www.sapere.it
Filosofo e storico della filosofia italiano (Napoli 1888-Roma 1948). Professore nelle università di Messina e di Roma, subì il confino e la prigionia per il suo antifascismo. Nel 1943 partecipò alla fondazione del Partito d'Azione; nel 1944 fu ministro della Pubblica Istruzione. La sua opera principale, Storia della filosofia (1918-48), che costituisce uno dei documenti più significativi della cultura filosofica italiana della prima metà del secolo, si fonda sopra un impianto di pensiero di tipo attualistico. Negli ultimi anni il filosofo abdicò all'immanentismo per affermare il valore della trascendenza.
Tra le altre opere di De Ruggiero: Filosofia contemporanea (1912), Storia del liberalismo europeo (1925), Filosofia del Novecento (1934).
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DBI
di Renzo De Felice
Quarto figlio di Eugenio e di Filomena d'Aiello, nacque a Napoli il
23 marzo 1888. L'ambiente famigliare in cui visse era tipica
espressione di quella borghesia umanistica meridionale così
presente nella cultura italiana della prima metà del secolo.
Sebbene si laureasse in giurisprudenza (1910) e, nel 1911, si
inducesse, per potersi sposare (nel 1913 con Anna Breglia), ad
intraprendere la carriera amministrativa nei ruoli del ministero
della Pubblica Istruzione, i suoi veri interessi furono sin dagli
anni degli studi superiori di tipo filosofico (nel 1916
conseguì la libera docenza in storia della filosofia). Come
per altri coetanei, decisiva fu su di lui sin dall'inizio
l'influenza del pensiero di B. Croce e di G. Gentile; due uomini ai
quali rimase sempre - anche se in modi assai diversi -
affettivamente legato, nonostante le vicende culturali e politiche
dei suoi rapporti con essi siano state tutt'altro che facili e, nel
caso di Gentile, siano sfociate in un'aperta, insanabile rottura.
I primi rapporti personali con Croce, favoriti dallo zio Ettore De
Ruggiero, dovettero risalire al 1906-1907 e si fecero più
effettivi col 191 o-11, allorché si affacciò alla
ribalta della cultura italiana (i suoi primi contributi filosofici
videro la luce in questi due anni sulla Rivista di filosofia, sul
Giornale degli economisti e su La Cultura). Il Croce gli aprì
le pagine de La Critica ed egli, su suggerimento dello stesso Croce,
cominciò a lavorare a La filosofia contemporanea, che,
apparsa nel 1912 per i tipi di Laterza, rese noto il suo nome anche
fuori della stretta cerchia degli studiosi di problemi filosofici e
gli aprì le porte del giornalismo e in particolare de La Voce
di G. Prezzolini e de IlResto del carlino, allora diretto da M.
Missiroli (un'altra figura di intellettuale la cui influenza su di
lui sin verso la metà degli anni Venti non può essere
sottovalutata). I rapporti personali con Gentile ebbero un inizio,
rispetto a quelli con Croce, di poco posteriore; la sua influenza fu
comunque in questi primi anni anche maggiore di quella di Croce.
Una lettera ad A. Carlini in data 24 genn. 1916 (in F. Lo Moro,
1981) offre una serie di elementi per cogliere la posizione del D.
rispetto ai suoi due "maestri" e all'idealismo. "Scolaro" si
riconosceva solo di Gentile, "ma nel senso che da lui ho avuto
l'intuizione della via da seguire: Spaventa e la sintesi apriori
kantiana, lo sviluppo delle idee è invece avvenuto in me in
modo del tutto laterale", avendo di mira una "filosofia come
finalità che trascende infinitamente in valore i mezzi e i
momenti in cui si attua (e che pur la riconoscono a sé
immanente). Sistema aperto, sempre in via di organizzarsi, il cui
valore è dato appunto dalla forza formatrice che il pensiero
acquista grado a grado nel suo lavoro, e non gia nei momenti
preferiti e preferibili di esso". Un riferimento e una indicazione
che, visti alla luce de La filosofia contemporanea e di alcuni saggi
filosofici più significativi di quegli anni (in particolare
quelli sulla filosofia dei valori in Germania, su La Critica del
1911-12, e sulla critica del concetto di cultura, apparso nel
1912-13 su La Voce e l'anno dopo in volume) e degli articoli
giornalistici del periodo prebellico, permettono di capire come
già a quest'epoca la posizione del D. si differenziasse
rispetto a quella di Gentile e ancor più a quella di Croce
essenzialmente per una preoccupazione di ordine etico destinata a
diventare col tempo in lui predominante: risolvere compiutamente il
rapporto universale-particolare e salvare al massimo la
responsabilità umana, la libertà come autonomia del
pensiero, non sufficientemente-assicurate dallo storicismo crociano
e insidiate dall'attualismo gentiliano. Una preoccupazione che le
vicende politiche successive alla grande guerra (e
l'incapacità dimostrata dall'attualismo a pensare
concretamente la politica) avrebbero reso in lui sempre più
viva e che, se non avrebbe mai trovato una vera soluzione in termini
filosofici - tant'è che il D. filosofo fu non tanto un
teoretico quanto uno storico della filosofia e, se mai, un filosofo
morale (anche se talvolta anticipò problemi poi affrontati da
altri, quale quello dell'identità di scienza e filosofia,
oggetto negli anni Trenta di polemica tra U. Spirito e Gentile) -,
lo avrebbe portato però ad assumere via via un atteggiamento
critico-revisionistico rispetto all'idealismo all'interno del quale
pure sempre si sarebbe mosso. Momenti importanti di questo suo iter,
destinato a sfociare nel 1946 ne Ilritorno alla ragione, furono la
terza edizione, nel 1928, de La filosofia contemporanea, l'articolo
Revisioni idealistiche apparso nel 1933 ne L'Educazione nazionale,
il volume dell'anno successivo sui Filosofi del Novecento e il
saggio su Ilconcetto di lavoro nella sua genesi storica pubblicato
nel 1940.
Dal 1912 al 1923 e in qualche misura ancora sino al 1926, sino a
quando cioè la definitiva vittoria fascista sull'opposizione
aventiniana non glielo impedì, il D. affiancò a quella
di studioso e poi di professore universitario (dal 1922 a Messina e
dal 1925 al magistero di Roma) una notevole e in certi periodi
(dicembre 1918-febbraio 1920; luglio 1921-marzo 1923) intensa
attività pubblicistica e giornalistica.
Questa attività, che ben rispondeva al suo carattere
battagliero e alla sua convinzione che l'uomo di cultura dovesse
partecipare attivamente ai conflitti ideali che preparavano ed
accompagnavano quelli bellici e politici, ebbe praticamente due soli
momenti pressoché di interruzione: dal 1915 al 1918, durante
la grande guerra, alla quale partecipò prestando servizio nel
genio (nel 1915-16 a Napoli, nel 1917 in zona di guerra) e dalla
metà del 1920 a quella del 1921 quando fu per vari mesi in
Inghilterra per studio. Va per altro detto che nel settembre 1916
pubblicò sulla Revue de méthaphysique et de morale uno
dei saggi più significativi per la comprensione della sua
personalità di uomo di cultura e del suo idealismo politico
(La pensée italienne et la guerre) e che dall'esperienza
inglese del 1920-21 (nel corso della quale rinsaldò i propri
rapporti personali e intellettuali con il più significativo
esponente inglese dell'idealismo, R. G. Collingwood, la cui
particolare posizione filosofica, se per un verso fu influenzata da
quella del D., per un altro la influenzò) nacque L'Impero
britannico dopo la guerra (Firenze 1921), altro scritto di rilievo
per comprendere il suo liberalismo e la genesi della Storia del
liberalismo europeo. Quanto alle sedi nelle quali questa
attività si svolse, esse furono varie; il maggior numero di
articoli apparve però su Il Resto del carlino (1912-23), Il
Paese (1921-22) e IlSecolo (1921-23).
Una corretta comprensione e valutazione della sua personalità
non può prescindere da questi articoli, indispensabili per
puntualizzare la sua posizione di fronte alla grande guerra e alla
realtà politica italiana prima, durante e dopo di essa. Essi
mostrano chiaramente come il suo atteggiamento politico nel
dopoguerra non fu che l'esplicitarsi, il prendere corpo delle sue
posizioni del periodo 1912-18; posizioni squisitamente liberali
rispetto alle quali la sua collaborazione a L'Idea nazionale nel
1913-14 e a Politica (i primi tre capitoli de Ilpensiero politico
meridionale) nel 1918, ovvero le critiche e i sarcasmi da lui
rivolti allo Stato giolittiano, al partito liberale e allo stesso
liberalismo di quegli anni non investivano l'idea liberale, ma, al
contrario, erano motivati dall'esigenza di riaffermare la
pregiudiziale liberale di fronte al decadimento e all'involuzione
della politica liberale. Fanno capire il suo atteggiamento di fronte
alla guerra e all'intervento italiano, un atteggiamento diverso da
quello - a suo dire - schematico, fanatico, incoerente,
dell'interventismo tanto dei democratici quanto dei nazionalisti e
tutto ruotante, come per Gentile, attorno al problema del
"risorgimento morale d'Italia", di come cioè gli Italiani
avrebbero moralmente affrontato la guerra e di cosa essa avrebbe
significato per essi. Documentano inoltre il suo progressivo
allontanamento da Gentile, col quale ruppe definitivamente nel 1925
allorché questi portò alle estreme conseguenze il suo
attualismo affermando che la libertà aveva per oggetto lo
Stato ed identificando liberalismo e fascismo ("Voi vi lagnate delle
mie critiche - gli scrisse nell'ultima lettera il 26 aprile - ma non
vi rendete conto della crisi che avete suscitato rompendo
l'unità di un mondo appena in formazione e creando un
dissidio profondo nell'animo di coloro che, come me, pensavano che
molte cose potessero e dovessero essere salvate da questo
sconvolgimento. Col vostro programma di fascistizzazione della
cultura e della scuola voi ci avete voluto sacrificare senza
rimpianto; ponendoci contro di voi, noi ci difendiamo e forse
difendiamo ancora qualcosa di voi"). Lasciano anche capire che il
suo riavvicinamento a Croce (nel novembre 1927 il D. riprese la
collaborazione a La Critica, interrotta nel luglio 1915), dopo le
polemiche degli anni della guerra e del 1921-22 (sull'arte), fu
dovuto molto più al comune antifascismo che ad
un'accettazione delle posizioni filosofiche e culturali di Croce
ovvero di quelle più propriamente politiche ("La differenza
di accentuazione politica tra le nostre concezioni - scrisse nel
1945 - permaneva intatta, come può facilmente accertarsi
chiunque confronti le opere del Croce e la mia Storia; ma non era
quello il tempo di porla in evidenza. C'era nel liberalismo del
Croce qualcosa di generico e indifferenziato da un punto di vista
strettamente politico; ma questa manchevolezza era allora un
vantaggio, perché giovava a riunire insieme, in un fronte
compatto, tutti gli amici della libertà da qualunque parte
accorressero"). Permettono poi di precisare l'effettivo peso che le
esperienze culturali e politiche di quegli anni ebbero sulla
posizione e sulle scelte del D. negli anni della crisi del regime
fascista e dopo la liberazione.
Né, infine, si può sottacere un altro motivo di
interesse di questi articoli. Dopo la morte del D., e soprattutto
tra la fine degli anni Cinquanta e quella degli anni Settanta, da
parte della cultura italiana di sinistra ed anche di suoi esponenti
autorevoli, quali E. Garin e N. Bobbio, sono stati avanzati giudizi
assai duri sul D. filosofo e, a ben vedere, ancora più duri
sul D. politico, definito sì una figura "fra le più
degne di rispetto" della cultura del Novecento per il suo "rigore
morale" e il suo "comportamento dignitoso nel periodo fascista", ma,
al tempo stesso, "fra le più caratteristiche espressioni
delle ambiguità e delle incertezze degli "intellettuali"
italiani della prima metà del secolo" (Garin). Uno
"storicista conservatore", autore di "un'opera importante sul
liberalismo" che, per altro, aveva fatto ormai il suo tempo e alla
quale si negava sostanzialmente ogni residuo valore in nome, per un
verso, del rifiuto opposto dal D. al materialismo storico, al
comunismo, alla statolatria democratica, alla confusione tra
società e Stato introdotta dal socialismo e, per un altro
verso, della sua "astratta" e "moralistica" fiducia nella
vitalità del liberalismo, da lui ancora considerato, come
aveva scritto nella conclusione della Storia del liberalismo
europeo, capace di dar vita allo "Stato liberale" ("lo Stato non il
governo, come il governo non è il partito; ma una
incarnazione più alta dello stesso spirito è
l'unità superiore che contiene in sé e domina tutte le
differenze") e cioè lo "Stato politico per eccellenza, la
politica dell'età moderna". In questa ottica gli articoli del
D. degli anni Dieci e Venti sono stati oggetto di una lettura tutta
ideologica, volta a trovare in essi la conferma in re politica del
"moralismo", "astrattismo" e "conservatorismo" del suo liberalismo,
così da negare ad esso qualsiasi validità, laddove
questa veniva invece riconosciuta a pieno titolo a quello di P.
Gobetti perché "aperto" alla classe operaia.
In realtà gli articoli in questione non autorizzano una
simile conclusione e mostrano, invece, come il D. colse, anche se
talvolta appena sfiorandoli, alcuni problemi che solo parecchi anni
dopo sono stati affrontati da altri studiosi e che denotano realismo
politico e autonomia di pensiero notevoli. Nel saggio del 1916 su
Lapensée italienne et la guerre è tracciato un
sintetico ma significativo profilo della storia dell'idea di ragion
di Stato che, come ha notato M. Biscione, anticipa di un ventennio
la ricostruzione di F. Meinecke. Nello stesso saggio e in successivi
articoli il D., per penetrare i comportamenti collettivi dei popoli,
delle masse e dei partiti fa ricorso ad un concetto, quello di
"mentalità" che, ugualmente, ha trovato in sede scientifica
utilizzazione soprattutto in anni recenti. In vari articoli dedicati
alla situazione italiana del dopoguerra e al fascismo, poi, sono
presenti tematiche e giudizi che, per un verso, saranno alla base di
opere quali La trahison des clercs (1927) di J. Benda e La
rebelión de las masas (1930) di J. Ortega y Gasset e, per un
altro verso, hanno trovato pieno sviluppo solo in anni ancor
più recenti, costituendo punti cardine del dibattito
internazionale sulla natura del fenomeno fascista e sul
totalitarismo.
Da vero liberale, già dal 1921 per il D. tra fascismo e
comunismo, tra "dittatura rossa e dittatura nera", non vi era alcuna
sostanziale differenza ("in verità, io, tra il rosso e il
nero non so riconoscere se non una distinzione ottica: tutto il
resto è indiscernibile"). Allo stesso modo il suo senso
politico gli faceva capire che il radicamento del fascismo non
poteva essere spiegato solo con il fatto che esso si era alleato con
le frazioni conservatrici e con le organizzazioni padronali. Queste
alleanze non avevano che un significato autonomo e contingente: "il
fascismo non tarderà - scrisse il 13 sett. 1921 - a porsi in
conflitto coi suoi attuali padroni, che hanno preteso di servirsene
come di un corpo di pretoriani". "Immaginare che alcune centinaia di
migliaia di giovani, che hanno conquistato nella lotta e con
l'azione una propria esperienza politica e la coscienza di un potere
veramente singolare, rientrino con un fiat nel così detto
ordine e si contentino di alimentare il "lucignolo dell'ideale"
nazionalista o democratico o liberale" era per lui "un'illusione
degna dei nostri ben pensanti conservatori".
Attentissimo alle vicende politiche interne ed internazionali, il D.
non provava interesse per la politica attiva, sicché sino
alla marcia su Roma non aderì a nessun partito o
raggruppamento politico. Al massimo una certa simpatia mostrò
per F. S. Nitti, per il suo tentativo di creare un gruppo
democratico autonomo, per il suo antifascismo, per la sua realistica
visione dei problemi internazionali; lo prova indirettamente il
fatto che nel 1921-22 il giornale sul quale più scrisse e
più esplicitamente di politica fu Il Paese, il quotidiano
più vicino a Nitti e che ne pubblicava regolarmente gli
articoli. A fianco di questa simpatia per Nitti, non va però
neppure dimenticata la benevola attesa con la quale seguiva gli
sviluppi della politica del Partito popolare. Nessuna simpatia
mostrò invece per le ipotesi di collaborazione con i
socialisti e per i tentativi di chi pretendeva elaborare una
politica liberale "assolutamente nuova" ma che in pratica nulla
avrebbe avuto di liberale. Per lui, il vero problema - teorico e
concretamente politico al tempo stesso - era quello della crisi del
liberalismo, e di come superarla, nonostante gli errori accumulati
dai liberali nel corso di decenni e in particolare durante
l'età giolittiana e la guerra, senza che esso ne risultasse
vieppiù sfigurato, ma al contrario vivificato e in grado di
rappresentare "le più vitali esigenze della vita sociale che
si è creata con la guerra", e senza che la revisione delle
vecchie impostazioni "ormai logore" si traducesse in "un'abdicazione
del passato". Nel "principio di libertà" vi era una tale
forza che il liberalismo poteva assorbire ciò che nella
democrazia e nel socialismo vi era di liberale, e il Partito
liberale poteva accogliere tutte le forze sociali e adeguare la
propria mentalità alle esigenze nuove senza per questo
snaturarla.
Essenziale per capire questo modo di intendere il liberalismo
è quanto il D. aveva scritto ne L'Impero britannico dopo la
guerra (su cui forte è la suggestione di L.T. Hobhouse e del
suo Liberalism) e sviluppò nella Storia del liberalismo
europeo, e in particolare il suo modo - alla inglese piuttosto che
alla francese - di intendere il rapporto libertà-eguaglianza
a favore del primo dei due termini. Il che non voleva dire negare
che la democrazia fosse nata dal liberalismo né contestare la
validità della sua affermazione di massa, ma mettere in
rilievo i rischi per la libertà insiti nella mentalità
e in certe forme di organizzazione democratiche e soprattutto
sottolineare l'esigenza di una effettiva sintesi di liberalismo e di
democrazia, di una "deniocrazia liberale", "dove l'aggettivo
liberale ha il valore qualificante, e cioè serve ad
accentuare quel bisogno di specificazione e di differenziamento che
sorge ed agisce in seno all'uniformità mortificante e
oppressiva della società democratica" che espone questa a
tutti i rischi, sia interni sia esterni. Come si legge nella Storia
del liberalismo europeo, "si tratta... di creare una democrazia di
uomini liberi: quindi di educare le masse al sentimento
dell'autonomia, promuovere il loro spirito di associazione e di
cooperazione spontanea che tende a spezzare ciò che ne fa
delle masse amorfe, preparare l'auto-governo dello Stato per mezzo
delle più varie e originali forme dell'auto-governo
particolare e locale".
Da qui l'importanza per il D., come scrisse il 19 dic. 1922 su Il
Resto del carlino, di "creare una educazione politica degna di
questo nome"; il resto era secondario o conseguenza del più
generale problema del superamento della crisi del liberalismo. Da
qui la durezza della sua polemica con quei liberali il cui
comportamento di fronte al fascismo rivelava essere in realtà
dei "conservatori miopi e retrivi", e il suo collaborare con G.
Amendola allorché questi, prima col discorso di Sala
Consilina (ottobre 1922), poi con l'Unione nazionale (alla quale il
D. aderì e di cui fu uno degli animatori a Napoli),
mostrò di volersi fare promotore di un vero movimento
liberale ("né a destra né a sinistra, né col
sindacato né col trust, ma come parte a sé e, in un
certo senso, nell'interesse di tutti") in grado di ridare alla
élite liberale la propria autonoma funzione e che avesse ben
chiaro che i ceti medi costituivano il campo d'azione decisivo per
realizzare una effettiva democrazia liberale e, dunque, per cercare
di sbarrare la strada ad un definitivo successo fascista. Da qui,
ancora, il suo testimoniare pubblicamente, sino a quando fu
possibile, il suo liberalismo scrivendo sulle ultime testate ancora
disposte a contrastare il fascismo e ad accettare il suo discorso
(particolarmente significativa in questo senso fu la sua
collaborazione nel 1925 a Rinascita liberale di A. Tino e A. Zanetti
e nel 1926 a Pagine critiche) ed aderendo ad una serie di prese di
posizione antifasciste (oltre al manifesto Croce, sottoscrisse il
manifesto de IlSaggiatore e gli appelli di solidarietà a G.
Donati e a G. Salvemini) che, in quanto tali, avevano certo un
significato politico, ma che, per un realista come lui, dovevano
avere soprattutto un valore educativo. La stessa funzione che, tutto
sommato, crediamo egli dovette soprattutto attribuire a la Storia
del liberalismo europeo (e che questa, senza nulla togliere al suo
valore scientifico, testimoniato dalle traduzioni fattene quasi
subito in Inghilterra, Germania e Cecoslovacchia e più tardi
in Spagna, ebbe infatti negli anni del fascismo) quando essa vide la
luce nella seconda metà del giugno 1925, quando cioè
le sorti della battaglia politica di Amendola e delle opposizioni
era ormai segnata e il fascismo si era già avviato da vari
mesi sulla strada della dittatura.
Gli anni dal 1925-26 al 1941-42 furono per il D. essenzialmente anni
dedicati allo studio e all'insegnamento, durante i quali il suo nome
si affermò anche all'estero come quello di uno dei più
significativi esponenti dell'idealismo italiano, tanto da aver
affidata da Philosophy una rubrica fissa sulla filosofia italiana
(che, interrotta dal 1941 al 1946, riprese nel 1947) ed avere
attribuita dall'università di Oxford la laurea honoris causa
(la cerimonia del conferimento, invece che nel giugno 1940, ebbe
luogo, per il sopravvenuto stato di guerra tra l'Italia e
l'Inghilterra, nel maggio 1946).
Ripresa la Storia della filosofia, della quale aveva già
pubblicato a Bari presso Laterza nel 1918 La filosofia greca e nel
1920 La filosofia del cristianesimo, nel 1930 diede alle stampe
Rinascimento, Riforma e Controriforma, nel 1933 L'età
cartesiana, nel 1937 Da Vico a Kant, a cui seguì nel 1943
L'età del romanticismo. Col 1927 riprese altresì, come
già detto, la collaborazione a La Critica che si protrasse
sino allo scoppio della seconda guerra mondiale e fu caratterizzata
soprattutto da rassegne critiche (dalle quali nacque Filosofi del
Novecento) e recensioni.
La causa immediata che determinò la nuova interruzione della
collaborazione a La Critica fu un saggio su Michelet storico
pubblicato sulla rivista nel 1937-38 e non condiviso né nel
taglio né nella sostanza da Croce, che non approvava
l'interesse del D. per gli storici francesi e avrebbe preferito si
occupasse invece di quelli inglesi, e comunque avrebbe voluto che,
invece di "dilungarsi in questioni accessorie", procedesse per "nudi
giudizi critici". E ciò proprio mentre il D. riteneva che gli
storici francesi dell'Ottocento come Michelet "possano avere una
larghissima risonanza negli animi dei lettori, sempre che io li
consideri a modo mio e non vostro".
Se questa fu la causa immediata - e, a ben vedere, in buona parte
politica, ché al D. trattare di storici come Michelet doveva
apparire il modo più adatto per fare indirettamente un
discorso liberale, se non addirittura di "democrazia liberale",
particolarmente necessario in quel momento di crisi e di incertezza
dell'Europa - della interruzione della collaborazione a La Critica,
non mancano però elementi che autorizzano a parlare di un
lento processo di deterioramento in atto da tempo dei mai
completamente ricuciti rapporti tra i due filosofi un po' su tutti i
terreni. Un deterioramento che, se non fosse sopravvenuto il
contrasto sul saggio su Michelet storico, probabilmente non sarebbe
arrivato alle estreme conseguenze, dato che il D., sino a quando gli
fu possibile, cercò di evitare una rottura che avrebbe
indebolito il polo antifascista liberale e la sua funzione
educatrice (tanto è vero che anche la interruzione della
collaborazione a La Critica avvenne nel modo più silenzioso e
il contrasto con Croce non ebbe echi fuori dal ristretto gruppo
degli intimi dei due filosofi) ma che investiva un po' tutte le
questioni. Su quelle più propriamente filosofiche non
è il caso di soffermarsi dopo quanto già detto a
proposito delle Revisioni idealistiche del 1933 e di Filosofi del
Novecento, e di quanto si dirà a proposito de Ilritorno alla
ragione. Su quelle più latamente culturali offrono una serie
di elementi i consigli e i giudizi editoriali che in questo periodo
il D. era spesso fichiesto di dare o dava direttamente a Giovanni
Laterza. Molto spesso in sintonia con quelli di Croce, non erano
però neppure rari i casi di più o meno netta
differenziazione. Valgano come esempi la sua maggiore
disponibilità verso studi "scientifico-divulgativi e
d'intonazione un po' filosofica" assai diffusi all'estero e la cui
assenza considerava "una lacuna della nostra cultura", la sua
insistenza, non condivisa da Croce, per far tradurre Reconstruction
in philosophy di J. Dewey (che apparve nel 1931 con una sua
introduzione) e la sua, via via sempre più netta, propensione
per storici quali M. Rostovtzeff, S. de Madariaga e H. Pirenne (di
cui riuscì a far pubblicare Mahomet et Charlemagne e avrebbe
voluto fosse tradotta anche l'Histoire d'Europe). Sulle questioni
politiche, infine, se nella sostanza il suo antifascismo non era
diverso da quello di Croce e poteva apparire più
intransigente solo nella forma di certe sue reazioni (in occasione
della guerra d'Africa, per esempio, contrariamente a Croce,
rifiutò di dare il suo contributo alla raccolta dell'"oro per
la patria"), per il resto le vecchie differenziazioni degli anni
precedenti il suo riavvicinamento a Croce, dopo il passaggio di
questo all'opposizione, non erano certo scomparse, anche se egli
aveva messo loro la sordina. Tipico il caso dell'antigiolittismo che
il D. già nella Storia del liberalismo europeo aveva
ritenuto, date le circostanze, politicamente opportuno attenuare, ma
che rimaneva in lui ben saldo.
Salvo un durissimo articolo contro Gentile, La carriera di un
filosofo (Appunti per un brano di biografia), scritto, non a caso,
per la rivista di Carlo Rosselli Quaderni di "Giustizia e
Libertà", e da questa pubblicato nel marzo 1932, con lo
pseudonimo Ermoli, il D. non collaborò né alla stampa
clandestina né a quella dell'emigrazione, e non
partecipò a nessuna delle iniziative che l'antifascismo
democratico tentò di mettere in piedi in Italia con
scarsissimi risultati e pesanti salassi. Ruppe però
drasticamente i rapporti personali con quei suoi amici, anche a lui
molto cari, come Missiroli, che avevano aderito o ceduto al fascismo
e non accettò nessuna forma di collaborazione con istituzioni
collegate al regime, come l'Enciclopedia Italiana, alla quale,
invece, collaborarono altri antifascisti legati a Croce.
Per il D. il compito di un liberale, per di più impegnato
come lui nel lavoro intellettuale e nell'insegnamento, era - in
genere e a maggior ragione nella particolare situazione politica
italiana del tempo - quello di dedicare tutte le energie al proprio
lavoro in modo da poter influire sulla formazione culturale e morale
dei giovani, trasmettere loro i valori della libertà e,
attraverso la cultura, contrastare il campo al fascismo e, in
particolare, alla sua azione per fare di essi dei fascisti
integrali. In questa logica si spiega la sua accettazione, nel 1933,
del giuramento imposto dal regime ai professori universitari:
nonostante la repugnanza che tale atto suscitava in lui, finì
(come, del resto, suggeriva anche Croce) per piegarvisi, convinto
che la cosa più importante fosse non perdere il contatto
diretto con i giovani e non precludersi la possibilità di
influire sulla loro formazione culturale e morale. Lo stesso dicasi
per l'iscrizione al Partito nazionale fascista, alla quale si
piegò solo nel 1940, tra gli ultimi del gruppo crociano,
quando essa fu praticamente imposta a tutti gli ex combattenti.
Agli inizi del 1941, forse per reazione all'umiliazione subita,
forse per le speranze suscitate tra gli antifascisti dai gravissimi
scacchi inferti dalle forze armate greche a quelle italiane, il D.
decise di ripubblicare la Storia del liberalismo europeo, ormai
introvabile da anni. Nel febbraio Laterza chiese la necessaria
autorizzazione al ministero della Cultura popolare che la concesse
("Si tratta di un'opera che ha avuto, e seguita ad avere,
larghissima diffusione fra gli studiosi e italiani e stranieri;
meritatamente, perché è concepita con criteri
scientifici ineccepibili e condotta con acutezza d'indagine e di
considerazioni. È vero che l'esaltazione - implicita o
esplicita - di alcune posizioni dottrinarie ormai superate deve
essere accolta con ogni riserva; ma, dato che nel suo complesso
questa storia del Liberalismo è ritenuta pur sempre una delle
opere fondamentali della moderna cultura, sembra che se ne possa
autorizzare la ristampa"), sicché in luglio il volume fu
nuovamente in libreria. Per quasi un anno la cosa non suscitò
reazioni. Nell'estate del 1942 su Il Popolo d'Italia apparve
però un duro attacco al libro e al suo autore che indusse
Mussolini ad intervenire personalmente. Il ministro dell'Educazione
nazionale, G. Bottai, invitò allora il D. ad apportare, pena
la destituzione dall'insegnamento, modifiche ad alcune parti del
libro e, ottenuto un rifiuto, lo collocò a riposo.
È probabile che il provvedimento fosse in qualche modo legato
alle prime ancor vaghe informazioni raccolte dalla polizia sulla
attività antifascista che da qualche tempo si stava
organizzando a Bari attorno alla casa editrice Laterza e ad alcuni
intellettuali direttamente o indirettamente legati ad essa in varie
località della penisola (G. Calogero, A. Capitini, C. L.
Ragghianti, A. Omodeo, L. Russo). Ciò che è certo
è che il nome del D. appare sin dall'aprile 1942 nei
documenti di polizia relativi al "movimento liberal-socialista", che
la prima perquisizione della sua abitazione ebbe luogo il 12 aprile
e che un documento di quei giorni gli attribuiva la
paternità, con T. Fiore ed Omodeo, del programma del
movimento stesso. Certo è anche che a quell'epoca il D. era
in contatto con il costituendo Partito d'azione e in rapporto con R.
Mattioli per studiare la possibilità di dar vita ad una
rivista "culturale" della quale sarebbe dovuto essere uno degli
animatori principali con P. Pancrazi, U. Morra e L. Salvatorelli, in
pratica l'équipe che alla fine del 1944 avrebbe fatto La
Nuova Europa. Nonostante le notizie in possesso della polizia,
all'arresto del D. si arrivò solo l'11 giugno 1943, per la
leggerezza di un giovane collegato al gruppo antifascista barese.
Tradotto nel carcere di Bari, fu rimesso in libertà a seguito
del 25 luglio.
Fatto ritorno a Roma, in una intervista rilasciata il 31 luglio a
IlResto del carlino e da questo pubblicata il giorno dopo, il D. si
dichiarava non d'accordo con coloro che escludevano la
possibilità di collaborare col governo Badoglio: data la
gravità del momento era necessario non creare ostacoli al
nuovo governo e facilitarne l'opera e - primo in Italia - aggiunse
che era sperabile che "al più presto" fossero abrogate le
leggi razziali "che pesano in modo così inumano sull'Italia".
Coerentemente a questa posizione, qualche giorno dopo accettava di
reggere, in qualità di commissario, la Confederazione
professionisti ed artisti (una decisione questa che molti nel
Partito d'azione non approvarono) e la nomina a rettore
dell'università di Roma. Sicché a maggior ragione,
sopravvenuto l'8 settembre, dovette nascondersi per sfuggire ai
fascisti e trovò rifugio (grazie all'interessamento di mons.
P. Barbieri) nel palazzo extraterritoriale delle Congregazioni,
riuscendo per altro a non interrompere completamente i contatti con
gli amici del suo partito.
Liberata nel giugno 1944 Roma, riprese subito l'attività
politica con tale impegno da essere definito da Mussolini nella
Corrispondenza repubblicana del 6 ott. 1944 il "turpe de Ruggiero".
Per comprendere l'attività politica e in genere la posizione
del D. dopo la liberazione di Roma è opportuno tener ben
presente che tra il 1944 e il 1946 egli ebbe più volte
occasione di scrivere e di parlare della propria partecipazione alla
vita politica di quegli anni come di una parentesi nella propria
attività di studioso (nell'avvertenza premessa a Ilritorno
alla ragione, scritta nel marzo 1946, si legge: "La nostalgia degli
studi mi richiama con insistenza sempre maggiore ai miei lavori
interrotti, dai quali mi ha temporaneamente distolto la
necessità di svolgere un'attività pratica in servizio
del paese, in un momento difficile di transizione. Penso che,
ritornando agli studi, continuero a servire il paese nel modo
più appropriato alle mie attitudini e alla mia vocazione");
una parentesi alla quale il suo senso di responsabilità gli
impediva di sottrarsi, ma che egli non vedeva l'ora finisse. E
ciò ancor di più quando ben presto la nuova
realtà politica gli apparve assai diversa da quella auspicata
dal suo liberalismo e, quindi, più necessario lavorare per
una educazione politica che fare politica in senso proprio. Il che
per altro non deve indurre a considerarlo una sorta di utopista per
un verso deluso e per un altro sicuro che le idee camminino da sole,
ché, al contrario, come giustamente affermò nel 1963
F. Lombardi, se il D. non era un politico, era però "il
più politico dei nostri filosofi che abbiano fatto politica".
Il 18 giugno 1944, su indicazione del Partito d'azione, fu nominato
ministro della Pubblica Istruzione del governo Bonomi, la cui sede,
per volontà degli Alleati, fu in un primo momento a Salerno.
Succeduto ad Omodeo, che aveva retto nel secondo gabinetto Badoglio
il ministero nei mesi immediatamente precedenti con criteri assai
spesso irrealistici, suscitando reazioni e diffusi malumori tra i
docenti, gli studenti e le loro famiglie, il D. si trovò a
dover fronteggiare una situazione difficilissima e resa
vieppiù grave dalle interferenze e dall'inesperienza degli
Alleati, dalle pastoie della burocrazia (specie del ministero del
Tesoro), dalla sottovalutazione dei problemi dell'istruzione che,
sotto il quotidiano drammatico incalzare di tanti altri problemi,
mostrava il governo, dalle smanie di chi avrebbe voluto procedere
subito a una radicale riforma degli ordinamenti scolastici e,
infine, da alcune sgradevoli querelles più o meno personali
(caso Buonaiuti, accuse rivoltegli da Omodeo di considerare irriti e
nulli i decreti e le disposizioni da lui presi o promossi, ecc.) che
denotavano solo assenza di realismo politico e di tempismo.
In questa situazione (a proposito della quale si vedano
Un'esperienza personale di governo, in L'Italia libera del 23 genn.
1945, e il più analitico Esperienze di un ministro, in Idea,
genn. febbr. 1945) la sua politica fu quella esposta in una
circolare del 30 giugno ai rettori, provveditori, insegnanti ed
alunni di ogni ordine e grado: "Tutto quello che si può e si
deve ragionevolmente fare in questi primi tempi di riassestamento
è lavorare strenuamente perché la scuola ricominci a
funzionare, evitando di compiere qualunque atto che comunque
pregiudichi l'organica ricostruzione di domani. Riattrezzare gli
edifici scolastici, curare la revisione e la ristampa di alcuni
libri di testo più essenziali (in particolare modo i manuali
di storia e i testi per le scuole elementari), semplificare e
coordinare la pletorica legislazione del fascismo e annullare alcune
delle storture più gravi (specialmente per ciò che
concerne la scuola media unica), ripristinare gradatamente
l'interrotta tradizione di serietà e di decoro in tutta la
vita della scuola, ecco una materia di lavoro più che
sufficiente a questo periodo di attività ministeriale.
Ciò non vuol dire che non si possa parlare di sostanziali
riforme, ma bisogna parlarne come di oggetto di meditazione e di
studio, a cui tutti coloro che si interessano della scuola debbono
rivolgere le loro menti. Io sarò pago se, nei prossimi mesi,
mentre compiremo il lavoro più urgente di puntellamento e di
adattamento dell'edificio scolastico, potremo, insieme con tutti i
sinceri amici della scuola, preparare i piani della ricostruzione
futura, per poterli presentare già elaborati al nuovo
Parlamento che dovrà in ultima istanza discuterli ed
attuarli. Noi dovremo preparare la Costituente della scuola che
avrà per l'avvenire del paese una importanza non minore di
quella che si sta preparando per le altre istituzioni fondamentali
dello Stato. Come primo orientamento di questo lavoro, bisogna fin
d'ora aver presente che, dalle infinite rovine prodotte dal fascismo
e dalla guerra, due cose cominciano ad emergere, ancora integre o
più prontamente reintegrabili: la tradizione secolare della
cultura e le forze del lavoro. Queste due parti del patrimonio
nazionale sono state finora troppo dissociate l'una dall'altra,
cosicché la cultura talvolta ha degenerato in generico
accademismo ed il lavoro si è poco elevato dal livello della
bruta forza fisica. Bisognerà integrare l'una con l'altra, in
modo che la cultura diventi attività formativa e insieme
forza specificatrice e qualificatrice del lavoro".
Data la difficoltà della situazione e la brevità della
sua permanenza al ministero, i risultati conseguiti furono
però tutto sommato modesti e ancor minori furono le
soddisfazioni derivanti dal suo lavoro; sicché, sopravvenuta
ai primi di dicembre dello stesso anno la crisi del governo, il D.
fu ben lieto che la non partecipazione degli azionisti al successivo
lo liberasse dagli impegni governativi e gli permettesse. per un
verso, di cominciare a tornare ai suoi studi e, per un altro verso,
di dedicarsi ad altre forme di impegno più congeniali al suo
modo di intendere la politica. In quanto ex ministro, l'anno
successivo sarebbe stato nominato membro della Consulta nazionale.
Come scrisse sul Corriere d'informazione il 21 febbr. 1946
(Impressioni di un consultore), l'esperienza tratta dalla
partecipazione a questa istituzione avrebbe però suscitato in
lui più pessimismo e preoccupazioni che speranze circa la
strada sulla quale si stava avviando la democrazia italiana. Un
"senso di irrealtà" gli parve caratterizzasse buona parte dei
lavori della Consulta: la tendenza dei partiti "a diventare
aggruppamenti d'interessi economici e sociali, a cui manca quella
"generalità" che è il vero tratto distintivo della
politica", e a ridurre questa a transazioni, e il "conformismo" da
essi imposto ai loro rappresentanti, minacciavano di ridurre questi
a marionette e di privare il Parlamento di ogni vitalità e
della sua precipua funzione di istanza suprema ispirata
all'interesse dell'intera comunità.
Lasciato il governo, il D. si dedicò, per un verso, a quella
che definiva "l'internazionale della cultura", al ristabilimento
cioè dei rapporti culturali tra l'Italia e gli altri paesi,
da quelli dell'America latina (dove fece due lunghi viaggi nel 1946
e nel 1948), all'URSS, alla Svizzera, e all'attività di
organismi internazionali quali l'Unesco e il Pen Club; per un altro
verso al nascente movimento federalista europeo; per un altro verso
ancora a una serie di iniziative che si ricollegavano a questi
ideali, quale, per esempio, il Corpo nazionale giovani esploratori
italiani. L'impegno maggiore lo riservò però al
settimanale politico-culturale La Nuova Europa (che si
pubblicò dal 10 dic. 1944 al 17 marzo 1946) di cui fu con L.
Salvatorelli (che ne era il direttore), M. Vinciguerra e U. Morra
uno dei collaboratori più significativi ed assidui,
contribuendo a farne l'espressione della migliore cultura
liberaldemocratica di quegli anni e, al tempo stesso, della "difesa
ideologica e culturale di una impostazione democratica avanzata,
moderna, rispetto al tentativo di fare del Partito d'azione un
partito a qualificazione socialista" (La Malfa). A livello
quotidiano collaborò poi al Corriere d'informazione-Corriere
della sera (luglio 1945-ottobre 1948), a IlMessaggero (molto
saltuariamente nel 1947-48), al Corriere di Milano (ottobre
1947-giugno 1948), a La Stampa (agosto-ottobre 1948) e, per quel che
riguarda la stampa di partito, a L'Italia libera (con pochissimi
articoli nel 1945) e a IlMondo (dicembre 1945-gennaio 1946) sul
quale videro la luce alcuni dei suoi articoli politicamente
più significativi.
Fu comunque su La Nuova Europa che il D. trattò quelli che
considerava i problemi di fondo del momento, dando alla sua
collaborazione al settimanale il carattere di un discorso unitario
di cui i vari temi affrontati, fossero essi filosofici, storici, di
teoria politica ovvero legati talvolta alle vicende politiche
nazionali ed internazionali del momento, costituivano né
più né meno che scansioni logiche. Tant'è che i
più significativi articoli apparsi su La Nuova Europa da lui
raccolti in volume avrebbero dato vita a Il ritorno alla ragione, a
un'opera cioè fortemente unitaria e che, non a torto, egli
considerava "un riesame critico, a venti anni di distanza e a
contatto di nuove, cruciali esperienze, dei giudizi politici
contenuti nella mia Storia del liberalismo europeo".
Tra i temi trattati su La Nuova Europa e presenti anche ne Ilritorno
alla ragione, due sono agli effetti della biografia intellettuale
del D. particolarmente importanti: quello concernente i limiti dello
storicismo crociano e quello, solo apparentemente più legato
all'attualità politica, concernente la natura non liberale
del liberal-socialismo.
Ridotta all'osso, la critica che il D. muoveva allo storicismo e a
quello crociano in particolare (e, per estensione, alla
"mentalità storicistica" e alle sue conseguenze rispetto al
comportamento -la libertà - dell'individuo e, dunque, alla
politica) era che la visione storicistica sarebbe "troppo
retrospettiva": "essa conclude una fase della realtà storica,
ma non ne apre una nuova; perciò essa sacrifica alla storia
fatta la storia da fare", cioè l'azione, "la nuova storia".
Da qui l'esigenza di protendersi "al di là dello storicismo",
pur senza rinnegarlo tout court, ma, anzi, salvandone le conquiste,
consapevoli però che esso è stato il prodotto di un
mondo che sta ormai sgretolandosi e che, quindi, non può
più soddisfare completamente l'esigenza di valori, norme,
ideali che assilla l'uomo moderno. E di farlo fondendo "in un getto
la ragione storica e la ragione metastorica", lo storicismo con
l'eredità illuministica di una ragione ideale "dove tutto
ciò che nello spirito vi è di eterno trova il suo
rifugio e la sua meta, donde il fuggevole divenire si giudica e si
misura con senso di distanza e con capacità di dominio,
perché non si è travolti nel suo gorgo".
L'articolazione di questo discorso, continuamente in movimento tra i
piani della filosofia, della morale e della politica, ha offerto
molteplici occasioni di contestazione (il primo dei critici fu lo
stesso Croce con una lunga lettera-risposta pubblicata da La Nuova
Europa l'11 febbr. 1945) e, morto il D., ha contribuito a stendere
sul discorso stesso il velo del silenzio o del rifiuto più o
meno esplicito per "scarsa consistenza filosofica". P, significativo
che, salvo C. Antoni, quasi nessuno abbia rilevato il filo, sottile
ma robusto, che collega i saggi raccolti ne Ilritorno alla ragione
all'ultimo volume della Storia della filosofia, lo Hegel, che il D.
dette alle stampe nel 1948, poco prima di morire, dove la difesa e
la critica di Hegel muovono dalla stessa esigenza profonda che muove
la difesa e la critica dello storicismo di qualche anno prima: "la
fede nell'efficacia pratica del pensiero" che è stata "il
principio animatore della personalità di de Ruggiero" e che
"spiega l'intera sua evoluzione intellettuale ed anche i suoi
atteggiamenti politici" (Antoni). In realtà, se il discorso
del D., volendosi mantenere all'interno dell'idealismo e (volendo
evitare la soluzione attualistica per gli sviluppi che con Gentile
questa aveva avuto sul terreno politico) dello storicismo crociano,
risulta sul piano strettamente filosofico uno sforzo più
abbozzato che realizzato di superamento dell'impasse dell'idealismo
stesso, è però un fatto che esso, per un verso, ha
costituito l'unico tentativo in questo senso venuto dall'interno
dell'idealismo italiano e, per un altro verso, ha anticipato una
serie di problemi che sono stati poi al centro del dibattito
filosofico internazionale. E li ha anticipati con una
sensibilità alla quale concorreva certo in misura rilevante
la particolare formazione ed evoluzione del pensiero deruggieriano
nei decenni precedenti, ma contribuiva anche la sua particolare
capacità di cogliere e in qualche caso di anticipare - in un
momento di generale ottimismo quale fu quello immediatamente
successivo alla fine della seconda guerra mondiale - la
gravità e i rischi della nuova realtà che questa aveva
determinato e le sue conseguenze esistenziali, culturali e
politiche, tutte, quale più quale meno, sfavorevoli allo
sviluppo della libertà individuale e collettiva. Il che, tra
l'altro, spiega l'estrema durezza del giudizio che, suppergiù
nello stesso periodo, egli riservò all'esistenzialismo,
filosofia della crisi si, ma che dava alla crisi una soluzione
nihilistica, nella quale l'esistenza ha sempre la meglio sulla
ragione ed è privata dall'angoscia per la morte di ogni
stimolo all'azione anticipatrice della libertà. Tutto il
contrario cioè di ciò che sul piano etico pensava il
D.: "Vi sono... periodi di crisi, di trapasso, in cui viviamo nello
scontento e nell'indecisione, tra una vecchia routine che più
non ci appaga o che addirittura ci ripugna, e una prospettiva nuova
che non ci offre ancora una solida presa. Sono i periodi in cui
è ingrato vivere a coloro che non hanno la forza di scegliere
e la capacità di prevedere, e che, amando lasciarsi condurre
passivamente da altri, non trovano più le consuete guide
sicure e vagano incerti e smarriti. Ma sono questi anche i periodi
in cui è più degno vivere, per coloro che vogliono
vivere da uomini, cioè da artefici del proprio avvenire".
Anche l'altro discorso da lui svolto su La Nuova Europa e pure
presente ne Ilritorno alla ragione, quello sulla natura non liberale
del liberal-socialismo, affondava le radici lontano nel tempo. Si
ricollegava infatti a quanto già scritto nella Storia del
liberalismo europeo e, ancor prima, in numerosi articoli del primo
dopoguerra sulla democrazia e il socialismo, sul liberalismo e i
liberali italiani, sul contenuto politico nuovo che era necessario
dare - allora e a maggior ragione ora - al liberalismo, sulla sua
capacità di realizzare, meglio e più compiutamente
degli altri indirizzi politici, quanto di moderno, di progressivo,
di liberale questi perseguivano, ma non erano in grado di realizzare
che a scapito o, almeno, a rischio della libertà. In questo
contesto è evidente che non si può ridurre la polemica
contro il liberal-socialismo ad una mera operazione politico
partitica, anche se sarebbe assurdo negare che la scelta del momento
per pubblicare l'articolo centrale di essa (il 6 maggio 1945, quando
ormai le posizioni all'interno del Partito d'azione andavano
delineandosi chiaramente e con esse la contrapposizione tra l'anima
liberaldemocratica e quella socialista) sia stata meramente casuale.
Negando al liberal-socialismo l'appartenenza all'indirizzo liberale
("Nel liberal-socialismo l'accento batte sul secondo termine. E il
socialismo non è un nome che possa prendersi in un
significato vario e generico ... L'aggettivo liberale apposto ad
esso non può sostanzialmente modificarlo, ma solo introdurre
in esso una qualifica più determinata. In realtà il
liberal-socialista è un socialista che, per effetto delle
esperienze degli ultimi tempi e della dura coazione esercitata a suo
danno da un regime dittatoriale, vuol giungere alla realizzazione
del suo programma salvando, per quanto è possibile, la
libertà individuale. Che questo proposito implichi
un'attenuazione dei presupposti dittatoriali della sua dottrina
è innegabile, ed è anche possibile che esso esiga una
revisione dell'originario classismo; ma ciò non toglie che
resti intatta la struttura fondamentale del suo pensiero e che
l'esigenza della libertà sia in qualche modo secondaria"), il
D. voleva però soprattutto ribadire la sua concezione del
liberalismo e la sua convinzione che solo esso fosse in grado di
assicurare e garantire tutte le libertà, non solo quelle
cosidette negative. Da qui il suo contrapporre al liberal-socialismo
il liberalismo sociale, un liberalismo cioè che, senza
ricorrere ad un principio di socialità non suo, svolgesse "in
tutta la sua estensione il principio stesso della libertà"
per promuovere la libertà concreta ed effettiva di tutti e in
tutti i campi: "l'esigenza, profondamente sentita, di un
rinnovamento sociale che spezzi il monopolio dei vecchi ceti
parassitari e dei nuovi ceti plutocratici che usurpano una parte
notevole della ricchezza comune; la necessità di una
trasformazione strutturale dello Stato, che adegui questo organo
alla nuova funzione politica e sociale: tutto ciò può
trovare appagamento in un rinnovato liberalismo".
In un primo momento il D. aveva creduto che il rinnovato
liberalismo, piuttosto che nel Partito liberale, ancora largamente
condizionato da una mentalità moderata (della cui
sopravvivenza Croce era largamente responsabile, dato che il suo
storicismo "troppo retrospettivo" non gli permetteva la percezione
del bisogno di rinnovamento che saliva dalla società) potesse
trovare nel Partito d'azione la sede adatta a svilupparsi. In
realtà dovette presto ricredersi. Da qui, prima, il suo
concentrare pressoché tutte le proprie energie nella
battaglia politico-culturale sulle pagine de La Nuova Europa; poi,
quando al congresso di Roma del febbraio 1946 (a cui prese parte
assai attiva) prevalsero le tendenze che volevano fare del partito
una sorta di terzo partito socialista, la sua decisione di uscirne e
di dar vita, con F. Parri, U. La Malfa e altri ex azionisti, al
Movimento della democrazia repubblicana (più noto col nome di
Concentrazione democratico-repubblicana con cui si presentò
alle elezioni del successivo giugno), di cui illustrò il
manifesto programmatico su La Nuova Europa del 3 marzo 1946 e per il
quale si candidò alle elezioni politiche del giugno 1946 in
Campania (si veda a quest'ultimo proposito Ungiro elettorale nel
Mercurio del marzo-aprile 1946). Dopo l'insuccesso elettorale della
Concentrazione e il successivo scioglimento del Movimento della
democrazia repubblicana, si iscrisse al Partito repubblicano.
più per solidarietà però con alcuni amici che
fecero la stessa scelta che con l'intenzione di continuare a
svolgere attività politica (nel 1948 rifiutò l'offerta
di essere portato candidato).
Dal 1946 il D. (che nel 1944 era stato nominato socio nazionale
dell'Accademia dei Lincei) si dedicò essenzialmente agli
studi, all'insegnamento (alla fine del 1946 passò dalla
cattedra di storia della filosofia del magistero a quella della
facoltà di lettere e filosofia) e alle funzioni derivanti
dalla sua appartenenza (dal gennaio 1945) al Consiglio superiore
della Pubblica Istruzione, di cui era vicepresidente. In
quest'ultima veste, passato nel luglio 1946 il ministero della
Pubblica Istruzione alla Democrazia cristiana, ebbe con il nuovo
ministro, G. Gonella, scontri via via più duri che
culminarono nell'aprile 1947 nelle sue dimissioni dal Consiglio
superiore stesso (alle quali si associarono G. Colonnetti, P.
Calamandrei, A.C. Jemolo e C. Marchesi). Causa delle dimissioni fu
la procedura seguita dal ministero per convalidare. contro il parere
del Consiglio superiore, la gran parte delle nomine a professore
universitario "per alta fama" fatte in periodo fascista. Nelle
successive elezioni per il Consiglio superiore, tenutesi nel
febbraio 1948, già in pieno clima di riscossa clericale,
né il D. né gli altri membri del precedente Consiglio
superiore che con lui si erano dimessi furono rieletti.
L'offensiva clericale e gli attacchi alla cultura laica che
caratterizzarono i mesi a cavallo delle elezioni del 18 apr. 1948
spinsero il D. a dare la propria adesione all'Alleanza della
cultura, senza però che ciò lo portasse ad avvicinarsi
ai comunisti (che sin dall'inizio controllarono largamente
l'iniziativa) o ad attenuare il suo rifiuto del marxismo, che rimase
sempre per lui una sorta di religione i cui dogini (determinismo
economico, lotta di classe, materialismo storico) considerava senza
validità e una delle maggiori e più nefaste cause
della "corsa delle formazioni politiche verso le polarizzazioni
estreme".
Morì improvvisamente a Roma il 29 dic. 1948 a seguito di un
attacco cardiaco.