Prometeo

www.tanogabo.it

Inno di Johann Wolfgang Goethe (1749-1832)

Composto nel 1773 o più probabilmente nel 1774, l'inno fa parte di un dramma omonimo, rimasto allo stato frammentario. Dopo la sua prima pubblicazione, nello scritto di Friedrich Jacobi Über die Lehre des Spinoza in Briefen an Herrn Moses Mendelssohn (Sulla dottrina di Spinoza nelle lettere a Moses Mendelssohn) (1785), divenne subito celebre all'interno della vasta discussione sulla filosofia spinoziana della fine del Settecento. Lessing, dichiarandosi spinozista, faceva riferimento infatti proprio all'inno goethiano, che fu da allora considerato, con le parole dello stesso Goethe “la scintilla di una esplosione che mise a nudo e manifestò i pensieri più segreti di uomini degnissimi, pensieri a loro stessi nascosti che giacevano inespressi in una società per altri versi altamente illuminata”.
   
Dei temi accennati nel breve dramma, ampi e complessi, l'inno affronta soprattutto la negazione dell'onnipotenza degli dei. Anche gli dei infatti, come l'uomo, sono soggetti al tempo e al destino. Prometeo è intento a modellare figure a propria immagine e somiglianza, secondo l'immagine suggerita dalla fonte di Goethe, il dizionario mitologico di Benjamin Hederich. Ponendo l'attività creatrice di Prometeo sullo stesso piano di quella di Giove, Goethe, come osserva Giuliano Baioni, supera la posizione del genio demiurgico settecentesco, che con Shaftesbury era visto solo come “secondo creatore”, sottoposto ad un dio creatore supremo. Se per Klopstock il poeta è strumento del dio creatore, il Prometeo goethiano rivendica l'indipendenza della terra dalla divinità e proprio nello spazio terreno da cui il dio viene sprezzantemente escluso riconosce la pienezza della vita umana cui egli dà origine.

[Testo dell'Inno]

Copri il tuo cielo, Giove,
col vapor delle nubi!
E la tua forza esercita,
come il fanciullo che svetta i cardi,
sulle querce e sui monti!
Ché nulla puoi tu
contro la mia terra,
contro questa capanna,
che non costruisti,
contro il mio focolare,
per la cui fiamma tu
mi porti invidia.

Io non conosco al mondo
nulla di più meschino di voi, o dèi.
Miseramente nutrite
d'oboli e preci
la vostra maestà
ed a stento vivreste,
se bimbi e mendichi
non fossero pieni
di stolta speranza.

Quando ero fanciullo
e mi sentivo perduto,
volgevo al sole gli occhi smarriti,
quasi vi fosse lassù
un orecchio che udisse il mio pianto,
un cuore come il mio
che avesse pietà dell'oppresso

Chi mi aiutò
contro la tracotanza dei Titani?
Chi mi salvò da morte,
da schiavitù?
Non hai tutto compiuto tu,
sacro ardente cuore?
E giovane e buono, ingannato,
il tuo fervore di gratitudine
rivolgevi a colui
che dormiva lassù?

Io renderti onore? E perché?
Hai mai lenito i dolori di me ch'ero afflitto?
Hai mai calmato le lacrime
di me ch'ero in angoscia?

Non mi fecero uomo
il tempo onnipotente
e l'eterno destino,
i miei e i tuoi padroni?

Credevi tu forse
che avrei odiato la vita,
che sarei fuggito nei deserti
perché non tutti i sogni
fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini
a mia immagine e somiglianza,
una stirpe simile a me,
fatta per soffrire e per piangere,
per godere e gioire
e non curarsi di te,
come me.

(trad. it. di Giuliano Baioni, in Goethe, Inni, Einaudi 1967)

*

da http://www.rivistazetesis.it/Prometeo.htm

 Nel titano demiurgo e creatore Goethe si identificò quando volle diventare il poeta "artefice" di uomini dalla "grandezza colossale".

Due sono le raffigurazioni del genio goethiano, l'immagine del viandante prima e in seguito quella del titano demiurgo legata alla scoperta del demoniaco in se stesso e nella natura. Nascono in questo momento il Prometheus, tragedia di cui furono scritti solo due atti, e nell'autunno dello stesso 1773 viene composto l'inno Prometeo che avrebbe dovuto aprire il terzo atto. Prometeo rifiuta di spartire con gli dei il cielo e sceglie la terra, rifiuta anche di far animare dai celesti le figure da lui create; gli uomini da lui plasmati devono riconoscere di non avere bisogno degli dei e devono aver la certezza che questi senza i tributi umani non disporrebbero più del necessario per continuare a esistere; Minerva, anche qui ben disposta verso Prometeo, gli rivela che uomini e dei sono ugualmente sovrastati dal Destino, vera fonte della vita. C'è tutta la revisione romantica del mito eschileo nel genio che si ribella per amore all'umanità e nella finale conferma che tutto è in potere del destino. Da questa posizione giovanile Goethe si evolve e dopo i primi dieci anni dell'esperienza di Weimar il sentimento della natura diventa in lui più contemplativo e purificato, così come si viene formando una nuova concezione del rapporto dell'uomo col divino. Non più ribellione quindi, ma reverenza; l'uomo che trova il suo centro è colui che si autolimita, non il Prometeo che osa misurarsi con gli dei. Il mito viene abbandonato.

Un ritorno al mito è della fase della vecchiaia quando, esaurita la vena fantastica, Goethe riprende i temi della propria giovinezza e li sviluppa in modo nuovo e insospettabile grazie alla saggezza acquisita in seguito a esperienze ricche e molteplici. Esempio di tale atteggiamen­to è il dramma, anche questo incompiuto, Pandora, ripresa ideale della tragedia giovanile interrotta proprio alla scena fra Prometeo e Pandora. Pandora è un dono degli dei che però Prometeo rifiuta, è invece accettata da Epimeteo che ha da lei due figli. Pandora si allontana e Prometeo soffre per il rimpianto di ciò che non ha mai voluto, Epimeteo per la nostalgia di ciò che ha perduto, intanto il figliodi Epimeteo si scontra per gelosia e corre pericoli. È sottolineato il contrasto fra vecchi e giovani e c'è l'esortazione a recuperare i valori dello spirito, dell'arte e della scienza nell'importanza che viene data alla figura di Epimeteo (qui simbolo della saggezza e della contemplazione) e soprattutto nella parte finale in cui Pandora ritornando avrebbe dovuto dare agli uomini in dono i grandi valori neoclassici.