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Poeta italiano (Monsummano 1809 - Firenze 1850). Partito dalla
tradizione giocosa toscana, approdò al mito della
“paesanità”, come aspirazione a una vita lontana dalle
raffinatezze sociali e insieme romantico disprezzo per un gusto
troppo letterario. La fama dello scrittore resta affidata agli
“Scherzi”, satire originalissime di tutte le sventure della vita
italiana nel decennio anteriore al 1849, per i quali spicca nella
storia letteraria italiana del sec. XIX con un'impronta ben definita
di originalità. Celebre, tra i suoi versi, Sant'Ambrogio
(1845), in cui il tono meditativo si lega a temi patriottici.
Benché la sua fama sia andata declinando nel tempo, alcune
figure (Girella, il Giovinetto, Taddeo e Veneranda, ecc.) e certi
versi suoi mantengono ancora una loro vitalità.
Vita. Nel 1826 fu mandato a Pisa a studiare legge, "di
contraggenio"; si laureò nel 1834, ma non esercitò mai
la professione. Il periodo pisano fu poi da G. rievocato nelle
Memorie di Pisa. Nel 1836 conobbe Gino Capponi, con il quale strinse
un'amicizia di grande importanza. Visse, eccettuato qualche viaggio,
sempre a Firenze; e di lì i suoi "Scherzi" si diffondevano,
manoscritti o malamente stampati alla macchia, e confusi con satire
d'altri, per tutta Italia. La sua fama toccò il culmine nel
1847-48, quando gli avvenimenti parvero confermare il suo credo di
liberale moderato. In quegli anni G. partecipò anche alla
vita pubblica: fu maggiore della Guardia civica, e deputato alla
prima e seconda Assemblea legislativa toscana. Poeticamente, G.
parte dalla tradizione giocosa toscana, e soprattutto da A.
Guadagnoli; ma ben presto trova una sua via, di elaborata
semplicità. Egli crea il mito della "paesanità", che
significa, autobiograficamente, l'aspirazione a una vita lontana da
falsità e raffinatezze sociali; letterariamente essa è
sinonimo di onesta saggezza, di schiettezza, di limpidità, di
romantico spregio per il troppo letterario; anche se, a proposito di
certe sue affettazioni popolareggianti, lo stesso Carducci, che pure
prese da G. l'avvio, poté giustamente parlare di "pedanterie
in manica di camicia".
Opere. In molte sue parti l'Epistolario (nuova ed. in 4 voll.,
Firenze 1932) conserva un notevole valore come documento storico; la
prosa giustiana ha più nerbo nella Cronaca dei fatti di
Toscana dal 1845, a...., che F. Martini pubblicò sotto il
titolo di Memorie inedite (1845-1849) (Milano 1890). Il G.
dedicò molto tempo a una raccolta di Proverbi toscani,
pubblicata postuma dal Capponi (Firenze 1873), insieme con una serie
di argute Illustrazioni; molto pure "almanaccò" con Dante, e
qualche traccia non trascurabile dei suoi studi sul grande poeta ci
è pervenuta.
*
DBI
di Zeffiro Ciuffoletti, Domenico Proietti
GIUSTI, Giuseppe.
Nacque a Monsummano, presso Pistoia, il 13 maggio 1809 da Domenico,
agiato possidente di campagna di recente nobilitato, e da Ester
Chiti.
A dodici anni, terminati gli studi elementari sotto la guida di un
prete di campagna, cominciò la vita del collegiale: prima a
Montecatini, poi all'istituto Zuccagni di Firenze, quindi al
seminario di Pistoia e poi ancora al collegio dei nobili a Lucca.
Nel novembre 1826 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza
a Pisa, ma nel 1829 il padre, scontento della sua condotta, lo
richiamò a Pescia, dove la famiglia si era da poco
trasferita.
A quel punto i rapporti del G. con il genitore, da lui ritenuto
avaro e sospettoso, si erano già deteriorati, tanto che
spesso il giovane era dovuto ricorrere alla madre - cui lo
legò sempre un vincolo di "amore" e di "gratitudine"
(Epistolario, ed. Martini, I, p. 117) - per fare fronte, soprattutto
negli anni pisani, alle esigenze di una vita che al padre appariva
scriteriata: esemplare, in tal senso, il conflitto scoppiato tra i
due nel 1833, quando il G., ancora studente a Pisa, fu coinvolto in
una manifestazione politica a teatro e sospeso dall'esame di laurea
per il periodo di un anno.
Di Pescia il G. fece un osservatorio dei costumi popolari e
contadini toscani. Sapeva che la cittadina era in realtà "un
paesucolo al quale era stato dato per corbellatura il nome di
città" (ibid., IV, p. 20), dove spesso si sentiva vegetare
rispetto a Firenze o a Pisa, legato com'era "alla biada casalinga"
(ibid., I, p. 171), ma dove tuttavia poteva realizzare le sue
passioni giovanili: la caccia, i cavalli, gli incontri, i giochi
(carte e biliardo), gli amori, i balli: "caccia a tutto pasto; un
giocare di ganasce continuo; una conversazioncina la sera, di
quattro o sei possidentucoli, facendo a strippare un mazzo di carte
passate di padre in figlio, al lume di una lucerna da morti, erano
le mie dolci occupazioni" (ibid., IV, p. 55). Tra i luoghi deputati
per questo tipo di sociabilità, cui il G. si sentiva portato
dal fatto di essere "un gran tormentatore di se stesso" e insieme
"un gran rallegratore delle brigate" (ibid., II, p. 243), c'era a
Pescia il circolo borghese detto delle Stanze.
Non meno gradito gli risultava, però, mescolarsi al popolo,
verso il quale egli sentiva un'istintiva simpatia. Una simpatia che
gli derivava dal "gusto di linguaiolo, che sentiva nel parlare
popolare le scaturigini perenni del linguaggio e molto anche
dall'apprezzamento di quella saggezza popolare da lui ricercata e
catalogata, nelle sue espressioni, nella Raccolta dei proverbi
toscani (Sestan, p. 25); di qui, a fianco alle amicizie colte, anche
quelle con persone semplici, come il fornaio Lorenzo Marini, o il
calzolaio Benvenuto Chicchi: "Nel sarto, nel calzolaio, nel fornaio,
nel contadino […] ritrovo i miei compagni di scuola di una volta e
cerco di stare e di scherzare con loro più a lungo che posso,
per rifarmi l'orecchio e il palato alle nostre maniere di dire"
(Epistolario, I, p. 543).
In questo senso Pescia fu il polo stabile della sua vita
sentimentale e familiare, ma dopo la laurea in legge, conseguita a
Pisa nel giugno 1834, Firenze, dove si trasferì per far
pratica presso uno studio d'avvocato, divenne la città dei
suoi interessi letterari e mondani. Quei dieci anni, tra il 1834 e
il 1844, li "mise a profitto non già nella carriera forense,
bensì in quella di osservatore di costume e di critico della
nuova società organizzata nel segno della restaurazione"
(Baldacci, 1963, p. 37). Firenze gli fu prodiga di occasioni di
svago, in privato e tra gli amici più che nei "divertimenti
pubblici pochi e brutti" (Epistolario, I, p. 490).
Curava le amicizie, come quella di C. Bastianelli, di M. Tabarrini e
di P. Papini. Frequentava il Gabinetto del ginevrino G.P. Vieusseux
e la libreria Piatti. Trascorreva "la sera qua e là per le
case di relazione" dove "grazie alle buscherate poetiche" si trovava
"bene accolto" (ibid., V, p. 107). "Studio fino alle quattro, poi
alla trattoria, in società di giovani allegrissimi; poi mi
vesto in gala e vo alla Pergola per i palchi eleganti aristocratici;
a mezza sera passo all'Alfieri nei palchi eleganti democratici;
oppure ad altri teatri, o ai balli o all'accademie" (ibid., V, p.
77).
A Firenze fin dal 1843 il G. entrò in relazione sempre
più stretta con G. Capponi, che lo accolse nella sua casa e
offrì al poeta un trampolino di lancio sociale e letterario,
tanto più che proprio in quel giro di tempo (1844-45)
apparivano le prime stampe delle poesie giustiane.
Il 1843 fu per il G. un anno di svolta per più motivi: prima
la perdita dello zio paterno, Giovacchino, a cui era molto legato,
ebbe gravi ripercussioni sul suo equilibrio psichico; poi venne
l'incidente del gatto, da lui ritenuto idrofobo, ad accentuare i
suoi disturbi epatici e intestinali, che col tempo si sommarono al
"mal di petto". Al manifestarsi di queste nuove inquietudini fu
preso dal desiderio di muoversi oltre i confini della Toscana, di
fare amicizie importanti e di far circolare le proprie opere. Dal
1843, infine, era diventato intimo amico di Luisa Maumary,
già vedova Blondel, seconda moglie di Massimo Taparelli
d'Azeglio, ormai da più anni separata dal marito. Ad ampliare
la cerchia delle conoscenze del G. vennero i viaggi fuori della
Toscana: a quello compiuto con la madre a Roma e a Napoli all'inizio
del 1844, che lo aveva fatto entrare in contatto con A. Poerio,
seguì nel 1845, proprio con la d'Azeglio e con Vittorina
Manzoni, il viaggio a Milano, dove fu ospite del Manzoni, con il
quale era da tempo in rapporti epistolari, e dove entrò in
dimestichezza con gli scrittori che a lui facevano capo, in
particolare con G. Torti e T. Grossi. Con loro discusse le questioni
più vive, come quelle relative alla lingua, ma ciò lo
predispose ad andare oltre il piano puramente specialistico, fino a
politicizzarsi e a legarsi "al carro dei moderati con i quali la sua
iniziale vocazione di poeta (cioè di puro osservatore del
costume) non aveva niente in comune" (Baldacci, 1974, p. 65).
Con il favore che ottennero, le poesie satiriche giustiane
contribuirono sicuramente a rendere popolare la riforma di Manzoni,
che se ne avvantaggiò nel suo sforzo di unificare la lingua
italiana. Nel 1846, quando il male, come confidò all'amico L.
Capecchi (Epistolario, I, p. 488), lo teneva lontano dallo scrivere
"specialmente versi", il G. pubblicò con Le Monnier a
Firenze, premettendovi un'ampia prefazione, un'edizione delle opere
di Parini (Versi e prose di G. Parini con un discorso di G. G.
intorno alla vita e alle opere di lui) che era sua convinzione
avrebbe stupito i signori di "scuola" e fatto "strillare classici e
romantici", perché egli pensava di scrivere "alla gente che
legge guidata dal buon senso", e perché cercava di essere
nella prosa "quale si era mostrato nel verso".
Intanto la vita politica registrava la fase che preludeva alle
riforme del 1847 ed esaltava l'ispirazione eroico-risorgimentale del
G., che si era volto a considerare le deplorevoli condizioni
d'Italia, immersa nello squallore e corrotta nello spirito dai
"tedeschi", dai "birri", dai "preti", dai "sovrani", ma anche dalla
corruzione dei ceti dominanti e dei loro accoliti, pronti a lisciare
i perdenti e a salire sul carro dei vincitori di turno; come scrisse
ne Lo Stivale, non voleva in Italia stranieri dominanti, né
si aspettava salvezza dagli stranieri: "E qualche gamba da gran
tempo aspetto / che mi levi di grinza e che mi scuota; / non
tedesca, s'intende, né francese; / ma una gamba vorrei del
mio paese" (Poesie, ed. Sabbatucci, 1962, I, p. 58). Aveva affermato
che dal clero non ci si poteva aspettare che danni: "il più
gran male me l'han fatto i preti, / razza maligna e senza
discrezione". Così come aveva parlato degli effetti
corruttori di Leopoldo II, il "Toscano Morfeo". Eppure ora era
pronto a dar credito a Pio IX e Leopoldo II e a sperare nelle
riforme per il bene del popolo (A Leopoldo II, in Poesie, II, p.
378). Poco prima aveva pubblicato a Firenze presso i successori
della tipografia G. Piatti il ditirambo Il congresso dei birri. A
presentare il manoscritto all'esame della censura, troppo severa,
secondo il poeta, con chi scriveva in poesia e invece di manica
larga con chi scriveva in prosa (Epistolario, III, pp. 7 s.), era
stato su suo incarico L. Galeotti. In effetti i censori sapevano
bene che le satire in versi si propagavano anche fra il popolo con
una velocità e una larghezza incomparabili rispetto alle
prose, perché più facilmente ritenute a memoria e,
quindi, ripetute di bocca in bocca. Sempre per questo motivo
abbondavano le stampe abusive dei suoi versi, tanto che il G.,
pubblicando una raccolta di Nuovi versi "un po' serotini" (Tip.
Baracchi, successore di G. Piatti, Firenze 1847), fu costretto a
denunciare l'abuso: "parecchi fra stampatori e librai fecero a
confidenza col pubblico e con me, stampando in un fascio roba mia e
non mia, lieti di poter accozzare un libro purché fosse e di
mandarlo fuori a mio nome o espresso o sottinteso".
Per quanto alieno dall'impegno politico, non poté sfuggire al
turbine patriottico che si levava sempre più forte. Nel
settembre 1847 entrò a far parte della guardia civica col
grado di maggiore e nel giugno 1848 si ritrovò eletto
deputato per il collegio della Val di Nievole. Partecipò
così alla prima e poi alla seconda legislatura appoggiando i
governi moderati di C. Ridolfi e di G. Capponi. "A me" - scrisse poi
nella Cronaca dei fatti di Toscana (ed. P. Pancrazi, p. 279) - "per
aver dato fuori quelle quattro strofe è toccato fare il
maggiore di battaglione, l'accademico della Crusca e il deputato
all'assemblea toscana, tutte faccende che mi distolsero da quella
che è proprio mia".
I sogni dei moderati, nonché le aspirazioni cattoliche dei
neoguelfi, cozzavano con l'esigenza della guerra contro l'Austria e
la spinta dei democratici che non si accontentavano delle riforme e
deprecavano la mancanza di una mobilitazione nazionale e popolare
nella guerra di liberazione.
La situazione precipitò nell'estate del 1848, quando il
governo del Capponi, grande amico del G., fu costretto alle
dimissioni dall'opposizione democratica, sospinta da G. Montanelli e
da F.D. Guerrazzi. Il G., sempre più sofferente per la
malattia e sempre più disincantato, si rese conto del
precipitare degli eventi, come scrisse a L. Marini nell'aprile 1849:
"Tra il Febbraio e il Marzo 1848, tempo di progresso, girava gente
tra noi (gente intesa con i rivoluzionari di Parigi) a screditare il
governo rappresentativo; e dire che esso non è altro che un
freno dato all'entusiasmo dei popoli; che libertà e
principato non possono accordarsi tra loro; che i principi avrebbero
ritolto con frode ciò che avevano dato per necessità,
e così via discorrendo; tantoché fino dal nascere, ci
avvelenarono le libertà riaffermate e suscitando la bramosia
del meglio, ci fecero non curanti del bene" (Epistolario, III, p.
300).
Il G. era un liberale e un realista; considerava G. Mazzini un
teorico e non nutrì mai troppe speranze nell'ideologia
giobertiana (cfr. Il papato di prete Pero, in Poesie, I, pp.
313-317). Era molto amico di Montanelli, cui riconosceva il grande
merito di aver impedito il ritorno dei gesuiti in Toscana, ma ne
dava un giudizio caustico: "Il Montanelli non ha né forte
sentire né forte pensare. È uno di quegli animi che si
caricano a furia di emozioni cercate, come l'uomo fiacco cerca la
forza nel vino e il malinconico l'esilarazione dell'oppio" (Cronaca
dei fatti di Toscana, p. 254).
L'ingovernabilità della situazione spinse Leopoldo II a
conferire il mandato al Guerrazzi e al Montanelli, che il 27 ott.
1848 si insediarono a palazzo Vecchio. Pressato dalle componenti
democratiche che, ancorché minoritarie nel Consiglio generale
toscano, mettevano in crisi le istituzioni rappresentative
appoggiandosi alle manifestazioni di piazza, il granduca prima
abbandonò Firenze, poi fra il 7 e l'8 febbr. 1849
fuggì verso Gaeta. Lo sviluppo di questi eventi e la condotta
del Guerrazzi furono rappresentati dal G. a tinte fosche nella
Cronaca dei fatti di Toscana e nella prefazione agli Scherzi:
"Dall'agosto al novembre 1848 accaddero cose, in Toscana, da
rivoltare lo stomaco a chi lo avesse avuto di bronzo. Io che le vidi
a nudo in tutta lo loro schifezza, avrei potuto in cinquanta
facciate di scritto strappare la maschera dal muso a parecchi che
erano portati in palmo di mano da una vera ciurma di bricconi
invasati. Sdegnava di tuffare la poesia in questo orribile sterco,
per quanto l'avessi tuffata e rituffata in quello dei birri e delle
spie; ma ebbi dei momenti nei quali lo sdegno ne poté
più del disprezzo e della dignità, e non potei fare a
meno di sciupare questi poveri versi nell'infamia di quattro o sei
furfanti che contaminavano il paese" (Poesie, I, p. 13).
Detestando la violenza e la demagogia, si rifugiava sempre
più spesso a Montecatini Alto o a Pescia. Intanto i giornali
democratici lo attaccavano incessantemente e il Calabrone - un
giornale satirico livornese ispirato dal Guerrazzi - il 16 ott. 1848
scriveva che "il poeta del popolo [era] morto". Quando si accorse
che persino la libertà di stampa era diventata scomoda per i
democratici al governo e che il Guerrazzi non sopportava le satire
della Vespa e dello Stenterello, il G. ne prese le difese e scrisse
a L. Guidi-Rontani, prefetto di Firenze e seguace del livornese, che
chi aveva sopportato il Popolano, il Calabrone e il Corriere
livornese doveva sopportare la Vespa e lo Stenterello (Epistolario,
III, p. 272).
Nella Cronaca sottolineò il doppio gioco politico del
Guerrazzi, che da un lato si teneva a galla grazie alla piazza,
peraltro temendola, ma dall'altro cercava il compromesso con i
moderati per tentare di salvare prima di tutto se stesso. Ideata
già nel '48, ma conclusa tra il '49 e i primi mesi del '50,
la Cronaca dei fatti di Toscana è anche una gustosa galleria
di personaggi e ambienti, tratteggiati con grande scioltezza e con
tratti ironici e pungenti, che ricordano gli Scherzi più
riusciti. Mentre scriveva la Cronaca, il G. era già corroso
dalla tisi. Nell'estate del 1849 si era recato a Viareggio per
respirare l'aria di mare; ritornato a Firenze, ospite del Capponi,
quando poteva lavorare si dedicava al Commento a Dante, l'autore che
più amava. Con un accostamento audace, E. Montazio
affermò che Dante era, insieme con P.-J. de Béranger,
una delle "balie del suo ingegno".
Il G. morì a Firenze il 31 marzo 1850 e il 1° aprile il
suo corpo fu portato alla chiesa di S. Miniato al Monte.
Accompagnavano il feretro U. Peruzzi, gonfaloniere di Firenze,
l'abate R. Lambruschini, D. Valeriani, segretario dell'Accademia
della Crusca, G.B. Giorgini e G. Capponi, l'uomo che più
aveva apprezzato e valorizzato l'ingegno del poeta pesciatino.
La produzione poetica del G., le cui prime prove (una serie di
sonetti d'argomento personale e d'intonazione
classicistico-foscoliana) risalgono alla fine degli anni Venti,
trovò assai tardi e sotto la spinta di circostanze estranee
alla sua volontà la strada di una parziale pubblicazione.
Solo nel 1844, infatti, apparve a Livorno una sua smilza raccolta di
sei liriche classicheggianti (Versi), preceduta da una lettera
dedicatoria a Luisa d'Azeglio in cui il poeta lamentava la comparsa,
quello stesso anno a Lugano, a sua insaputa e con una prefazione di
C. Correnti, dell'antologia Poesie italiane tratte da un testo a
penna, nella quale alcune sue composizioni satiriche, presentate per
lo più in forma scorretta, erano mescolate a testi di
intonazione sentimentale e a versi spuri. L'anno dopo, anche per
contrastare il successo della raccolta luganese (che continuava a
essere ristampata), il G. si decise a pubblicare, fuori di Toscana e
in forma anonima, una scelta (32 composizioni) delle sue poesie
satiriche, ancora con il titolo di Versi (Bastia 1845). Infine,
altri 18 testi tra seri e satirici furono raccolti dal G. in Nuovi
versi (Firenze 1847).
A questa parziale e tardiva sistemazione scritta corrispose una
precoce e larghissima diffusione orale della produzione poetica del
G. anche al di fuori della Toscana. Ciò generò
"l'equivoco di una facilità di scrittura, che tiene
dell'improvvisazione e dell'immediatezza, mentre, al contrario,
l'officina del Giusti è delle più complicate"
(Luciani, 1990, p. 45), come dimostrano sia i numerosi inediti (solo
parzialmente pubblicati dopo la morte dell'autore da G. Capponi e
dai suoi collaboratori), sia le diverse redazioni autografe di molti
componimenti, irti di numerosi e complessi problemi filologici, che
non hanno ancora trovato soluzione in un'adeguata edizione critica.
E se tale ritrosia del G. a pubblicare i suoi testi (specie quelli
d'argomento satirico) va probabilmente attribuita a "un immedicabile
complesso di inferiorità culturale destinato ad accompagnare
come un controcanto" (Ghidetti, p. 246) la sua intera
attività letteraria, un'altra manifestazione di tale senso di
insicurezza è forse da indicare nell'ostinazione con cui,
lungo tutto l'arco della sua carriera poetica, tentò i modi,
in verità a lui meno congeniali, della poesia seria e
classicistica, con un "percorso accademico" certo importante per
l'affinamento della sua straordinaria perizia tecnico-metrica, ma
che "durò parallelo all'altro", forse anche "perché
corrispondeva alla sua candida e costante nostalgia di un mondo
innocente" (Nencioni, p. 290).
Ad ogni modo, la pubblicazione delle prime due raccolte, che
coincise cronologicamente con l'amicizia con A. Manzoni e il
lusinghiero (anche se non incondizionato) riconoscimento da parte di
quest'ultimo dei meriti letterari del G. satirico, segna una linea
di discrimine abbastanza netta nella produzione poetica giustiana,
nella quale, prescindendo dai già ricordati episodi di
apprendistato classicistico o dalle prime prove nel genere
giocoso-satirico (nei modi della poesia di A. Guadagnoli, cui
è dedicata una lunga composizione giovanile), si può
individuare un primo periodo, che abbraccia il decennio 1832-43. In
questa fase il posto centrale è tenuto dall'invenzione, dalla
definizione e dalla valorizzazione espressiva di quelle sbrigliate
composizioni satiriche impostate su metri brevi, serrati e inusuali
come il quinario (forse quello prediletto) e/o su vorticosi
cambiamenti di metrica, che il G. nell'epistolario indica usualmente
con il termine "scherzi", che andrà inteso più in
riferimento alla loro caratteristica ritmicità travolgente e
briosa (con valore quindi assai prossimo a quello della terminologia
musicale) che non alle modalità giocose con cui il poeta
mette in scena e interpreta il loro contenuto. Dunque, una satira
politica e, più spesso (e forse più incisivamente), di
costume, il cui contenuto "ha da essere cercato nelle sue
sonorità, nei suoi ritmi più che nei suoi discorsi,
poiché lì sta, quando non vi si esaurisce addirittura,
in quella straordinaria invenzione (che diventa significante) di
misure insolite e "urtanti" (Portinari, p. 436). In essa, tuttavia,
la realizzazione, la denigrazione del bersaglio, non assume i modi
aspri e risentiti dell'invettiva o dell'attacco frontale, ma,
piuttosto, quelli ironici del paradosso e della canzonatura, secondo
uno schema ricorrente basato su situazioni narrative e strutture
argomentative di valore antifrastico, che, con un capovolgimento di
ruoli e situazioni, attraverso una finta esaltazione o apologia di
fatti o personaggi negativi, ne mettono a nudo e ne analizzano i
caratteri di intrinseca negatività.
Così, la serie degli "scherzi" politici si apre con l'ironica
promessa di Rassegnazione e proponimento di cambiar vita (1833),
autobiograficamente legata alla surreale invenzione di La
guigliottina a vapore (in cui è trasfigurato il ricordo delle
esecuzioni di Modena nel 1831), ma è anticipata dalle Parole
di un consigliere al suo principe (1832, il sovrano in questione
è Luigi Filippo d'Orléans), in cui il fallimento dei
moti del 1831 è visto come l'inizio di un lungo periodo di
restaurazione e conformismo politico. E, infatti, gli "scherzi"
successivi sembrano rivolti, attraverso la lente deformante della
satira, più alla descrizione/denuncia dei vizi del momento e
della intrinseca malizia di personaggi e istituzioni del mondo
contemporaneo, irrigidito dalla reazione, che alla propaganda
politica e alla parenesi patriottica (Lo stivale, 1836, allegoria
delle vicende della storia d'Italia in chiave risorgimentale,
è un episodio isolato in questa prima fase della produzione
del Giusti). Così, la situazione politica italiana e della
Toscana in particolare è l'argomento di composizioni quali:
Il dies irae (1835, antifrastico elogio funebre dell'imperatore
d'Austria Francesco I); Legge penale per gl'impiegati (1835, sulla
rapacità, l'inefficienza e il malaffare della burocrazia
toscana); L'incoronazione (1838, satirica galleria dei principi
italiani che s'immaginano convenuti a Milano per l'incoronazione del
re del Lombardo-Veneto, l'imperatore d'Austria Ferdinando I); Il re
Travicello (1841, favola esopica nella quale si riconosce il
granduca di Toscana Leopoldo II); La terra dei morti (1842, dedicata
a G. Capponi, rivendicazione polemica della vivezza dello spirito
nazionale italiano). Testi di per sé non riconducibili a
un'ottica patriottica, ma attraversati da una vena (più
viscerale che propriamente nazionalistica) di avversione nei
riguardi dello straniero (in particolare degli Austriaci, dal G.
sempre indicati come "Tedeschi", epiteto al quale nel 1849
finì anche per dedicare un'intera composizione, il sonetto
Una volta il vocabolo "Tedeschi"), che ne determinò la
recezione in senso risorgimentale.
Rispetto agli "scherzi" d'argomento politico, ben più
incisive e personali risultano le composizioni del G. propriamente
satirico (cioè "poeta di quella critica del costume non
individuale, non demolitrice della persona, ma mossa, come quella
del maestro Parini, da sdegno generoso e da nobile severità
contro il vizio e del vizio demolitrice", Nencioni, p. 291): in
esse, impegnandosi in una catalogazione di tipi e situazioni, crea
un vera e propria galleria di ritratti della società
contemporanea, visti dalla prospettiva di una concezione moderata
dell'esistenza e dei rapporti umani.
Nascono così, quasi preannunciati dalle programmatiche ottave
di Costumi del giorno (1835) "scherzi" quali: Il mondo peggiora
(1835-37, poi diventato Preterito più che perfetto del verbo
"pensare"), sul torpido e inerte conformismo dei laudatores temporis
acti; il celeberrimo Brindisi di Girella (1835-40), uno dei vertici
della satira sociale del G., dedicato "al signor di Talleyrand
buon'anima sua", quintessenza e patrono dei voltagabbana e del
trasformismo politico; A un amico (1840), contro l'ostentazione di
una religiosità non sentita, che si traduce in romanticismo
conservatore e, sul piano politico, in posizioni neoguelfe e
intolleranti; Gli umanitari (1840), contro l'utopismo e il
cosmopolitismo dei sansimoniani; Il mementomo (1841), contro la moda
delle iscrizioni funebri ampollose e menzognere; Le memorie di Pisa
(1841-42), rimpianto della "scapataggine" della vita studentesca,
ben presto degenerata nel perbenismo e nell'ipocrisia della vita da
adulti nella società del tempo; e soprattutto La chiocciola
(1841), esposizione in forma allegorica e in efficacissimi quinari
di un ideale di vita moderata, ritirata, governata da un realistico
ed equilibrato buon senso e pertanto radicalmente divergente dalle
mode e dai vizi della società contemporanea. Dei riti e delle
mode dominanti, poi, il G., con sguardo realistico e dissacratorio
insieme, offre un'analisi che penetra nella quotidianità in
un gruppo di composizioni satiriche di concezione più
complessa ("sociali in senso sociologico e polimetre", la cui
"architettura metrica colloca Giusti tra i metricisti di cui fu
ricco l'Ottocento": Nencioni, p. 296) e di proporzioni più
vaste (dalle dimensioni e respiro di poemetti): Il ballo (1837-42),
"contro il bon-ton e contro questa licenza di ammetter tutti,
purché abbiano una giubba a coda di rondine" (lettera del G.
a E. Meyer del 28 apr. 1840, in Epistolario, I, p. 251), descrizione
realistica e caricaturale di una delle occasioni di incontro
più caratteristiche e importanti di una società fatua
e inetta; La vestizione (1839), in cui, contro l'usanza allora
diffusa di conferire dietro compenso gli ordini cavallereschi a
esponenti della nuova "aristocrazia di borsa", si ritrae con sdegno
l'investitura di un arricchito droghiere "spazzaturaio d'anima", di
soprannome Bécero; La scritta (1842), descrizione, contro i
cacciatori di doti e di onorificenze, del matrimonio tra la figlia
di un usuraio plebeo e un nobile decaduto. La complessità
strutturale di questi testi li distingue dalla lineare e dinamica
scorrevolezza degli "scherzi" e la risentita (e talora livida)
indignazione che li percorre si esprime in un pluristilismo
(mimetico dei diversi livelli di degradazione sociale e morale messi
a nudo dal poeta) ben lontano sia dallo stile, in complesso medio e
appena venato da coloriture regionali delle altre composizioni
satiriche, sia soprattutto dal registro aulico e "sublime" delle sue
poesie di genere propriamente lirico, concretizzazioni della sua
permanente esigenza (quasi esistenziale, come s'è chiarito)
di classicismo: "il levigato sonetto sulla Fiducia di Dio [1836] di
Lorenzo Bartolini, l'edulcorato Affetti di una madre [1837-39], il
melodico A una giovinetta [1843], cui si possono aggiungere altre
odi, All'amica lontana [1836], Il sospiro dell'anima [1841], Per il
ritratto di Dante [1841], All'amico nella primavera del 1841 e la
nona rima A Gino Capponi [1847]", componimenti che "i metri
tradizionali tradizionalmente cadenzati, la poeticità
convenuta della lingua, la levigatura a volte stucchevole della
forma, il discreto ricorso ad antichi stampi retorici […] tolgono
dal percorso innovativo della poesia giustiana e li appartano in
quello del cercarsi come artista" (Nencioni, pp. 289 s.).
Con l'insorgere, nel 1843, di disturbi fisici e nervosi, e con la
connessa necessità di viaggiare nella speranza di trovare
sollievo, si apre una nuova (estrema) e meno copiosa stagione nella
produzione poetica del G., caratterizzata, pur tra frequenti sbalzi
umorali, da una ironia più rattenuta e da una
pensosità sempre più raccolta, cui corrisponde, anche
in seguito alla frequentazione quotidiana del Capponi, un
avvicinamento agli ideali del liberalismo moderato. Così, la
sua satira morde non tanto tipi sociali, come nel polimetro
Gingillino (1844-45, caricatura della figura dell'arrampicatore
politico, dedicata all'amico A. Poerio), ma si sofferma, con
attenzione non scevra di accenti di simpatia, a descrivere la vita
domestica borghese nel suo immobilismo (come nella novella in versi
L'amor pacifico, 1844-45, in cui i tipi di Taddeo e Veneranda, che
ebbero una certa popolarità nell'Ottocento, incarnano le
virtù e i limiti dello stile di vita del borghese placido e
benpensante, in un'atmosfera vicina al Biedermeier). Altrove il G.
tenta di delineare un percorso di moderato realismo, demistificando
le illusioni dei "liberali da panca di caffè" (Il poeta e gli
eroi di poltrona, 1844), dei "grilli" mazziniani e giobertiani (I
grilli, 1845) o ridicolizzando l'utopismo e l'impraticabilità
delle posizioni neoguelfe (Il papato di prete Pero, 1845; La
rassegnazione, 1846). Tale realismo, se viene precisandosi nelle
forme di un costituzionalismo in cui finisce tuttavia per confluire
anche il nativo nazionalismo antiaustriaco del G. (Il Delenda
Carthago, 1846-47), può, d'altra parte, essere percorso da
accenti manzoniani di umana compassione verso i dominatori (come nel
pensoso e umoristico finale di Sant'Ambrogio, 1846, tanto ammirato
da L. Pirandello) o, per converso, essere spinto sino a invocare,
con accenti ormai tipicamente quarantotteschi, il ricorso alle armi
(La guerra, 1847), mettendo in guardia da spie e "birri" (Storia
contemporanea e Il congresso dei birri, 1847), incitando i "don
Abbondio" liberali (Alli spettri del 4 sett. 1847) e dando, infine,
espressione a un intenso quanto momentaneo entusiasmo per la
proclamazione dello statuto a Firenze (Brindisi, 1848). Un
entusiasmo, tuttavia, ben presto rientrato dinanzi allo spettacolo
della disordinata elezione e della inconcludente attività
dell'Assemblea legislativa toscana (L'elezione; Il deputato), e
rovesciato in commossa e risentita rievocazione della figura
dell'amico A. Poerio, caduto nella difesa di Venezia (A Radeschi).
Espressione di tale delusione per il corso degli eventi del
Quarantotto e insieme documento "del clima di sbandamento e di
incertezza che quella prima esperienza rivoluzionaria aveva messo in
luce nelle file dei moderati" (Nicoletti, 1988, p. 808) è
l'incompiuta Cronaca dei fatti di Toscana(1845-48), pubblicata
postuma (Milano 1890) da F. Martini con l'improprio titolo di
Memorie inedite di G. Giusti (1845-48), che tuttavia bene ne
sottolineava la natura e il taglio di testo memorialistico dalla
prospettiva essenzialmente personale. Essa, infatti, più che
come una narrazione organica (forse anche per la sua incompiutezza),
si presenta come "un suggestivo montaggio di riflessioni, aneddoti e
ritratti" delineati con vivacità di osservazione e spesso
fortemente carichi di umori e risentimenti privati, come nel caso
della valutazione della personalità e dell'operato di F.D.
Guerrazzi, additato come il maggior responsabile, con la sua
demagogia tribunizia, del fallimento della Repubblica e contrapposto
all'austera figura del Capponi, "di cui è tracciato un
ritratto in piedi come d'intemerata coscienza socratica" (Nicoletti,
1988, p. 880). Di là da queste inarcature polemiche,
peraltro, la Cronaca è, nel suo complesso, un documento sia
di quelle stesse capacità narrativo-espositive che animano
l'epistolario del G., sia, per la sua prosa "schietta, lucida,
rapida, senza fronzoli; a tratti […] mirabile di efficacia; esempio
a chi voglia oggi dir tutto e tutto bene ed essere inteso da tutti"
(F. Martini, 1890, cit. in Nencioni, p. 282), dei caratteri della
sua scrittura saggistica e degli ideali linguistici di cui era
attuazione.
A proposito degli orientamenti linguistici del G., poi, anche a
prescindere dal suo "troppo lamentato toscanismo", peraltro "non
monotono, né incombente, ma distribuito con accorta
discrezione nella sua varia produzione letteraria; e soprattutto
schivo di pretese d'imposizione" (Nencioni, p. 298), va rilevata la
sua sostanziale convergenza con le idee manzoniane nell'aspirazione
a una lingua viva (cioè rigenerata e modellata nel rapporto
costante con il parlato), comune a tutti gli Italiani ("che
cioè fosse anzitutto strumento di comunicazione e di
unità sociale": Nencioni, p. 279). Da tale attenzione alle
espressioni correnti nell'uso vivo, decisiva naturalmente anche per
la formazione della sua lingua poetica, prende le mosse la sua opera
di appassionato raccoglitore e di attento studioso del patrimonio di
espressioni popolari, che doveva nelle sue intenzioni concretarsi
nella compilazione di una raccolta di proverbi toscani, trascritti
"non come a volta si trovano nei libri, ma come li dice il popolo"
(lettera a S. Giannini, 1839, in Epistolario, I, p. 181) e distinti
dai "modi di dire" (cioè dalle espressioni idiomatiche).
I materiali messi insieme dal G. per questo progetto (circa 3000
proverbi variamente trascritti, con ampi apparati esplicativi e una
lunga lettera all'amico A. Francioni, che doveva costituire la
prefazione della raccolta) furono riordinati e pubblicati da Capponi
(Raccolta di proverbi toscani, con illustrazioni cavate dai
manoscritti di G. Giusti ed ora ampliata e ordinata, Firenze 1852),
che, però, finì per snaturarne i criteri, arricchendo
la raccolta con cospicui prelievi da preesistenti repertori a
stampa.
Inoltre, nell'ambito delle sue prose saggistiche, sempre lucide e
misurate nei giudizi e nell'espressione, vanno ricordati: il profilo
Della vita e delle opere di G. Parini (composto come prefazione), in
cui l'analisi, spesso puntuale, delle opere pariniane è nel
contempo un importante momento e documento di poetica, e al cui
interno G. riflette sui meccanismi e sulla storia della poesia
satirica; e gli Studi e commenti intorno alla Divina Commedia,
pubblicati postumi dalle sue carte, frutto della quotidiana
frequentazione con la poesia dantesca, ammirata come punto di
riferimento centrale per l'ingenuo classicismo del G., discussa
nella corrispondenza con i maggiori intellettuali del tempo (da
Giordani a Manzoni, a Capponi) e di cui si rilevano tracce
evidentissime nella sua produzione poetica (specie in quella
lirica). Tale attività di studio ed esegesi, se non giunse a
una compiuta e unitariamente organizzata lettura del poema, si
concretò in diversi abbozzi e spunti critici ricchi di
osservazioni originali nell'illustrazione dei procedimenti
allegorici danteschi, nel raffronto del testo di Dante con quello
dei cronisti fiorentini e dei più antichi commentatori, e
soprattutto nel rifiuto di costrittive premesse politiche (specie
neoguelfe) nella ricostruzione del pensiero dantesco.
Analoghi caratteri di "intelligenza, di onestà, di
libertà, di misura" si rilevano nella prosa dell'epistolario,
che nell'Ottocento ebbe fortuna come testo di lingua esemplarmente
in linea con le teorie manzoniane (talora smussandone con opportune
glosse le punte di troppo stretto toscanismo, come nella scelta
scolastica postillata "per uso de' non toscani" da G. Rigutini,
Firenze 1864), ma di cui oggi si apprezzano piuttosto "la chiarezza
e la vivacità del pensiero, la freschezza e i colori del
lessico, la spigliatezza e la fluenza sintattica" attraverso le
quali si esprime spontaneamente la personalità dello
scrittore, rivelandosi "inquietamente sfuggente agli stereotipi
delle figure risorgimentali" (Nencioni, p. 281), anche per quella
corrente di ipocondriaca depressione che ne percorre, in modo talora
opprimente ma caratteristico, tante pagine.