www.treccani.it
DBI
di Paola Magnarelli
Nacque a San Severino Marche (Macerata) da Giuseppe e Guendalina
Tognaci il 10 luglio 1866. La sua era una famiglia di possidenti
agricoli, di piccola nobiltà, con una tradizione di cultura
artistica ed umanistica. Frequentò il liceo classico al
collegio convitto di Senigallia, e, dal 1886, la facoltà di
giurisprudenza dell'università di Roma, usufruendo di una
borsa di studio che traeva i fondi da una rendita maturatasi giusto
in quell'anno; dal momento che Giuseppe Coletti era il sindaco della
città, il fatto suscitò qualche commento malevolo. A
Roma il giovane C. seguì con particolare interesse i corsi
dello statistico Angelo Messedaglia, col quale si laureò
discutendo una tesi ispirata alla relazione finale dell'inchiesta
agraria di Jacini.
Da Messedaglia il C. acquisì passione per una scienza che, in
quanto apparentemente in grado di chiarificare la realtà
sulla base di nudi dati, conosceva una grande fortuna nel clima
positivistico di allora, anche a livello di istituzioni pubbliche,
apprendendo però anche a temperare l'entusiasmo statistico
con una serie di considerazioni inerenti la struttura
economico-sociale della realtà. Gli arricchimenti di tipo
storico e sociologico alla statistica, suggeriti dal Messedaglia,
uomo di multiforme preparazione culturale secondo una sorta di
tradizione della scienza statistica italiana fra Otto e Novecento
alla quale il C. non si sottrae, attecchirono stabilmente nella
formazione intellettuale del giovane C. anche grazie alla lettura
prima ed alla frequentazione poi di Achille Loria.
Dopo aver seguito un corso di perfezionamento a Pavia con Luigi
Cossa, il C. fu per un anno a Padova con il Loria, convivendo
praticamente con lui; dal Loria apprese ad interpretare storicamente
l'economia politica, considerando d'altra parte la storia come un
susseguirsi di forme di reddito, cui si connettono strettamente
tutte le istituzioni non economiche, quasi in un sistema biologico
interpretato naturalisticamente. Questa notevole semplificazione
della teoria marxiana (che Gramsci chiama "lorianesimo") ebbe
profonda influenza sul C., determinando la sua adesione al
materialismo storico ed una spiccata simpatia per il socialismo.
Tornato nelle Marche, il C. fu nominato segretario della Camera di
commercio di Macerata, per la quale svolse il primo lavoro
scientifico di un certo peso, un'inchiesta armentizia nell'Appennino
marchigiano (La grande e la piccola industria armentizia
dell'Appennino marchigiano, in Giornale degli economisti, V [1894],
ott., pp. 307-330, e Industria armentizia e imposta di ricchezza
mobile nella zona montana della provincia di Macerata e in genere
delle provincie ex-pontificie, Macerata 1896); fu inoltre nominato
professore "pareggiato" di economia politica all'università
di Macerata. Nel 1895 si presentò alle elezioni e fu eletto
consigliere provinciale per il. mandamento di San Severino, sebbene
i suoi avversari politici avessero rispolverato la vecchia questione
della borsa di studio in un libello anonimo intitolato L'antico
Settempeda, cui il C. rispose con una Lettera aperta ai propri
elettori e concittadini (Macerata 1895), in cui difendeva il padre e
se stesso. In quegli anni il C., amico di Domenico Spadoni, uno dei
padri del socialismo maceratese, collaborò assiduamente a La
Provincia maceratese, organo del partito socialista, distinguendosi
per la violentissima polemica anticlericale (non solo dottrinaria,
ma anche diretta contro le banche e le associazioni cattoliche) ed
alla Critica sociale di Turati. Sulle pagine della rivista di Turati
il C. sviluppò una rispettosa polemica col grande economista
Vilfredo Pareto riguardo alla questione del protezionismo italiano
(Il liberismo e la critica storica dell'economia sociale, in Critica
sociale, III [1893], pp. 140-143; Sull'efficacia di uno stratagemma
doganale, in La Riforma sociale, II [1894], 24, pp. 975-993;
Liberismo e legislazione di classe, in Giornale degli economisti,
XIII [1902], ag., pp. 139-165). Pur essendo liberista come scuola e
per convincimento teorico, il C. aveva maturato la convinzione che
libertà e individualismo non si esprimono mai in modo "puro",
ma sono storicamente soggetti a condizionamenti economico-sociali e
politici; così, nella questione sul protezionismo, riteneva
che esso non dipendesse da indebita intromissione politica nel
libero gioco delle forze economiche, ma da precisi interessi di
classe e dalle profonde necessità di una fase del
capitalismo.
La polemica riprese ai primi del Novecento sempre sulla Critica
sociale, e, con altri studiosi, sulle pagine della Riforma sociale,
coinvolgendo non solo il problema contingente del protezionismo, ma
anche la validità della scuola liberista ortodossa, ormai
ridotta a fare della pura accademia. La posizione del C. si
distingue per equilibrio e per un certo empirismo, e giunge ad
ammettere l'utilità del protezionismo - in certi casi - come
espediente temporaneo, ma soprattutto tende a considerare
storicamente la realtà, al di fuori di schematismi astratti e
dannosi. Egli insistette comunque su un perfezionamento degli studi
statistici sulle cifre del commercio internazionale, di cui si
occupò in un vasto saggio (Del valore statistico delle cifre
del commercio internazionale, Torino 1903), comparando l'esperienza
italiana a quella di altri paesi. Secondo il C., una statistica
commerciale non direttamente legata a fini fiscali o doganali
avrebbe potuto fornire un valido aiuto alla politica economica degli
Stati.
Intanto si era nuovamente allontanato dalle Marche, prima come
professore "pareggiato" all'università di Roma, poi, vinto il
concorso del 1904, come ordinario di statistica a Sassari, poi di
economia politica a Cagliari, e di nuovo di economia e di statistica
a Sassari; questi anni in Sardegna furono molto fecondi di studi.
Politicamente il C. negli anni 1900-05 si distaccò alquanto
dalle posizioni dei socialisti, pur continuando a professarsi
seguace del materialismo storico, condannando gli "eccessi" pratici
del socialismo in materia di rivendicazioni e di agitazioni.
Egli si avvicinò invece al partito radicale (Le basi
economico-sociali del partito radicale, in Critica sociale, XIV
[1904], pp. 179-81 e 198-201), partecipando, nel 1904 e nel 1905, al
primo e al secondo congresso del partito; fortemente riformista e
più empiricamente attento alle soluzioni intermedie che alla
meta finale, il C. vedeva il partito radicale come forza politica
equilibratrice fra Sinistra e classe dirigente liberale, in grado di
fare la "media concreta" fra le irrinunciabili istanze sociali messe
in luce dal marxismo e gli interessi della produzione.
Se da un lato non si poteva considerare la forza lavoro come un bene
neutro soggetto come tutti gli altri al "libero gioco" delle forze
economiche, d'altro canto, tuttavia, il proletariato come classe non
poteva minare "incoscientemente" il profitto danneggiando i propri
stessi interessi e negando l'esistenza di ben precise "leggi"
economiche. Il punto in cui la concezione radicale del C.
maggiormente differisce dal socialismo è pertanto
l'utilità dello sciopero, che nega recisamente preferendo ad
esso contratti collettivi ed arbitrato obbligatorio (uno dei pochi
punti su cui il C. concorderà anche col fascismo).
Non estraneo a questa maturazione politica del C. fu certamente
l'impegno maggiore che egli aveva assunto non soltanto come attento
studioso della realtà rurale italiana, ma anche, a fianco dei
più illustri e illuminati rappresentanti della sua classe,
come segretario della Società degli agricoltori italiani.
Questa associazione, nata a Roma coll'intento di sviluppare un
rapporto stabile con il potere politico, asseriva che il problema
principale era quello di razionalizzare i rapporti di produzione e
migliorare le tecniche agrarie, fatti che si sarebbero volti
automaticamente in senso positivo sulle condizioni disagiate dei
contadini italiani. Per la Società degli agricoltori italiani
il C. svolse fra il 1901 e il 1903 un'indagine sugli scioperi agrari
ed i loro effetti economici e alcuni studi sui contratti agrari
(Recenti scioperi agrari in Italia e i loro effetti economici, Roma
1902; I contratti agrari e il contratto di lavoro in Italia, Roma
1903: inchiesta sui disegni di legge presentati alla Camera nel 1902
con relazione del Coletti).
Nel 1907 andò a Pavia come ordinario di demografia e
statistica, e colà rimase per tutta la sua lunga carriera
accademica, tenendo contemporaneamente corsi di economia
dell'agricoltura e demografia all'università commerciale
Bocconi di Milano. Dal 1910 entrò a far parte del Consiglio
superiore di statistica, dove rimase fino al 1926, anno in cui il
Consiglio fu soppresso.
Nel periodo fra il 1907 e lo scoppio della guerra mondiale il C.
adempì a due importanti incarichi scientifici: fu infatti
segretario generale della Commissione d'inchiesta sulle condizioni
dei contadini meridionali (inchiesta Faina, 1907-11) e
partecipò all'inchiesta parlamentare sulla Tripolitania
settentrionale (marzo-maggio 1913). Nel 1893, sulle pagine della
Critica sociale, aveva criticato la scarsa attenzione riservata
nell'inchiesta Jacini ai fenomeni sociali delle campagne: in
qualità di segretario generale, preparò per la
inchiesta Faina un programma e questionari particolarmente attenti
alla rilevazione di fenomeni sociali, e di costume, delle
popolazioni meridionali (Programma-questionario da servire pei
delegati tecnici nell'inchiesta parlamentare sulle condizioni dei
contadini del Mezzogiorno e della Sicilia [con relazione del C.],
Roma 1907). Fra le monografie speciali che corredano l'inchiesta se
ne trova poi una del C., dedicata significativamente a Classi
sociali e delinquenza in Italia,con particolare considerazione delle
classi rurali dell'Italia meridionale,della Sicilia e della
Sardegna; in essa egli elabora originalmente i dati forniti dalla
Direzione generale di statistica, raggruppandoli per classi sociali
e generi di reati e dimostrando - anche sulla base di studi
precedenti - la radice socioeconomica del reato e la
sproporzionalità delle pene comminate in molti casi (Classi
sociali e delinquenza in Italia nel periodo 1801-1900, nel VII
volume dell'inchiesta parlamentare citata, edito a Roma nel 1910).
Nell'inchiesta agrologica sulla Tripolitania, il C. fu incaricato
insieme con Ghino Valenti (anch'egli marchigiano) di occuparsi delle
questioni più propriamente economiche e sociali.
Il C. in particolare studiò i contratti agrari, le classi
sociali, i costumi e i fenomeni demografici; il suo lavoro,
corredato da disegni e foto, fu ripubblicato a parte dall'editore
Zanichelli ed ebbe un certo successo (Classi rurali,patti agrari e
caratteristiche sociali della popolazione in Tripolitania, Roma
1913; La Tripolitania settentrionale e la sua vita sociale studiate
dal vero, Bologna 1924). La sua posizione è quella di un
colonialista "umanitario", sinceramente convinto della
necessità di emancipare quelle popolazioni dal loro stato di
soggezione politica, civile e culturale, e dell'utilità, per
la popolazione italiana eccedente, di conquistare nuovi posti al
sole.
Sostanzialmente omogenea a questa fu la posizione che il C. assunse
sull'entrata in guerra dell'Italia nel 1915; egli fu favorevole,
ritenendo necessario per la popolazione italiana un allargamento dei
confini nazionali, e, inoltre, considerando la guerra elemento di
coesione nazionale e patriottica e di riscatto civile per gli strati
inferiori della società. A tale riguardo, svolse una regolare
azione pubblicistica (che gli valse una certa popolarità ed
800 lettere) sulle colonne del Corriere della sera, cui collaborava
dal 1911, per incoraggiare alle armi gli italiani residenti
all'estero con adeguate misure governative, e poi, per favorire il
loro ritorno ai luoghi di lavoro, che era messo in pericolo dalle
leggi restrittive dell'immigrazione che alcuni paesi avevano
adottato. Il C. adoperò anche la sua competenza tecnica per
confutare "l'argomento statistico", secondo il quale l'Italia non
avrebbe avuto il diritto di aspirare a territori in cui non vi fosse
maggioranza di italiani, sforzandosi di dimostrare un'alta
percentuale di italiani nelle terre cosidette "irredente" e
pronunciandosi in favore del "completamento" della vittoria (Inostri
irredenti, Milano 1918).
Comunque, nonostante questi atteggiamenti lo accomunino in parte
alla carriera ideologica di alcuni fascisti, il C. non fu mai
fascista e non può essere nemmeno considerato un
fiancheggiatore del regime. Poté esservi un parziale consenso
sul ruolo preminente che il regime sembrava dare all'agricoltura, ma
poi, a parte le sue giovanili simpatie socialistico-radicali, niente
lo accomunava al fascismo: il C. era infatti sostanzialmente
liberista, attento alla dialettica delle classi, favorevole al
decentramento locale, per settori di competenza, del potere statale,
favorevolissimo all'emigrazione in base ad una organica teoria che
costituisce uno dei caratteri originali del suo pensiero.
L'antifascismo del C. fu però, come in tanti casi avvenne, un
fatto eminentemente privato; egli percorse indisturbato una
brillante carriera scientifica ed accademica, e ricoprì
importanti ruoli ufficiali, giacché era senza dubbio uno dei
più importanti tecnici ed esperti di agricoltura esistenti
nel paese. Il C. fu membro del R. Istituto lombardo di scienze e
lettere, socio ordinario dell'Accademia dei Georgofili, socio della
Reale Accademia dei Lincei, e, dal 1937, in seguito
all'incorporazione di questa nell'Accademia d'Italia, socio
aggregato dell'Accademia stessa; fu membro inoltre, fin dalla
fondazione, del comitato direttivo dell'Istituto nazionale di
economia agraria. Rappresentò l'Italia, come esperto di
demografia e di statistica, in importanti consessi esteri. La sua
vita trascorse fra la Lombardia e l'amata terra marchigiana, cui
dedicò scritti acuti ed affettuosi, e che rappresentava per
lui una sorta di perfezione nella sua "medietà" (Ilcarattere
rurale nell'economia e nello spirito delle Marche, in L'Italia
agricola, 15 luglio 1923, pp. 257-274) e dove con sempre maggior
frequenza si ritirò dopo essere andato in pensione, a
settanta anni di età, ed essere divenuto emerito
dell'università pavese.
Proprio nella bella villa di Cesolo, presso San Severino, il C.
morì nella serata del 19 dic. 1940.
Scientificamente, il C. interessa come demografo e come statistico.
Di demografia il C. cominciò ad interessarsi alla fine del
sec. XIX, segnalandosi come seguace della teoria "qualitativa" di
quella scienza, attenta cioè all'interazione dei fattori
determinanti la coesione (o la disgregazione) degli aggregati
sociali: in questo senso, la demografia appare un necessario
complemento della statistica.
Per il C. la demografia è la scienza dell'"uomo di massa"
(l'espressione e il concetto sono di Messedaglia), cioè
dell'insieme degli uomini considerati nelle loro espressioni
biologiche e sociali: infatti, l'altro termine che il C. usa per
definire la demografia è "biologia sociale". L'osservazione
dei fenomeni umani non si definisce pertanto scienza solo nella
misura in cui tali fenomeni siano quantificabili, ma mira ad una
complessità che tiene conto anche di fattori extraeconomici;
questa concezione della scienza demografica si riconnette con gli
interessi di economia agraria del C.: infatti la popolazione rurale
è quella che maggiormente conserva nei suoi aspetti di vita
associata tali fattori extraeconomici (Studi sulla popolazione
rurale in pace e in guerra, Bari 1923; La popolazione rurale in
Italia e i suoi caratteri demografici,psicologici e sociali,
Piacenza 1925) (Pareto, citatissimo dal C., parlava di "persistenza
degli aggregati").
In relazione all'interesse del C. per la popolazione rurale sta la
sua analisi dell'emigrazione (Dell'emigrazione italiana, in
Cinquant'anni di vita italiana, a cura della R. Accad. dei Lincei,
Milano 1912); essa nasce innanzitutto da una teoria psicologica
dell'"uomo di massa rurale" (mutuata da Messedaglia e da Pantaleoni
per quanto riguarda il paragone fra disagio psicologico e disagio
economico), per cui l'emigrazione sarebbe la risposta collettiva ad
uno stato di disagio. Conseguentemente il C. pensa che, date le
condizioni storiche del mercato del lavoro in Italia, l'emigrazione
rappresenti un bene per la nazione e per la popolazione rurale e
debba essere incoraggiata, o, per meglio dire, non ostacolata dallo
Stato.
Questa concezione "liberista" dell'emigrazione, oltre ad essere
propria del C., certo gli venne anche da L. Bodio, direttore nei
primi anni del secolo del Commissariato dell'emigrazione, un altro
dei suoi maestri, di cui, compilandone la "voce" per l'Enciclopedia
italiana, il C. lodò soprattutto la politica di equilibrio
fra "la tutrice autorità dello stato e la libertà
dell'emigrante". L'emigrazione non solo costituisce la necessaria
valvola di sfogo per la popolazione eccedente, ma dà modo al
contadino (specie meridionale) di migliorare le proprie condizioni
di vita. Inoltre, le rimesse degli emigranti contribuiscono
notevolmente ad arricchire il reddito nazionale, e, soprattutto,
possono mettere in atto un processo di lento trasferimento della
proprietà della terra dal settore della rendita parassitaria
ad un ceto di piccoli proprietari attivi. Il C. avrebbe desiderato
da un lato che i nostri emigranti fossero resi più coscienti
della loro funzione e meglio qualificati, d'altro canto che le
nazioni che ricevevano il nostro bene fossero a propria volta
maggiormente grate e consapevoli del proprio vantaggio. Da questa
breve esposizione della teoria del C. (altrimenti complessa, e
statisticamente documentata) si comprende però bene come il
suo vecchio maestro Loria e il giornale inglese The Economist
abbiano potuto definirlo "un demografo ottimista". Anche quando la
congiuntura internazionale portò i paesi stranieri ad
apprezzare sempre meno il nostro bene-lavoro, ed il fascismo si
allineò su posizioni conseguenti, il C. continuò a
pensare ad un mutamento di situazione per cui la forza-lavoro
italiana, operosa e poco costosa, avrebbe potuto riprendere ad
alleviare il mercato del lavoro interno.
La statistica è per il C. la scienza indispensabile che serve
preliminarmente a discriminare gli elementi quantitativi dei
fenomeni sociali. Egli si era formato in un'età in cui questa
scienza conosceva un grande splendore, ma gli parve poi di dover
assistere ad un progressivo decadimento che lo rattristava; si
trovò perciò spesso a difendere il valore della
statistica come metodo, anche se in una lezione tenuta
all'Umanitaria nel 1914 (Della statistica e di altri metodi atti
allo studio dei fatti agricoli, Milano 1914) ebbe ad esprimere molto
bene il suo modo di vedere, assai distante dal culto della "scienza
pura": "Le cifre non sono che la veste, l'involucro esteriore delle
cose; ed è di queste che bisogna cominciare ad intendersi per
capire quelle". Egli fu perciò sempre proclive all'adozione
di metodi di rilevazione indiretta, che, in realtà complesse
e spesso arcaiche come quella rurale italiana, riteneva potessero
utilmente integrare la rilevazione diretta. A tale proposito
presentano notevole interesse le correzioni che il C.
apportò, congetturalmente e non sulla base di nuove
rilevazioni, ai risultati del censimento del 1911; egli ritenne
cioè che per alcune categorie di lavoratori agricoli (piccoli
proprietari) l'unità lavoratrice fosse rappresentata da tutta
la famiglia, e che perciò le donne dovessero considerarsi in
numero pressoché uguale agli uomini, ad eccezione di Lazio,
Puglia, Sicilia, Sardegna, in cui tradizionalmente le donne
partecipavano poco ai lavori campestri.
Nei primi anni del secolo il C. discusse, con originalità e
acume, insieme con illustri economisti del tempo (per es. il Benini,
grande statistico, e il Pantaleoni) di problemi di semiologia
economica, intendendo per essi particolari accorgimenti che
rappresentassero veri e propri segni rivelatori dello stato
dell'economia e della società. Quelli di cui il C. si occupa
sono il totalizzatore e l'indice unico (Dell'indice unico (studio di
semiologia economica), in Problemi di statistica economica, Milano
1937), cioè di una serie di indici statistici, costituita da
fenomeni di vario genere opportunatamente quantificati ed
equiparati, o un unico indice particolarmente significante.
Interessante è la critica che il C. esercita sull'uso di
questi accorgimenti, che pure apprezza, sempre partendo da una
valutazione induttiva dei fenomeni. Egli ritiene innanzitutto che il
fine di queste rilevazioni sia rappresentato dalla necessità
di pervenire alla valutazione del benessere in una data
società, e del benessere delle classi più numerose che
sono anche le meno abbienti. Sembra chiaro che il benessere dei
settori della società che detengono rendita e profitto sia
antagonistico rispetto a quello che le altre classi ricercano; egli
ritiene perciò che gli indici privilegiati debbano essere
quegli indicativi del grado di benessere delle classi meno abbienti,
e che debba stabilirsi una ripartizione fra di essi a seconda della
omogeneità e del grado di indicatività. Pertanto la
cosidetta "discriminazione" dei dati, consistente in una valutazione
storica dei fenomeni prescelti come indicativi, deve avvenire prima
della loro scelta, e non dopo o magari mai. Lo spettro della
realtà che si avrà non sarà perciò mai -
né potrebbe essere - statico e universalmente valido (come la
scienza economica di allora era in gran misura proclive a
richiedere), bensì relativo ad un determinato stato della
società, limitato nello spazio e nel tempo.
Il C. si occupò anche di un altro problema dibattuto ai suoi
tempi, cioè il calcolo della ricchezza privata di un paese,
integrando ed emendando il metodo di valutazione indiretta detto de
Foville (Problemi di statistica economica, cit.), che si basava
sulla ricchezza trasmessa annualmente a seguito di morte o per
donazione.
L'azione del C. fu intesa, come al solito, ad arricchire
concretamente la possibilità di applicazione del metodo
(specie in Italia), attraverso una valutazione storica del concetto
di generazione ereditaria, che varia per sesso, tempo, territorio
ecc. Per determinare la durata della generazione ereditaria nel
nostro paese, si servì dell'età media degli sposi e
della fecondità media dei matrimoni, della vita media per
classi di età e della durata media dei matrimoni;
calcolò così quattro virtuali generazioni ereditarie,
la cui media aritmetica fornisce il dato finale della generazione
ereditaria cercata.
Questi argomenti, insieme alla valutazione delle cifre del commercio
internazionale, non sono che alcuni dei molti di cui il C. si
occupò, con costante attenzione alla complessità dei
fenomeni economici e sociali, come si ravvisa dalla vastissima
bibliografia delle sue opere. La caratteristica fondamentale che lo
distingue e lo rende in qualche misura sempre diverso dai tempi in
cui visse - fra positivismo e scuola economica "ortodossa" da un
lato, e fascismo dall'altro - è la costante ricerca di
rapporto e mediazione fra rilevazione quantitativa quanto mai
rigorosa e raffinata ed attenzione al concreto e storico dispiegarsi
degli avvenimenti umani.