LABRIOLA, Antonio

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Filosofo e uomo politico italiano (Cassino 1843 - Roma 1904).

Tra i massimi studiosi italiani del marxismo, dopo aver iniziato lo studio sistematico dei testi di K. Marx e F. Engels, s'impegnò in un'opera di divulgazione che risultò in realtà una elaborazione originale: egli polemizzò contro le interpretazioni positivistiche e deterministiche e contro la riduzione del marxismo a una filosofia della storia (Del materialismo storico: dilucidazione preliminare, 1896). Il suo insegnamento ha lasciato una traccia profonda nella cultura italiana anche per l'influenza esercitata, con diversi esiti, su Croce e su Gramsci.

VITA, OPERE E PENSIERO

Si formò a Napoli alla scuola hegeliana che ivi fiorì intorno alla metà del 19º sec.: suoi maestri furono F. De Sanctis, A. Tari, A. Vera e soprattutto B. Spaventa. Già negli anni napoletani pubblicò alcuni saggi di notevole pregio, fra cui è da ricordare una monografia su Socrate (1869). Dal 1873 fu professore di filosofia morale e di pedagogia all'università di Roma. In questo periodo fu politicamente vicino alla Destra, ma ben presto (1875-76) se ne venne distaccando, per iniziare una critica penetrante del mondo culturale italiano, che lo avvicinava ai gruppi di opposizione radicali e socialisti.

Nel 1890, entrato in corrispondenza con F. Engels (Lettere ad Engels, pubblicate la prima volta tra il 1924 e il 1929), iniziò lo studio sistematico dei testi di Marx e di Engels. Si staccò allora decisamente dai gruppi radicali, per dedicarsi alla formazione di un partito dei lavoratori; per quanto poi, quando il partito sorse (1892), egli ne restò formalmente fuori per seri dissensi con F. Turati e con gli altri esponenti del socialismo italiano.

L. s'impegnò in un'opera di divulgazione del marxismo, opera che risultò in realtà una elaborazione originale (In memoria del Manifesto dei comunisti, 1895; il già citato La concezione materialistica della storia: dilucidazione preliminare; Discorrendo di socialismo e di filosofia, 1897), che lo pose come il primo e certamente uno tra i maggiori studiosi del marxismo in Italia.

La sua polemica si svolse su due fronti: contro le revisioni e le volgarizzazioni deterministiche e positivistiche del marxismo, ne affermò il significato integralmente storicistico e antimetafisico; contro i fautori della "crisi" e del "superamento" del marxismo in nome delle nuove teoriche volontaristiche, pragmatistiche e idealistiche, egli attribuì al materialismo storico carattere non di semplice "canone per la interpretazione della storia", ma di integrale concezione del mondo.

DBI

di Stefano Miccolis

Nacque a Sangermano (l'odierna Cassino) il 2 luglio 1843, da una "famiglia patriottico-liberale" (scriveva egli stesso a Friedrich Engels il 14 ag. 1891) di modeste condizioni economiche ma di più che dignitoso livello culturale. Il padre, Francesco Saverio (1809-74), fu cultore di archeologia e docente di lettere nei ginnasi; la madre, Francesca Ponari (1808-90), era imparentata con la nobile famiglia De Vio di Gaeta. Allo zio, Gaetano Labriola (1820-77), ascriveva d'averlo "allevato e istruito nella sua infanzia" (Carteggio, I, p. 606) e di certo compì i suoi studi secondari nel collegio dell'abbazia di Montecassino; dove (secondo C. Fiorilli) ricevette "la prima educazione a filosofare" dall'abate S. Pappalettere, uomo di sentimenti liberali. Raccomandando senza esito (23 luglio 1861) il diciottenne L. a F. De Sanctis ministro della Pubblica Istruzione, A. Tari lo presentava come "un valoroso giovane, cultore e speranza della nostra filosofia" (Carteggio, I, p. 3).

Nell'autunno 1861 la famiglia si trasferì a Napoli, per consentire al L. di frequentare l'Università. In una lettera di presentazione a B. Spaventa, rimasta in abbozzo tra le sue carte, A. Tari gli attribuiva una "intelligenza decisamente filosofica", e "una ferrea volontà di studiare […] conosce già originalmente Aristotile, Spinoza, Kant; e divora e si assimila quanto di Hegel gli capita alle mani" (La Critica, 1910, p. 214). Fiorilli, amico di quegli anni napoletani, diceva di lui che "sapeva benissimo di greco e di latino", che "aveva imparato il tedesco leggendo giornali e riviste di quella nazione", e che "andava all'Università quasi esclusivamente per le lezioni di B. Spaventa; con lui entrava e con lui usciva dall'aula, e quasi sempre accompagnava a casa il Maestro".

Non risulta che il L. abbia conseguito la laurea: di certo non fa riferimento a essa tutte le volte che produce i suoi titoli al ministero. Con tutta probabilità, le disagiate condizioni economiche della famiglia lo costrinsero a trovare una qualsiasi forma di occupazione retribuita. Spinto dalle "privazioni più dure", al fine di "vivere senza arrossire, e studiare coscienziosamente", tentò senza riuscirvi, tra l'agosto 1862 e il marzo 1863, di ottenere un posto di bibliotecario a Napoli. Per interessamento di Silvio Spaventa, sollecitato dal fratello Bertrando (13 giugno 1863) a soccorrere quel "giovane di moltissimo ingegno" (che vive "in una miseria spaventevole"), il L. fu nominato (con decreto 13 dic. 1863) applicato di pubblica sicurezza presso la questura di Napoli; in una nota autografa, segnata su di una lettera indirizzatagli dal padre (27 dic. 1863), S. Spaventa scriveva di averlo "raccomandato molto" al marchese R. D'Afflitto, prefetto della città. Il L. accettò l'impiego (doveva occuparsi di brigantaggio), ma col fermo intento di poterlo conciliare con lo studio, "ed affrettare così gli elementi per domandare con più ragione" a B. Spaventa "l'adempimento delle sue promesse" (Carteggio, I, pp. 30 s.).

Due mesi prima era cominciata la relazione sentimentale (ed epistolare) con Rosalia von Sprenger (1840-1926), una tedesca di confessione evangelica, maestra alla "scuola Garibaldi" (asilo e scuole elementari, aperte subito dopo la cacciata dei Borboni presso la chiesa di Scozia), "donna di forte spirito e d'animo elevato" (scrive il L. a Engels il 29 dic. 1892), che sposò il 23 apr. 1867 e fu la compagna della sua vita.

Il L. visse il "meschinissimo impiego" alla questura in uno stato di "profonda scontentezza"; l'aveva "accettato solo a titolo di provvisorio", e nutriva risentimento verso chi (B. Spaventa) "poteva (o doveva!) pensare" a lui, ma non si adoperava per mutare la sua "trista posizione" (Carteggio, I, pp. 84, 120, 128). Conseguito nel settembre 1865 il diploma di abilitazione per materie letterarie nel ginnasio inferiore, insegnò nel ginnasio dell'ex seminario (1865) e poi al Principe Umberto (1866-71), impartendo anche lezioni nell'istituto privato di D. Borselli e presso la scuola tedesca di Napoli.

La "educazione (rigorosamente) hegelliana" (a Engels, 14 marzo 1894) ricevuta alla scuola di B. Spaventa traspare da due suoi scritti, rimasti a lungo inediti: Una risposta alla prolusione di Zeller, datato 3 maggio 1863 (è un lapsus calami il 1862 appostovi dal L.); e Della relazione della Chiesa allo Stato, non datato, ma collocabile nel 1864-65. Nel primo il L. si pronunciava contro il ritorno a Kant propugnato dal già hegeliano E. Zeller nella sua prolusione (Significato e compito della teoria della conoscenza) dell'ottobre 1862, sostenendo il principio della "immanenza dell'Ideale in ogni esplicazione Storica", insomma la coincidenza fra ragione e realtà, in modo che la scienza sia "consapevole ed intima contemplazione della vita reale dell'Universo" (Opere, I, p. 47). Nel secondo il L. definiva lo "Stato vero" "tutta la sostanza etica d'un popolo", nel quale la Chiesa, in quanto istituzione della società civile, "non può stare che in una relazione di subordinazione".

Negli anni 1866-67 cade la redazione di una memoria su Origine e natura delle passioni secondo l'Etica di Spinoza, anch'essa rimasta inedita e pubblicata postuma. Nel concetto spinoziano di sostanza il L. vedeva "un progresso immenso sul dualismo cartesiano" e "una vittoria completa sopra ogni presupposto di trascendenza" (Opere, I, p. 63); Spinoza aveva raccolto e compreso il programma di Shakespeare (una delle sue letture giovanili preferite), che, "quasi altro Colombo", aveva saputo mostrare "come partendo dall'uomo si possa tornare all'uomo" (ibid., p. 120). Il L. non ne allegò copia nella domanda (8 apr. 1873) per il concorso di Roma, "perché non ci ten[eva] punto" (Carteggio, I, p. 321); ma nel 1897 confessò di aver saputo in giovinezza "a memoria gli scritti" di Spinoza, e di averne esposto la teoria degli affetti e delle passioni "con intendimento d'innamorato" (Discorrendo, p. 53). Nella stessa pagina diceva di aver vissuto "per anni con l'animo diviso fra Hegel e Spinoza".

Il L. collocava la crisi del suo hegelismo nel 1869, quando (scriveva a B. Croce il 2 genn. 1904) "ero già fuori di quell'ordine d'idee e mi preparavo a comporre quel lavoro su Socrate che apparve poi nel 1871". Il suo Socrate, in effetti, ricostruito secondo la testimonianza di Senofonte, non è l'hegeliano creatore del principio della soggettività (che a suo avviso era un "cardine della speculazione moderna", "legittima conseguenza del Cristianesimo"), ma un educatore della coscienza morale, teso a mettere chiarezza nel mondo etico quotidiano. Una figura dalla spiccata vocazione pedagogica, "né un rivoluzionario né un ozioso ricercatore", che col suo incalzante interrogare aveva contribuito alla formulazione di concetti sempre più "coscientemente appresi e pensati" (Opere, II, pp. 98, 35, 75). Una figura molto congeniale a uno come il L., che avrebbe confessato a Engels (9 nov. 1891) di "essere per natura più inclinato a parlare che a scrivere" ("son sempre un po' socratico nella mia vocazione!"). Esplicito è, nel Socrate, il debito verso l'herbartiano L. Strümpell, ed evidenti le suggestioni della Völkerpsychologie di M. Lazarus e H. Steinthal, diffusa da G. Lignana ma anche oggetto di interesse da parte di B. Spaventa.

Nell'estate del 1871, conseguita (19 agosto) la libera docenza in filosofia della storia nell'ateneo napoletano, il L. iniziò un'intensa attività giornalistica, inviando (settembre 1871 - dicembre 1872) corrispondenze sulla situazione politica italiana al quotidiano svizzero Basler Nachrichten e collaborando (autunno 1871) ai quotidiani Il Piccolo e Gazzetta di Napoli: giornali che facevano capo all'Unione liberale, un'associazione di moderati in polemica con il prefetto D'Afflitto, che aveva il suo leader in R. De Zerbi, direttore del Piccolo. L'Unione liberale propugnava il superamento della dialettica risorgimentale tra Partito d'azione e Destra storica, attraverso la costituzione di un terzo partito di centro, più attento alla buona amministrazione.

Tramontato questo disegno già nel dicembre 1871, il L. entrò (febbraio 1872) nella redazione dell'Unità nazionale, il quotidiano diretto da R. Bonghi e voluto da D'Afflitto per contrastare più efficacemente la sinistra napoletana e i dissidenti dell'Unione. Gli articoli (non firmati) del L., sia nella stampa napoletana, sia, più tardi (autunno 1874), nel quotidiano moderato Monitore di Bologna, attendono una individuazione più filologicamente avveduta e convincente.

Nessun dubbio, invece, sulla paternità delle dieci Lettere napoletane che il L. inviò alla Nazione di Firenze nel giugno-luglio 1872: un ritratto molto vivace, talvolta impietoso, della mentalità collettiva e dei costumi politici della città. Allo scarso senso civico della popolazione, e alla politica esercitata da una stretta schiera di mestieranti, convinti di essere "tanti Machiavelli", si aggiungevano però "i danni arrecati" a Napoli dalla perdita dello status di capitale, e "l'insufficienza governativa" (che aveva "spesso dato di sé pruova in questa città come in nessun'altra d'Italia").

Nell'autunno 1871 il L. decise di abbandonare il "penoso lavoro" di insegnante nei ginnasi, che non lo avrebbe condotto "ad alcuna carriera" (Carteggio, I, p. 249). Chiese e ottenne l'aspettativa senza stipendio per un anno, vivendo di collaborazioni giornalistiche e lavori occasionali di ricerca archivistica. Scartata, per motivi economici, nell'ottobre 1872 la proposta di Bonghi di divenire redattore della Perseveranza, dedicò l'anno successivo alla preparazione del concorso per la cattedra di filosofia morale e pedagogia dell'Università di Roma; risultato vincitore, con r.d. del 23 genn. 1874, tenne quell'insegnamento fino al 1902, quando passò (con r.d. 7 luglio) a filosofia teoretica.

Del 1873 sono due suoi saggi, Della libertà morale e Morale e religione, stampati per il concorso. Confessava d'avere scritto il primo (dedicato ad A. Graf) "in gran fretta" (Carteggio, I, p. 333); nella presentazione diceva di essersi attenuto "alla psicologia ed all'etica dell'Herbart", ma di non voler per questo "chiuder[si] in un sistema, come in una sorta di prigione". Seguirono altri due lavori: Dell'insegnamento della storia (1876) e Del concetto della libertà. Saggio psicologico (1878), ospitato dall'Archivio di statistica di L. Bodio.

Nel novembre 1877 il L. fu nominato direttore del Museo d'istruzione e di educazione, struttura voluta (1874) da Bonghi a sostegno dell'istruzione elementare, per "offrire al Ministero criterî comparati su la legislazione" (Carteggio, I, p. 622). L'attività dell'istituto (conferenze pedagogiche annuali, ricerche coordinate dal L. sulla scuola popolare e l'insegnamento secondario privato in diversi paesi) fu intensa fino al febbraio 1881, quando G. Baccelli lo aggregò alla cattedra di pedagogia all'Università di Roma, privandolo della sua biblioteca. Il Museo sopravvisse per un decennio, fino alla soppressione decretata (settembre 1891) da P. Villari.

Nel 1887 ottenne l'incarico, cui tenne sempre moltissimo, di filosofia della storia. Ne stampò la prolusione (28 febbraio) con il titolo I problemi di filosofia della storia.

Il L., che si muoveva nell'orizzonte teorico herbartiano, criticava le visioni totalizzanti e "monistiche" (l'hegelismo e l'evoluzionismo spenceriano), negando la possibilità di una "storia universale" come svolgentesi in modo astrattamente unitario. Affermava la molteplicità dei "centri primitivi di civiltà", e indicava nella teoria "epigenetica" la capacità di cogliere le differenze qualitative delle "neo-formazioni", contro ogni inverosimile "preordinazione germinale"; rifiutava l'uso dell'idea di progresso a mo' di "regolativo d'interpretazione" (perché nella storia era dato di vedere anche il "regresso"), e - difendendo la "peculiarità" della storiografia - definiva la filosofia della storia "una semplice ricerca su i metodi, su i principii e sul sistema delle conoscenze storiche".

Il sentire politico del L. non mutò per tutti gli anni '70. Gli anni di governo della Sinistra furono da lui vissuti, non diversamente da S. Spaventa e dagli altri irriducibili della Destra storica, come una caduta sostanziale del livello etico-politico, come degenerazione progressiva dello Stato a strumento di potere di una parte. Osservava Croce (1904) che "in quel suo antico conservatorismo" c'era "molto radicalismo da intellettuale"; e una certa influenza sul suo "spirito critico, riflesso, e ragionativo" (ad A. Fratti, 28 ag. 1889) dovette averla il concetto - mutuato dal socialismo giuridico (del quale si interessò negli anni 1883-85) - dell'utilità sociale come misura della validità degli istituti giuridici. Il distacco pubblico dalla Destra storica avvenne nella primavera del 1886, quando tentò di candidarsi alle elezioni politiche nel secondo collegio di Perugia (che comprendeva Foligno, Spoleto, Terni e Rieti).

Così sintetizzava la sua posizione in una lettera (8 apr. 1886) a G. Carducci: "Radicali e progressisti dovrebbero accordarsi nel combattere il governo personale che mena alla reazione, e per ricondurre il parlamento alla sua vera funzione". Gli sembrava che occorresse ristabilire una chiara dialettica politica, e costruire quindi una "opposizione ben definita" al trasformismo del Depretis. Gli si frapponevano (insieme con gelosie e rivalità, che ebbero la meglio) "due difficoltà": d'essere "meridionale, ed amico dell'on. Spaventa" (alla prima non poteva "portar rimedio. Della seconda mi onoro altamente"); e aggiungeva con orgoglio di non essere "creatura di nessun partito" (Carteggio, II, pp. 332 s.).

La mancata candidatura non attenuò, nel triennio 1887-89, l'impegno democratico del L., che a Fratti si dichiarava (27 ag. 1888) "radicale non repubblicano, e socialista sereno".

Tenne discorsi pubblici contro la conciliazione tra Stato e Chiesa (all'Università di Roma, 12 giugno 1887), e per l'organizzazione di un grande partito democratico, fautore della sovranità del Parlamento e delle autonomie comunali (a Terni, 16 dic. 1888); perorò con fervore l'esigenza di una rinnovata "scuola popolare"; per alcuni mesi (1888) presiedette la sezione romana dell'associazione irredentista Giovanni Prati; commemorò Garibaldi, caldeggiò l'erezione di monumenti a Mazzini e Giordano Bruno; fu attivo socio del Circolo radicale di Roma, del quale divenne (1889) vicepresidente. Condensò la sua visione politica in una lettera aperta (14 nov. 1887) ad A. Baccarini, nella quale definiva giusta e legittima "la lotta contro il trasformismo", per "ristabilire la retta funzione del Governo parlamentare". Affermava, dichiarandosi "teoricamente socialista", la necessità "di ripigliare le vie legali della sovraeminenza dello Stato sulla Chiesa" (in modo che "la formula di libera Chiesa in libero Stato, che per un certo rispetto è una finzione, per un altro rispetto non diventi minaccia di gravi pericoli"); e di avviare una opportuna "politica sociale", a cominciare dalla "assistenza legale" per gli inabili al lavoro. Problema, questo della prevenzione degli infortuni sul lavoro, sul quale reintervenne nell'autunno 1889 (Carteggio, II, pp. 517-519).

Andò incontro a un secondo insuccesso pratico, quando (novembre 1889) tentò di candidarsi alle elezioni comunali di Roma; e pochi mesi dopo ruppe definitivamente con la democrazia radicale. In una lettera aperta a E. Socci, presidente del Circolo radicale (Proletariato e radicali, 5 maggio 1890), il L. affermava esserci "deciso distacco" fra "politica borghese e socialismo (due periodi distinti della storia!)"; ai "radicali politici" riconosceva la funzione di garantire "le generali condizioni di libertà", ma il proletariato non poteva che "fidare unicamente in se stesso", organizzandosi in "partito di lavoratori". Ad abbracciare le nuove idee lo avevano condotto (così nella conferenza Del socialismo, giugno 1889) "il disgusto del presente ordine sociale, e lo studio diretto delle cose"; ma si diceva convinto che "le nuove forme" potessero "innestar[si] sul comune tronco delle istituzioni liberali".

A partire dal 1890 - anno in cui iniziò la sua corrispondenza con Engels e con Filippo Turati - il L. è disposto a battersi per il "partito operaio": purché ciò significhi "preparazione alla democrazia sociale, cioè ad un nuovo diritto, ad una nuova morale, ad una nuova forma di famiglia e di stato, ad una nuova civiltà in somma" (a C. Prampolini, 1° giugno 1890). La collaborazione con Turati fu intensa per tutto il 1890 e portò alla stesura dell'indirizzo di saluto dei socialisti italiani al congresso di Halle (ottobre) della socialdemocrazia tedesca. Ma il suo temperamento "estremo" e la sua morale risentita mal si conciliavano con i compromessi e le necessarie mediazioni della vita politica. Il L. - "acutissimo critico politico, ma appunto per questo ignaro della pacatezza di un politico vero" (Fubini) - non accettava la linea "ecumenica" e prudente di Turati, che si preoccupava di assicurare alla Critica sociale un largo pubblico ed era incline a tener conto dei ritardi storici e dell'immaturità politica del ceto operaio. Il L. tacciava di "fazioni di politicanti" sia i "legalitarî" (deputati e cooperative) adusi a pratiche compromissorie del governo, sia gli ingenui "antilegalitarî" (gli anarchici), ai quali pure riconosceva la buona fede.

Indirizzava lunghe lettere a Engels (a partire dall'estate 1892, si servì come tramite dello svizzero-polacco Adam Maurizio, al quale inviava - avvertiva Engels il 28 ott. 1892 - "chilogrammi di giornali, opuscoli, fogli volanti, […] commentando il tutto con note, chiose, dichiarazioni e biografie"), piene di notizie dettagliate su fatti e uomini del movimento operaio, convinto di fare opera "internazionalistica": come "relazioni, che tengan luogo dei giornali socialisti, i quali in Italia mancano; o non son degni d'esser presi sul serio" (a Engels, 31 luglio 1891).

Il contrasto si accentuò con l'approssimarsi del congresso di Genova (agosto 1892): il L. preferiva un partito piccolo, ma rigoroso nel perseguire il disegno strategico della conquista dei pubblici poteri, ed esemplato su quello tedesco; e rifiutava l'"ecletticismo" di Turati, da lui tacciato di "ambiguità" e incoerenza. Non andò a Genova, dove pure i socialisti si distinsero alla fine dagli anarchici, e sottovalutò l'importanza di quel congresso; pur riconoscendo (a Turati, 22 ag. 1892) che vi si era data "l'avviata a un partito per lo meno embrionale". Preferì mettersi a "scriver libri", perché mancava "all'Italia mezzo secolo di scienza e di esperienza degli altri paesi", e bisognava "colmare questa lacuna" (a Engels, 3 ag. 1892).

Si dedicò all'intento con passione e scrupolo filologico, raccogliendo in pochi anni la più ricca biblioteca di scritti di Marx ed Engels e sul socialismo: la sua biblioteca (scriveva con orgoglio a Turati, 22 ag. 1892) era "a Roma la seconda dopo quella del Bonghi".

Dopo lungo meditare, ed esitare ("Temo la taccia d'incompetente", confidava a Engels, 2 sett. 1892), dette forma, nell'aprile 1895, al saggio In memoria del Manifesto dei comunisti, del quale (come dei successivi) si fece editore B. Croce. L'iniziale disegno, inteso a "popolarizzare le idee del socialismo scientifico" (a Engels, 3 nov. 1891), si convertì in una succosa e "aristocratica" interpretazione del pensiero di Marx. In uno stile asciutto e denso, che nulla concedeva alla retorica e al volgare sentimentalismo, il L. individuava il nocciolo della nuova ("nostra") dottrina nell'avere il comunismo trovato la "coscienza della sua propria necessità": di essere cioè "l'esito" risolutivo della società dei "paesi più progrediti", scossa dalle lotte di classe, appunto in forza delle "leggi immanenti al suo proprio divenire".

Il Manifesto era "la rivelazione scientifica e meditata del cammino" percorso dalla "nostra società civile", che enunciava "nel fatto la necessità del fatto stesso"; la sua "previsione" era, "non cronologica, di preannunzio o di promessa", ma "morfologica". In questo, che è stato definito il più hegeliano e "più fiduciosamente socialista dei suoi saggi" (Zanardo), non mancavano peraltro il richiamo alle difficoltà della rivoluzione proletaria, l'invito a non "abusare" del termine "scienza" (e a intenderlo anzi "con la debita discrezione") e a non vivere di aspettazioni ravvicinate ("L'acquisizione della Terra al comunismo non è cosa del domani").

La riflessione del L. - che sosteneva la necessità di una "assimilazione secondo l'angolo visuale del cervello nazionale" (a K. Kautsky, 23 marzo 1896) - continuò con il saggio Del materialismo storico (1896), nel quale invitava a non considerare già conclusa l'elaborazione della dottrina e a respingere ogni sua semplificazione "verbalistica" (la riduzione a puro determinismo economico del "multiforme e complicatissimo intreccio" della natura e della storia); la storia - diceva - "bisogna intenderla tutta integralmente", perché in essa (goethianamente) "nocciolo e scorza fanno uno". Il materialismo storico non era una "nuova filosofia della storia […] schematica, ossia a tendenza e a disegno", ma "soltanto un metodo di ricerca e di concezione", che non andava utilizzato per spiegare meccanicamente l'"universo scibile".

Nell'estate del 1896 il L. pervenne a una convinzione che il 24 settembre comunicò a E. Bernstein: che, cioè, lo sviluppo del socialismo avrebbe vissuto "una pausa relativamente lunga", e che ci sarebbe stato uno "spostamento" del mercato capitalistico dall'Atlantico al Pacifico. E poco prima (31 ag. 1896), scrivendo a R. Soldi del "lungo periodo di crisi" nel quale sarebbe entrato il socialismo, aveva aggiunto: "Le stesse teorie marxistiche (parlo delle vere) sono oramai in parte inadeguate ai nuovi fenomeni economico-politici dell'ultimo ventennio". Quel pessimismo di cui erano intrise le sue valutazioni, spesso aspre, del socialismo italiano, adesso coinvolgeva le prospettive politiche del movimento operaio internazionale, bisognoso a suo avviso di liberarsi dalle molte scorie di "utopismo" e attese "fantasiose".

Questa riflessione costituiva il momento culminante del terzo saggio, Discorrendo di socialismo e di filosofia (1897), nel quale dialogava sotto forma di lettere con G. Sorel. Ai socialisti occorreva "misurare le resistenze del mondo effettuale", prender atto dei mutamenti e della "enorme complicazione del mondo attuale", e smetterla di ritenere (in modo dottrinario) che "le idee proclamate per sé eccellenti" possano applicarsi "difilato al concreto" o siano "buone per ogni tempo e luogo", non potendo il futuro "costituire il criterio pratico di ciò che noi dobbiamo fare al presente".

I Saggi erano la prima, meditata e originale (anche perché sostenuta da una solida formazione intellettuale), interpretazione europea del pensiero di Marx; e avrebbero contribuito a produrre - grazie anche alla loro immediata discussione, che coinvolse Croce e Gentile - quel rinnovamento e rinvigorimento della filosofia (come della storiografia) italiana, che caratterizzò i primi decenni del Novecento.

Pur lontano dalla vita del neonato partito (non metteva "più piede in una riunione romana" - scriveva ad A. Costa il 27 maggio 1894 - dal 1º maggio 1891), il L. ne seguiva con grande e minuta attenzione le vicende; né mancava di far puntualmente sentire la sua voce, nei momenti di più acuta tensione politico-sociale.

Dette il suo contributo, sia pure in forma riservata, allo scoppio (1893) dello scandalo della Banca romana; redasse un manifesto (agosto 1893), in risposta alle manifestazioni sciovinistiche contro la Francia suscitate dall'eccidio di operai italiani ad Aigues-Mortes; dopo un'iniziale valutazione negativa, seguì con entusiasmo il movimento dei Fasci siciliani, da lui ritenuto "il primo atto" del socialismo italiano (a R. Fischer, 12 nov. 1893), nel quale "la massa proletaria" aveva manifestato "la coscienza di classe oppressa" (a P. Iglesias, 9 apr. 1894). A tenerlo distante dalla militanza contribuivano l'irrequietezza e l'impuntatura temperamentale, ma anche l'irritazione per lo spazio che Turati concedeva al "ciarlatano" A. Loria, e il partito (ma persino il Vorwärts, che lo volle come corrispondente retribuito) al vanitoso e vuoto E. Ferri ("un uomo senza angoli", come lo definiva a Luise Kautsky, 10 marzo 1895). Se, delegato dalla sezione socialista di Napoli, partecipò al congresso dell'Internazionale di Zurigo (agosto 1893), fu soprattutto per incontrare Engels.

A Milano, del resto, non vedevano di buon occhio quel filosofo ipercritico, che dava lezioni di intransigenza al caffè Aragno, piuttosto che contribuire alla costruzione del partito. Quando la repressione di Crispi si abbatté sugli anarchici, fu però il L. a sostenere che non fosse il caso di "perdersi in vane e astiose discussioni contro i radicali e democratici" (a Engels, 27 luglio 1894). I fatti, nell'occasione, gli dettero ragione: estesasi nell'autunno la repressione ai socialisti, furono i "compagni milanesi" a mutare lo scontro con i radicali in stretta politica di alleanza elettorale.

Nel novembre 1896 il L. tenne il discorso inaugurale all'Università di Roma (L'università e la libertà della scienza), che suscitò violente polemiche. Croce, che se ne fece pronto editore (per pubblicarlo sull'Annuario erano state richieste modifiche dalle autorità accademiche), lo definì nella premessa uno "dei più elevati che si sieno mai sentiti nelle aule delle università italiane". Nel suo consueto stile incisivo, il L. affermava l'insopprimibile libertà dell'insegnamento ("Lo Stato, che definisce la scienza, è già una Chiesa"); invitava gli studenti a intendere la serietà del "lavoro" scientifico (che "non è improvvisazione"), augurando loro di vivere in un'Italia culturalmente cresciuta e "dalla moltiplicata potenza economica". A suscitare la reazione irritata del ministro dell'Istruzione E. Gianturco (e della stampa governativa), fu soprattutto l'accenno antifrastico alla politica delle "pitoccate alleanze" (la Triplice), e alle "imprese fantasticamente avventurose, che terminano poi in atti di prudenza che paiono viltà", con riferimento all'avventura africana (Adua) e all'atteggiamento rinunciatario del Rudinì.

Quella disfatta militare (con la conseguente "prostrazione morale") ritornava - insieme con il tema della viltà - nel discorso Per Candia (27 febbr. 1897), dove compariva in forma esplicita il punto di vista dell'ultimo L. (che nel 1890 aveva proposto per l'Eritrea, "terra ancora libera da ogni titolo di diritti storici e stabiliti", un "esperimento di socialismo pratico", nella forma di cooperative agricole) sulla politica coloniale: la "conquista" della Tripolitania (da sottrarre ai "Turchi micidiali") era per l'Italia "legittima" (come dovunque "non sono nazionalità vitali"), oltre che "indicatissima": "Noi abbiamo bisogno di terreno coloniale" ("duecentomila proletari all'anno emigrano dall'Italia"); e i socialisti "ricordino che non ci può essere progresso nel proletariato, là dove la borghesia è incapace di progredire".

A questa linea il L. si attenne nei successivi interventi di politica internazionale: sulla questione cinese (29 luglio 1900: "l'Italia non può volontariamente sequestrarsi dalla storia"), come nell'intervista sulla Questione di Tripoli (13 apr. 1902: quel territorio, rimasto disponibile, del Nordafrica come sbocco alla sovrapopolazione, addirittura come una "nuova Italia"), essendo ormai in lui solida la convinzione che la "sempre più acuita concorrenza" delle "nazioni civili" sarebbe stata per un pezzo "condizione di relativo progresso", "finché non s'avveri il socialismo" (Scrittipolitici, pp. 472 s.). Dal 1897 (ma l'avversione risaliva almeno agli anni dell'impegno democratico) al 1902 cambiava solo il giudizio sulla Triplice: da impaccio e insopportabile freno delle mire italiane, a garanzia dell'equilibrio europeo: di pace, o almeno di "non-guerra" (ibid., p. 495).

Tale posizione si comprende meglio, se si tiene conto che il L., come disse G. Sorel, era, "in una misura molto larga, sotto l'influenza dei sentimenti che dominarono nell'età del Risorgimento"; il che spiega anche perché si dichiarasse senza esitazione (maggio 1896) per l'indipendenza della Polonia, in polemica con Rosa Luxemburg e in dissenso dall'atteggiamento scettico e incerto assunto nella circostanza da Turati.

Il L. sostenitore della compatibilità tra socialismo e "interessi nazionali" aveva accompagnato, se non preceduto, gli articoli nei quali Bernstein aveva dato l'avvio (autunno 1896) alla sua revisione del pensiero di Marx. In una nota al Discorrendo (p. 152), li aveva definiti "ingegnosi", giudicando poi "volgari" gli "ammaestramenti" impartiti da G.V. Plechanov a Bernstein, perché intrisi di "sovrano disprezzo dell'odierna filosofia tedesca", e passibili di "rendere ridicolo di fronte al mondo intero il socialismo scientifico" (a Kautsky e a Bernstein, 8 ott. 1898).

Che la sua "posizione rispetto alla dottrina" fosse "alquanto critica", lo aveva già scritto a Kautsky il 10 sett. 1896; di se stesso diceva di essere "uno spirito alieno da ogni religione, ortodossia, fanatismi, etc." (a Croce, 3 marzo 1898), e di non essere stato "mai, né ripetitore, né glossatore di Marx" (a L. Bissolati, 28 maggio 1899). Non sopportava poi che molti considerassero il marxismo "una nuova forma di onniscienza": "Questa gente non capisce che, anche se sono buoni marxisti, per poter parlare di storia, filosofia, etc., devono studiare tutto dal principio, come tutti gli altri uomini. Un giovane Marx nel 1898 si metterebbe con modestia a studiare la logica in Wundt" (a Kautsky, 8 ott. 1898). Ciò nonostante, rifiutò di avallare la "crisi", fino al punto di ipotizzare un "complotto internazionale" che la utilizzasse come pretesto (a Croce e a Luise Kautsky, 5 apr. 1899).

Il fatto è che manteneva distinto il livello teorico da quello della applicazione pratica: il marxismo non perdeva di validità, sia pure nel "tempo indefinito"; subiva un arresto sul terreno politico, ma ciò non faceva che "confermare il materialismo storico" (a Croce, 8 genn. 1900). In Germania la cosa era seria, perché lì c'era stata una vera compenetrazione tra movimento operaio e marxismo: perciò riteneva (e l'aveva comunicato a Bernstein) che la "correzione" si dovesse fare "prudentemente e opportunamente dentro il partito stesso, e dentro i limiti del marxismo come dottrina progressiva" (a Luise Kautsky, 5 apr. 1899).

Il dibattito sulla "crisi" ebbe tra gli altri come suoi protagonisti l'ex anarchico F.S. Merlino, T.G. Masaryk, e quel "letterato" dilettante di Sorel ("non sa una parola di tedesco" e "non ha studii speciali di economia": a Croce, 31 maggio 1898), che per vanità era arrivato "ad occupare militarmente un gran numero di riviste", e funzionava da "tromba internazionale" dell'antimarxismo (a Luise Kautsky, 5 apr. 1899).

Discutendo in modo più meditato della "crisi" e analizzando (giugno 1899) le tesi di Masaryk, il L. affermava la possibilità di essere "seguaci all'ora presente del materialismo storico" (che, in quanto dottrina, era "una luce intellettuale portata sopra un ordine di fatti", ma di per sé non era "causa di nulla"), dopo aver posto la debita attenzione alla "nuova esperienza storico-sociale" e con una "conveniente revisione dei concetti". Sicché riconosceva "la irriducibilità di tutta la società presente alle due famose classi, data la sua più varia e complessa articolazione"; e l'eccessivo "primitivismo" con cui alcuni socialisti (Engels compreso) avevano "semplificato l'intreccio della storia", il che poteva indurli a "semplificare con soverchio arbitrio l'intreccio della società presente". Ammetteva gli "impedimenti all'internazionalismo" che nascevano da "spirito nazionale", e (invitando a distinguere la "crisi" dalla "critica" che aveva caratterizzato i suoi scritti) concludeva non poter essere la politica "se non la interpretazione pratica e fattiva di un dato momento storico": il socialismo doveva a suo avviso rifuggire sia dal "rivoluzionarismo tradizionale", sia dall'"acquiescenza" che poteva farlo "come sparire nell'elastico meccanismo del mondo borghese" (Saggi sul materialismo storico, pp. 303-319).

Il L. fu sorpreso dalle violente agitazioni sociali della primavera del 1898 ("questa prova generale di rivoluzione", scriveva al figlio Alberto Francesco l'8 maggio 1898), confessando di "non capir[ci] niente" (a Croce, 19 maggio 1898). Pochi mesi dopo si convinse che la reazione fosse "oramai vinta", ma anche che il socialismo italiano fosse "tutto in rovina" (a Croce, 1° luglio 1898). Più tardi condensò la sua analisi delle sommosse in "un caso inaspettato di anarchismo spontaneo", volutamente esagerato dal governo "per avere pretesto alle repressioni"; e il partito socialista doveva, a suo avviso, sia "difendersi" dalle persecuzioni, sia "stare in guardia contro le pazzie di quelli che credono che si deve fare la rivoluzione" (a Luise Kautsky, 18 maggio 1899).

Ripigliando (giugno 1899) la "conversazione interrotta" con Turati ritornato "dalla forzata villeggiatura del reclusorio di Pallanza" - e augurandosi che la Critica sociale riprendesse il suo ruolo di "organo di politica pensata" -, il L. affermava che il partito socialista, lungi dal voler suscitare rivolte, si trovava invece "limitato nella sua azione normale e progressiva dal risorgere continuo delle agitazioni violente intempestive" (Scritti politici, pp. 442-446). L'assassinio di Umberto I ("nato e vissuto nell'orbita della rivoluzione liberale") lo "contristò profondamente", anche per le possibili "conseguenze politiche". I primi atti del ministero Saracco avevano diffuso la persuasione "che l'Italia non vuole, né la rivoluzione, né la reazione, e che Pelloux era stato un asino a volerla mettere artificialmente in tale bivio": adesso temeva si affacciasse "di nuovo la libidine della reazione", e alcune "manifestazioni monarchiche" avevano assunto "aspetto canagliesco"; ma sperava che Saracco superasse il "difficile momento coi soli mezzi di una politica liberale" (a L. Morandi, 3 ag. 1900).

All'aprirsi del nuovo secolo, il L. consigliava ai socialisti di attenersi all'"attuabile", di non avere "un contegno di freddezza semi-ostile di fronte" alla "politica liberale" del governo Zanardelli-Giolitti, e di mirare ad alcune conquiste di "politica sociale" che riuscissero "di garanzia giuridica al proletariato" (Scrittipolitici, pp. 467, 477). Partecipando, "da uditore!", al congresso socialista, si diceva meravigliato "della forte compagine sopravvissuta a tante traversie e a tante persecuzioni", ma anche "della straordinaria moderazione della maggioranza dei congressisti". Pur differenziandolo "molte e molte cose" dai socialisti italiani: "Io sono innanzi tutto unitario, e molti di quelli sono federalisti. Io sono anticlericale ex-professo e molti di quelli passano sopra tale bagattella (!) del pericolo clericale. Io vengo dalla scienza […] e il più dei socialisti sono per il facilismo delle comode affermazioni e conclusioni" (a L. Morandi, 17 sett. 1900).

Rimaneva convinto della pausa che avrebbe subito il socialismo e ne individuava le cause nel "campo aperto al capitale dalla politica coloniale", nella "relativa resistenza dell'artigianato e della piccola proprietà", nell'"ignoranza delle moltitudini" (a Kautsky, 5 ott. 1900); nell'abbozzo di quello che avrebbe dovuto essere il quarto saggio (Da un secolo all'altro, 1901) aggiungeva gli inceppi nella diffusione della democrazia e del principio di nazionalità, il risorgere del "misticismo", la rinnovata potenza del "cattolicismo".

Intervenendo (31 genn. 1903) sulla Opposizione al divorzio, cioè al disegno di legge governativo che proponeva di introdurre questo istituto, lo definiva "una legittima e naturale conseguenza logica" del concetto dello "Stato moderno". E argomentava che fosse il sintomo della nuova strategia della Chiesa di Roma: invece di fare una aperta battaglia politica, si era dedicata a "clericalizzare" la società; abbandonato l'intento di "ristabili[re] il potere temporale", mirava a provare di essere in grado di "arrestare l'azione dello Stato". Gli "illegittimi eredi" di quei "moderati" della Destra storica, che erano stati non conservatori ma "rivoluzionari temperati", dovevano tenere fermo, non tanto per "salvare" il divorzio quanto per tutelare "il prestigio di tutti i principî liberali". Vedeva anche rinascere l'"Idealismo", che insieme con lo "spirito borghese decadente" significava per lui, che pure aveva combattuto il positivismo evoluzionistico, "l'antistorico, l'antidivenire", "un arresto dello spirito scientifico" e in definitiva "un regresso" (a Croce, 7 sett. 1903).

Ormai stremato nel fisico, privato (per via di un tumore alla gola) dell'"organo pedagogico e democratico della voce" (Saggi sul materialismo storico, p. 334), e impossibilitato a ingerire persino della crema o del cacao, si lamentava (2 genn. 1904) col suo "benedetto Croce" - al quale lo aveva legato dal 1885 un intenso rapporto, "modello esemplare di quel che dovrebbero essere le relazioni fra maestri e discepoli, fra liberi maestri e liberi discepoli" (Fubini) -: "Peccato che il tuo neoidealismo non possa nulla contro la sprucida (spröde) materia".

Il L. morì un mese dopo, la mattina del 2 febbr. 1904, all'ospedale tedesco di Roma, e volle essere sepolto nel cimitero dei protestanti della capitale, all'ombra della piramide di Caio Cestio.


da Fornero, Tassinari - Le filosofie del Novecento (Bruno Mondadori, Milano 2002)

15. Il marxismo dopo Marx

 8. Labriola: dalla cattedra al comunismo

L'affermazione di un movimento operaio di ispirazione socialista e la nascita del marxismo teorico è segnato, in un paese come l'Italia - caratterizzato da un sensi bile ritardo nei processi della moderna industrializzazione e nella formazione di un moderno proletariato urbano - da ritmi assai più lenti che negli altri paesi dell'Europa occidentale.

Per un lungo periodo della storia postunitaria avrebbero prevalso nel movimento operaio italiano, prima orientamenti di ispirazione mazziniana, poi, nell'età della Prima Internazionale, la predicazione degli anarchici. Soltanto la nascita nel 1892 di un Partito socialista di orientamento marxista avrebbe creato le condizioni per il diffondersi anche in Italia della conoscenza dell'opera di Marx e di Engels, anche se i fondatori del Partito socialista italiano, tra i quali fu dominante la figura del riformista Filippo Turati, non ebbero particolari interessi di natura teorica e, comunque, il loro stesso marxismo appare fortemente "inquinato", da un lato da suggestioni risalenti al pensiero democratico lombardo dell'epoca ri sorgimentale (Ferrari e Cattaneo), e dall'altro, come quasi tutte le dottrine marxistiche secondinternazionaliste, dallo scientismo e dall'evoluzionismo positivistico. Non meraviglia, pertanto, che, ad assicurare al marxismo italiano uno spazio teorico proprio, autonomo sia dal positivismo sia dalla rinascita dell'idealismo nei primi anni del Novecento, non siano stati i capi del movimento socialista direttamente impegnati nella lotta politica e sociale, bensì un solitario professore delle regie università italiane, Antonio Labriola. Il che è un segno eloquente della difficoltà che il pensiero marxista incontrava allora in Italia a radicarsi nella prassi sociale collettiva.

Duplice è stato il merito di Labriola nell'awiare il primo grande dibattito teorico sul marxismo in Italia: da un lato la riscoperta delle radici filosofiche hegeliane del pensiero di Marx e di Engels, che il prevalere di un marxismo positivisteggiante aveva reciso; dall'altro la riaffermazione del carattere rivoluzionario del socialismo marxiano, proprio negli anni in cui l'affermarsi del revisionismo bernsteiniano sembrava destinato a cancellare definitivamente la natura radicalmente antagonista del programma socialista. Si trattava in realtà di una medesima operazione, giacché era stata proprio la natura dialettica dei processi storico-sociali, teorizzata dai fondatori del marxismo sulle tracce di Hegel, a rendere possibile la fondazione della prospettiva rivoluzionaria del loro socialismo.

Nato nel 1843 a Cassino, Labriola si familiarizza con la filosofia hegeliana fin da quando, studente universitario a Napoli nel 1861, ha come maestro di filosofia Bertrando Spaventa, autorevole esponente dell'hegelismo meridionale italiano. Sotto la sua influenza, già nel 1862 si trova a polemizzare, in un saggio intitolato Una risposta alla prolusione di Zeller, contro la tendenza a favorire un "ritorno a Kant" in funzione antihegeliana. Egli sostiene che il più profondo significato della sintesi trascendentale kantiana prelude già all'hegeliana identificazione di logica e ontologia. Ottenuta nel 1874 la cattedra di Filosofia morale e pedagogia all'Università di Roma, dove insegnerà fino al 1904, anno della sua morte, Labriola si avvicina alla filosofia herbartiana. Egli ne apprezza, in particolare, lo spirito scientifico espresso nel programma di elaborazione critica dei concetti e l'interesse per la psicologia e l'etica; senza che, peraltro, questo significhi una vera e propria accettazione dell'impianto filosofico generale dell'herbartismo, rappresentato dalla logica e dalla metafisica: glielo impedisce la sua adesione, tuttora convinta, all'impostazione storicistica della lezione hegeliana. Esito di questo "herbartismo" sono gli studi etico-pedagogici labrioliani, documentati da scritti come Della libertà morale (1873), Morale e religione (1873) e Dell' insegnamento della storia (1876). Il rapporto con Herbart riveste una grande importanza per la successiva conversione di Labriola al marxismo, sicché si può dire che la funzione che Feuerbach aveva avuto nella formazione di Marx per il "raddrizzamento" della filosofia hegeliana, è svolto nella formazione di Labriola dalla psicologia herbartiana che, allargata alla considerazione della vita dei popoli, gli insegna a trasferire, dalla dimensione metafisica dell'Idea, su di un terreno concretamente antropologico, lo studio delle attività umane. È lui stesso, del resto, a confessarlo nel 1894 in una lettera a Engels: «Forse - anzi senza forse - io sono diventato comunista per effetto della mia educazione (rigorosamente) hegeliana, dopo esser passato attraverso la psicologia di Herbart».

La conversione di Labriola al marxismo teorico è preceduta da quella al socialismo politico, maturata sul finire degli anni settanta; essa mai sarebbe avvenuta, e comunque mai fino alla militanza politica, se il professore avesse esaurito la propria attività all'interno delle aule universitarie. È, del resto, il suo stesso modo, socratico, di concepire la funzione e la destinazione dell'insegnamento - a Socrate egli dedica nel 1871 un saggio, La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele - a spingerlo fuori dalle chiuse e soffocanti mura dell'istituzione all'incontro con i rappresentanti di quei diciannove milioni di analfabeti, nei quali egli afferma di riporre più fiducia che in tutte le scuole del regno. È, appunto, il contatto con la realtà degli operai, attraverso i frequenti corsi che organizza nei circoli popolari romani, a fungere da catalizzatore, ad accelerare la maturazione in senso socialista delle sue convinzioni.

Nel pieno dell'impegno politico, divenuto vera e propria militanza negli anni immediatamente precedenti la fondazione del partito turatiano (nel 1888 tiene perfi no un discorso politico agli operai delle acciaierie di Terni), viene a maturare anche la conversione teorica al marxismo - o al «comunismo critico», come egli preferiva dire -, attraverso un ripensamento teorico della Rivoluzione del 1789. Proprio nell'anno del centenario, egli tiene un corso universitario sulla Rivoluzione francese, che è costretto a sospendere per più di un mese a causa dei tumulti che esplodono fuori dall'università, dove ne è arrivata l'eco provocatoria. Afferma Labriola che, ormai conclusa la fase della rivoluzione liberale, l'individualismo deve cedere alla socialità, che «la rivoluzione sociale è tutt'altra della borghese, nei fini, nei mezzi e nella tattica», sicché il moto proletario non potrebbe mai essere «la semplice prosecuzione del moto liberale».

Gli scritti di filosofia marxista di Labriola appaiono tra il 1895 e il 1897: In me moria del Manifesto dei comunisti, pubblicato in una rivista francese e l'anno dopo, nel 1895, in italiano, a cura di Benedetto Croce, allora discepolo e amico dell'autore; Del materialismo storico. Delucidazione preliminare (1896); infine, Discorrendo di socialismo e di filosofia (1897), sotto forma di lettere a Georges Sorel, in cui prende posizione contro il revisionismo marxista.

Il dialogo labriolano con il pensiero di Marx e di Engels è ispirato a un'istanza ri gorosamente critica, inteso com'è a scioglierlo dall'abbraccio soffocante del positivismo e a preservarlo da ogni rischio di sclerotizzazione dogmatica. Marx, egli afferma, non ha inteso insegnare se non un metodo di interpretazione complessiva della storia, ha offerto "un filo conduttore" - il materialismo storico - che, proprio perché non è l'invenzione di un individuo geniale, ma piuttosto l'espressione del livello di maturità cui è pervenuto il movimento storico della società moderna, si propone come un orientamento di pensiero aperto a sempre nuovi sviluppi e arricchimenti, e a sempre nuove correzioni. D'altronde, Labriola nega che il marxismo possa pretendere di «riscrivere a novo tutta l'enciclopedia filosofica», così da esaurire in un sistema totalizzante «lo sviluppo della natura, della società e del pensiero». Illuminante è ciò che Labriola scrive in una lettera a Turati:

Volgendomi al socialismo, non ho chiesto a Marx l'abicì del sapere. Al marxismo non ho chiesto se non ciò che esso effettivamente contiene: ossia quella determinata critica dell'economia che esso è, quei lineamenti del materialismo storico che reca in sé, quella politica del proletariato che enumera o preannuncia.

E subito prima egli aveva chiarito come e perché egli fosse nelle migliori condizio ni per evitare le ibride mescolanze che rendevano irriconoscibile l'insegnamento di Marx in tanta parte del sedicente marxismo del tempo:

Prima [...] di diventar socialista, io avevo avuto inclinazione, agio e tempo, opportunità e obbligo d'aggiustar le mie partite ed i miei conti col darwinismo, col positivismo, col neokantismo [...].

No, dunque, per cominciare, al connubio Darwin-Marx, così frequente tra i positivisti sedicenti marxisti che non esitano a ridurre la storia degli uomini a natura e animalità in evoluzione meccanica. No, anche, a quella grossolana semplificazione rappresentata dall'economicismo che riduce la storia al solo momento economico, facendo di tutto il resto un "inutile fardello" di cui gli uomini si dovrebbero liberare. E no, anche a quell'idealismo etico di origine kantiana, con il quale il revisionismo alla Bernstein pretenderebbe di dare sepoltura al materialismo storico, facen do del socialismo un mero ideale etico. L'etica, ricorda Labriola, non è nulla al di fuori del «mettere il pensiero scientifico in servizio del proletariato»,36 ove per pensiero scientifico s'intende il materialismo storico. La scientificità è, infatti, la dimensione propria di una concezione materialistica della storia; essa è il portato di quel rovesciamento della dialettica hegeliana compiuto da Marx che ha voluto sostituire «alla semovenza ritmica di un pensiero per sé stante [...] la semovenza delle cose, delle quali il pensiero è da ultimo un prodotto».

La prospettiva del socialismo riposa, appunto, su questa semovenza, sull'«auto- critica che è nelle cose stesse» e non è semplicemente affidata a una mera critica soggettiva, di per sé sterile e inefficace:

La critica vera della società è la società stessa, che per le condizioni antitetiche dei contrasti su i quali poggia, genera da sé in se stessa la contraddizione, e questa poi vince per trapasso in una nuova forma. Il risolvente delle presenti antitesi è il prole tariato, che lo sappiano o non lo sappiano i proletari stessi. Come in essi la miseria loro è diventata la condizione palese della società presente, così in essi e nella miseria loro è la ragion d'essere della nuova rivoluzione sociale. In questo trapasso dalla critica del pensiero soggettivo, che esamina dal di fuori delle cose e immagina di poterle correggere per conto suo, all'intelligenza della autocritica che la società esercita sopra di se stessa nella immanenza del suo proprio processo; soltanto in ciò consiste la dialettica della storia, che Marx ed Engels, solo in quanto erano materialisti, trassero dall'idealismo di Hegel.

Questa sottolineatura dell'oggettività dei processi storici, della loro "naturalità", l'affermazione del determinismo delle leggi che li regolano (la cui scoperta distingue la previsione marxiana, scientificamente fondata, dalle profezie mülenaristiche degli utopisti, da fra' Dolcino a Fourier), non intende, si badi bene, concedere nulla a una naturalizzazione della storia che, come fa il darwinismo sociale, la equipari ai processi fisici e biologici della natura. Labriola è così convinto che la storia sia fatta dagli uomini, condizionati, certo, dalla natura, ma, attraverso questo condizionamento, pur sempre autori del mondo "artificiale" prodotto, appunto, dal loro lavoro:

La storia è il fatto dell'uomo, in quanto che l'uomo può creare e perfezionare i suoi istrumenti di lavoro, e con tali istrumenti può crearsi un ambiente artificiale, il quale poi reagisce nei suoi complicati effetti sopra di lui, e così com'è, e come via via si modifica, è l'occasione e la condizione del suo sviluppo.

La ripulsa di ogni determinismo meccanicistico e la convinzione che «la storia è il fatto dell'uomo» si manifestano, in particolare, nel rifiuto labriolano della disumanizzazione dell'economia che, quando ne siano autori dei marxisti, li condanna a esiti non dissimili da quelli cui perviene l'economia politica borghese, tutta giocata sull'assolutizzazione delle leggi economiche. Gli uomini non sono

come tante marionette, i cui fili siano tenuti e mossi, dalla provvidenza non più, ma an zi dalle categorie economiche. Queste categorie sono esse stesse divenute e divengono, come tutto il resto; perché gli uomini mutano quanto alla capacità e all'arte di vincere, aggiogare, trasformare e usare le condizioni naturali; perché gli uomini cambiano animo e attitudini per la reazione degl'istrumenti loro sopra di loro stessi; perché gli uomini mutano nei loro rispettivi rapporti di conviventi, e perciò di dipendenti in vario modo gli uni dagli altri. Si tratta insomma della storia, e non dello scheletro suo.

È sbagliato ridurre la storia al fattore semplicemente economico. È vero, certo, che «le idee non cascano dal cielo, e anzi [...] si formano in date circostanze, in tale precisa maturità dei tempi, per l'azione di determinati bisogni, e pei reiterati tentativi di dare a questi soddisfazione». E anche vero che, come ha insegnato Marx, non sono le forme di coscienza a determinare l'essere dell'uomo ma viceversa; ma non è men vero che, come ha chiarito Engels, solo «in ultima istanza» i fatti storici vanno ricondotti alla «sottostante struttura economica». Di qui prende avvio la rivalutazione labrioliana delle sovrastrutture, che non sono certo riducibili a «mere apparenze e bolle di sapone»:

[...] queste forme di coscienza, come son determinate dalle condizioni di vita, sono anch'esse la storia. Questa non è la sola anatomia economica, ma tutto quello insieme, che codesta anatomia riveste e ricopre, fino ai riflessi multicolori della fantasia. O, a dirla altrimenti, non c'è fatto della storia che non ripeta la sua origine dalle condizioni della sottostante struttura economica; ma non c'è fatto della storia che non sia preceduto, accompagnato e seguito da determinate forme della coscienza.

Non è neanche vero che, come pensano grossolani divulgatori del marxismo, dalla struttura economica

saltino fuori, a guisa d'immediati effetti automatici e macchinali, istituzioni e leggi, e costumi, e pensieri, e sentimenti, e ideologie. Da quel sottostrato a tutto il resto, il processo di derivazione e di mediazione è assai complicato, spesso sottile e tortuoso, non sempre decifrabile.

Non meno forte è l'avversione di Labriola nei confronti di qualsivoglia forma di fi losofia della storia, che lo rende assai cauto perfino nei confronti dell'arma hegelo- marxiana della dialettica, cui preferisce la locuzione concezione genetica e di cui delimita assai la portata, come di «forma di pensiero che concepisce le cose non in quanto sono (factum, specie fissa, categoria ecc.) ma in quanto divengono».

Sospettava, forse, Labriola, nell'uso marxiano della dialettica un possibile residuo idealistico, e nella visione complessiva della storia di Marx un pericolo non del tutto scongiurato di hegeliana filosofia della storia, preludio a una fine della storia stessa. In nome dell'ispirazione umanistica del proprio marxismo, escludente così ogni forma di idealismo come, allo stesso modo, il materialismo naturalistico, Labriola insiste semmai nel riconoscere «il midollo del materialismo storico» in quella che egli ama chiamare «filosofia della praxis», la quale, eliminando ogni separazione e contrapposizione tra teoria e prassi, ha il merito di restituire all'uomo 1 la pienezza delle sue capacità di trasformazione del mondo.

Negli stessi anni dell'elaborazione del proprio ripensamento del marxismo Labriola abbandona progressivamente l'impegno politico diretto, prendendo una certa distanza dal Partito socialista, alla cui nascita aveva dato il suo contributo, convinto com'è che il proletariato italiano debba avere una propria espressione politica autonoma. Sempre più difficili si sono fatti i suoi rapporti con Turati, da cui lo divide un profondo dissenso sulla linea politica da seguire. Egli non può condividere la tendenza del dirigente politico a troppo frequenti compromessi pratici, in cui vede confermata la debolezza e confusione teorica che sempre ha rimproverato a Turati. In particolare, egli ne critica la tendenza a cercare consensi al partito appena nato tra le file della borghesia scontenta, quando invece, in un paese come l'Italia di formazione capitalistica ancora tanto arretrata, compito principale dovrebbe essere quello di agire all'interno della classe operaia, accompagnandone, con un paziente lavoro di educazione, la lenta e faticosa maturazione di una coscienza di classe. Per questo Labriola si va convincendo che il più utile intervento politico che egli possa offrire è quello di dedicarsi al rigore di un lavoro teorico che nulla conceda a compromessi e contaminazioni tra marxismo e cultura borghese del tempo, dal neokantismo al positivismo.

Di qui, l'"inattualità" di questo pensatore, come anche il suo relativo pessimismo sulle possibilità di un rapido sviluppo del movimento socialista in Italia. Del resto, viene facendosi sempre più acuta in lui la consapevolezza - che in Bernstein agisce in una direzione ben diversa da quella, intransigentemente rivoluzionaria, cui egli rimane sempre fedele - che il capitalismo sia una forma sociale ben più complessa e vitale di quello che si era immaginato fino ad allora, e che i tempi previsti da Marx per la prospettiva socialista saranno ben più lunghi e problematici.