Cremona il 27 genn. 1908; l'Accademia Virgiliana di Mantova, della quale era socio effettivo dal 1865, lo nominò socio onorario il 25 apr. 1905; fu dal 21 apr. 1906 socio corrispondente dell'Institut de France, e dal 17 giugno del medesimo anno socio onorario dell'Istituto veneto di scienze, lettere ed arti. Ultimo, tardivo onore gli giunse il 16 ottobre 1913 la nomina a senatore: non poté, però, recarsi a Roma per il giuramento.

Ad aggravare le condizioni morali dell'A., già profondamente umilato per l'incapacità sua di applicarsi con continuità al lavoro intellettuale e oppresso dall'isolamento in cui sempre più cadeva (sin dal febbraio del 1903 aveva perduto la sorella Olimpia, che era vissuta presso di lui), sopravvennero nel dicembre del 1917 i bombardamenti aerei di Padova, che si rinnovarono nel gennaio e febbraio 1918.

Il 6 febbr. 1918 l'A. cercò di uccidersi, ma poté essere salvato. Il 17 febbraio acconsentì ad essere portato a Mantova, sua amatissima patria di adozione, dove fu ospitato da amici. In favore dell'A., che tutta la vita era stato assillato da strettezze finanziarie, invocò l'intervento del soccorso privato il Marchesini, dalle colonne del Secolo di Milano il 20 febbr. 1918. Nei mesi successivi l'A. riuscì a portare a termine due brevi scritti: Natura naturans e L'idealismo e la scienza. Respinse poi l'invito, rivoltogli per lettera dal vescovo di Mantova, Paolo Carlo Origo, a riesaminare la propria posizione nei confronti della fede religiosa.

Il 27 ag. 192o rinnovò il tentativo di suicidio: sopravvisse sino al 15 settembre successivo.

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Enciclopedia filosofica Bompiani, vol. 2

di C. Mazzantini - S. Poggi

Filosofo italiano n. a Casteldidone (Cremona) nel 1828, m. a Mantova nel 1920. Dopo gli studi classici, è ordinato sacerdote e insegna filosofia presso il Liceo Vescovile di Mantova. Attraversa un lungo periodo di crisi, che lo allontana dalla fede e lo porta all'abbandono dell'abito (1871), l'anno seguente la pubblicazione della sua prima - e fondamentale - opera-, la Psicologia come scienza positiva (Mantova 1870). Segue, nel 1877, La formazione naturale nel fatto del sistema solare. Nel 1881 l'Università di Padova lo chiama alla cattedra di Storia della Filosofia, che Ardigò terrà fino al 1909, anno in cui chiede di essere collocato a riposo.

Negli anni di attività universitaria pubblica La morale dei positivisti (Milano 1878, Padova 1885), la Sociologia (Padova 1886) e la trilogia Il vero (Padova 1891), La ragione (Padova 1894), Unità della coscienza (Padova 1898).

L'attività di Ardigò è assai intensa anche dopo l'abbandono dell'insegnamento universitario, con una serie di numerosissimi articoli di carattere prevalentemente critico-espositivo e anche polemico che, apparsi soprattutto sulla «Rivista di Filosofia e Scienze Affini», si confrontano con il dibattito europeo d'inizio secolo (la filosofia dei valori, Bergson). Caduto negli ultimi anni in una profonda depressione, Ardigò tenta una prima volta il suicidio nel 1918. Nei due anni che seguono, prima della morte (1920) di poco successiva a un secondo tentativo, ha tempo ancora di mettere mano a due brevi scritti: Natura naturans (Roma 1919) e L'idealismo e la scienza (Roma 1919).

Ardigò può essere considerato senza dubbio la figura più rappresentativa e originale del positivismo italiano. Importanza fondamentale nel suo sviluppo di pensiero ha l'opera che segna il suo distacco dalla fede cattolica e conduce un confronto serrato con la discussione filosofico-scientifica del tempo: Psicologia come scienza positiva, cit. Ardigò rivendica la piena originalità delle proprie tesi nei confronti di Comte, di Spencer e anche di Mill. In possesso di una conoscenza vasta e aggiornata della fisiologia degli anni 1840-60, Ardigò basa su di essa la critica contro la «psicologia razionale», in primo luogo per quanto riguarda la nozione di anima. Contro «tutti quanti i metafisici», Ardigò respinge ogni concetto sostanzialistico di anima e afferma che la coscienza - l'interiorità - non ha nessun diritto al primato nei confronti della esteriorità. È legittimo parlare solo di coscienze, cioè delle «diverse associazioni di idee». Ardigò non sottovaluta peraltro l'osservazione diretta del pensiero, quale si presenta nella coscienza. Tale «osservazione diretta» può tuttavia rivelarsi «fallace senza gli aiuti estrinseci» offerti dalla fisiologia. Ma, in ogni caso, è necessario il raggiungimento di un equilibrio tra questi e i «dati propri della psicologia»: atti psichici e fisiologici sono due espressioni diverse di una medesima sostanza psicofisica. Per mezzo dell'«idea psicofisica» le verità - parziali - dei due ordini dei fenomeni psichici e fisici convergono in una «sintesi sola».

Ma è anche vero che, per molti aspetti, Ardigò condivide con la discussione contemporanea la tesi della fondamentale «biologicità» dell'uomo. Se «nella natura, per una divisione di lavoro sempre crescente, crescente sino all'infinito, la perfetta omogeneità del reale si trasmette in una verità sterminata di apparenze, in modo che il massimo della diversità vi coincide col massimo della medesimezza», è ovvia l'«assurdità di separare la natura dalla intelligenza», «funzione dell'organismo umano». La scienza ci impone di prendere atto della perenne «circolazione della vita», e ogni «pasto dell'uomo» è una «cena eucaristica, per la quale la materia, priva di ogni pensiero, si trasforma, si transustanzia in un uomo che pensa». Le fasi della «circolazione della vita» sono scandite dall'evolversi delle funzioni della coscienza, dei modi di reagire della «sostanza Psicofisica».

Ferma restando l'importanza che in Ardigò ha la riflessione sul rapporto tra fisico e psichico, i tratti più caratteristici e originali delle concezioni filosofiche in senso più stretto di Ardigò - concezioni che sono avanzate e sviluppate con atteggiamento critico nei confronti di molte teorie del positivismo europeo, e in particolar di quelle di Spencer - possono essere considerati i seguenti: a) il concetto della filosofia come scienza generale (peratologia) e nello stesso tempo come complesso di scienze speciali; b) la critica alla dottrina dell'«Inconoscibile» sviluppata da Spencer, e) la teoria dell'«lndistinto», da cui discende un nuovo concetto di evoluzione come processo indefinito di «autodistinzione»; d) la proposta di identificare la sensazione (da intendersi in senso ampio) e l'essere; e) il concetto di «contingenza».

a) Ardigò si confronta con la tesi comune all'atteggiamento positivistico per cui la filosofia, priva in realtà di un suo oggetto proprio, si ridurrebbe alla sintesi dei risultati delle scienzeparticolari. Ardigò ha presente in particolare la posizione di Spencer. A quest'ultima, Ardigò non si contrappone in modo diretto, preferendo apportarvi alcune modifiche. Tali modifiche riguardano innanzitutto l'esigenza di dare spazio a quelle che per Ardigò sono scienze filosofiche speciali che hanno per oggetto il «fatto psichico» e lo considerano o sotto il profilo della individualità (e allora bisogna distinguerela logica, la gnostica e l'estetica) o come fatto sociale (affrontato dall'etica, dalla diceica ovvero «scienza della giustizia» e dall'economica). Vi è però anche la necessità di non ridurre la filosofia a semplice somma delle singole scienze. Per Ardigò, infatti, la filosofia - come scienza generale - non si limita a coordinare i risultati delle singole scienze, ma si impegna nel tentativo di spingere il processo induttivo dell'intero lavoro scientifico al di là dei confini propri di ogni scienza e di tutte le scienze prese assieme, sino a un limite estremo (il peras dei Greci). È in tal modo che la filosofia - che comunque non può muovere da principi a priori di qualsiasi sorta - si trova condotta a cogliere il principio supremo dell'essere percorrendo una via completamente diversa da quella della metafisica tradizionale. Tale principio è rappresentato da ciò che è comune a tutti i fatti: l'unità primaria indistinta e concreta a un tempo che li comprende tutti in una sorta di universalità afferrabile in una intuizione che è sensibile e intellettuale a un tempo, e che Ardigò concepisce in termini che si richiamano esplicitamente all'unione di «senso» e di «pensiero» affermata dalla filosofia della natura del Rinascimento italiano (e Ardigò è un appassionato studiosodi Pomponazzi).

b) L'unità primaria e indistinta del «Tutto» costituisce dunque un qualcosa che ci è sempre noto, di incontestabile. È però anche vero che il «Tutto» è di fatto sempre ignoto, in quanto inesauribile. Nondimeno, in quanto inesauribile, esso è anche suscettibile di essere sempre più oggetto di ricerca, di studio, di conoscenza. Il «Tutto» è indistinto, ma nello stesso e momento è sottoposto a un processo senza fine di distinzioni sempre più articolate, tra di loro intrecciate in nessi relazionali che, come veri, costituiscono non tanto il modo della no- stra apprensione della realtà (che si dà innanzitutto al «senso»), quanto quello della sua descrizione e oggettivazione,.

c) Su questa linea, il confronto con la «filosofia sintetica» di Spencer costituisce tema ricorrente della riflessione di Ardigò, che da un lato ne accetta il rilievo centrale assegnato alla evoluzione, da un altro sottolinea la necessità di inquadrare quest'ultima in uno «schema dinamico» che dia il dovuto rilievo all'aspetto psichico del processo evolutivo che caratterizza l'intero complesso dei processi di natura. La prospettiva di una costante ricomposizione dei due punti di vista del fisico e dello psichico - modi diversi di guardare a una realtà che è unica - costituisce motivo conduttore della concezione di Ardigò, il cui fulcro rimane il ruolo centrale assegnato al «senso», alla sensazione nella sua pregnanza di modo di darsi - e di essere appresa - della natura,

d) La presenza dell'essere nella sensazione è dunque tema costante della riflessione di Ardigò, che mette in evidenza la duplice modalità della sensazione: quella per cui a essa si guarda sia cercando di cogliere l'essere che in essa è contenuto, l'essere che in essa viene sentito, sia ravvisandovi la funzione del sentire, l'essere che in essa è senziente e viene ad avere coscienza di se stesso come capace di sensazioni, e dunque come di una potenzialità reattiva e anticipatrice a un tempo che è la pulsione della natura stessa, di quella evoluzione cosmica di cui l'uomo è comunque parte, come già prefigurato dal tema rinascimentale di una «natura naturans».

e) Ardigò è decisamente avverso a ogni tesi a favore del libero arbitrio. Tuttavia non condivide il determinismo proprio di larga parte della riflessione ottocentesca di impianto positivistico. Sua convinzione è che esistano molti aspetti dei processi di natura in cui vige in realtà l'indetenninismo, così come è comprovato dalle interazioni casuali tra concatenazioni di fatti che, in sé, possono anche rispondere a una necessità interna, ma non tale da potere avere vigore anche sul piano di tali interazioni.

Le concezioni di Ardigò delineano quello che per molti aspetti è un vero e proprio sistema. Punto di partenza della sua riflessione è la «filosofia induttiva o sperimentale». Al riconoscimento del valore centrale del lavoro «scientifico positivo» si accompagna quello della necessità non solo delle ipotesi «positive», ma anche dell'dpotesi metafisica». In realtà, l'indagine scientifica non può fare a meno di questo secondo tipo di ipotesi, non «semplice presentimento della realtà tuttora incerta», ma «intuizione assolutamente vera e irreformabile della ragione». L'«ipotesi metafisica» è «usata quindi nella filosofia positiva né più né meno che nella Fisica e in qualunque altra delle discipline sperimentali». Rimane comunque fermo che la scoperta del «fatto» è sempre il dato di fondo, il punto di partenza, e che le scienze forniscono un modello esplicativo unitario di tutti i processi del vivente, e quindi anche della storia umana come parte integrante - ma non fase culminante - della intera evoluzione cosmica. È nell'opera più fortunata di Ardigò - La morale dei positivisti, cit., del 1878 - che questa impostazione di fondo si manifesta forse con maggior chiarezza (riecheggiando d'altronde temi della Psicologia, cit.) e comunque su un terreno cui la cultura del tempo è elevatamente sensibile.

In quest'opera Ardigò formula la tesi del radicamento nella natura delle motivazioni dell'azione morale e su tale base, in sintonia con molti aspetti della discussione contemporanea specialmente inglese e tedesca, delinea il quadro di una evoluzione della società in sintonia con quella della natura. Se è un sentimento fondamentalmente «altruistico» quello che sta alla base dell'azione morale, nello stesso tempo alla società spetta il compito di potenziare tale sentimento e fare così nascere e conservare nella coscienza dell'individuo il senso della obbligazione morale e della vera e propria giustizia, senso che è potente motivo di progresso.