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Età intermedia tra l’antica e la moderna. Secondo l’accezione
più diffusa è il periodo compreso fra la caduta
dell’Impero Romano d’Occidente (476) e la scoperta dell’America
(1492).
1. Il giudizio sul Medioevo
La sequenza di questi 10 secoli è stata per la prima volta
considerata come un periodo a sé stante dagli umanisti
italiani del 14° sec. che, nell’atto in cui si proponevano di
dare vita a un’umanità nuova a imitazione del modello
rappresentato dalla Grecia e da Roma antiche, si sentirono indotti
ad accomunare nel rifiuto e nel dispregio i secoli nei quali le
forme dell’arte classica erano declinate e scomparse. Ciò che
era stato costruito, scolpito, dipinto nell’intervallo, veniva
bollato come ‘gotico’, dal nome dei barbari saccheggiatori di Roma
del 410. L’idea di un intervallo di 10 secoli che separava una
decadenza da una rinascita – ancora prima di configurare una vera e
propria media aetas – diventò poi una costante mentale
suscettibile di assumere colorazioni diverse. Così, per i
riformatori protestanti del 16° sec. la connotazione negativa fu
rappresentata dalla corruzione, in una Chiesa imbarbarita, della
vera religione, mentre per gli illuministi del 18° sec. la media
aetas coincise con il trionfo dell’ignoranza e della superstizione.
L’inversione di tendenza si ebbe solo in età romantica,
quando nella poesia epica medievale si cercarono i prodromi
dell’identità delle moderne nazioni europee. Al tempo stesso,
con un significativo mutamento del gusto, le cattedrali gotiche
venivano celebrate come l’espressione più compiuta della
spiritualità cristiana, mentre, richiamandosi a valori
alternativi a questo, le baracche (loges) dove risiedevano i
muratori (maçons), custodi dei segreti di mestiere che resero
possibili quelle ardimentose costruzioni, venivano indicate come la
‘culla del libero pensiero’. I due esempi citati non esauriscono
certo l’elenco degli aspetti di quella che oramai si può
definire la civiltà medievale considerati con favore in
età postilluministica, dall’età cioè della
Restaurazione in poi. Basti pensare alla rivalutazione del pensiero
di Tommaso d’Aquino, promossa da papa Leone XIII (1879).
La proposta di trovare una diversa forma di scansione del corso
storico fu avanzata con insistenza nella seconda metà del
19° sec., ma né le obiezioni prospettate in tale sede,
né l’affermarsi dell’idea di un progresso unilineare
dell’incivilimento umano, dal basso verso l’alto, inconciliabile con
la presenza di un’età di ripiegamento e di decadenza durata
10 secoli che avrebbe coperto sotto una coltre di oblio le conquiste
dell’età classica, valsero a provocare la cancellazione del
M. come periodo storico. Una parte notevole della perdurante fortuna
del M. va assegnata anche al peso crescente che gli studi di
erudizione, di storia, di filologia medievali hanno finito con
l’acquistare nell’ambito della cultura accademica.
Nel 20° sec. è venuta in auge l’immagine di un M., quello
carolingio e, in certa misura, anche quello
scolastico-universitario, linguisticamente e letterariamente
mediolatino, intesi come prefigurazione dell’unità politica e
culturale europea. Ma in tal modo, ancora una volta, si è
operata una scelta all’interno di quegli affollatissimi 10 secoli,
non indicata una via per considerarli tutti insieme sotto un segno,
se non necessariamente positivo, almeno non proprio negativo.
2. M. cristiano e M. feudale
Alla base di ogni tentativo di riconsiderazione positiva del M.
c’è sempre stata, più o meno manifesta, la tendenza a
ricondurre questa età sotto il segno del cristianesimo,
indicando la civiltà medievale come la civiltà
cristiana per eccellenza, salvo il posto adeguato che va comunque
riservato alle persistenti resistenze del paganesimo antico, ai
paganesimi degli invasori (germanico e slavo) e, soprattutto, alle
altre religioni monoteistiche mediterranee, l’ebraica e l’islamica.
La prospettiva di chi guarda al M. cristiano come al periodo che
avrebbe prodotto e visto fiorire uno Stato cristiano, una
società cristiana, un’arte cristiana, e così via,
è invece entrata in crisi anche all’interno stesso del
cattolicesimo, in quanto si porrebbe in un tempo trascorso e
irreversibile la piena attuazione del messaggio cristiano.
Una diversa lettura, essa pure tendenzialmente positiva, emerge
dallo schema interpretativo marxista, peraltro incapace, soprattutto
nell’accezione più scolastica, di uscire dall’astrazione di
una generale rappresentazione di un modo di produzione feudale,
inserito in una visione progressiva della storia dell’umanità
nella quale esso svolge una funzione periodizzante di passaggio tra
lo schiavismo dell’età antica e le forme capitalistiche
successive. Tuttavia, nel pensiero di Marx non si guardava tanto a
un’interpretazione generale, ma si privilegiavano quegli elementi
non feudali, legati in particolare alla città e allo sviluppo
di un artigianato urbano, le cui caratteristiche precapitaliste e
premoderne inducevano a una valutazione positiva della fase
medievale proprio nella prospettiva del superamento della medesima.
Un’immagine negativa del m., rivelata dall’uso corrente, volgare,
dell’aggettivo medievale per connotare abusi, malversazioni,
violenze, superstizioni, distorsioni della verità, si
è legata all’idea che un nuovo M. (‘M. prossimo venturo’)
aspetti l’umanità dopo il crollo dell’ordine costituito dalla
società industriale, come il M. tradizionale era succeduto
all’ordine romano, in una prospettiva catastrofista di ritorno di un
passato premoderno.
3. Una nuova prospettiva
L’alternativa a questa ciclicità è stata offerta da
una storiografia attenta alla dimensione antropologica, la cui
interpretazione supera la dimensione periodizzante tradizionale
mettendo in rilievo la persistenza, almeno fino alla Rivoluzione
industriale, di caratteri evidenziatisi in particolare dopo l’anno
Mille. Questo protrarsi nella ‘lunga durata’ di alcuni elementi
strutturali di origine medievale, inseriti nella cultura materiale e
nella mentalità collettiva della società europea,
mostra come ormai la storiografia sia meno interessata a un
approccio valutativo e più caratterizzata da un frazionamento
delle analisi sui vari aspetti di una società, quale quella
dell’età di mezzo, che si rivelano sempre più
complessi e di impossibile riduzione a un’interpretazione univoca.
Al contempo, nella cultura generale l’interesse per il m. si collega
sempre più alla rappresentazione di un universo nel quale
predominano gli elementi fantastici, magici e irrazionali,
evidenziato per esempio nel genere fantasy. Pur se con
modalità spesso stereotipate, narrativa, cinema, giochi e
siti internet rendono familiari a un pubblico sempre più
vasto singoli aspetti della civiltà medievale.
*
Dizionario di Storia (2010)
di Girolamo Arnaldi
Cosa si intende oggi per Medioevo?
Non passa quasi giorno che, a proposito dell’approvazione di una
legge, della dichiarazione di un uomo politico, di una presa di
posizione della Chiesa, della sentenza di un tribunale, i giornali,
per mostrare la loro disapprovazione, non la bollino nel titolo
degli articoli in cui ne danno notizia con l’aggettivo ≪medievale≫:
≪è una cosa da Medioevo!≫. Alla stragrande maggioranza dei
lettori questi titoli non fanno né caldo né freddo,
tanto più se li associano al ricordo della noia provata
studiando sui banchi di scuola quel lungo periodo storico, con tanti
nomi e tante date da tenere a memoria. Ma una minoranza di lettori
ormai abbastanza consistente, che ha avuto la pazienza di leggere
uno dei molti bei libri recenti (anche di divulgazione), sul
Medioevo in prevalenza cavalleresco e cortese, in vendita nelle
librerie; o che ha visitato la Sainte Chapelle a Parigi o la
cattedrale di Chartres o la Cappella di Enrico Scrovegni a Padova o
il Campo dei Miracoli a Pisa; o che ha letto, magari in una buona
traduzione, la Chanson de Roland; o che (per citare da ultimo la
vetta di gran lunga più alta) ricorda di avere affrontato a
scuola in giorni lontani almeno qualche canto della Commedia, non
manca giustamente di domandarsi: come si spiegano quei titoli? Il
Medioevo è stato davvero cosi oscuro (l’aggettivo usato
è di norma questo)?
Se le due domande vengono rivolte a qualcuno che si suppone sappia
qualcosa del Medioevo, la risposta, molto sbrigativa, è
questa: cosa vuole che ne sappiano del Medioevo quegli ignoranti dei
gazzettieri! Anche se può bastare a soddisfare l’esigenza
immediata di chi ha posto le due domande, questa risposta non spiega
perché, come e quando il pregiudizio dell’≪oscuro Medioevo≫
sia nato e perché non accenni ancora a scomparire.
La risposta è che un’età di mezzo concepita come lungo
periodo di oscurità e di ≪decadenza≫, cui ha tenuto dietro
una ≪rinascita≫, di cui gli inventori del Medioevo – cioè,
come vedremo subito, gli umanisti italiani del 15° secolo - si
ritenevano a ragione gli artefici e i protagonisti, non c’è
mai stata. A dare forza e a garantire la durata nel tempo al
concetto di Medioevo sono stati coloro che hanno seguito l’esempio
dei suoi inventori, proponendo decadenze e rinascite di carattere
diverso da quella originaria, di modo che la ≪questione del
Medioevo≫, come si intitola un libro di Giorgio Falco, è un
capitolo molto importante della storia d’Europa nella prima
Età moderna. Queste riproposizioni hanno in comune il fatto
di connotare anch’esse negativamente quei dieci secoli, senza
però che qualcuno si sia preoccupato di dare a essi un nome
che, di là delle diversità esistenti fra di loro e fra
ciascuna di loro e il modello originario, ne mettesse in rilievo
anche la comune identità.
≪La colpa – per altri il merito – dell’invenzione del Medioevo viene
attribuita comunemente, com’e risaputo, a Cristoforo Keller,
professore di storia e di eloquenza all’Università di Halle
dal 1693 al 1707, anno della sua morte≫, che, nel 1688, ha dato alle
stampe un libro dal titolo: Historia medii aevi a temporibus
Constantini Magni ad Constantinopolim a Turcis captam (Falco).
Keller ≪fa coincidere la durata dell’impero bizantino con quella
della sua capitale Costantinopoli e la comprende tra i due estremi
cronologici del 324, data della fondazione della Seconda Roma, e del
1453, data della sua conquista da parte dei Turchi≫ (Ronchey). Ma da
circa due secoli e mezzo circolava in Europa l’idea di un altro
lungo periodo storico che concerneva non un impero ma l’intero
continente, formato, questo, non da undici secoli, come quello di
Keller, bensì da circa dieci, quelli compresi, a monte, fra
il sacco di Roma del 410 a opera dei visigoti di Alarico (o la
caduta dell’impero romano di Occidente [476], o la chiusura della
Scuola di Atene [529]) e, a valle, la scoperta dell’America (1492) o
l’invenzione della stampa a caratteri mobili (1450 ca.).
Alla metà del secolo XV la sequenza di questi dieci secoli ha
cominciato a essere considerata dagli umanisti italiani come un
lungo periodo, che stava a sé nel continuum del corso della
storia, fra il mondo antico e il mondo moderno, caratterizzato dal
tratto comune di presentarsi come un ritorno alla barbarie
primitiva, che aveva preceduto il fiorire della civiltà e
cultura greco-romana, che aveva avuto di nuovo inizio con la
decadenza - la ≪decadenza≫ per antonomasia - dell’impero romano
d’Occidente e fine con la ≪rinascita≫ degli studi letterari e
filosofici, la riscoperta dei classici latini e greci giacenti negli
armadi delle biblioteche monastiche, la diffusione del culto della
statuaria e architettura antiche, i cui monumenti superstiti gli
artisti della nuova età si sforzavano di imitare, accomunati
dal disprezzo per tutto ciò che aveva prodotto l’intermezzo
dell’≪età gotica≫.
Questa scansione della storia d’Europa si è poi consolidata,
fino ad affermarsi come una partizione del suo corso in uso ancora
ai giorni nostri, anche perché, abbastanza per tempo, come si
è già accennato, gli specifici connotati dati dagli
umanisti al plurisecolare imbarbarimento e isterilimento del vivere
civile sono stati sostituiti da connotati diversi, a cominciare dal
tradimento del messaggio evangelico, operato in quei secoli dalla
Chiesa romana e denunciato con parole di fuoco dai riformatori
protestanti. Alla sequenza di dieci secoli, ritagliata dagli
umanisti, affermatasi inizialmente senza che le si desse un nome, la
proposta terminologica di Cristoforo Keller è stata applicata
indipendentemente dal fatto che i suoi undici secoli coprono l’arco
della storia dell’impero bizantino dalla fondazione della sua
capitale alla sua caduta nelle mani dei turchi, attraverso un
susseguirsi di vittorie e di sconfitte, come è naturale che
sia, mentre il nostro Medioevo, secondo la vulgata che persiste
nonostante la quotidiana smentita offerta dal progresso degli studi,
continua a essere ritenuto ≪oscuro≫ dal principio alla fine, senza
però che si possa indicare un filo rosso che ne colleghi le
innumerevoli tappe, proprio come accade anche per i secoli che
l’hanno preceduto e quelli che gli hanno tenuto dietro, che
presentano un intrico altrettanto ricco di progressi, glorie, e
altrettanto grandi infamità.
La verità è che il Medioevo non c’è mai stato.
È solo un flatus vocis che ha goduto di un’immeritata fortuna
se non altro perché è servito, e serve tuttora, a
tripartire cronologicamente la storia d’Europa nei programmi e nei
manuali scolastici. È da presumere che questa sua fortuna
durerà fino a quando anche la storia verrà
globalizzata.
*
Enciclopedia italiana 1934
di G. Fal., A. Mon.
MEDIOEVO. - Il concetto di Medioevo, cioè di un periodo
storico compreso fra l'antichità e l'età
contemporanea, nasce tra il Quattro e il Cinquecento nelle grandi
crisi dell'età conciliare, del Rinascimento, della Riforma,
ed esprime la coscienza di un rinnovamento politico, religioso,
culturale. Il primo scritto, per quanto si sa, nel quale s'incontra
l'espressione media tempestas in questo significato è per
l'appunto l'elogio di Niccolò da Cusa, composto nel 1469 da
Giovanni dei Bussi, vescovo d'Aleria, e dopo d'allora espressioni
analoghe: media aetas, media antiqu̇itas, sempre ancora senza un
contenuto storico e limiti cronologici determinati, vengono usate
ripetutamente. Si deve al Rinascimento artistico e letterario d'aver
caratterizzato l'età di mezzo in maniera generica come
negazione della bellezza e del sapere; al protestantesimo di aver
aggravato la condanna, di averla accentrata nel fatto religioso e
concepito, tra la fine della Chiesa primitiva e le tesi di Lutero
circa un millennio di progressiva corruzione ecclesiastica; al
fecondo moto di cultura dei secoli XVIe XVII di aver approfondito il
significato del trapasso dal Medioevo all'età moderna. Frutto
di queste lunghe e molteplici esperienze è la Historia medii
aevi, pubblicata nel 1688 da Cristoforo Cellario, la prima vera e
propria storia medievale, nella quale il principio del periodo
è segnato a un tempo dalle invasioni, dalla rovina delle
lettere, delle arti, della vita civile, della retta dottrina, la sua
fine dalla caduta di Costantinopoli, dall'Umanesimo e dal
Rinascimento, dalla restaurazione della fede, dalle grandi scoperte
e invenzioni.
Erede, in base ai principî di ragione e di natura, della
condanna pronunciata dal protestantesimo, l'illuminismo tende, per
le sue propensioni cosmopolitiche, a dissolvere lo schema periodico
nella storia universale o mediterranea, per la sua incomprensione
religiosa, a svuotare il Medioevo dal suo specifico significato; ma
è spinto contemporaneamente dai suoi potenti interessi a
indagare usi, costumi, istituzioni, a scoprire tutto il processo di
dissoluzione dell'universalismo medievale, cioè la formazione
dello stato, della società, dell'economia moderna. Attraverso
la crisi illuministica, che manifesta a più segni
l'insoddisfazione della concezione tradizionale, e l'esigenza di
un'interpretazione nuova, il pensiero storiografico giunge infine
col romanticismo cattolico a scoprire l'unità europea e il
positivo valore politico-religioso del Medioevo.
Per quanto preziosa sia stata l'opera svolta nel secolo scorso e nei
primi del Novecento dall'erudizione filologica del positivismo e
dalla storiografia d'indirizzo economico-giuridico per la conoscenza
e la valutazione del nostro periodo, alla fondamentale visione dello
storicismo cattolico dobbiamo tuttavia rifarci oggi se vogliamo
discernere quali siano l'organicità e il fondamentale
significato del Medioevo. Sotto l'aspetto dello svolgimento futuro,
i primi tre secoli dell'impero e le persecuzioni sono
sostanzialmente il conflitto fra due principî inconciliabili:
da un lato l'assolutismo imperiale e il paganesimo politico,
dall'altro il cristianesimo, che rispetta l'ordine costituito, ma ne
sovverte le basi in virtù di una verità trascendente e
dell'impero sulla coscienza, ne svaluta il contenuto e l'azione
trasferendo di là dalla vita il significato della vita.
Quando Costantino proclama la libertà del culto cristiano,
quando Teodosio riconosce il cristianesimo come religione di stato e
perseguita il paganesimo, per essi l'impero dichiara il suo
fallimento, cioè il trionfo dell'energia rivoluzionaria su
una tradizione ormai scossa, priva di fede, stremata di forze. Quel
trionfo imposta un problema politico e religioso unico nella storia
del mondo, il problema nel quale consiste il Medioevo, cioè
la coesistenza di due universalità, che vantano ciascuna un
proprio e diverso titolo al governo del mondo: il sacerdozio,
depositario di una verità trascendente, che è condotto
di necessità a imprimere la sua disciplina e il suo magistero
su tutta la vita terrena; l'impero terreno, che in tanto è
legittimo, in tanto risponde alla coscienza contemporanea, in quanto
ne rappresenta le più profonde esigenze; la Chiesa che opera
nel mondo e sul mondo, e si fa mondana, lo Stato a cui è
affidata una missione religiosa.
Il problema viene risolto in modo diverso in Occidente e in Oriente,
nei due mondi dei quali l'uno ha trasfuso in Roma la sua
civiltà, l'altro e stato incivilito da Roma. La fondazione di
Costantinopoli, quali ne siano i motivi, e la divisione
amministrativa dell'impero dopo la morte di Teodosio accennano a una
differenza sostanziale di cultura, a esigenze diverse, a un
distacco, sia pure lentissimo, che le successive vicende renderanno
sempre più profondo e decisivo. La fede nell'impero ultimo e
universale potrà sopravvivere, potranno continuare per secoli
relazioni commerciali e diplomatiche, risorgere d'ora in ora,
dall'una o dall'altra parte, pretese di riconquista e di
restaurazione, ma l'unità del mondo mediterraneo sarà
di fatto spezzata. Bisanzio, fedele in certa maniera al modello
classico, crea la sua chiesa e l'incorpora stabilmente nello stato,
ha i suoi nemici - Persiani, Arabi, Turchi, Latini - esercita la sua
missione culturale sugli Slavi, custodisce il patrimonio dell'antica
civiltà, vigorosa propaggine di romanità e di
ellenismo, ne porta innanzi per dieci secoli la tradizione,
finché, mutilata ed esausta, è alla fine travolta
dalla potenza ottomana. L'Occidente, in virtù dell'impronta
civile di Roma, del primato ecclesiastico romano, degli stanziamenti
e delle conversioni di Germani, Normanni,Ungari e Slavi, cioè
del loro assorbimento nella romanità, dà origine ad
una storia profondamente diversa per vivacità,
originalità, continuità di sviluppi. Vaghe analogie di
problemi politico-religiosi presenta l'impero arabo, che entra terzo
nella competizione per il dominio del Mediterraneo e minaccia di
sommergere i due antagonisti. Ma si tratta di un elemento estraneo
in origine alla romanità e all'ellenismo, di una religione a
base giudaico-cristiana e tuttavia priva di principî
sacramentali, di una conquista armata nazionale e religiosa, la cui
formazione e dissoluzione non può né per i suoi modi,
né per i termini cronologici, né per l'ambito
territoriale, unificarsi o comporsi organicamente con la storia
degli altri due imperi, latino e bizantino.
La tentazione, così forte ancor oggi, di abbracciare in un
unico quadro le vicende dei tre imperi, riposa su una lunghissima
tradizione storiografica fondata sulle loro effettive relazioni, e,
più, sull'universalismo imperiale romano da un lato,
cristiano dall'altro. Ma una siffatta storia globale - universale di
nome, in realtà essenzialmente mediterranea - risulta dalla
giustapposizione e dall'intreccio di fatti privi di organica
unità e non ha titolo per essere chiamata Medioevo. In tanto
è legittimo parlare di Medioevo, non nel senso di un vuoto,
di una lacerazione nel tessuto storico, ma di una vera età
intermedia fra l'antica e la moderna, erede dell'una, madre
dell'altra, distinta da esse per propri limiti e caratteri,
accentrata per il proprio, sostanziale significato, in una
determinata coscienza di Stato e di Chiesa, in quanto s'intenda per
essa la storia della fondazione d'Europa su base cristiana e romana,
della formazione e della dissociazione del cattolicismo europeo.
Il mondo classico lascia in eredità all'Occidente, oltre al
patrimonio degli ordinamenti civili, cioè delle leggi e delle
armi, delle città, dei monumenti pubblici, delle grandi vie
di comunicazione, dei processi di produzione e di scambio -
patrimonio destinato a subire profonde alterazioni, ma a
sopravvivere e a rivivere - l'erudizione, la tecnica della lingua e
dello stile, i modelli della letteratura e dell'arte, la
speculazione platonica e neoplatonica che alimenterà il
pensiero di Sant'Agostino e di Boezio, e, per essi, insieme con le
dottrine aristoteliche, il pensiero dell'intero Medioevo, infine un
senso d'impero e di avilitas, d'universalità politica,
civile, e umana che durerà trasfuso e trasfigurato nella
nuova coscienza politica e religiosa. La tradizione romana è
accolta, conservata, rinnovata essenzialmente dalla Chiesa, che ne
afferma su diversi principî l'universalità, esprime
l'esigenza del governo cristiano del mondo, opera con le arti e le
armi di Roma la sua conquista spirituale.
La Rivelazione, la coscienza sacramentale, cristiana e romana, sono
il carattere unico, la sostanza del Medioevo. Col che s'intende
naturalmente esprimere il significato del periodo, non pronunciare
su di esso un giudizio di pubblica o privata moralità in
confronto dell'evo antico e dell'evo moderno. A questo credo vanno
riferiti tutti i grandi momenti della storia medievale: l'espansione
e la formazione d'Europa su nuove basi, le lotte delle
potestà universali, le guerre di conquista e di difesa contro
Arabi, Turchi, Bizantini, il processo finale di differenziazione e
dissociazione della repubblica cristiana. A questo fondamento
religioso vanno ricondotti tutti i grandi caratteri del periodo: la
filosofia che è una teologia, il mondo sensibile considerato
come specchio della Verità trascendente, le lettere e le arti
destinate ad esaltare la fede, l'incessante richiamo all'ordine e
alla purezza in mezzo all'anarchia e alla corruzione, il germogliare
perenne delle profezie escatologiche e apocalittiche, la sorte degli
uomini e dei popoli sulla terra concepita come un dramma umano e
divino, che trae luce e valore dalla Provvidenza, dal peccato, dalla
Redenzione, dal Giudizio.
Argomenti di varia natura possono essere opposti a questa
individuazione positiva, storicistica del Medioevo: l'analogia con
altri assetti politico-religiosi - come il sacerdozio e la monarchia
ebraica, l'Atene di Socrate, il califfato - in cui la classe
sacerdotale esercita un impero sulle coscienze e un potere politico,
in nome di Dio o degli dei patrî; la mancanza di una vera
politica e di una vera cultura; il carattere di staticità e
di uniformità che viene al periodo dagl'incessanti conflitti
fra potestà laica e potestà ecclesiastica, dalle
ripetute affermazioni di primato e di supremazia fatte in ogni tempo
dalla Chiesa con uguale fermezza e con diversa fortuna. Ma le
obiezioni sono più apparenti che reali. Le vaghe analogie
nulla dicono contro l'individualità del Medioevo, dato che
essa e i problemi che le sono propri risiedono non in un regime e in
una fede qual si voglia, ma concretamente nel cattolicismo e nella
repubblica cristiana, nel loro carattere universale, nelle speranze
e nelle promesse su cui è fondato tutto l'edificio religioso.
Se l'età di mezzo è stata ed è spesso anche
oggi considerata come un iato, una negazione politica e culturale,
ciò dipende unicamente dal fatto ch'essa non corrisponde al
concetto moderno di stato e di cultura, ed equivale in certo modo a
riconoscere indirettamente la sua impronta unitaria, soprastatale e
soprannazionale, trascendente, cristiana e cattolica. Effettivamente
difficile riesce rintracciare nelle affermazioni teocratiche uno
svolgimento storico, assegnar loro il valore di un programma che
sarà alla fine compiuto, ma ciò appunto perché
esse trascendono più che non precorrano i tempi, com'è
trascendente il principio che anima la Chiesa e la coscienza
contemporanea. Per ciò che riguarda infine
l'uniformità antagonistica delle relazioni fra il potere
temporale e lo spirituale, converrà non prendere in blocco,
ma vedere quale significato abbiano di volta in volta i conflitti,
quale sia l'individualità dei singoli momenti in cui si suole
tradizionalmente dividere la storia medievale.
Il primo grande momento è la progressiva fusione di vincitori
e vinti nell'orbita della romanità e del cattolicismo, la
formazione di un'Europa cattolica e la sua espansione di là
dalla Manica e dal Reno. Contribuiscono potentemente a questo
processo religioso unitario il prestigio, la saggezza civile,
l'apostolato della Chiesa, il suo spirito d'indipendenza contro
Bizantini e Longobardi, la forza e la fede dei Franchi, la minaccia
islamica. L'incoronazione di Carlomagno, comunque l'atto vada
giudicato nelle sue contingenze, è il segno che nella
coscienza contemporanea l'unità è compitita; la
consacrazione per mano del pontefice, che l'impero è
investito di una missione religiosa. Propagatori del Vangelo sono
ì missionarî di Roma o i soldati di Carlo; lo splendore
letterario della sua corte è per gran parte un germoglio di
cultu̇ra monastica irlandese; vescovati e monasteri diventano i
centri più cospicui di attività politica, culturale ed
economica. Ma l'unità ha un che di superficiale e di
occasionale, è più una consapevolezza religiosa,
un'aspirazione della società colta, una pratica di governo,
che non una profonda realtà di tutta l'Europa carolingia. La
quale appare sotto altro aspetto come un assetto un po' provvisorio
di vincitori e di vinti, un aggregato di popoli con proprie leggi
sotto un regime personale, una società elementare di milizia
feudale, di cultura ecclesiastica, di lavoro servile.
Si continua a credere o a sperare nel governo cristiano del mondo
anche quando l'impero è irrimediabilmente caduto; illusione
tanto più vivamente secondata dalla Chiesa in quanto essa non
può concepire legittimamente altro regime e vede in quello la
condizione necessaria per il compimento del suo ministero. In
realtà il tessuto sociale si viene rinnovando dal profondo
con un lento processo organico. Protagoniste della nuova età
sono le aristocrazie militari promosse dalle guerre dei Pipinidi,
che si radicano alla terra e distendono su tutta l'Europa l'immensa,
intricatissima rete feudale. Fatte pure le dovute riserve sulla
persistente vitalità economica e culturale delle antiche
città romane, sulle navi venete, pugliesi, campane che
battono le vie dell'Oriente, dominano in ogni dove il
particolarismo, la commistione di pubblico e di privato, di laico e
di ecclesiastico. Possono servire di simbolo a questa età il
giudizio di Dio e la guerra privata, la chiesa privata, la nomina e
l'investitura laica, la cellula economica della curtis. Di comune
nell'universale frazionamento non rimane che la pratica del culto,
la fede nell'istituto carismatico della Chiesa; le sole voci elevate
sul tumulto degl'interessi individuali e territoriali sono le
dottrine politiche di Agobardo di Lione, di Wala di Corbie, di Floro
di Lione, di Valafrido Strabone, di Amalario, di Incmaro, che,
comunque risolvano il problema delle relazioni fra i due poteri,
tengono fermo al compito unitario del reggimento cristiano; sono le
affermazioni teocratiche del Costituto di Costantino e delle
decretali pseudo-isidoriane, del papato stesso che, nel disfacimento
della monarchia carolingia, è chiamato con Niccolò I a
farsi giudice ed arbitro supremo fra i potentati dell'Occidente.
Nel torbido travaglio dei secoli IX e X un duplice processo si viene
svolgendo nella società europea: da un lato di gerarchia
feudale che mette capo alle monarchie di Francia e di Germania,
dall'altro di gerarchia ecclesiastica che mira sempre più
decisamente a Roma. I due moti, animati dall'ideale cristiano,
rispondenti all'esigenza comune di superare il disordine civile e la
corruzione morale del feudalesimo, sono destinati ad incontrarsi. I
Sassoni liberano il papato dalle fazioni locali e riassumono con
Ottone III la missione religiosa dell'impero.
Si tratta, dalla restaurazione alla metà del sec. XI, di
creazione nuova in un'Europa ben diversa da quella di Carlomagno.
Non più i vecchi confini né la minaccia delle
invasioni: Arabi e Bizantini cominciano ad arretrare in Spagna e in
Italia; Inghilterra, Boemia, Polonia, Ungheria sono ormai incluse
nell'orbita europea. Non più capitolari, ma leggi; non
più conti, vescovi, abati, missi dominici, ufficiali
personali del principe, ma feudalità laica ereditaria, chiesa
nazionale di vescovi-conti, corpo e fondamento dello stato. Se
l'impero mirava ancora al governo cristiano del mondo o almeno
dell'Occidente, in realtà non abbracciava che le corone
d'Italía, di Germania, di Borgogna. Fuori del nucleo e del
nesso italo-germanico, s'erano formati stabili organismi politici,
fra i quali incominciava a primeggiare il reame di Francia. Classi
nuove, germogliate dalla formazione gerarchica dello stato feudale,
scosse da un torbido fermento di odî, di ambizioni, di
energie, si affacciavano alla scena della storia: i cavalieri
francesi, i ministeriali tedeschi, i valvassori italiani, le
cittadinanze dell'immunità vescovile, gli agricoltori
svincolati dalla servitù.
A volgersi indietro, fatte pure le debite riserve ed eccezioni, nel
mondo della cultura tutto pare uniforme, gli animi sembrano presi da
un unico grande problema, la salvezza e la dannazione, come una
è la lingua degli scrittori, quella della Chiesa. Trivio e
quadrivio, destinati a scopi devoti, sono un patrimonio morto, che
cresce di volume, non di valore, una tradizione scolastica e
libraria, piuttosto che una tradizione di pensiero. La natura
è un riposto simbolismo della fede, che s'interpreta
sull'autorità della Bibbia e dei Padri. La poesia parla di
terrori e di trionfi religiosi, la storia, del dramma del mondo,
umano e divino ad un tempo, in cui Dio interviene direttamente,
attore e giudice fra gli uomini. Essi operano, giudicano, godono,
soffrono, ma l'azione e la passione individuale si arrestano davanti
alla maestà della sapienza e della fede. La stessa immagine
umana tende nella figurazione artistica a perdere importanza, ad
essere subordinata ai motivi di ornamentazione floreale. I disordini
interni e i pericoli esterni tagliano i nervi, restringono l'ambito
delle intraprese economiche. Ora a guardarsi intorno, fra il sec. X
e l'XI, si sente che c'è qualcosa di nuovo, una vita che
germina e rompe la scorza: c'è la curiosità
scientifica del mago Gerberto e la bassa vivace umanità del
vescovo Liutprando, c'è la polemica razionalistica di
Berengario e di Lanfranco, qualche nitido ricordo classico di eroica
vita civile, il primo balbettio dei volgari che affiorano nelle
scritture, vi sono le architetture romaniche e le rappresentazioni
cavalleresche del duomo di Modena, e v'è infine l'ampio
respiro della riscossa e della conquista dacché gli Arabi
sono stati snidati dal Garigliano e da Frassineto.
L'istanza di riforma, di tregua di Dio, soprattutto di
libertà ecclesiastica contro la chiesa territoriale e
privata, ch'era stata posta dai teorici dell'età carolingia,
poi da Raterio di Liegi, da Attone di Vercelli, da Odone di Cluny,
dagli eremiti come San Romualdo e San Nilo, dagli stessi maggiori
potentati laici nell'interesse dello stato nascente, ch'era stata
soddisfatta con la mutua restaurazione di papato e d'impero, viene
ora riaffermata, contro l'impero stesso, dal papato rifatto ormai
conscio della sua missione universale.
E scoppia la lotta delle investiture, ch'è la crisi del
Medioevo, cioè del governo cristiano, unitario
dell'Occidente. Si trovano di fronte libertà e gerarchia
ecclesiastica da una parte, feudalesimo e chiesa territoriale
dall'altra. L'impero, lo stato medievale in genere, forte di una
tradizione di secoli, tien fermo al suo diritto storico e
all'unità; la Chiesa, dopo aver cristianizzato e romanizzato
tutta Europa, dopo aver penetrato tutta la società ed esserne
stata in certo modo assorbita, solleva contro la potestà
laica l'esigenza tremendamente rivoluzionaria della libertà e
della teocrazia, e può nel tempo stesso affermare in buona
fede per bocca di Gregorio VII che non intende innovare, ma
semplicemente restaurare l'antica norma.
L'unità è spezzata, la coscienza etico-politica
è divisa: clero e laicato, districatì l'uno
dall'altro, tendono a costituire due mondi distinti, ciascuno con
proprie ragioni, con interessi e scopi particolari.
Le due vie delle potestà universali divergono. La Chiesa
prosegue attraverso lotte angosciose la sua parabola ascendente fino
alla sommità teocratica d'Innocenzo III, maestra di leggi,
modello sempre più perfetto di costituzione gerarchica e di
organizzazione finanziaria, moderatrice nei momenti migliori della
politica europea, alta signora feudale, di nome o di fatto, di gran
parte della più recente Europa periferica, animatrice e
condottiera delle cittadinanze italiane nella lotta per la riforma,
della cavalleria francese alla conquista dell'Oriente. Il vecchio
tronco rigermoglia prodigiosamente, secondo le esigenze dei tempi,
negli ordini religioso-militari per la difesa e l'evangelizzazione
armata, negli ordini mendicanti per l'estirpazione dell'eresia, la
predicazione fra le classi nuove del popolo, le missioni. Ma
v'è in questa grandezza e vivacità qualcosa
d'illusorio e di contraddittorio. Se l'edificio politico -
teocratico e feudale - della Chiesa appare per il momento una
possente realtà, le sue fondamenta sono a poco a poco
distrutte da una nuova coscienza di Stato e di Chiesa.
Roma aveva trionfato a capo dei crociati, ma aveva aiutato con
ciò stesso i suoi antagonisti, i re, a consolidare contro il
feudalesimo la monarchia; s'era valsa delle cittadinanze per
combattere vescovi e imperatori ribelli, e aveva promosso energie
destinate alla fine a sfruttare più che a servire la Chiesa,
a sovvertirne più che a rafforzarne le basi terrene.
Dopo la chiesa feudale e la gerarchica, di fronte al saldo organismo
del clero secolare e regolare, la nuova milizia degli ordini minori,
uscita dal popolo e destinata ad operare tra il popolo, esprime la
religiosità un po' torbida, il fermento della società
onde son nati. A prescindere dall'eresia, arnaldista o valdese, lo
stesso rifiorire di speranze apocalittiche nella profezia di
Gioacchino da Fiore, l'imitazione di Cristo di San Francesco sono
un'elevazione sopra le lotte politiche, un germe che, attraverso
l'interpretazione gioachimitica della leggenda francescana e la
controversia minoritica della povertà, metterà capo
alle dottrine politiche di Marsilio da Padova, di Guglielmo Occam,
di Giovanni Wycliffe.
L'impero dall'altro lato combatte e si difende, ma ormai non lavora
più per sé. Privato, per così dire, della sua
sostanza religiosa, esso riscopre l'altro suo titolo al dominio
universale, il diritto romano, e ripara, sotto la sua egida, in
un'assoluta sovranità, non derivata da Dio, non vincolata
alla Chiesa, ma fondata su titoli giuridici, sorta dalla terra e
dall'uomo. Questa la ragione essenziale per cui potevano i nemici
ravvisare in Federico II l'anticristo, in quanto cioè
vedevano in lui il primo esempio del sovrano moderno, laico e
anti-ecclesiastico, che tradiva la coscienza religiosa medievale e
derivava da sé stesso la propria autorità. Se non che
le ragioni storiche donde era sorto l'assolutismo di Roma, non
trovano ormai più alcuna rispondenza nel mondo contemporaneo
e il principio nuovo di sovranità assoluta enunciato dal
diritto imperiale, anziché legittimare l'impero, viene
incontro alle esigenze politiche dei potentati territoriali in lotta
contro i due poteri supremi. L'universalismo d'impero potrà
continuare a vivere in una vana tradizione nostalgica; in
realtà nel sec. XIII, non solo è finito l'assetto
unitario del governo cristiano d'Europa, ma entro i confini, ormai
ristretti, dell'impero, nuovi organismi politici, i comuni,
acquistano l'autonomia e tendono, di fatto, all'indipendenza e alla
sovranità; di là dai confini gli stati particolari
affermano più nettamente una propria vita, difendono i
proprî interessi, stringono alleanze, manifestano tendenze e
antagonismi, che segnano i primi lineamenti del futuro sistema
politico europeo: Inghilterra contro Francia, Aragona verso Italia.
La Germania stessa, guelfa o ghibellina, entra alla pari nelle
competizioni francesi e inglesi. Se l'impero è ancora il
protagonista di un'Europa che muore, il primato della nuova Europa
è ormai della Francia, che ha consolidato la monarchia, preso
decisamente il sopravvento sull'Inghilterra, stretto alleanza con
Roma, e al servizio di Roma illuminato l'Occidente con le scuole di
Chartres e l'università di Parigi. La guerra che si combatte
di qua e di là dalla Manica, il comune d'Italia che
grandeggia con la sua politica e la sua economia, la monarchia
livellatrice che fonda la giustizia regia, chiama il terzo stato a
parte della costituzione, si crea i suoi ministri, la sua
burocrazia, l'esercito, la finanza, - sono altrettanti aspetti e
momenti dell'edificio feudale che cede al nascente stato moderno.
L'intera vita europea dalla lotta delle investiture al sec. XIII
riflette in qualche modo questa progressiva dissociazione della
coscienza politica e della coscienza religiosa; in tutte le grandi
manifestazioni della cultura si avverte sempre più chiaro un
procedimento analogo dal trascendente all'immanente, dal divino
all'umano, dall'universale al particolare. All'agostinismo
platonizzante sottentra l'aristotelismo; la natura, non più
allegoria dell'eterna Verità, diventa oggetto d'indagine
scientifica; ragione e fede, fuse e confuse per secoli, si
distinguono l'una dall'altra, prima alleate e poi nemiche. Le
stilizzate figurazioni bizantine si animano di realismo, mentre
corti, fiere, ritrovi cittadini, si allietano di canti d'amore, di
novelle, d'avventure cavalleresche nei nuovi idiomi latini di
Provenza, d'Italia, di Francia. La borghesia mercantile, soprattutto
italiana, batte per terra e per mare le vie d'Europa, d'Africa e
d'Asia; l'agricoltura rifiorente, l'economia nuova del denaro e
degli scambî, l'attività edilizia, le complesse
relazioni personali, ritrovano nella legge di Roma la norma
giuridica del vivere civile.
Il conflitto di Bonifacio VIII con Francia e Inghilterra, la lotta
di Ludovico il Bavaro contro la Chiesa, lo scisma e l'età
conciliare sono i grandi momenti attraverso i quali si compie il
processo della dissoluzione del Medioevo e si forma, con la nuova
coscienza politica e religiosa, la nuova configurazione dell'Europa
moderna. La Santa Sede con Innocenzo IV, Gregorio X, Niccolò
III, Bonifacio VIII, ha ormai domato l'impero e appare al mondo
contemporaneo, talvolta ai suoi stessi fautori, più che il
grande istituto carismatico, come istituto temporale di chiese e di
monasteri, come il più formidabile organismo giuridico,
politico e fiscale, che esercita, di fatto, un potere supremo su
tutti gli stati. La bolla Unam Sanctam raccoglie una tradizione
ormai plurisecolare, che viene riecheggiata da Egidio Romano, da
Giacomo da Viterbo, da Agostino Trionfo, da Egidio Spirituale di
Perugia, da Alvaro Pelagio. Ma la teocrazia, impoverita della sua
anima religiosa, abbassata a strumento di fiscalità e di
governo temporale, era ormai un anacronismo, un edificio privato
delle fondamenta, in quanto rappresentava la temporalità di
un ideale di universalità e di trascendenza che non aveva
più radice nella coscienza contemporanea. Il grande trionfo
sull'impero era stato, in certo modo, il principio della rovina, il
venir meno della base materiale su cui poggiava quella supremazia
spirituale, il frantumarsi della concezione unitaria, divina e
umana, della cristiana repubblica.
Anche sulle sorti e sulla gloria dell'impero v'è in Germania
chì s'illude e si esalta: Guglielmo di Osnabrück,
Alessandro di Roes; ma non sfugge l'irrimediabile rovina a Lupoldo
di Bebenburg, a Corrado di Megenberg. Accanto al concetto d'impero
si viene delineando sempre più nettamente quello di regno, di
stato territoriale, nazionale, germanico; cagioni e risultati della
lotta contro la Santa Sede o della devozione verso di essa, sono,
per l'imperatore come per i principi elettori, l'ingrandimento
dinastico, l'indipendenza, più che non la supremazia.
In Italia, mentre sulla base del comune s'instaura la signoria
regionale con tendenza livellatrice di assolutismo e di democrazia,
Chiesa e Impero sopravvivono nei poeti, nei veggenti, nei teorici al
servizio imperiale; ma qui pure con novità di motivi, di
problemi, di soluzioni. La Chiesa è quella di cui si
condannano la troppa esperienza giuridica, l'avarizia, le ambizioni
mondane, di cui, dietro lo spiritualismo gioachimitico, s'invoca
quasi disperatamente la provvidenziale purificazione. L'impero
indipendente, superiore nel temporale alla Chiesa, è garanzia
terrena di pace, di giustizia, di libertà; suo fondamento, la
sovranità popolare che si esprime nell'antica sede per
suffragio dei Romani. Al governo ideale del mondo presiede quindi un
sentimento moderno, nazionale, italiano e latino; la romanità
stessa incomincia ad apparire come un modello che dev'essere
tradotto nella pratica della vita civile, nella politica nell'arte,
nella filosofia.
Vero è che la battaglia decisiva per la fondazione dello
stato e dell'Europa moderna non si combatte né in Germania,
né in Italia. Come si è visto, assai prima che Colombo
salpasse alla scoperta del Nuovo Mondo, il centro della politica
europea si era venuto trasferendo verso Occidente, cioè sia
verso l'Inghilterra, sia, soprattutto, verso la Francia. Nei due
regni per l'appunto si elaborano con la maggiore energia e
libertà la dottrina e la pratica dello stato moderno. Il
comune, irreconciliabile nemico è la Chiesa. In nessun altro
paese poteva destare più violenta ostilità la sua
ingerenza fiscale e politica, che in Francia e in Inghilterra, dove
l'autorità papale veniva ormai a urtare contro una coscienza
di stato e di nazione, formatasi attraverso la tradizione dinastica,
l'accentramento monarchico, e guerre e sacrifici senza tregua. Quali
si siano i fondamenti della speculazione dottrinale e della polemica
pubblicistica, il principato temporale non è più
divino ministero, vincolo di fedeltà fra gli uomini, ma
dominio, giurisdizione da un lato, sudditanza, servitù
dall'altra; lo stato non nasce dall'alto, dall'esigenza religiosa di
mettere in pratica fra gli uomini la legge di Dio, ma dagli uomini
stessi, volontaristicamente, per il bisogno di assicurare a ciascuno
il suo e di garantire la pacifica convivenza. A fronte di Chiesa e
d'Impero si costruisce lo stato sovrano, che nelle cose temporali
non riconosce alcun potere superiore a sé stesso.
Negl'intralci politici, nelle sempre rinascenti necessità
finanziarie, si lavora con energia all'abolizione del privilegio
ecclesiastico, alla costituzione di una chiesa nazionale, gallicana,
anglicana, subordinata, meglio, incorporata nello stato. Il popolo
delle città, la borghesia, si affianca alla nobiltà e
al clero nella lotta, per la monarchia nazionale e nella tutela dei
proprî interessi economici di fronte alla monarchia stessa; il
parlamento nei suoi tre ordini esprime a un tempo l'affermazione
della sovranità popolare e la formazione dell'unità
nazionale intorno alla dinastia. Dalla nuova coscienza politica
s'affaccia anche a pensatori più o meno utopistici la visione
di una nuova costituzione europea, di una respublica Christicolarum,
confederazione di stati sovrani, ove l'impero non è
più, e l'unico pontefice potrebbe forse, senza danno, essere
sostituito da altrettanti pontefici quante sono le chiese nazionali.
L'argomento più scottante, posto innanzi dalla potestà
laica con tanto maggiore insistenza, quanto più s'inaspriva
la lotta contro la Santa Sede e la condanna delle sue pretese
temporali, era il problema se e a chi spettasse procedere contro il
papa eretico; l'arma più insidiosa foggiata dalla polemica
era l'invocazione al concilio, istituto anch'esso parlamentare,
manifestazione di sovranità popolare, che avrebbe dovuto
sanare i mali ond'era afflitta la Chiesa. Per uno dei suoi grandi
aspetti, lo scisma nasce dall'ambizione delusa di una Francia
egemone in Europa, dal conflitto tra cattolicismo e chiesa
nazionale; i concilî ove la questione fu agitata, furono le
assise della nuova Europa di nazioni e di stati nazionali, la
rassegna dell'aristocrazia intellettuale laica ed ecclesiastica,
che, alleata dei re o loro nemica, era stata la protagonista nel
promuovere, interpretare, illuminare il travaglio della coscienza
contemporanea. Il risultato fu, per il momento, una restaurazione
del cattolicismo monarchico, limitata dalla dichiarazione della
superiorità del concilio, dall'obbligo della riforma e della
cooperazione conciliare, dalla soluzione di compromesso dei
concordati nazionali. In realtà la Chiesa usciva più
profondamente ferita dalla lunga crisi dei secoli XIV e XV; non solo
perché la reformatio insistentemente richiesta era
un'esigenza ormai ineluttabile e nel tempo stesso un compito di
quasi insuperabile difficoltà; ma perché da più
parti, Marsilio, Occam, Vycliffe, Hus, su diversi principî,
era stato mosso l'attacco contro il primato, la gerarchia,
l'istituto stesso sacramentale della Chiesa, era stata affermata una
religiosità personale che si richiamava direttamente alla
parola delle Scritture, alla Grazia e alla Predestinazione senza
mediazione ecclesiastica.
Il Medioevo era così tramontato. L'universalismo, triplice e
uno, religioso politico culturale, dopo aver mitigato l'impeto delle
invasioni, allargato i confini dell'Occidente, contenuto e avviato a
più civili ordinamenti l'anarchico particolarismo feudale,
era andato perduto nel mondo stesso ch'esso aveva creato, e dal
fondo comune di un'Europa ormai cristiana e romana, erano emerse,
sempre meglio differenziate, le individualità nazionali di
stato, di fede, di cultura.
Nel disfarsi dell'unità, nuovi problemi, diversi di natura e
di luogo, erano posti dall'istanza di una religione individuale e
dalla pregiudiziale teologica contro la Chiesa di Roma, dalla
formazione di un sistema di grandi monarchie accentrate e sovrane,
dal concentramento e dall'organizzazione delle attività
economiche, dalla rivalutazione dell'uomo e della natura nella
cultura accademica nella letteratura, nell'arte, nella politica,
dalla riscoperta del mondo classico, come modello di vita e di
bellezza.
[...]
Cultura.
La cultura greco-romana, nell'ora in cui i barbari si apprestavano a
rovesciarsi sul mondo civile, era oramai ben lontana dalla grandezza
antica. Indebolita dalla lunga e grave crisi politica economica e
morale che l'impero aveva attraversato nel secolo III, impoverita
dalla rivoluzione libraria che, sostituendo il codice al "volume"
proprio in quei tempi di diminuito interesse storico, artistico e
scientifico, aveva trascurato la trascrizione e procurato quindi la
perdita di un gran numero di opere spesso importanti, era una
cultura ormai stanca, che alle indagini e alle meditazioni originali
preferiva le compilazioni erudite, e plaudiva a libri che, come
quello famoso di Marziano Capella, si studiavano di compendiare
entro classificazioni semplificatrici il sapere antico. Era tuttavia
una cultura rispettabile, consapevole delle sue nobili tradizioni,
degna di sopravvivere all'urto d'ogni forza nemica.
Nemici non le furono tutti, e sempre e di deliberato proposito, i
barbari. I Goti per esempio, che i lunghi rapporti con l'impero
avevano reso più sensibili all'influsso dei costumi e delle
idee che vi dominavano, favorirono in Italia con re Teodorico le
arti e le lettere. E per lunghi anni il romano Cassiodoro, ministro
dei primi re goti, poté sperar di salvare l'antica
civiltà mediante una purtroppo utopistica conciliazione e
collaborazione dei due popoli. Ma anche i Longobardi che, cresciuti
affatto in disparte dal mondo civile, portarono in Italia tante
rovine, e tanti mali inflissero ai Romani, smisero con l'andare del
tempo la loro ferocia, s'accostarono alla nostra cultura; e fu dal
loro seno che uscì alla fine un Paolo Diacono. Se non che,
anche quando si mostrarono meglio disposti, i barbari produssero a
ogni modo un abbassamento generale della cultura, poiché,
mentre nulla vi apportarono di originale, vennero a occupare, essi
incolti e incuriosi per lo più di scienza, i posti di
direzione e di responsabilità politica e sociale, e
respinsero i Romani verso uno stato di soggezione e di
povertà, dove la vita intellettuale era destinata a
intristire. Così, poco dopo la calata dei barbari, nelle
diverse provincie dell'impero le scuole pubbliche si chiusero e
l'istruzione del laicato rovinò.
Depositario della cultura rimase il clero. Ma tra i più
auiorevoli rappresentanti del pensiero cristiano non mancarono,
né prima né poi, opposte tendenze. La conquista delle
classi intellettuali era stata possibile al cristianesimo grazie
all'assimilazione della cultura greco-romana. La letteratura
cristiana dei primi secoli s'era modellata sulla letteratura pagana,
ne aveva assunto le forme, ne aveva usato i procedimenti, vi aveva
adattato il nuovo suo spirito. Nello stesso tempo il cristianesimo
non aveva perduto di vista le classi umili, quelle che avevano
costituito la prima irresistibile sua forza; ed è
caratteristico di molti autori cristiani il tentativo di adattare
concetto ed espressione alla capacità del popolo incolto,
ciò che costituì un abbassamento non involontario del
livello intellettuale. D'altra parte le esigenze stesse della lotta
contro la relígione avversa spingevano i cristiani, in nome
del loro Dio, imperscrutabile verità e infallibile
bontà, a proclamare e condannare la vanità della
scienza profana, l'indegnità dell'arte pagana. Ma quando
l'imperatore Giuliano, appunto per questa loro opinione, li aveva
esclusi dall'insegnamento, essi avevano levato le più fiere
proteste, sentendo tutta l'utilità, per un illuminato
sviluppo dell'idea cristiana, d'un'avveduta educazione classica. Il
divieto di Giuliano ebbe breve durata; ma persistette in seno al
cristianesimo un grave contrasto di tendenze: chi mirava a
conservare gelosamente e chi lasciava disperdere senza rimpianti
l'eredità della cultura antica; gli uni temevano l'avanzare
dell'ignoranza, gli altri l'insidia dell'errore pagano. E quando,
con l'avvento dei barbari, con l'immiserimento del laicato romano,
con la scomparsa delle scuole pubbliche, il superstite patrimonio
intellettuale non restò più affidato che al clero, fu
chiaro che il prevalere della tendenza antintellettualistica avrebbe
inflitto alla cultura irreparabili danni. Fu allora che intervenne
in modo decisivo un uomo, che aveva già cercato, senza
riuscirvi, di volgere a profitto della civiltà l'elemento
barbarico: Cassiodoro. Con la fondazione del monastero del Vivario,
e con la regola che v'impose a sé stesso e agli altri, egli
diede un esempio che, fortunatamente raccolto dalla maggior parte
delle comunità religiose dell'Occidente, fu fecondo di gran
bene. Alla regola benedettina, che imponeva con la preghiera il
lavoro, Cassiodoro nulla aggiunse, ma specificò che nel
lavoro dovesse essere compreso anche lo studio; e quale dovesse
essere lo studio mostrò nelle sue Institutiones, che sono
nello stesso tempo una specie di manuale enciclopedico e di guida
bibliografica. La posterità vi trovò le nozioni
essenziali di tutte le scienze sacre e profane (queste ultime
classificate secondo il canone settenario divulgato da Marziano
Capella), e per ciascuna scienza l'indicazione delle fonti di
studio, autori e opere, a cui si doveva ricorrere direttamente.
Grazie a questi suggerimenti, e grazie soprattutto al fatto che tra
i compiti manuali da lui prescritti ai monaci ci fu quello della
trascrizione dei libri, Cassiodoro riuscì a salvare una parte
cospicua dell'antica letteratura latina. Certo avvenne che, nel
corso dei secoli, quando vi fu penuria di pergamena, i monaci
addetti all'opera di trascrizione raschiassero scritti classici e vi
sostituissero scritti religiosi di assai minore importanza (e si
ebbero così i palinsesti, sacri alla gioia e alla gloria
degli scopritori moderni); ma se i maggiori e migliori autori
profani, non esclusi i più spregiudicati pagani, non andarono
perduti, è merito principale di Cassiodoro e di coloro che
vollero e seppero seguire il suo insegnamento. Non per questo la
tendenza antintellettualistica cedette le armi, anzi durò a
lungo; e parve talora in questo o in quel luogo prendere il
sopravvento. Essa si poteva far forte di certe gravi parole
pronunziate da un uomo per altri lati altamente benemerito della
civiltà latina: Gregorio Magno.
Quel che nessuno riuscì a salvare in Occidente fu il tesoro
dell'esperienza greca, consegnato in quella mirabile letteratura,
che per tanti secoli aveva illuminato la via agli autori romani. Ma
la conoscenza del greco s'era fatta poi rara, s'andò anzi via
via perdendo, onde sarebbe stata necessaria un'intelligente e
sistematica opera di traduzione, che venne invece a mancare. Vi
pensò Boezio che aveva concepito, tra l'altro, il piano
grandioso di tradurre in latino, con appropriati commenti, tutte le
opere di Aristotele e di Platone; ma il suo tragico destino non gli
permise di attuare che una piccola parte di quel programma. Ma a
quel poco che Boezio ebbe il tempo di tradurre l'Occidente fu
debitore di tutto, o di quasi tutto quel che conobbe, sino al secolo
XII, della scienza e della filosofia greca. Di tutta l'altra
letteratura greca, massime della poesia, non seppe presso che nulla.
Strumento unico della cultura in Occidente rimase la lingua latina.
Ma il latino letterario, così come l'avevano costituito i
grandi poeti e prosatori, sino a Cicerone e Virgilio, così
come l'avevano mantenuto i loro successori, pagani e cristiani, per
cinque altri secoli, era una lingua a cui mal corrispondeva oramai
il latino parlato nelle diverse regioni del distrutto impero: era
una lingua che, per essere letta e scritta, doveva essere
metodicamente imparata. Si comprende perciò come, proprio
sulla soglia del Medioevo, si trovasse qualcuno a fornire come una
codificazione: Prisciano. Le sue Institutiones rimasero, insieme con
le più antiche e anche più fortunate Artes di Donato,
il fondamento, non sempre e non da tutti convenientemente usato,
della latinità medievale. Ma quel che è notevole
è che, bene o male, e ad onta dello svilupparsi e
dell'affinarsi delle diverse lingue volgari (non tutte derivate dal
latino, alcune anzi straniere), alla latinità per lunghi
secoli concordemente si tenesse fede. Ed è questo il primo e
più appariscente segno di quell'unità e di quella
universalità che sono caratteristiche della cultura
occidentale del Medioevo.
Eredità dell'impero; ma, venuto meno l'impero, fu la Chiesa
romana che seppe assicurare quell'unità, sostanziare
quell'universalità. Provvidenziale, a tal fine, l'opera di
Gregorio Magno. Per la sua illuminata volontà si
riaffermò in tutta la cristianità occidentale la
preminenza del pontefice romano, e Roma poté divenire la sede
di un nuovo impero spirituale. E fu impero di mirabile coesione:
unica la fede, unica la dottrina, unica l'autorità. E
poiché lo strumento di quell'autorità, il clero, era
rimasto, come s'è detto, il solo depositario della cultura ed
era destinato a essere per lunghi secoli il solo produttore della
nuova letteratura, era naturale che vi imprimesse fortemente il
suggello della sua fede e della sua dottrina. Così la
teologia viene a collocarsi al centro della cultura e della
letteratura medievale: l'esposizione dei dogmi, l'interpretazione e
il commento dei libri sacri, l'apologia della fede, la predicazione,
l'istituzione dei sacerdoti, l'edificazione dei fedeli, la
narrazione dei miracoli, degli esempî, delle vite dei santi
attirano il principale interesse ed esercitano la maggiore
attività dei dotti medievali. Ma anche quando si occupano
d'altre materie si lasciano dirigere da criterî teologici. E
se trattano di storia, volgono volentieri lo sguardo alla storia
ecclesiastica, amano spesso inquadrare gli avvenimenti in cronache
universali che si rifanno dalle origini del mondo, trascurano in
genere l'elemento personale, accettano facilmente l'elemento
soprannaturale, quasi rinunciano a ogni critica, onde leggende e
perfino romanzi passano presso di loro come storia. E se s'applicano
allo studio dei testi classici, si sforzano di trarne
un'interpretazione allegorica, che li avvicini alle concezioni
cristiane. E se tentano le scienze, è solo, o quasi solo, in
quanto esse possano servire a intenti religiogi. Ma ogni vera
curiosità scientifica s'affievolisce, e le arti del quadrivio
(geometria, aritmetica, astronomia, musica), come pure la medicina e
il diritto, devono aspettare lunghi secoli prima di ritrovare
cultori e indagatori originali. Maggior interesse destano le arti
del trivio (grammatica, retorica, dialettica), come quelle che
insegnano a intendere i testi sacri e profani, a comporre ogni
genere di scrittura, a ragionare dei problemi che occupano tutte le
menti. Certo i dotti del Medioevo non disdegnano la poesia; e
verrà tempo che ardiranno anche coltivarla liberi da
preoccupazioni estranee; ma in genere la piegano a scopi didattici,
e mettono in versi grammatica e medicina, scienze umane e scienze
divine, storia sacra e storia profana, quando non preferiscono la
satira morale e l'invettiva politica, l'enimma istruttivo,
l'epigramma concettoso, l'elogio o il compianto edificante. La
liturgia li invita a spiegare le loro facoltà poetiche nella
composizione degl'inni; e l'innografia arricchisce la versificazione
latina di nuove forme, si scioglie dalle regole della metrica per
abbracciare i principî della ritmica, accoglie l'ornamento
della rima; e alletta a ricalcar le sue orme la lirica profana, che,
fievole dapprincipio, avrà solo più tardi un forte e
pieno sviluppo.
Tale, nel suo complesso, la cultura medievale. Cultura latina: anche
perché il latino per forza di cose era diventato, ed era
destinato a rimanere in perpetuo, la lingua ufficiale della Chiesa
romana, la lingua sacra dei suoi riti. Cultura cattolica: e apparve
con comuni caratteri, superiore a ogni differenza nazionale, presso
tutti i popoli cattolici, si propagò uniforme sino ai limiti
estremi a cui giunse, di conquista in conquista, il cattolicismo. Il
quale, infatti, non rimase la fede dei soli Romani. Come aveva
conquistato i Franchi in Gallia, così sotto gli auspici di S.
Gregorio compì la conquista dei Visigoti in Spagna e
iniziò quella dei Longobardi in Italia, degli Anglosassoni in
Britannia. Gli Scoti d'Irlanda s'erano già prima convertiti.
Si convertiranno più tardi, grazie alla parola di Bonifazio e
alla spada di Carlomagno, i Sassoni della Germania. Poi sarà
la volta degli Slavi d'occidente, degli Ungari, degli Scandinavi.
Ogni conquista del cattolicismo è una conquista della
latinità. La cultura latina, sia pure impoverita e
trasformata per le cause che sono state accennate, si estende in
vaste e lontane regioni, oltre i confini a cui l'aveva arrestata la
capacità militare e amministrativa dell'antico impero. Vero
è ch'ebbe pure a subire qualche perdita: Bisanzio le
sottrasse tutto l'Oriente latino e per un certo tempo anche alcune
parti d'Italia; gli Arabi vennero poi a toglierle l'Africa e
temporaneamente anche la Spagna. Ma ciò nonostante il suo
territorio fu e rimase in ogni tempo immenso.
Età barbarica. - Certo i focolari vivi della cultura latina
si trovarono diversamente distribuiti, né furono sempre, in
tanti secoli, gli stessi. Il più vivo fu dapprincipio
l'Italia. Ivi operarono nella prima metà del sec. VI Boezio e
Cassiodoro. Il primo, oltre all'opera di volgarizzazione del
pensiero greco, legò ai posteri, morendo, l'alta
testimonianza morale che si racchiude nella sua Consolatio
philosophiae. Il secondo, oltre che al suo famoso manuale
enciclopedico e a qualche altro trattato, raccomandò la sua
memoria alla raccolta delle sue preziose ed esemplari epistole.
Scrisse anche un'importante Historia gothica, ma non ne resta che il
compendio compilato con fedeltà di pensiero dal goto
Giordane. Intorno a loro retori e poeti, che attestano una certa
varietà e intensità di vita letteraria: Ennodio,
Massimiano, Aratore. Invece, verso la fine del secolo, una sola
personalità: S. Gregorio. Il grande pontefice fu nello stesso
tempo un grande scrittore, anche se ostentò talora di
spregiare l'esercizio delle lettere. Certo egli impresse a tutti i
suoi scritti (alle omelie come alle epistole, al suo grande commento
morale del libro di Giobbe come alla sua grande raccolta dialogica
d'esempî e di miracoli) un carattere austero e severo, che li
impose per lunghi secoli alla meditazione e all'imitazione dei
devoti. Dopo la sua morte l'Italia parve colta da sterilità.
Roma, certo, rimase il maggior mercato di libri di tutto
l'Occidente, e vi si lavorava a rifar le riserve, a cui attingevano
clienti dalle terre più lontane; intanto vi duravano in onore
le scuole fondate da Gregorio Magno; ma la vita letteraria vi fu per
due secoli poco meno che nulla. E nulla fu nelle terre dominate dai
Bizantini. In quelle invase dai Longobardi, dopo i primi tempi di
terrore, par di notare, di sui pochi documenti che sopravvissero dei
secoli VII e VIII (leggi, cronache, ritmi), insieme con la
gravità dei danni sofferti dalla cultura latina, una
crescente volontà di ripararli. Centri di studî furono
i monasteri: quelli che i Longobardi lasciarono fondare a
missionarî stranieri (Bobbio), o che più tardi
fondarono essi stessi (Civate, Nonantola), o che, distrutti nel
primo furore dell'invasione, fecero poi risorgere e protessero
(Farfa, Montecassino). Ma una scuola sorse infine nella stessa
reggia di Pavia; e vi crebbe Paolo Diacono. Così si
preparò nell'Italia longobarda quel risveglio intellettuale
di cui ebbe a suo tempo a giovarsi Carlomagno.
Altra fu la sorte d'una provincia, che parve a principio del sec. VI
gareggiare con l'Italia in attività letteraria, l'Africa. Vi
fiorì tutta una schiera d'abili verseggiatori (e sia
ricordato Draconzio), vi operò il mitografo Fulgenzio, vi si
educò il grammatico Prisciano. Ma il dominio bizantino,
succeduto al vandalico, e celebrato epicamente al suo inizio dal
poeta Corippo, non fu propizio alle lettere latine. Presto esse
tacquero; e il silenzio durava oramai da un secolo, quando
sopravvenne l'invasione araba.
Non fu la stessa situazione che gli Arabi trovarono in Spagna,
quando a sua volta l'invasero al principio del sec. VIII. Il dominio
visigotico, sfavorevole dapprima allo sviluppo della cultura latina,
l'aveva rimessa in onore dal giorno in cui i Visigoti s'erano
convertiti al cattolicismo. Si vide allora anche un re letterato,
Sisebuto. Ma la cultura rimase in genere monopolio del clero; e il
clero spagnolo, divenuto potente, seppe degnamente raccogliere
l'insegnamento di Cassiodoro. Nessuno l'intese meglio d'Isidoro di
Siviglia, che nella sua molteplice attività letteraria
cercò di coordinare e di divulgare il maggior numero di
cognizioni ch'era ancor possibile estrarre dai libri superstiti
dell'antichità. Notevoli i suoi trattati scientifici e i suoi
compendî storici; ma l'opera sua maggiore, la vasta e ricca
enciclopedia fallacemente intitolata Etymologiae, ebbe per la
cultura medievale un'importanza immensa. Né Isidoro fu solo.
Né sola fu Siviglia a ospitare in Spagna gli studi;
rivaleggiarono con lei Saragozza e Toledo; e fra i molti dotti che
vi fiorirono meritano almeno d'essere ricordati i toledani Eugenio e
Giuliano, abile poeta il primo, eccellente storico e insigne
grammatico il secondo. Di tali uomini s'illustrò nel sec. VII
la Spagna; ma la sopraggiunta occupazione araba vi fece declinare la
cultura latina. Questa anzi parve dapprima totalmente distrutta: in
realtà sopravvisse, e se ne videro segni sul finire del sec.
VIII e sin nel sec. IX. Poi più nulla, e bisognò che
la dominazione araba, splendida ai suoi bei tempi d'una diversa
civiltà, si ritirasse, perché i cristiani spagnoli si
rieducassero alla civiltà degli antichi loro padri.
Baluardo dell'Occidente contro l'espansione araba fu il regno
franco. Ma i Franchi, che pure furono i primi tra i barbari ad
accettare il cattolicismo, e tanto sentirono la forza della
tradizione romana da immaginare la favola delle loro origini
troiane, lasciarono cadere la Gallia, ricca un tempo di floride
scuole e di celebri autori, in una pietosa miseria intellettuale. Se
il sec. VI vide ancora fiorire al suo inizio, ma in terra di
Burgundî, il teologo e poeta Alcimo Avito, e se pur vide
fiorire alla fine, tra gli stessi Franchi, ma venuto d'Italia, il
poeta Venanzio Fortunato, fu tuttavia assai scarso d'ingegni
paesani. E il più insigne, Gregorio di Tours, notò
appunto intorno a sé il decadere degli studî, il
mancare degli scrittori. E lamentò, non senza ragione, anche
la propria imperizia, quantunque la sua Historia Francorum sia opera
d'indiscusso pregio. Ma dopo di lui le cose precipitano, ad onta di
tutte le vanterie di quel bizzarro grammatico tolosano che si volle
celare sotto l'ambizioso pseudonimo di Virgilio Marone. Le cronache,
le leggende, le epistole, i ritmi che la Francia dei secoli VII e
VIII ci ha lasciato, attestano nello sconnesso balbettar del
linguaggio lo stato miserando della cultura latina. Degna
letteratura d'un clero, che non sapeva più ripetere
correttamente, testimone S. Bonifazio, neanche le più comuni
formule sacramentali.
Miglior rifugio trovò la cultura latina nelle Isole
Britanniche. L'Irlanda, estranea all'impero, imparò l'idioma
di Roma solo con l'evangelo di Cristo. La nuova fede vi
suscitò gran fervore. Sorsero in breve e crebbero dappertutto
i monasteri: massimo fra tutti quello di Bangor, centro intenso e
fecondo di vita religiosa e nello stesso tempo di vita
intellettuale. Se non che l'Irlanda parve presto troppo ristretto
campo allo zelo dei suoi figli. Missionarî irlandesi si
sparsero in quei secoli per tutto l'Occidente. E il più
illustre fu quel Colombano che, uscito da Bangor verso la fine del
sec. VI, andò a fondare in Francia Luxeuil, poi, più
tardi, lasciato un socio nelle Alpi a fondare San Gallo, scese in
Italia e vi fece sorgere Bobbio. Tre monasteri: tre monumenti della
pietà irlandese, che furono, in terre e in tempi infelici,
tre mirabili baluardi della cultura latina. Ivi l'insegnamento di
Colombano, che, dotto autore di versi e di prose, mirava a unire
allo studio delle lettere sacre lo studio delle lettere profane,
diede eccellenti frutti. E così fu nelle altre fondazioni
irlandesi sparse sul continente.
La Britannia, nei secoli in cui aveva appartenuto all'impero, era
rimasta presso che estranea alla sua vita intellettuale. Il primo
autore latino vi sorse nel sec. VI, quand'era già da tempo
cessato il dominio imperiale; e fu il monaco bretone Gilda, che
visse per vedere e per narrare la rovina del suo popolo. Gli Angli e
i Sassoni, che occuparono allora la maggior parte dell'isola, erano
pagani e barbari. Bisognò che a gara missionarî
irlandesi e romani lavorassero a diffondere tra loro il
cristianesimo, perché l'Inghilterra ricevesse il beneficio
della cultura latina. L'impresa fu condotta a termine dagl'inviati
papali Adriano e Teodoro, apostoli a un tempo e maestri. Fu loro
discepolo, a Canterbury, il primo insigne scrittore anglosassone,
Aldelmo, teologo e grammatico, autore di versi e di prose attestanti
vaste letture. Alla scuola di questo principe abate imparò
l'esercizio delle lettere un re, Etelvaldo. Ma la cultura latina,
più che delle regge, si compiacque, anche in Inghilterra,
delle chiese e dei chiostri. Di lì partivano gl'infaticati
pellegrini che andavano a Roma a cercare, non pur reliquie, ma
libri; e tanti ne accumulò in ripetuti viaggi Benedetto
Biscopo, il fondatore dei monasteri gemelli di Wearmouth e Jarrow,
che la sua biblioteca valse ad alimentare il sapere di Beda. Fu
questi uno degli uomini più benemeriti della cultura
medievale: un altro Isidoro, di conoscenze forse meno vaste, ma
forse più profonde. Dotato di raro senso storico, le sue
storie, e specialmente quella generale della Chiesa e dei regni
anglosassoni, sono ancor oggi preziose; ma i suoi molti trattati
letterarî e scientifici ebbero allora una importanza anche
più grande, e rimasero per lunghi secoli fondamentali.
Diversa fu l'attività di un altro dotto anglosassone,
Bonifazio. Scrittore pregevole, in prosa e in verso, egli fu
soprattutto un impareggiabile maestro ed apostolo. È da lui
che comincia la storia nuova della Germania, iniziata da lui al
cristianesimo, preparata da lui ai benefici della cultura latina. Vi
andò a predicare e ad insegnare egli stesso, si trasse dietro
gran numero di collaboratori, fondò con loro vescovati e
abbazie che furono insieme anche scuole (esempio illustre il
chiostro di Fulda). Quel ch'egli seminò non fiorì che
più tardi; e passò tempo prima che la Germania
partecipasse alla vita intellettuale dell'Occidente; ma intanto la
mirabile attività di Bonifazio provò la forza
espansiva della cultura anglosassone. Nuova prova ne diede poco dopo
l'alunno della chiesa di York, Alcuino, uno dei personaggi
più rappresentativi di quel grande movimento intellettuale,
che caratterizza un nuovo periodo storico: il periodo del
risorgimento carolino.
Età imperiale cattolica. - Carlomagno, restauratore
dell'impero, volle anche e seppe attuare una restaurazione della
cultura latina. E poiché il suo regno ereditario era incapace
di fornirgli gli strumenti necessarî alla grande impresa, egli
s'affrettò a procurarseli altrove. L'Italia, strappata ai
Longobardi, gli offrì prima adatti maestri. E furono Pietro
da Pisa, diligente grammatico, Paolino d'Aquileia, dotto teologo e
geniale poeta, più tardi Paolo Diacono, grave storiografo ed
esperto filologo, oltre che eletto artefice di versi. Uomini
cresciuti in quel rinnovamento di vita intellettuale che
caratterizza il periodo estremo del dominio longobardo, essi
portarono nel regno franco una miglior conoscenza della lingua e
delle lettere latine, una maggior coscienza dei problemi storici e
religiosi. Paolo con le sue storie di Romani, di Franchi, di
Longobardi, con le sue edizioni, i suoi florilegi, i suoi commenti,
i suoi compendi d'opere antiche e recenti, sacre e profane,
fornì un esempio fecondo, anche se poco egli si trȧttenne
alla corte di Aquisgrana, preferendole il ritiro studioso di
Montecassino. Più direttamente operarono entro l'ambiente
franco Pietro e Paolino, ma anch'essi ritornarono a finir la loro
vita in Italia, e ad Aquileia Paolino compì il più e
il meglio della sua opera letteraria.
Un altro paese, l'Inghilterra, aveva intanto offerto a Carlomagno
l'uomo che meglio poteva servire i suoi intenti: Alcuino. Erede
della bella tradizione culturale anglosassone, già maturo
d'anni e ricco di dottrina e di esperienza, all'appello di
Carlomagno egli trasportò la sua azione dal breve cerchio
della scuola di York nel campo immensamente più vasto della
rinnovata monarchia franca. Vi trovò già un'opera
iniziata: la volontà del re, le cure dei dotti italiani
stavano dirozzando la corte, sollecitando le energie del clero; ma i
risultati sarebbero stati scarsi ed effimeri senza l'intervento di
Alcuino. Con la sua mirabile capacità organizzatrice, in
vent'anni d'indefesso lavoro, egli seppe convertire in realtà
le aspirazioni di Carlomagno. Diresse la scuola regia, e ne fece un
insuperato focolare di cultura, intorno al quale nacque e crebbe una
specie di accademia letteraria, fiduciosa di rinnovare le glorie dei
tempi classici. Studiò tutte le questioni religiose e
culturali del regno, suggerì al re le leggi destinate a
riformare l'istruzione del clero e gli uomini, vescovi e abati,
adatti ad applicarle, vegliò a che costoro, nelle loro chiese
e nei loro monasteri, aprissero scuole, raccogliessero libri,
facessero emendare e trascrivere testi, favorissero
l'attività letteraria e scientifica dei chierici e dei
monaci, curassero perfino il dirozzamento dei laici. A tutti questi
collaboratori, sparsi per le terre dell'impero, fu largo d'aiuto e
di consiglio; e si tenne costantemente in rapporto con le più
alte autorità politiche ed ecclesiastiche di tutto il mondo
latino. La sua produzione letteraria, scrivesse egli in prosa o in
verso, s'occupasse di teologia o di morale, commentasse la Sacra
Scrittura o narrasse vite di santi, trattasse di lettere o di
scienze, non fu molto originale; ma rivela vaste conoscenze e ottime
attitudini didattiche. Alcuino infatti fu anzitutto un maestro; e fu
sul suo insegnamento, consacrato nei suoi manuali, che si
fondò, direttamente o indirettamente, in tutto l'Occidente,
l'insegnamento delle sette arti, allora primamente distinte nel
"trivio" e nel "quadrivio".
Altri Anglosassoni parteciparono con Alcuino, in Francia, a quel
poderoso rinnovamento degli studî e delle lettere; e vi
parteciparono con loro, e con gl'Italiani, anche parecchi Irlandesi,
Dungalo e altri, nonché alcuni Spagnoli, fra cui il miglior
poeta forse della corte carolina, Teodolfo. Agl'insigni maestri
venuti d'oltremonte e d'oltremare non potevano mancare di far onore
gli scolari franchi. Sorsero infatti presto fra loro scrittori
valenti; e sono degni di ricordo i poeti Modoino e Angilberto, e
quell'Eginardo che parve, nella sua celebre vita di Carlomagno,
restaurare le forme della storiografia classica. Laici i due ultimi,
anche se ebbero a governare, per volere sovrano, importanti abbazie.
Una comunanza d'interessi intellettuali fra clero e laicato s'era
per un momento attuata alla corte carolina. Ma non doveva lungamente
sopravvivere al grande imperatore.
Certo Ludovico il Pio e Carlo il Calvo, principi colti, non
cessarono di adunare intorno a sé uomini dotti; ma le
infelici vicende politiche del secolo che tenne dietro alla
restaurazione dell'impero tolsero via via alla corte imperiale la
sua grande funzione di direttrice e unificatrice della cultura,
attenuarono a poco a poco nei principi il gusto delle lettere,
distrassero ancora una volta il laicato dagli studî. Non
valsero però ad arrestare né a rallentare un moto
intellettuale divenuto oramai irresistibile: ma lo ricondussero nel
dominio sempre più esclusivo del clero. Questo spiega
perché la letteratura del sec. IX, tra i suoi più
insigni rappresentanti, conti pochi scrittori unicamente dediti alla
poesia, come Ermoldo Nigello, o alla storiografia, come Nitardo; e
ne conti invece molti che s'occuparono, se non unicamente,
principalmente di teologia. Il più illustre allievo di
Alcuino, Rabano Mauro di Fulda, si divertì anche ai
più vani artifizî di versificazione; ma la sua
più seria attività consacrò tutta ad opere
teologiche, o alla moralizzazione dell'enciclopedia d'Isidoro. Il
suo allievo Valafrido Strabone di Reichenau fu alle sue ore vivace
ed elegante poeta; ma affidò soprattutto la sua fama a quel
commento integrale della Bibbia che portò meritamente per
cinque secoli il titolo di "glossa ordinaria" un altro allievo di
Rabano, il sassone Gotescalco, diede prova nei suoi versi di eletto
ingegno e di rara abilità metrica e ritmica (ed è
forse di sua fattura quell'allegorica Ecloga Theoduli che
deliziò tanto a lungo le scuole medievali), ma spese la sua
infelice vita ad agitare una fiera disputa teologica intorno alla
predestinazione. Altre grandi dispute divisero i teologi in quel
secolo: e va ricordata almeno quella sulla transustanziazione, che
mise alle prese i due monaci di Corbie Radberto e Ratramno. Ma
nessuna assunse le proporzioni della disputa sulla predestinazione,
che affaticò gl'ingegni più acuti del clero latino;
onde si videro Incmaro di Reims e Floro di Lione avversare, Lupo di
Ferrières e Ratramno di Corbie difendere le audaci idee di
Gotescalco, e fra tutti e contro tutti intervenire l'indipendente
autorità di Giovanni Scoto. Tutti teologi, noti per opere di
vario argomento, ma Incmaro fu anche scrittore politico, annalista,
agiografo; e improntò della sua forte personalità la
vita della Francia coeva; e Floro fu anche poeta; e Lupo fu anche e
soprattutto filologo. Quanto a Giovanni Scoto, per vastità di
dottrina e vigoria d'intelletto si levò sopra tutti i
contemporanei, ed è il solo che meriti nell'alto Medioevo il
nome di filosofo: incompreso del resto, anche se ammirato, ai suoi
tempi. Conosceva, dote allora singolarissima, il greco; e tradusse
il preteso Dionigi Areopagita, e si appropriò idee
neoplatoniche, svolgendole originalmente nel suo sorprendente libro
De divisione naturae. L'opera sua, come quella, certo minore, di
Sedulio Scoto, mostra quanto si fosse mantenuto alto il livello
della cultura nella loro comune patria d'origine. Ma se l'Irlanda
aveva compiuto la loro formazione intellettuale, fu il continente
che offrì il campo adatto al pieno sviluppo della loro
attività.
Oramai erano la Francia e la Germania che nelle loro grandi sedi
vescovili e abbaziali custodivano i focolari più vivi della
cultura latina. L'Italia vide, sì, riordinare le sue scuole
per opera di Lotario e di Eugenio II; ma vide anche rovinare le sue
chiese e i suoi migliori monasteri sotto la furia dei Saraceni e
più tardi degli Ungari. Certo non vi mancarono scrittori di
qualche pregio: e il più importante fu, a Roma, Anastasio
Bibliotecario, altro raro conoscitore di greco (cosa in Italia meno
miracolosa che altrove), il quale valse a diffondere in Occidente,
con le sue traduzioni, notevoli opere, storiche e soprattutto
agiografiche, bizantine. Del resto si possono ricordare alcuni
storiografi, come il ravennate Agnello, il beneventano Erchemperto,
il romano Giovanni Imonide. Questi si esercitò anche
nell'arte del verso, e ci lasciò un curioso mimo conviviale.
Alle prose polemiche alternò liriche d'artificiosa fattura il
napoletano Eugenio Vulgario. Se non che, fra i poeti, i più
interessanti sono forse certi sconosciuti autori di ritmi sacri e
profani, sui quali si leva per nobiltà di sentimento e
vivacità di rappresentazione il canto delle scolte modenesi.
Ben più forte la vita intellettuale pulsava in Germania. Dopo
Rabano, Valafrido, Gotescalco, ecco tra gli altri il filologo
Ermenrico di Ellwangen, il "poeta sassone" (Agio?), lo storico
Regino di Prüm, ecco, tra valenti discepoli, l'insigne maestro
e scrittore Notkero il Balbo, il Monaco di S. Gallo, a cui dobbiamo
una curiosa biografia aneddotica di Carlomagno, e, con tante altre
cose in prosa e in verso, quelle famose sequenze che, diffuse e
imitate in tutte le chiese latine, aprirono alla poesia lirica vie
imprevedute e fecero addirittura rinascere la drammatica. Coi
Tedeschi gareggiavano i Francesi. Dopo Incmaro e Lupo la Francia
ebbe altri illustri letterati, come Enrico d'Auxerre e il suo
discepolo e continuatore Remigio, riordinatore delle scuole di Reims
e di Parigi, autore di commenti grammaticali, letterarî,
teologici. Ebbe poeti come Ubaldo di S. Amando e Abbone di S.
Germano, che tentò di celebrare epicamente la difesa di
Parigi contro i Normanni.
Tristi tempi: la monarchia declinante, l'anarchia feudale dilagante,
la Francia aperta alle incursioni degl'infedeli del settentrione e
del mezzogiorno. Il clero secolare impigliato nelle lotte feudali,
quello regolare, rovinato dalla devastazione di tante illustri
abbazie, lasciavano immiserire le loro migliori tradizioni
intellettuali e morali. Fu allora che s'iniziò in Francia,
nella prima metà del sec. X, con la fondazione del monastero
di Cluny e con l'apostolato del suo abate Odone, quel generoso
movimento che rinnovò profondamente la vita monastica, la
organizzò saldamente in vaste e potenti congregazioni, e
finì per operare in modo deciso sui costumi del clero
secolare e sulle disposizioni dell'autorità suprema della
Chiesa, non senza profonde ripercussioni nella vita politica e
sociale di tutto l'Occidente. La riforma cluniacense, con le sue
tendenze ascetiche, non fu senza pericoli per la cultura, gettando
discredito sugli studî profani, e ostentando dispregio per la
letteratura classica. Ma lo stesso Odone, che pur si compiaceva di
ripetere certi atteggiamenti di Gregorio Magno, mostrò,
meditando in un grave trattato e in un solenne poema sul problema
del male, di continuare praticamente le tradizioni liberali
dell'età carolina. E la cultura ebbe insomma dalla riforma
cluniacense almeno un indiretto ma grande giovamento col ritorno
delle comunità monastiche alla severità della vita,
alla disciplina, al lavoro, alla meditazione, allo studio.
I rappresentanti più illustri della cultura francese escono
allora quasi tutti dai chiostri. E se lo storico della chiesa di
Reims, Flodoardo, non è che un chierico, monaci sono il dotto
agiografo Azzone di Montier, e il fiero difensore con gli scritti
non meno che coi fatti, dei diritti del clero regolare, Abbone di
Fleury, infine il geniale alunno d'Aurillac e sapiente maestro di
Reims, Gerberto. Del suo insegnamento ci ha lasciato interessanti
ragguagli il suo discepolo e valoroso storiografo Richero; onde
sappiamo come egli curasse la lettura dei classici, e ravvivasse lo
studio della dialettica e della retorica, e rinnovasse addirittura,
con procedimenti ed esperimenti inusitati, lo studio dell'aritmetica
e della geometria, dell'astronomia, della musica. A ciò lo
preparò senza dubbio la conoscenza che Gerberto si
poté procurare della scienza araba e dei suoi metodi durante
il suo soggiorno giovanile in Catalogna: primo fugace contatto con
una civiltà, dalla quale l'Occidente aveva tanto da imparare.
Ma solo una mente quale era quella di Gerberto poteva allora capire
e sfruttare i vantaggi d'un simile contatto: mente variamente
curiosa e largamente comprensiva, che ben si riconosce nei pochi
suoi scritti filosofici e matematici e nelle sue lettere, ma meglio
si rivela nel complesso della sua attività non solo
intellettuale, bensì anche politica. Quest'attività si
ricollega strettamente con la grande opera degli Ottoni e
soprattutto del terzo, con cui Gerberto, dal trono papale ove
salì col nome di Silvestro II, collaborò
nell'utopistico disegno d'una Roma cattolicamente imperiale,
dominatrice suprema del mondo.
Ma già Ottone I, dato assetto alla Germania e sottomessa
l'Italia, aveva rinnovato l'impero; e nel suo impero aveva voluto,
erede anche in ciò del pensiero di Carlomagno, un intenso
riattivamento della vita intellettuale. La corte sassone
mirò, anche se in tutto non riuscì, a modellarsi
sull'esempio della corte carolina: dotti famosi vi accorsero, i
principi crebbero nel rispetto e nel culto del sapere. I monasteri
della Sassonia divennero focolari vivi di Cultura; e gareggiavano
con loro i monasteri della Franconia, della Baviera, della Svevia,
della Lotaringia. Poco partecipò dapprima a quel gran moto il
clero secolare; ma il clero regolare v'impiegò fervidi e
fertili ingegni. Erano teologi, storici come Widukindo di Corvei,
poeti come Eccheardo di S. Gallo, Rosvita di Gandersheim, Fromondo
di Tegernsee. La poesia specialmente fu coltivata con ardore; e i
poeti ebbero tutti gli ardimenti. La monaca Rosvita, non paga di
versificare curiose e romanzesche leggende di santi, tentò la
grande epopea storica, tentò (caso senza precedenti) il
dramma di forme antiche e di spirito nuovo, traendo con candida
imperizia la commedia di Terenzio a sceneggiare esempî di
casti martirî o di sante conversioni. Eccheardo usò il
verso e i modi di Virgilio a cantare le lgggende eroiche dei popoli
nuovi; e ne nacque il Waltharius. Del resto, secondo la tradizione
del suo monastero, egli attese a comporre inni e sequenze. La lirica
sacra aveva allora in S. Gallo la sua fucina piu attiva e più
ingegnosa, benché Limoges in Francia e Verona in Italia le
facessero poderosa concorrenza. Intanto sulla lirica sacra si andava
modellando una vivace lirica profana, che usciva dalle stesse
fucine: la celebre raccolta di Cambridge ce ne conserva esempî
notevolissimi, per la maggior parte d'origine tedesca. Tutta questa
letteratura si fondava sopra un'istruzione accurata, su cui
Gualtiero di Spira in un suo poema lasciò interessanti
notizie. Più tardi, alla corte di Enrico III, Wippone
lamentava che il laicato tedesco, anche aristocratico, disdegnasse
la cultura; ma è certo che anche sotto i successori degli
Ottoni, monaci e chierici tennero in onore gli studî. Wippone
ne è un buon esempio, come mostrano le sue opere in verso e
in prosa, storiche e didattiche. Altro nobile esempio è
Ermanno di Reichenau, dotto autore di cronache, di trattati
scientifici, di poesie metriche e ritmiche. Accanto a loro si
distinsero altri valenti scrittori, storici, teologi, poeti; e, tra
i poeti, autori di epopee sacre, di leggende, di satire, di romanzi,
come Eupolemio, o Embrico, o Amarcio, o il cantore di Ruodlieb.
In Italia, a detta di Wippone, anche il laicato andava a scuola.
Tuttavia, se l'aristocrazia italiana era in quei tempi forse un po'
meno incolta di quella transalpina, l'indifferenza per la cultura
era in compenso più diffusa che altrove nel clero. Se ne
legge l'amara constatazione negli scritti di Raterio. La corruttela
della curia papale, la decadenza della vita monastica, non tocca
ancora dalla propaganda cluniacense, la mondanità della
politica episcopale, tutta liti e intrighi intorno ai
Berengarî e agli Ottoni, spiegano lo stato certo poco lieto
della cultura italiana. Le mancava soprattutto un ideale a cui
tendere. Ed è per ciò che ci furono se mai letterati
pedanti, tutti persi dietro una dottrina puramente formale, capaci
di travestire i personaggi contemporanei in fantocci
pseudo-classici, come l'anonimo cantore di Berengario, o di tessere
vanagloriose apologie della propria sapienza a proposito di una
insignificante disputa di parole, come Gonzone di Novara, o di
costruire elaborate controversie sopra cose e fatti inesistenti come
Anselmo da Besate. Ma ci furono d'altra parte troppi scrittori
sprovvisti d'ogni gusto classico, sordi a ogni eco di
latinità, come Benedetto del Soratte, e altri cronisti,
annotatori grossolani degli avvenimenti esteriori. I migliori furono
quelli agitati dal demone politico, uomini colti senza dubbio, ma
inclini a far servire la loro dottrina alla loro passione: i vescovi
Attone e Leone di Vercelli, Liutprando di Cremona, Raterio di
Verona. Raterio non era italiano, e portò dalla Lotaringia
un'educazione certo più elevata; ma furono le lotte italiane
che temprarono la sua forte personalità di prelato e di
scrittore. Tutto italiano fu Liutprando, storico tendenzioso ma
vigoroso, esperto, grazie alle sue ripetute missioni diplomatiche,
non pur del mondo latino, ma del greco. Della cultura greca egli
seppe anzi giovarsi, e seppe anche attingere, di là dagli
autori bizantini, a qualche autore classico. Ma le sue conoscenze
non recarono grande profitto alla cultura italiana. Altri
conoscitori di greco (Leone di Napoli, Giovanni d'Amalfi) si
contentavano di tradurre romanzi e sacre leggende. Un certo
risveglio d'interesse scientifico si verificò in Italia nella
prima metà del sec. XI; e si lascia sentire nel lessico di
Papia, nei trattati musicali di Guido d'Arezzo, e in quel confuso
lavorio retorico e giuridico tra cui cresceranno Lanfranco e Pier
Damiani. Tenui segni, per ora.
Migliori speranze s'aprivano in quegli stessi tempi in Francia, dove
la scuola di Fulberto a Chartres rinnovava i fasti di quella di
Gerberto a Reims, e ne superava i successi, attirando scolari dalle
terre più lontane. Uomo di illuminata pietà e di
sagace equilibrio, come ci attestano le sue lettere e i suoi versi,
Fulberto seppe dare alla sua scuola un indirizzo felice,
sviluppandovi liberamente con gli studî sacri gli studî
profani, coordinandovi armonicamente, per quanto allora si poteva,
le lettere e le scienze. E seppe anche organizzarla solidamente,
assicurandole una durevole fortuna. La scuola episcopale di Chartres
divenne così, grazie a lui, la prima grande scuola
dell'Occidente; e sul suo esempio si formarono, almeno in Francia,
le altre. Ma la mirabile attività scolastica che seguì
caratterizza un nuovo periodo nella storia della cultura medievale.
Età scolastica. - L'età che va dalla metà del
sec. XI alla fine del XII è per la Francia un'età
gloriosa: non priva certo d'errori e di sventure, ma ricca di
fortune e di trionfi. Aristocrazia e clero, uniti spesso a scopi e
sforzi comuni, come nella grandiosa epopea delle crociate,
raggiungono, nel loro ambito rispettivo, il massimo sviluppo,
prodigando nell'opera indefessa una stupenda potenza creativa. Alla
cultura l'aristocrazia s'accosta con sempre maggior desiderio e
profitto; ma la direzione ne è ancor tutta nelle mani del
clero. Meritamente. Il clero non si considera più come
semplice custode d'un patrimonio intellettuale ereditario: vuole con
la sua propria indipendente attività lavorare ad accrescerlo
e a rinnovarlo. Ond'è che le scuole monastiche e le
episcopali (e queste ben presto assai più di quelle, per la
maggiore libertà che il clero secolare non teme di
concedersi) allargano la loro curiosità, approfondiscono il
loro studio, intensificano il loro lavoro. L'insegnamento della
grammatica e della retorica si rinsangua con la lettura di un sempre
maggior numero d'autori (classici in genere, ma non senza qualche
scrittore più recente). L'insegnamento della dialettica si
affina, sviscerando per ogni verso la logica aristotelica: la
"vecchia", cioè i libri tramandati dalle traduzioni di
Boezio, e la "nuova", cioè i libri rivelati all'Occidente
nella prima metà del sec. XII da altri traduttori.
L'insegnamento del quadrivio si arricchisce passo passo di nuove
cognizioni, dovute ai primi esploratori della scienza orientale.
S'insegnano, accanto alle sette arti, e sia pur rudimentalmente, la
medicina e il diritto canonico. La teologia rinnova interamente i
suoi metodi didattici: allo studio dei padri della chiesa associa
l'esercizio della dialettica, affronta e persegue problemi
filosofici, si muta talora in pura filosofia. Chi abbracci in uno
sguardo i metodi e i programmi (per fortuna abbastanza ben noti)
della scuola di Chartres a un secolo di distanza da Fulberto, quando
v'insegnavano i due fratelli. Bernardo e Teodorico, misura tutta la
finezza e l'ampiezza, la complessità e l'armonicità
dell'insegnamento che v'era impartito.
In altre scuole si delineava una specializzazione. Prevalse in
alcune lo studio della dialettica. L'avevano riacceso le ardenti
dispute teologiche e filosofiche che inaugurarono in Francia la
nuova età: e prima di tutte quella della transustanziazione,
suscitata dall'audace parola e dagli scritti di quel libero spirito
che fu Berengario di Tours, a cui si contrappose, dotto e acuto
difensore dell'ortodossia, Lanfranco di Pavia. Seguì la
disputa intorno alla S. Trinità, che coinvolse l'altra,
ancora più grave, intorno al problema degli universali, per
cui si batterono senza fine tanti nominalisti e realisti, e primi
Roscellino di Compiègne e Anselmo d'Aosta. Nobile pensatore e
originale scrittore, Anselmo pare riassumere in se l'antica
tradizione patristica e aprire la via alla nuova filosofia
"scolastica", la quale ad ogni modo nacque nelle scuole proprio da
quelle dispute. Il rappresentante più caratteristico ne fu,
nella prima metà del sec. XII, Pietro Abelardo, l'uomo che
passò dall'una all'altra scuola (e improvvisò scuole
egli stesso), rinnovando dappertutto l'insegnamento con la
libertà e con la forza della sua critica, disputando di tutti
i problemi, attirando a sé moltitudini di discepoli.
Varî e importanti i suoi scritti teologici, filosofici, anche
poetici, che riflettono tutti (e l'uno anzi apertamente ritrae) la
sua originale personalità: ricchi d'idee, anche se poveri di
forza sintetica, ma soprattutto nuovi di metodo. Con essi, e
più con la sua infaticata attività didattica, Abelardo
dominò, anche se combattuto da implacabili avversarî (e
dal più formidabile, che fu S. Bernardo di Chiaravalle) tutta
la vita intellettuale dei suoi tempi. Le scuole di Parigi gli
debbono a ogni modo il loro successo e la loro fama, e quella loro
specializzazione decisa per la dialettica e per la teologia che le
distinse da ogni altra scuola. Vi pass'arono quasi tutti i maggiori
rappresentanti delle diverse correnti di pensiero: ricordiamo
Guglielmo di Conches, Gilberto Porretano, Ugo di S. Vittore, Pietro
Lombardo, Adamo di Petit-Pont. Le opere che ci restano di costoro,
alcune delle quali esercitarono un duraturo influsso, sono d'alto
interesse. Ma l'autore che nei suoi scritti seppe riassumere tutto
il movimento filosofico francese e trarne il miglior frutto fu
Giovanni di Salisbury. Al filosofo maturato nelle scuole di Parigi
si univa in lui tuttavia, per quell'equilibrio ch'egli teneva dalla
miglior tradizione di Chartres, il fine letterato; ond'egli
tenacemente combatté nei suoi scritti, prosastici e poetici,
non solo contro gli utilitaristi spregiatori d'ogni sapere
disinteressato, non solo contro i rigoristi avversi a ogni scienza
profana (e tali erano i seguaci di quell'ardente moralista e
predicatore che fu S. Bernardo), ma pur contro i sofisti, adoratori
esclusivi della dialettica, derisori d'ogni educazione letteraria (e
tali erano i seguaci di Adamo di Petit-Pont).
Alle lettere, alquanto trascurate a Parigi, restavano più
favorevoli altre scuole: e presto divenne famosa Orléans per
lo studio che vi si dedicava, con decisa preferenza, agli "autori".
Il culto degli autori classici, e specialmente dei poeti, s'era
diffuso allora potentemente in Francia; e sorsero in gran numero
imitatori più o meno abili, emuli più o meno arditi.
Si leggono ancora con interesse, e talora non senza diletto, le
poesie che ci lasciarono Marbodo d'Angers, Serlone di Bayeux,
Baldrico di Bourgueil, Ildeberto di Lavardin, Ugo Primate
d'Orléans, Vitale di Blois, Alano di Lilla, Gualtiero di
Chatillon, Adamo di S. Vittore e altri ancora. Ci sono tra costoro
spiriti profondamente originali come il Primate, impareggiabile
umorista, padre e maestro della poesia goliardica. E ci sono
personalità importanti e complesse: come lldeberto,
conciliatore elegante di atteggiamenti classici e di sentimenti
cristiani, di forme antiche e di espedienti nuovi; o come Alano, il
"dottore universale", che nel suo grandioso poema allegorico,
l'Anticlaudiano, versò la sua ricca esperienza teologica e
filosofica, attestata da tanti altri suoi scritti in verso e in
prosa; o come Gualtiero, infine, ch'ebbe l'ardire di ritentare
l'antica epopea con la sua Alessandreide, ma meglio seppe esprimere
la sua anima pensosa e sdegnosa in concitati ritmi. Altri
s'impongono per una loro modesta specialità, come Baldrico
coi suoi, or tristi or lieti, ma sempre graziosi distici
d'occasione; altri per qualche loro trovata geniale, come Vitale con
quella sua non rappresentabile ma recitabile commedia elegiaca,
mezzo narrativa e mezzo dialogica. Non tutti però
gl'innumerevoli verseggiatori di questa età son degni di
considerazione: molti sono senz'altro cattivi. Molti si studiarono
di celare sotto sterili artifizî verbali la loro
povertà d'ispirazione. Maestro di costoro fu Matteo di
Vendôme, e della sua vana maestria diede prova in molte e
varie esercitazioni poetiche, e in un trattato d'arte versificatoria
che godette di grande autorità. A ogni modo ciò che
più si ammira in tutta quella poesia è,
nell'abbondanza, la varietà sostanziale e formale. Vi sono
elegie, epistole, epigrammi, satire, contrasti, favole, canti
bacchici ed erotici, inni sacri e sequenze; poemi epici d'argomento
antico e recente, storico e leggendario, sacro e profano, epopee
allegoriche, drammi liturgici, commedie elegiache. V'è di
tutto, e in tutte le forme: nelle vecchie forme metriche,
rammodernate talora dalla rima, e nelle hrme ritmiche, affinate,
variate, perfezionate con ogni più sottile accorgimento.
L'arte ritmica, inseparata e inseparabile dall'arte melodica, ebbe
allora un meraviglioso sviluppo: Abelardo l'addestrò ai
tentativi più arditi, il Primate la condusse ai successi
più certi, Ilario la mise a servizio del dramma, Adamo la
usò a rinnovare la sequenza.
La prosa intanto non era meno curata della poesia: specialmente se
doveva servire a comporre epistole. L'epistolografia divenne in quei
secoli un potente strumento politico e sociale; ed ebbe in Francia
maestri e cultori famosi, tra gli altri Pietro di Blois. La
storiografia aveva sin da tempi lontani buone tradizioni, e le
continuava con onesti e modesti cronisti; ma le crociate
sopravvennero a suscitare narratori ben altrimenti portati a sentire
e rappresentare gli avvenimenti storici; e la storiografia ne fu
rinnovata negli spiriti e nelle forme, come si vede, per esempio,
nei Gesta Dei per Francos di Guiberto di Vogent e nella grande
storia oltremarina di Guglielmo di Tiro, ma poi anche in opere
estranee alle crociate, quale la ricca storia-normanna di Orderico
Vitale. Tra gli storiografi s'insinuavano tuttavia, a mostrare come
il senso critico fosse ancora mal fermo, fantasiosi falsificatori di
storie e rielaboratori di leggende, come quello che usurpò il
nome di Turpino.
Alla intensa vita intellettuale che si svolgeva in Francia
parteciparono coi Francesi anche non pochi stranieri. Inglesi erano
Adamo di Petit-Pont e Giovanni di Salisbury, tedesco Ugo di S.
Vittore, italiani Lanfranco di Pavia, Anselmo d'Aosta, Pietro
Lombardo: nomi tutti di grande importanza nella storia del pensiero
medievale. L'Inghilterra, dopo i tempi di Alcuino, aveva cessato di
partecipare attivamente alla cultura occidentale. Solo sotto il
regno di Alfredo il Grande c'era stato, per l'intelligente
iniziativa del re, un vivo, ma breve, risveglio intellettuale; se
non che, nei tristi tempi che seguirono, tutto era andato perduto. E
fu la conquista normanna che, assoggettando l'Inghilterra
all'influsso francese, l'avviò a riprendere la sua parte
nella vita della cultura. E vi rinnovò le scuole. E fece
sorgere scrittori come Giovanni di Salisbury, Guglielmo di
Malmesbury, Alessandro Neckam, Nigello Wireker, Giuseppe d'Exeter,
e, perché non mancassero con gli Anglosassoni i Celti,
Goffredo di Monmouth, Gualtiero Map, Giraldo Cambrense: autori
d'opere teologiche e morali, filosofiche e scientifiche, politiche e
storiche, o magari anche fantastiche, di poesie epiche didattiche,
liriche, satiriche. In questa ricca e complessa letteratura si
ritrova lo stesso spirito che in Francia, con gli stessi motivi, gli
stessi metodi, le stesse forme. E non è a dire che mancassero
scrittori originali: per non citare ancora una volta il nome di
Giovanni di Salisbury, valga l'esempio del novellista e moralista
mondano, nonché brillante poeta satirico, Gualtiero Map.
Quanto alla Germania, le nuove correnti di pensiero che movevano
dalla Francia incontrarono sì l'opposizione intransigente dei
teologi che continuavano le tendenze di Otloh di S. Emmerano, quali
Ruperto di Deutz, Gerhoh di Reichersberg, Onorio Augustodunense (e
neppur tutti rimasero insensibili ai deprecati influssi francesi),
ma esse trovarono facile accesso tra gli spiriti più vigili,
e guadagnarono collaboratori geniali come Ugo di S. Vittore,
suscitarono interpreti originali come Ottone di Frisinga. Delle idee
e dei metodi appresi alla scuola di Abelardo e di Gilberto, Ottone
fu autorevole propagatore in Germania, e materiò di pensiero
filosofico, inusitatamente, le sue cronache. Certo le scuole
tedesche poco si sollevarono dalla mediocrità, a cui pian
piano s'erano accomodate; ma, specialmente dopo Ottone, cercarono di
mettersi al corrente di tutte le novità filosofiche e
scientifiche. Ai modelli francesi guardavano intanto con profitto
anche i poeti, anche i più originali, anche i più
penetrati, nella gran ventata d'orgoglio suscitata dal Barbarossa,
di sentimento patriottico tedesco: gli autori innominati del grande
poema epico sulle guerre lombarde (Ligurinus) e del dramma liturgico
sull'Anticristo, e il grande lirico goliardico soprannominato
l'Archipoeta.
In Italia l'innegabile risorgimento della cultura assunse tutt'altro
aspetto che in Francia. Le grandi lotte politiche e sociali che si
combatterono nella penisola tra la metà del sec. XI e la fine
del XII, mettendo alla prova i diritti della Chiesa e dello Stato,
delle comunità cittadine e delle autorità feudali e
sovrane, diedero una particolare impronta alla vita intellettuale.
Le riforme ecclesiastiche ispirate e volute da quel coerente
discepolo di Cluny che fu Ildebrando (Gregorio VII), e da lui
perseguite con indomita fede contro il clero ribelle e contro
l'impero offeso dalla rivendicazione papale delle investiture,
suscitarono una ricca letteratura polemica, che richiese
approfondimento di conoscenze giuridiche e affinamento di espedienti
retorici. Vi parteciparono anche gli stranieri, ma gl'Italiani per
numero e per valore prevalsero. E basterà nominare tra i
fautori delle riforme Pier Damimi, l'asceta ardente che in tanti
opuscoli espresse il disprezzo delle scienze profane, eppure in
tutti sfruttò per santi scopi la sua profonda preparazione
letteraria e giuridica; e fu nei suoi pii ritmi poeta ingenuo e
sincero. Tra gli avversarî: Benzone d'Alba, in sonori versi e
in bizzarre prose polemista appassionato e veemente.
Fra tali dispute senza dubbio la cultura del clero italiano si
rinnovò e ravvivò. E se ne ebbe il più
bell'esempio a Montecassino, quando l'abate Desiderio vi protesse
gli studî, e si raccolsero intorno a lui Alfano a coltivare
classicamente la poesia, Amato e Leone a scrivere storie, altri a
compilare raccolte giuridiche, Alberico a insegnare le arti e a
sviluppare primo dalla retorica una teoria dell'ars dictandi,
Costantino Africano a tradurre dall'arabo (come Alfano dal greco)
importanti e ignorati trattati medici, che contribuirono decisamente
ai progressi della celebre scuola salernitana. Montecassino, alla
fine del sec. XI, fu in un certo senso il preannunzio di quello che
stava per essere nel sec. XII la cultura italiana.
Le grandi scuole, che fiorirono allora anche in Italia, seguirono
prevalentemente indirizzi pratici: agli studî filosofici,
letterarî, scientifici preferirono gli studî medici,
giuridici, retorici. Anzi, anche in Italia, si specializzarono.
Salerno era già la grande scuola di medicina, sin da quando
Garioponto aveva dato al tradizionale insegnamento empirico un certo
fondamento dottrinale, e più da quando Costantino vi aveva
recato i frutti dell'esperienza araba: ora la scuola dettava in
versi al mondo i suoi aurei precetti; e una serie ininterrotta di
dotti e valenti medici ne assicurava la fama. Bologna intanto
diveniva la grande scuola del diritto. Un po' di diritto s'era
sempre insegnato in Italia, specialmente a Roma, a Ravenna, a Pavia;
ma fu Irnerio che diede a quell'insegnamento, nel momento opportuno,
il più ampio sviluppo, quando s'insediò a Bologna a
leggere e ad illustrare i testi del diritto romano. Maestro
eccellente, egli attirò subito gran numero di discepoli; e
assicurò così le fortune di quella scuola, che
già al tempo dei "quattro dottori" assumeva l'aspetto di una
università e otteneva dal Barbarossa il primo privilegio.
Tutti i maggiori giuristi concorsero o si successero a insegnare a
Bologna: né solo i romanisti, ma anche i canonisti. Fu
infatti a Bologna che Graziano compose il suo famoso Decretum, e
fornì con esso il fondamento primo allo studio scientifico
del diritto canonico. E fu a Bologna che i più insigni
continuatori di Graziano esercitarono il loro insegnamento. Tra loro
fu quell'Uguccione da Pisa, che alla fama di canonista volle
aggiungere quella di lessicografo, rifacendo e ampliando il lessico
di Papia: Un'altra specialità delle scuole di Bologna divenne
presto l'ars dictandi, grazie all'insegnamento di Alberto Samaritano
e degli abili dettatori che dopo di lui si susseguirono.
Questo fervore di studî giuridici e retorici, attestato anche
da altre scuole minori, si spiega facilmente in un paese, dove
continuava acerrima la lotta tra le due maggiori autorità
dell'Occidente, il papato e l'impero, e dove, nel naturale logorio
delle loro forze, una nuova forza si affermava; gettandosi nella
mischia, il comune; e portava in sé fatalità d'altre
lotte (comuni contro comuni, fazioni contro fazioni); onde a tanto
combattere non bastavano le armi, occorrevano la sapienza delle
leggi, la sagacia della parola. Lo sviluppo dei comuni significava
inoltre ascensione della borghesia. La borghesia si volgeva
all'esercizio della cultura, che le era sempre più
necessaria; e la cultura si piegava ai bisogni della borghesia,
ch'era sempre più preminente. L'istruzione del laicato, sia
pur elementare, era una vecchia tradizione italiana, attestata
già da Wippone; ma che si estendesse nel sec. XII, almeno nei
comuni lombardi, a qualunque classe del popolo, affermava ammirando
Ottone di Frisinga. Né i laici si contentarono di figurare
tra i discepoli: s'aprirono la via tra i maestri, specie tra i
giuristi e tra i medici, ma anche tra i dettatori. E non fu
più un caso strano che un laico riuscisse scrittore latino:
specie se giudice o notaio.
Ma, uscita da penna laica o da penna clericale, la letteratura
latina corrispose pienamente ai caratteri della cultura italiana:
pratici, realistici, "borghesi". E fu così che la poesia, ben
lontana in Italia dalla multiforme varietà ch'ebbe oltralpe,
si restrinse tutta o quasi tutta a narrare fatti storici,
generalmente contemporanei, con prevalente intento politico. Ci fu,
è vero, alla fine del secolo, sulla soglia di nuovi tempi, il
celebre sfogo lirico-retorico di Arrigo da Settimello contro la
Fortuna; ma tutti gli altri poeti più notevoli, dall'anonimo
pisano che compose l'ardente ritmo del 1088, all'elegante e
immaginoso Pietro d'Eboli, sono dominati dall'interesse
storico-politico: così Guglielmo di Puglia, Donizone di
Canossa, Enrico Pievano, l'anonimo bergamasco cantore del
Barbarossa, Monaco di Firenze e varî altri. Tutto sommato
però, la storiografia in versi fu inferiore alla storiografia
in prosa, la quale si onorò nel Settentrione di scrittori
come Caffaro, come Ottone e Acerbo Morena, nel Mezzogiorno di Ugo
Falcando e Romualdo di Salerno.
Il Mezzogiorno si avviava a prendere una parte più attiva
alla vita intellettuale italiana. I Normanni, spazzando dalle Puglie
e dalle Calabrie la dominazione greca, dalla Sicilia quella araba,
avevano risospinto tutte quelle regioni, unite in un solido stato,
nell'ambito della civiltà occidentale, della cultura latina.
Se non che le tradizioni della cultura greca e dell'araba non vi si
spensero tutte subito; e il reame siciliano parve chiamato a una
preziosa funzione d'intermediario tra l'Oriente e l'Occidente.
Gioacchino da Fiore nutrì di pensiero bizantino i suoi
scritti mistici e profetici, destinati a sommuovere la coscienza
cattolica. Enrico Aristippo risalì alle fonti dell'antico
sapere ellenico, traducendo in latino libri ignorati di Platone e di
Aristotele. Si poteva formare in Sicilia una scuola di traduttori;
ma non si formò. Traduttori notevoli si ebbero anche in altre
parti d'Italia: Iacopo da Venezia rivelò all'Occidente la
"logica nova" d'Aristotele; Burgundio da Pisa fece conoscere il
Damascemo e il Crisostomo, e giovò con altre versioni agli
studî medici e ai giuridici. Frutti di viaggi e di lunghi
soggiorni a Bisanzio. Ma è curioso che, in Italia, coi tanti
rapporti che le repubbliche marinare mantenevano con l'impero
bizantino, chi volle più metodicamente penetrare l'antica
scienza dei Greci andasse a cercarne notizia tra gli Arabi.
Dall'arabo, in Sicilia, Eugenio di Palermo aveva già tradotto
un opuscolo di Tolomeo. Ma Gherardo da Cremona si recò
addirittura in Spagna, e dalle versioni arabe, che trovò a
Toledo, tradusse un gran numero di opere greche, tra l'altro tutte
le parti della fisica d'Aristotele, e l'Almagesto di Tolomeo.
La Spagna esercitò allora quella funzione di mediatrice tra
Oriente e Occidente, in cui l'Italia non seppe o non poté
perseverare. Il primo grande centro di cultura araba che
passò sotto il dominio cristiano, Toledo, diventò,
grazie alla virtù organizzatrice di un vescovo francese,
Raimondo, grazie all'attività scientifica e didattica d'un
maestro italiano, Gherardo, oltre che una laboriosa fucina di
traduzioni, una feconda scuola d'astronomia, di fisica, di
matematica, di tutte le scienze insomma in cui gli Arabi,
conservatori ed elaboratori dell'antico sapere greco, superavano
allora di gran lunga i Latini. Certo la conoscenza del pensiero
greco giunse falsata ai Latini dall'interpretazione araba; ma essi
ebbero, in compenso, la ventura di conoscere, in quel che pur
possedeva di originale, il pensiero arabo. La scuola di Toledo ebbe
così per tutto l'Occidente un'importanza capitale; e vi
convennero da ogni parte gli studiosi, molti dei quali vi si
distinsero. Non mancò la collaborazione degli Spagnoli,
benché la grande opera della "riconquista" sembrasse allora
assorbire tutte le loro energie. Lo spagnolo Gundisalvi
(Gundissalino), traduttore di Avicenna e d'altri filosofi arabi,
ebbe anzi ingegno bastante per dare alle idee dei suoi maestri, in
pregevoli trattati, uno sviluppo originale. Altri minori centri di
studî arabi e fucine di traduzione si formarono qua e
là nella Spagna cristiana; e non si tradussero solo libri
scientifici, ma anche immaginosi racconti, come fece l'ebreo
convertito Pietro Alfonso, aprendo all'Occidente i tesori della
novellistica orientale.
Fine del Medioevo. - Il Duecento svolse riccamente le premesse
ch'erano state poste con tanto slancio dall'età precedente.
Le grandi scuole, nate all'ombra delle cattedrali, si organizzarono
in università, si liberarono dalla tutela dei vescovi,
lottarono contro l'invadenza dei nuovi ordini religiosi (domenicani
e francescani) e contro l'intromissione dell'autorità papale,
realizzarono più o meno perfettamente la loro autonomia.
Delle vecchie scuole, alcune, come Parigi e Bologna, presero la
direzione del movimento, altre restarono indietro; ma nuove scuole
entrarono in gara con le prime: Oxford, Padova, Montpellier, ecc. E
a queste università, che s'erano formate naturalmente, per
virtù di maestri e favore di scolari, s'aggiunsero quelle
create da iniziative sovrane: quella regia di Napoli, quella papale
di Tolosa. Gli studî si distribuivano in quattro
facoltà (arti, diritto, medicina, teologia), non sempre tutte
coesistenti nella stessa università; ma, anche quando c'erano
tutte, l'una o l'altra prevaleva. La specializzazione continuava:
filosofico-teologico era il carattere di Parigi e di Oxford,
retorico-giuridico quello di Bologna e di Padova, medico quello di
Salerno e di Montpellier. In queste scuole si agitarono le questioni
più vitali della cultura dugentesca.
Il fatto fondamentale fu la scoperta del "nuovo Aristotele",
cioè della fisica e della metafisica aristotelica, sino
allora ignorate in Occidente. Rivelate dai traduttori di Toledo sul
finire del sec. XII, esse sconvolsero a poco a poco nel campo
scientifico, filosofico e teologico, tutte le idee tradizionali.
Tanto che, apparendo pericolose per la stessa fede, le
autorità ecclesiastiche ne tentarono prima la condanna, poi,
essendo questa rimasta vana, ne ordinarono una non meno vana
revisione ed espurgazione. Il nuovo Aristotele, imperturbato,
continuava la sua strada. Anzi, per avvicinar meglio il suo pensiero
genuino, senza la sospetta mediazione degli Arabi, gli studiosi
latini promossero nuove traduzioni, fatte direttamente sul testo
greco; e in questo lavoro ebbe parte onorevole anche qualche
traduttore italiano. Nei primi tempi le idee aristoteliche erano
penetrate un po' alla spicciolata nelle opere dei filosofi
occidentali, come Guglielmo d'Auxerre o Guglielmo d'Alvernia. Ma poi
il nuovo Aristotele li obbligò a prender nettamente
posizione, donde una diversità di atteggiamenti che
portò alla costituzione di discordanti sistemi. Vi fu chi
accettò di peso, quali ne fossero le conseguenze rispetto
alla fede, l'interpretazione araba del pensiero aristotelico,
così com'era stata condotta a perfezione dal maggiore e
più recente commentatore, Averroè; e si ebbe
l'averroismo: rappresentante principale Sigieri di Brabante. Vi fu
chi tentò invece, con uno studio indipendente e con una
interpretazione originale del pensiero aristotelico, di conciliarlo
integralmente con la fede cristiana; e si ebbe il tomismo:
iniziatore geniale Alberto Magno, sistematore possente Tommaso
d'Aquino. E vi fu chi, persuaso della irriducibilità di certe
idee aristoteliche, accettò solo quelle che potevano, senza
alcun danno per l'ortodossia, arricchire il pensiero tradizionale,
che si richiamava volentieri a S. Agostino; e si ebbe
l'agostinianismo di Alessandro di Hales, di Bonaventura, di Roberto
Anglico. Vi fu infine chi arditamente volle controllare le
osservazioni aristoteliche con la diretta esperienza dei fatti, di
tanto avvicinandosi allo spirito di Aristotele, di quanto si
allontanava dalla lettera; e si ebbe lo sperimentalismo: iniziatore
Roberto Grossatesta, banditore Ruggero Bacone. Tali furono le
principali correnti filosofiche, che si disputarono il campo nel
Duecento. Parigi e Oxford furono i centri del movimento; ma vi
parteciparono in modo decisivo, coi Francesi e con gl'Inglesi, i
Tedeschi e gl'Italiani, e fu anzi italiano il maggior filosofo del
tempo, S. Tommaso. Di lontano seguì il movimento, in un suo
atteggiamento particolare, lo spagnolo Raimondo Lullo.
Fra tanta attività filosofica tutte le scienze sacre e le
profane si svilupparono grandemente. E se ne può avere
un'idea complessiva nella monumentale enciclopedia di Vincenzo di
Beauvais, originalmente distribuita in tre "specchi": naturale,
istoriale e dottrinale.
Al progresso delle scienze l'Italia prese nel Duecento una parte
capitale. Mantenne il primato nelle scienze giuridiche, ch'ebbero a
Bologna in Accursio il loro più autorevole rappresentante. Lo
mantenne anche nelle scienze retoriche, di cui il Boncompagno da
Signa fu il cultore più originale; e invano con lui e con gli
altri dettatori di Bologna tentò rivaleggiare l'ars dictandi
d'Orléans; mentre nelle dottrine grammaticali, e in quelle
metriche e ritmiche, prevalevano i Francesi e gl'Inglesi (ricordiamo
Alessandro di Villedieu e Giovanni di Garlandia). L'Italia
continuò degnamente le sue nobili tradizioni anche nelle
scienze mediche con i maestri salernitani e con qualche altro
celebre patologo, come Guglielmo Salicetti; quantunque dalla sua
cattedra di Montpellier lo spagnolo Arnaldo di Villanova
s'acquistasse fama più duratura. Infine la nostra
superò ogni altra nazione d'Occidente nelle scienze
matematiche con Leonardo Fibonacci, e si distinse nelle astronomiche
con Guido Bonatti.
Ma la letteratura latina non si onorò soltanto di opere
filosofiche e scientifiche: le opere storiche furono pur numerose e
importanti. Ricordiamo tra gli storiografi in Francia Alberico delle
Tre Fontane e Guglielmo di Nangis, oltre a Giacomo di Vitry, che fu
anche predicatore esemplare; in Spagna Rodrigo di Toledo; in
Inghilterra Matteo Paris; in Germania Burcardo d'Ursperg; in Polonia
Martino Polono. Ma i più interessanti s'incontrano forse in
Italia: Rolandino di Padova, Riccardo di S. Germano, Saba Malaspina,
Giacomo Doria, Riccobaldo di Ferrara, e il più personale, il
più vivo di tutti: fra Salimbene di Parma.
Ricco di scrittori notevoli (tra i quali non vanno dimenticati certi
moralisti, come Albertano da Brescia, e certi agiografi, come
l'autore della Legenda aurea, Iacopo da Varazze, o il raccoglitore
di miracoli eesario di Heisterbach), il Duecento scarseggiò
di poeti. La poesia latina dugentesca non regge al paragone con
quella dell'età precedente. Vero è che in Francia, da
principio, le buone tradizioni parevano ancora salde, e lo spirito
di Gualtiero di Châtillon sembrava in certo modo rivivere coi
suoi atteggiamenti epici in Guglielmo il Bretone, coi suoi
atteggiamenti lirici in Filippo di Grève; ma poi, col
procedere del tempo, l'esercizio della poesia latina venne sempre
più trascurato; sennonché se ne servì per
comporre satire o per lanciare invettive qualche moralista, come il
gran nemico delle donne Matteolo. E anche in Inghilterra e in
Germania, dopo qualche saggio non disprezzabile, che uscì al
principio del secolo, la poesia latina perdette ogni valore. Una
raccolta come quella dei Carmina Burana non ha che un significato
retrospettivo: i canti goliardici che vi si leggono appartengono
tutti, o almeno tutti i migliori, al sec. XII e al principio del
XIII.
Diversa è la storia della poesia latina in Italia. Qui la
tradizione della poesia epico-storica o lirico-storica si
continuò con i poemi di Stefanardo da Vimercate e di Orso
genovese, con i carmi trionfali parmigiani del 1248 e con altri
ritmi. Ma ci fu anche chi celebrò le gesta di eroi antichi
come Quilichino di Spoleto, chi trasse da giocose novelle commedie
elegiache come Riccardo di Venosa, chi dettò in versi
precetti morali come Bonvesin da la Riva, o regole di buona
educazione come l'autore del Facetus, o consigli di retto governo
come Orfino di Lodi; e ci fu chi lanciò satire politiche
come, forse, Pier della Vigna, e chi sparse canzoni goliardiche come
Boncompagno e Morando, e chi levò cantici sacri come, forse,
Tommaso da Celano e Iacopone da Todi. Varietà sconosciuta
all'Italia dei secoli precedenti. Che se la qualità di tale
poesia non è meravigliosa, essa attesta tuttavia fra i dotti
italiani, non tutti chierici, anzi in gran parte laici (giudici e
notai), un persistente interesse poetico, destinato a dar presto
più succosi frutti. Dalla scuola padovana, ricondotta da
Lovato de' Lovati al culto intelligente dei classici uscì
infatti sul finire del Duecento, e continuò ad operare nei
primi decennî del Trecento, l'annunziatore dell'umanesimo
Albertino Mussato. Nobile poeta; ma fu anche insigne prosatore, e le
sue storie, probe, sagaci, vive, eloquenti, tutte penetrate dalla
coscienza della logica concatenazione dei fatti, prepararono una
nuova storiografia, non indegna di ricongiungersi all'antica. Anche
più significative sono le sue poesie: epistole e
soliloquî, dove le sue meditazioni religiose, le sue
considerazioni politiche, le sue esperienze umane si esprimono
vigorosamente; e una tragedia, ov'egli tentò risuscitare
l'arte, pur allora dissotterrata, del Seneca tragico per
rappresentare uomini e fatti di un passato ancor sanguinante. Senza
il prosatore e poeta Albertino Mussato, tutto preso dal gusto della
classicità, tutto animato dal senso della personalità,
mal si comprenderebbe indi a poco Francesco Petrarca. Ma il Petrarca
appartiene senz'altro alla storia della cultura e della letteratura
umanistica. Intanto fra i suoi contemporanei il Mussato faceva
discepoli: ché tali si possono più o men
legittimamente considerare gli storiografi Ferreto de' Ferreti e
Giovanni da Cermenate, il poeta Giovanni del Virgilio. Costui
cercò convertire Dante alla poesia latina, e Dante si
lasciò indurre a provarvisi. Egli aveva del resto già
scritto in latino importanti opere prosastiche, ricche di pensiero,
sia che trattassero di problemi politici o letterarî, sia che
si riferissero a casi contingenti, nazionali o personali. E
v'è fra tali opere quella che ben può chiudere la
storia della letteratura latina medievale: l'originale saggio che
celebra latinamente le virtù della lingua volgare (De vulgari
eloquentia): strumento nuovo di una nuova cultura.
L'uso letterario delle lingue volgari nell'Occidente cristiano,
relativamente recente fra i popoli romanzi, cominciò presto
fra i celtici e i germanici. Era infatti naturale che il latino, non
offrendo coi loro idiomi nativi alcun sensibile punto di contatto,
fosse per questi popoli assai meno accessibile, e che quindi la
cultura, per diffondersi fra loro in un cerchio meno ristretto di
persone, avesse bisogno di uno strumento sussidiario, semplice e
facile. Nacquero così le letterature volgari celtiche e
germaniche; ed è veramente significativo ch'esse nascessero
tutte quando, nei rispettivi paesi, la cultura latina era in fiore,
e dipendessero tutte, quasi unicamente, per lungo tempo dalla
letteratura latina. Si veda l'esempio della letteratura
anglosassone. Sorta ai tempi di Aldelmo e di Beda, decaduta dopo i
tempi di Alcuino, risorta infine fuggevolmente sotto il regno di
Alfredo il Grande, essa seguì punto per punto le sorti
ch'ebbe in Inghilterra la cultura latina; e ne fu tutta sostanziata,
sì che nel cumulo delle traduzioni e delle imitazioni, in
prosa e in verso, d'opere religiose e didattiche, perfino i poemi
eroici nazionali ne rivelano a ogni passo l'impronta. Simile il caso
della letteratura irlandese nel sec. VII, della tedesca nel sec. IX
e nel X.
Presso i popoli romanzi il latino da principio non fu sentito come
una lingua nettamente diversa da quella parlata; e se si pensa qual
era il latino scritto nella Francia merovingia e nell'Italia
longobarda, la cosa non può far meraviglia. Ma quando, ai
tempi di Carlomagno, col risorgere degli studî, il latino
barbarico fu ripudiato, e gli si sostituì negli scritti un
latino classicheggiante, allora si sentì quanta differenza
separasse questa restaurata lingua letteraria dallo schietto idioma
dei volghi. E allora si capì che ad istruire i volghi
occorreva adoperare il loro proprio linguaggio; e il concilio di
Tours dell'813 stabilì che le prediche si traducessero "in
rusticam romanam linguam". Prediche, preghiere, formule di pubblici
giuramenti e di testimonianze processuali: questo è il genere
dei rari documenti in lingua volgare che il sec. IX e il X ci
tramandarono nei varî paesi romanzi. Un indovinello in Italia,
un cantico sacro in Francia (capricci isolati di chierici)
presentano soli qualche carattere letterario. Non è che nel
sec. XI e nel XII che si ha un'improvvisa mirabile fioritura
letteraria nell due lingue volgari della Francia; ed è
contemporanea alla gran fioritura letteraria latina che sboccia
anch'essa su dal suolo francese. La coincidenza è
significativa; e tanto più quando si consideri come la varia
e complessa produzione volgare, epica, romanzesca, lirica,
drammatica, satirica, didattica, storica, di carattere sacro e di
carattere profano, in verso e in prosa, affondi le sue radici in
gran parte nella tradizione latina, cresca e maturi in accordo con
la contemporanea produzione letteraria latina. Il latino è
ancora ben vivo. Anzi proprio in quei secoli ha la forza di
rinnovarsi, di modernizzarsi, di adattarsi spregiudicatamente ai
bisogni nuovi della cultura. È il latino scolastico, che si
sostituisce al latino più o meno felicemente classicheggiante
dell'età carolina e ottoniana. Lingua viva; ma se altre
lingue accanto ad essa osano levarsi a una funzione letteraria,
è perché il laicato (aristocrazia o borghesia) chiede
ormai di partecipare attivamente, interamente, collettivamente alla
vita intellettuale; e gli è impossibile giungervi attraverso
il latino. Le condizioni diverse, materiali e spirituali, del
laicato, anzi di tutta la nazione, spiegano come fuor di Francia la
fioritura letteraria volgare si manifesti in ritardo. È il
caso dell'Italia e della Spagna, dove le letterature volgari
cominciano solo verso il Duecento; e prendendo esempio e modello
dalla letteratura francese e dalla provenzale, anche se giungano
presto ad affermare la loro originalità, e l'italiana a
toccare d'un balzo con Dante le vette della gloria.
Ma intanto appare quanto le lingue volgari, più schiette,
più ingenue, più immaginose, più vive, siano
superiori per efficacia artistica al latino scolastico. E ne viene o
un abbandono progressivo del latino come lingua d'arte, ed è
ciò che accade oltralpe; o un ritorno sia pure anacronistico
al latino classico, qual si prepara in Italia coi precursori
dell'umanesimo. Come lingua di scienza, il latino non accenna ancor
certo a morire; ma già le lingue volgari, in Italia, in
Francia e in Spagna, come in Germania, in Inghilterra e dappertutto,
rivendicano praticamente, e talora anche teoricamente, il diritto di
provvedere a tutti i bisogni della cultura. L'universalismo
medievale s'infrange. Nel campo intellettuale, come in quello
politico, si attua l'indipendenza delle nazioni moderne.