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RENATO FUCINI
ALL'ARIA APERTA
SCENE E MACCHIETTE DELLA CAMPAGNA TOSCANA
R. BEMPORAD & FIGLIO, FIRENZE, 1897
INDICE
La fonte di Pietrarsa
Il battello
L'eredità di Vermutte
Non mai, non mai!
Temperamenti sani
Il monumento
Menico
La giacchetta rivoltata
Il professore
Pelliccia
Questioni d'interessi
La strega
Tipi che spariscono
La giovenca rossa
La visita del Prefetto
LA FONTE DI PIETRARSA
__________________
Lo riconobbi da lontano. Lo riconobbi dal suo cavallino bianco.
tanto fido e trottatore, e dall'arsenale di pertiche, di biffe e di
altri arnesi del mestiere che lui, ingegnere del Comune, si
affastellava sul barroccino tutte le volte che aveva da battere la
campagna per affari della sua professione.
Quando mi fu vicino gli feci un cenno con la mano, e lui
rallentò il trotto e si fermò per il saluto e per la
chiacchierata indispensabile quando due persone di conoscenza
s'incontrano su per i monti, in mezzo ai boschi e in luoghi
solitari.
- Lei torna dalla strada nuova dell'Acquaviva !
- No. Vengo da Pietrarsa dove mi son trattenuto due giorni per
quella benedetta fonte....
- Ah, a proposito! Siamo ancora a nulla?
- Sì; finalmente è tutto sistemato: livellazioni,
espropriazioni, permesso della Provincia.... è fatto tutto;
ho sfilato i fondamenti, ho dato gli ordini all'accollatario, e
lunedì, salvo che ce lo impedisca la stagione, si mette mano
al lavoro.
- E lei, ingegnere, ci crede proprio! Crede proprio sul serio che la
fontana sarà fatta?
- Per bacco! Che impedimenti vuole che saltino fuori al punto nel
quale siamo?
- Si vede che lei, caro ingegnere, mi scusi, veh! si vede che lei
non conosce ancora bene che panni vestono i buoni villici di questi
poggi remoti.
- Ma, abbia pazienza, cotesto è un pessimismo....
- Ebbe'; oggi siamo agli otto di marzo. Scommettiamo che fra un anno
il primo mattone della fontana non è stato ancora
murato.
- Le rubo la scommessa; ma scommetto.
- Che cosa scommettiamo!
- Una bella pipa di radica di scopa.
- Va bene; va bene la pipa di scopa.
- Il dì otto di marzo.
- Il dì otto di marzo. Siamo d'accordo; ma è una pipa
rubata.
- Sarà quel che sarà. Dì otto di marzo.
- Pipa di radica. -
E stipulammo il contratto con una risata e una stretta di mano.
- E lei si trattiene molto quassù?
- No; forse un paio di giorni. Giovedì sera sarò di
ritorno a casa. Anzi, ingegnere, lei potrebbe farmi un gran favore.
Se stasera vede il mio fratello, mi faccia il piacere di dirgli che
quella ricevuta, che ho cercato tanto stamani prima di partire, la
troverà di certo sotto a quel libro giallo nella cassetta a
destra della scrivania.
- Lei sarà servito puntualmente. Dunque ?....
- Il dì otto di marzo!
- Il dì otto di marzo! A rivederci, e buona passeggiata.
- Salute, ingegnere. E si ricordi di quella ricevuta, e....
- E della pipa di radica! -
Dette in un gran ridere e riprese la corsa, a martinicca serrata,
giù per la china tortuosa.
Allontanatosi il rumore delle ruote e il cigolìo della
martinicca, cominciai a sentire lo scroscio d'una cascata d'acqua
lontana. Era il famoso sbocco d'una quantità di polle
ricchissime, le quali, venendo dall'alto dei poggi e scorrendo quasi
alla superficie sotto il paese di Pietrarsa, facevano tutte capo in
quel punto, pochi metri sotto la via, e, con un largo gètto,
di lì si scaricavano sonore nel sottoposto torrente.
Lo sbocco di quelle acque era inaccessibile; il paese soffriva la
sete, e il Comune deliberò, fai fai, l'allacciamento delle
vene superiori e la costruzione della fontana.
La deliberazione era stata accolta con suono di campane, musica e
sbandierate per tutto il giorno, e gran baldoria di lumi e di
fiammate, la sera.
Non c'è dubbio, pensavo; non manca altro che metter mano ai
lavori. Ma fra un anno, caro ingegnere, voi pagherete, e io
fumerò alla vostra bella pipa di radica di scopa.
Il paese di Pietrarsa, un piccolo borgo con quattrocento abitanti
circa, si stende tutto lungo la via provinciale, senza alcuna strada
traversa. Di sopra, il monte ripido; di sotto, il precipizio in
fondo al quale va a frangersi la cascata. Il paesello ha tre punti
che chiameremo centrali: a un capo la chiesa, all'altro un
piazzaletto dove trovasi l'unico albergo e le rimesse della posta;
nel centro il palazzotto comunale, un caffè e le botteghe
più importanti.
Naturalmente fu scelto il mezzo del paese come più comodo a
tutti, e lì, un rientro di muro accanto al palazzo
comunale, facilitava i lavori e si prestava ad accogliere con
decoro la fontana che, con fregi barocchi e ceffi di leoni
spaventosi, aveva ideato e disegnato il mio ingegnere della pipa.
Dopo un'ora di cammino, arrivato a Pietrarsa quasi a buio, mi
accorsi subito che gli eventi precipitavano e che gli affari
andavano assai peggio di quello che avrei potuto supporre. Gli usci,
le finestre e tutte le botteghe del centro erano chiuse; e un
grosso assembramento di persone, armate di quei picchetti, di quelle
biffe e di quei pali che l'ingegnere aveva piantati la mattina, dopo
chi sa quante fatiche e pentimenti, urlavano sotto le finestre del
sindaco.
Erano gli abitanti dei due punti estremi del paese i quali, alleati
per l'occasione, protestavano di non volere la fonte nel centro. E i
più violenti, brandendo alti i pali e le biffe, minacciavano
legnate, morte e distruzione a chi si fosse azzardato di murare
anche una pietra sola nel rientro di miro accanto al palazzo
comunale. Le donne e i ragazzi erano i più feroci.
Il sindaco si provò tre volte a persuaderli dalla finestra;
ma la sua voce fu soffocata sotto un uragano di urli, finchè
non ebbe promesso di sospendere l'incominciamento dei lavori e di
scrivere alla Prefettura.
La mattina dopo, tutto era ritornato nella calma; tutti avevano
ripreso le loro faccende, e soltanto l'accollatario della fonte
girava stralunato per il paese, con una gran pèsca in un
occhio prodotta da una legnata ammollatagli, non sa nè anche
lui chi ringraziare, quando jersera, in quel trambusto, si
trovò a dire la sua.
In fin dei conti, considerata bene la cosa, i protestanti non
avevano torto. Sempre ogni cosa per comodo dei signori! La fontana
nel mezzo, eh! perchè nel mezzo ci sta il sindaco, tre
assessori e quel porcone del sor Girolamo! Bene, eh? Tutti i
lampioni gli hanno a cavare di cima e di fondo, e piantarli tutti
davanti alla spezieria! Hanno a lastricare solamente lì, se
voglion far bene! Non gli basta il vino, e vorrebbero anche l'acqua!
La fonte lì, il telegrafo lì, la farmacia lì,
la balia l'hanno voluta lì, e lì ci avrebbero a
portare anche un serpente che s'avventasse a mangiargli il core a
tutti quanti sono! Legnate! schioppettate! veleno!... E noi poveri
si creperà. E la chiesa non conta nulla? E il povero
Gambacciani, che ha da lavare le diligenze tutti i giorni e ha tre
gubbie di muli nella stalla, dovrebbe andare fin laggiù a
pigliar l'acqua?! Ma il sindaco è un galantuomo, e lui,
vedrete, accomoderà ogni cosa. Speriamo!
Questi, press'a poco, i discorsi nel caffè e dal tabaccaio;
ma, alla peggio, in capo a due giorni, tutti si abbonacciarono, e,
quando me ne venni per tornare a casa, nessuno si sarebbe accorto
che poche ore avanti s'era scatenata in paese quella po' po' di
tempesta.
Intanto l'acqua della sorgente che si scaricava impetuosa giù
nella profondità del dirupo, scrosciava con tanto rumore da
dare perfino noia alla figliola del signor Girolamo, la quale da due
mesi, Dio glielo perdoni, studiava al pianoforte il valtzer della
Traviata per un'accademia a benefizio degli Ospizj marini.
Quando fui a metà di strada per tornarmene a casa, incontrai
l'ingegnere il quale, facendo sfegatare il suo povero cavallino su
per quelle salitacce, veniva verso Pietrarsa. Aveva un diavolo per
capello. Mi provai a rammentargli il dì otto di marzo e la
pipa di radica; ma non agguantò la conia. Mi salutò,
fece le viste di ridere e, scusandosi, tirò avanti per la sua
strada.
Passavano i mesi. E in quel tempo io vedevo spesso alla sfuggita
l'ingegnere, il quale, quando poteva farlo senza dar nell'occhio,
scantonava e mi scansava come un creditore molesto.
Intanto a Pietrarsa gli affari andavano di male in peggio. Il
Consiglio comunale deliberò, e la Prefettura approvò,
che la fontana fosse costruita sulla piazzetta delle rimesse,
riconoscendo quello il luogo più adatto per il comodo della
popolazione. Ma allora quelli del centro e della chiesa ripeterono
le solite scenate, e tutto fu nuovamente sospeso e accomodato con
una gran bastonatura all'accollatario, il quale questa volta si
dovè mettere a letto e uscirne dopo un mese per andare, tutto
fasciato, al debà.
Andai per curiosità alla prima seduta del tribunale, dove
trovai l'ingegnere chiamatovi come testimone; e allora non
potè nè scantonare nè scansarmi.
Era indemoniato. - Venti disegni, questi assassini! cento viaggi
m'avranno fatto fare questi malfattori! e nessuno paga gli
straordinari! M'hanno rovinato tutti gli strumenti, ho dovuto
vendere il mi' povero cavallino e son vivo per miracolo! Ma oggi mi
vendico! Ma oggi mi vendico, dovessi anche rimetterci la paga, la
reputazione e la pelle! Oggi mi vendico! -
Cercai di calmarlo, ma fu inutile. Smanacciando e sbatacchiandosi il
cappello nelle ginocchia, mi lasciò per entrare nella stanza
dei testimoni, dicendomi di sull'uscio: - Lei avrà la pipa;
ma con questa canaglia oggi mi vendico! -
Come si svolgesse il processo non lo so, perchè gli
affari m'impedirono di tenerci dietro; ma so che ci furono tre
condannati: Il sor Girolamo a quindici giorni di carcere per
ingiurie al pubblico dalla finestra; l'accollatario a quattro
settimane per eccesso di difesa, e l'ingegnere a trecento lire di
multa per contravvenzione alla legge sul bollo.
- Ma perchè, santo Dio! - osservò un ombrellaio
ambulante, chiacchierando una sera nel caffè, - perchè
non vi mettete d'accordo e costruite, invece d'una sola fontana
dispendiosa, tre modeste fontanelle nei tre punti contrastati del
paese ?! -
La fece bona! - Sperperare a quel modo i quattrini del pubblico
quando una fontana sola bastava! Eppoi perchè disonorare
Pietrarsa con tre indecenti pioli di sasso quando ci sono i mezzi
per averne una di marmo coi delfini, coi leoni e ogni cosa? Voi non
siete nativo di questi posti, e vi si compatisce. -
In quel momento, la cascata, presa da un'improvvisa onda di vento,
mandò uno strepito gaio come scoppio di risa d'una
moltitudine lontana.
Anche la seconda deliberazione del Comune andò, naturalmente,
all'aria; e dopo molti, molti mesi venne la terza. Venne,
cioè, quella buona, quella vera, quella definitiva per
conciliare gl'interessi di tutto il paese; una deliberazione giusta,
ponderata e distesa con mirabile chiarezza d'argomentazione ed
eleganza di forma dal consigliere Balestri; una deliberazione che,
riandando scrupolosamente la storia dei fatti, terminava inneggiando
alla concordia dei popoli e alla santa religione dei nostri padri.
Fu deliberato di costruire la fontana in faccia alla chiesa.
Prima che questa deliberazione tornasse al Comune col visto della
Prefettura, gli abitanti del centro e quelli della piazzetta delle
rimesse, s'erano già trovati d'accordo: - Se murano un
mattone davanti alla chiesa, segue un macello! -
La deliberazione tornò approvata; ma nessuno si fece
più vivo. Il Sindaco dette le dimissioni per procurarsi la
soddisfazione d'essere rieletto, e il Segretario fu lesto a mettere
tutte quelle carte in uno scaffale a dormire.
Dell'accollatario non se n'è saputo più nulla.
L'ingegnere ha da pensare alla sua famiglia dopo la multa che ha
dovuto pagare, e ha da imporsi privazioni d'ogni genere per
estinguere il debito di parecchie centinaia di lire, che gli
è toccato contrarre per accomodature e per acquisto di nuovi
strumenti.
Son passati due anni, e della pipa non si è più
parlato. Lui sta zitto; io non ho il cuore di rammentargliela.
Intanto il paese di Pietrarsa soffre la sete. Ma nelle sere
d'agosto, quando le fronde dormono raggrinzate sui rami, e le cicale
stesse tacciono spossate, è un gran conforto all'arsura lo
scroscio della cascata che larga e perenne, rumoreggiando si perde
nelle profondità del dirupo.
IL BATTELLO1
__________________
Dopo una nottata d'inferno, nevica sempre. I faggi, nudi e
stecchiti, agitandosi sotto la furia del vento, si frustano tra loro
con le cime, mandando uno strepito secco come di scheletri
combattenti nel buio per l'aria. Fra poco spunterà il giorno.
Lo dice quell'albore squallido che si affaccia laggiù in
fondo dalla parte di levante; ma che trista giornata si prepara per
i taciturni abitatori della montagna!
La scala del misero albergo risuona ai colpi d'un passo grave e
ferrato.
- O che volete andare in giro anche stamani, Battello, -
domandò dal letto la padrona.- Io dico che siete impazzato! -
- O che oggi non si mangia, Mariannina? Dio ci assista. Sempre
avanti, Savoia! -
E con questa risposta fra il desolato e il burlesco, il Battello,
curvo sotto il peso del suo grosso carico di mercanzia, si sbacchia
l'uscio dietro le spalle e via, nel buio, fra la neve che lo accieca
e il vento che lo tribola, frugandolo fino alla carne, attraverso
agli strappi della giacchetta sempre umida dalla pioggia dei giorni
passati.
- Donne, il Battello! - grida quel martire, passando vicino alle
prime casette affumicate. Nessuno risponde. Dormono. - Avanti,
avanti! - Sul far del giorno, la bufera rinforza e il freddo diventa
più acuto. Il Battello non se ne accorge. Anzi ha caldo, anzi
è sudato, e la fronte gli cola a goccia a goccia. - Avanti,
avanti! - La salita è di una asprezza diabolica; l'andare
è un pericolo, fra la neve sempre più alta e
insidiosa, su per quei dirupi e per quei viottoli tracciati dalle
pecore lungo gli orli delle forre profonde. Ecco un'altra casetta!
- Donne, il Battello.
- Ce n'avete salacche. Battello? - domanda una donna dallo spiraglio
d'una finestra.
- Sì; levate ora dal mare.
- O matasse di cotone?
- Anche quelle. Specialità della casa; prodotti di Parigi. -
Dopo un quarto d'ora il primo affare è fatto, e il Battello
riprende la via, tastandosi nelle tasche della giacchetta i tre
soldi e le due uova che ha guadagnato. Anche le uova! perchè
lui, dove i suoi clienti non abbiano da pagarlo con danari, si
adatta a far cambio della merce con polli, cacio, agnelli, castagne
e che so io. Ma le uova sono pericolose. La settimana passata,
rotolando in un burrone, se ne schiacciò addosso una dozzina,
e tutto il guadagno della giornata andò in fumo.
La luce del giorno è finalmente comparsa; una luce bianca e
diffusa come in una notte di luna. La neve è quasi cessata,
ma il vento si scatena più indemoniato che mai, e il freddo
si fa sempre più intenso. Dalla fronte del Battello cola
abbondante il sudore che, scorrendogli a gore per la faccia, si
rappiglia in gelo all'estremità della barba. - Avanti,
avanti! - La neve del terreno, che già arriva al ginocchio,
comincia a indurire. Fra poco, se il freddo aumenta ancora,
sarà capace di reggere alla superficie il peso del suo carico
e quello del suo carico di mercanzia. - Allora sarà un andare
da principi, - pensa rallegrandosi il Battello. - Dio ci assista!
Dio ci assista! Sempre avanti, Savoia! - Era il suo grido di guerra
favorito.
Ma quelle invocazioni si dispersero, non ascoltate, fra gli urli
della bufera che, dopo una breve sosta, incominciò a
turbinargli dintorno più minacciosa e più folta.
Girò tutto il giorno, facendo sentire ad ogni casa il suo
grido: - Donne, il Battello - che da ultimo pareva un lamento; cadde
più volte, rovesciando la merce del corbello; si
riposò sfinito a ridosso dei castagni spaccati; soddisfece la
fame con una coda d'aringa e si dissetò succhiando la neve. -
Donne, il Battello.... Donne, il Battello.... -
A notte fitta, la padrona del l'alberguccio dove era alloggiato il
Battello, e un gruppo dei suoi conoscenti, stavano seduti davanti al
fuoco, parlando impensieriti di lui e della sua famiglia lontana.
- Eccolo! - gridò a un tratto la padrona.
- È lui, è lui!
- Questa, sì, è la sua voce! - gridarono gli uomini.
Il Battello, appena rientrato nella via maestra e visto ormai
assicurato il suo ritorno, veniva avanti cantando un'ottava della
Gerusalemme.
Entrò acclamato nella cucina calda e piena di fumo, si
alleggerì del suo peso, e girandosi allegro intorno alla
fiamma, annunziò i buoni affari della giornata, dichiarando
che quella sera voleva fare scialo.
La padrona intese, e si mise subito all'opera. Lo scialo del
Battello voleva dire una farinata gialla col soffritto di porri, e
un'aringa intera sul treppiede.
L'EREDITÀ DI VERMUTTE
__________________
Col tempo freddo e piovoso che s'era messo, il Caffè del
Popolo quella sera era tanto pieno che, non essendoci posto per
tutti a sedere, molti bevevano ritti intorno ai tavolini o
passeggiando per la stanza. E, di fra la nebbia dei lumi a petrolio
che filavano e il fumo delle pipe gorgoglianti, si alzava nella
fuligginosa stamberga un tal diavoleto di risa e di voci squarciate
che anche le figliole di Terzilio, benchè si struggessero di
piantarsi lì dietro il banco a guardare e a sentire, eran
costrette a stare in cucina, accanto alla finestra aperta, per
salvar la modestia e per respirare.
A un tavolino, i giocatori di scopone discutevano sulle combinazioni
della partita con tali urli da parere che si volessero scannare. A
un altro, i cacciatori raccontavano le loro gesta con gran sinfonia
di fischi, di canizze dietro alla lepre, di frulli di starne e di
tonfi di schioppettate. E i cani accucciati sotto le tavole, destati
di sussulto e ingannati, qualche volta, dalla perfetta imitazione,
si mettevano ad abbaiare in coro e a piena orchestra, e in ultimo a
guaìre dalle pedate dei padroni perchè si chetassero.
A un'altra tavola, i puzzolenti e crudeli bracaloni, tenditori di
reti e di panie, si raccontavano, con un tono di voce più
dimesso, le loro prodezze della giornata, spincionando, zirlando,
chioccolando e moltiplicando ogni cosa almeno per cinque.
Dalla tavola di fondo venivano voci più umane e risate
più schiette. Era la tavola dei buontemponi di professione,
dei cacciatori per amore dell'arte e dei novellieri, i quali, tra un
frizzo e l'altro lanciato alle fanfaronate e alle bombe che
scoppiavano intorno, raccontavano aneddoti, scene e avventure della
loro vita di campagna.
Quella sera teneva cattedra Pippo del Mugelli.
- Di questa scenetta, per esempio - diceva Pippo - fui parte e
testimone l'altro giorno quando andai da Beppe di padule per quel
fieno delle forniture.
Era tanto che non mi era mosso per una passeggiata un po' lunga, che
mi venne voglia di farmela gamba gamba passando dalla scorciatoia
delle Fornaci, che era quasi nuova per me e decantata da tutti come
tanto bella. Arrivato a un borghetto di tre o quattro case, trovai
un vetturale che attaccava, e che subito mi domandò se volevo
imbarcare con lui.
- Dove vai?
- Vado in padule - mi rispose - a ripigliare due signori che ci ho
portato stamani. O lei?
- Vado per quelle parti anch'io.
- Allora - dice lui - monti su; mi dà da fumare un sigaro, e
ce lo meno io. -
Guardando gli arcioni tricuspidali della sua povera brenna
arrembata, e quella carega di bàgherre sfasciato, con un
mantice che pareva un centopelle, mi sentii la voglia di continuare
a piedi, ma.... montiamo !
In tempo che finiva di attaccare, mi raccontò un monte di
miserie della sua famiglia e del mestiere che non andava più
come una volta; mi disse che lui si chiamava Vermutte, e volle
sapere come mi chiamavo io, da qual paese venivo e che cosa andavo a
fare in padule. Quando ebbe saputo tutto, parve soddisfatto e,
siccome nell'armeggiare intorno ai finimenti, s'imbrogliava spesso e
doveva rifare il lavoro, ora per allungare una tirella e ora
perchè non avea passato una guida dagli anelli del sellino,
mi chiese scusa se mi faceva tanto aspettare, e mi disse che lo
compatissi fioichè quella sera aveva tanti pensieri per la
testa da levarlo di sentimento. Aveva infatti l'aspetto d'uomo molto
impensierito e non fece più parole dopo soddisfatta la prima
curiosità. Appena tutto fu all'ordine, saltò brusco a
cassetta e, giù! frustate da orbi alla sua ossuta carogna.
La via che si doveva percorrere era un continuo succedersi di brevi
spianate, di ripide salite e di scese maledette. Per Vermutte era
tutta pari. Pizzicotti da levare il pelo e via!
- Ah, no! caro Vermutte; quest'affare mi garba poco. Alle salite
devi rispettare il cavallo; alle scese, la nostra pelle. Se vuoi
trottare alla piana solamente, va bene; se no, scendo e me la faccio
a piedi come avevo ideato. -
Vermutte rimase mortificato, si voltò verso di me dal
seggiolino e, in aria compunta e con un gesto di desolazione, mi
disse:
- Lo crede, signor Filippo? stasera non so quello che mi fo.
- Che t'è accaduto?
- Lo conosceva lei il sor Augusto?
- Chi Augusto?
- Il sor Augusto!... il Fronzoni!... quello di que' be' cavalli....
che ha quella bella villa, con quel bel viale che c'è quella
bella torre con quella bella pineta....
- Fronzoni.... Fronzoni.... Ah! ho capito. Ebbe'?
- È morto stamattina alle sei!
- Pace all'anima sua.
- .... e stasera, dice.... dianzi è arrivato il notaio....
dice che stasera apriranno il testamento.
- Va benissimo. Ma che hai tu che fare col notaio, col testamento e
col Fronzoni?
- Sono un su' parente lontano, perchè....
- Eh, eh! Tanto faremo che c'intenderemo !....
- .... perchè.... capisce? una zia della su' sorella
bon'anima, quella tanto ricca che lasciò ogni cosa a lui,
sposò un cugino d'una nipote del fratello di Gianni di
Boldrino che è cognato....
- Bada, Vermutte, è inutile che tu seguiti, perchè
ora, anche se ti cheti, ho capito benissimo ogni cosa....
Sicchè sei partito povero, e c'è il caso.... o
Vermutte! c'è il caso che stasera, quando torni a casa tu sia
diventato....
- Ahu! ahu! - tonfi, urli, schiocchi, e giù, a rotta di
collo, per una scesa che faceva rizzare i capelli. Era uno sganascio
di legno, uno scatenìo di bubboli e di ruote, una grandine di
sassi che schizzavano frullando nei campi e nelle fosse, di qua e di
là dalla strada, e un palio di cani che ci rincorrevano
abbaiando, tutte le volte che la nostra tempesta passava davanti a
qualche casa.
- Vermutte, permio! - Era lo stesso che dire al muro.
- Ahu! ahu! Stasera, sor Filippo, deve pigliare una sbornia anche
lei!... Ahu! ahu!.... -
Per fortuna la scesa era breve e, come Dio volle, s'arrivò
sani e salvi in fondo. Riattaccava subito una salita aspra, e il
cavallo messe giudizio per Vermutte.
Dopo un mezzo miglio, però, avevo imparato, osservando, a
moderare tanto foco di passioni, a mia volontà. Vermutte si
abbandonava a quegl'impeti di entusiasmo tutte le volte che gli
facevo intravedere la possibilità che il Fronzoni, nel
testamento si fosse ricordato di lui; cadeva in uno stato di
prostrazione desolata quando lo facevo escire di speranza. Da questa
osservazione trassi profitto per garantirmi le costole e per fare il
comodo mio.
- Troppi, troppi questi parenti, caro Vermutte! Eppoi, da quello che
mi dici, c'è in casa quella nipote promessa sposa che con
voialtri ci se la dice poco.
- Sissignore!
- Gua', tutto può essere! Ma io, se fossi in te, caro
Vermutte, mi affiderei alle mie braccia, mi affiderei ai figlioli
che vengono su robusti e avvogliati di lavoro. Quella, caro
Vermutte, quella è la vera ricchezza, quella è la vera
farina di Dio, quella è la vera roba che i ladri non ce la
rubano e i bruciamenti non ce la consumano! -
Vermutte sospirava, le guide calavano fino in terra e il cavallo si
metteva al passo.
- Signor Filippo..., lei parla come un angiolo del cielo!
- Nulla, caro Vermutte. Ti ho detto la semplice verità, ti ho
detto quello che il cuore mi suggeriva, pensando alla tua famiglia e
al tuo stato.
- Oh, se tutti i signori fossero come lei! -
Arrivati in cima a quella pettata, si presentò un lungo
tratto di via pianeggiante.
Questa, pensai, si può fare benissimo al trotto..
- Con questo, intendiamoci bene, Vermutte, con questo non intendo
toglierti di speranza ed escludere la possibilità... -
Vermutte ripigliava fiato!
- In fin dei conti, ho sentito dire che questo signor Augusto era un
bon diavolo, religioso, caritatevole....
- Eh, questo sì; sissignore. -
Le guide erano ritornate su e la frusta cominciava già a far
per aria dei giri che puzzavano di caso sospetto. La strada è
buona - pensai dentro di me - ora bisogna correre.
- Allegri, Vermutte! Se il signor Augusto era quel galantuomo che
dici, non può aver dimenticato, in punto di morte, i suoi
parenti poveri....
- Sissignore, sissignore! - e faceva scuotere il legno,
ballonzolando sul seggiolino, e le prime frustate cominciavano a
pizzicare fitte gli ossi del cavallo che si buttava, traballando, in
carriera.
- Ma se stasera tu fossi diventato un signore?!...
- Maria santissima! Vergine delle misericordie ! Ahu! ahu! - E
giù un diluvio di bòtte col manico della frusta, sulle
costole di quel disgraziato animale, e: via, via, via! e
trapatà, trapatà, trapatà!
- Cinquantamila lire, stasera, Vermutte !
- Ahu! ahu! -
E anch'io urlavo per superare con la voce il fracasso della vettura:
- Cinquantamila lire! Che faresti stasera, Vermutte, se fosse vero?
- Bastono la moglie, brucio la casa e piglio una sbornia da olio
santo - e: via, via, via! e trapatà, trapatà,
trapatà....
La strada piana era vicina a terminare e cominciava subito la scesa,
quella scesaccia delle Fonte, dove c'è quella croce che ci
morì per una ribaltatura quell'armeggione del fattore
Spinelli.
- Adagio, Vermutte! ricordiamoci delle Forre. - Non mi sentiva
nemmeno. E allora serriamo le valvule.
- Sai, Vermutte, che cosa mi garba poco? A me.... chi lo sa? mi
garba poco quella serva vecchia, perchè, se è vero
quello che mi raccontavi dianzi, cotesta donna era diventata, pare,
da ultimo, padrona d'ogni cosa lei. E, con voialtri, cotesto
serpente, ci se la dice?
- Ci darebbe foco!
- Ohi, ohi, ohi! -
La frusta andò subito nel bocciòlo, le guide
ricominciarono a ciondolare, e il cavallo non intese a sordo. Anzi,
fatti pochi passi, ebbi a dire a Vermutte che lo toccasse; se no, si
fermava.
- E sai, amico mio, non c'è la peggio di quel genere di donne
lì!
- Si figuri se ci ho pensato anch'io!
- Ha parenti quella donna?
- Una conigliolaia.
- Male, caro Vermutte, male!
- Eh, non pensi che lo so.
- Tira in mezzo il cavallo e dagli un po' di martinicca.
- Ma che crede, signor Filippo, che sia un arnese da nulla
quell'accidente! Si figuri elle, prima prima, il povero sor Angusto,
per le ricordanze, ci mandava sempre un fiasco di vino e, a volte,
la schiacciata o il panforte, secondo se s'era di Pasqua o di
Natale. Appena entrata lei in quella casa, tutti zitti! Eppoi,
così ogni tanto, o arrivava le salsicce se avevano ammazzato
il maiale, o il paniere dell'uva se vendemmiavano la vigna; ora
quella cosa, ora quell'altra.... Insomma, bisogna dirlo
perchè è vero, quel pover omo non si fermava mai.
Arrivata in casa quella versiera, tutti morti! Ma se non gli mangia
il core Vermutte, non glielo mangia nessuno!... O sor Filippo; la
vede quella croce? Mi guardi bene in viso. Se stasera quando torno a
casa sento dire che a noi non ci ha lasciato nulla e che ha lasciato
anche venti lire sole a quella donna.... Signor Filippo, ho cinque
creature! Ho cinque creature che quest'inverno hanno patito anche la
fame!... Ma se quella donna la dovessi vedere riderci in faccia, a
ganasce piene e con quelle venti lire in mano.... Se tutta quella
grazia di Dio dovessi vederla andare a quella schiuma di canaglie
de' suoi parenti.... son cenciaioli arricchiti non si sa come.... Se
questo dovesse accadere.... Signor Filippo, lei dica subito:
Vermutte more in galera! Signor Filippo, quella lì è
una croce. -
E si levò il cappello. Capii che aveva fatto un giuramento.
Quell'atto, quel ricordo ai figlioli, quella risolutezza fredda, mi
levarono le burle dal capo e cominciai a guardare da un altro punto
di vista quel disgraziato.
- Tu non ammazzerai nessuno, Vermutte. Hai rammentato i tuoi
figlioli, e questo mi basta per assicurarmi.
- Signor Filippo....
- Mettiti in calma e ragioniamo.
- Signor Filippo, io faccio qualche pazzia.... lo sento, lo sento. -
La scesa era finita e si era entrati nella valle tutta piana come un
pallottolaio fino al padule. Di trottare non se ne parlò
più e lasciammo andare il cavallo lemme lemme come voleva.
Vermutte si accomodò raccolto a sedere, si abbottonò
il cappotto alzandosi il bavero spelacchiato perchè s'era
levato vento, e si piegò sul seggiolino, col capo fra le
mani. Dopo qualche minuto mi accorsi che piangeva.
- Su, su, Vermutte! È vergogna! Che diavolo! un uomo non deve
piangere! -
Cercavo di fargli coraggio; ma anch'io ero commosso, pensando alla
burrasca di passioni che si scatenava sotto alle toppe di quel
povero cappotto lacero e scolorito.
Avvoltolò le guide agli anelli del cruscotto, scese dal
seggiolino e, dopo aver dato un'occhiata sgomenta alla sua bestia
che grondava sudore:
- Che mi permette?
- Vieni, vieni - e venne a sedere accanto a me, sotto il mantice.
Era pallido, e torbido negli occhi. Stirò le braccia, si fece
crocchiare le noccole e sospirò, fissando la carcassa fumante
del suo tribolato cavallo, sul quale era assicurato lo scarso pane
della sua famiglia. Poi, continuando ad alta voce i suoi pensieri:
- Il servizio, per ora, me lo fa; ma è vecchio! Se mi more
questa bestia, sono all'elemosina. Ora, se non gli rincresce, lo
tengo al passo fino a quelle case laggiù. Che ha bisogno
d'arrivar presto?
- No, no. Anzi, ho piacere anch'io....
- Bisognava che lei signoria avesse visto il cavallo e il
bàgherre che avevo prima di questi! Non fo per dire
perchè era roba mia; ma quando Vermutte batteva le strade con
quell'attacco, anche le pariglie dei signori bisognava che tirassero
da parte, e la gente che lo riconoscevano dalla sonagliera,
s'affacciavano alle case con tanto d'occhi sgranati. M'è
toccato a disfarmi d'ogni cosa! m'è toccato fare un
baratto!... Figlio d'un cane! Mi chiappò che avevo l'acqua
alla gola; mi fece veder venti lire quando una lira mi sarebbe parsa
la manna del cielo, e m'appiccicò.... Basta:
m'appiccicò quella disgraziata carogna che regge l'anima co'
denti e questo vergognoso trabiccolo che sta ritto per miracolo a
forza di tinta e di spago. E, fin che dura. Dio ci aiuti.... Ladro
del mi' povero sangue! me l'appiccicò perchè avevo
bisogno! E lui lo sapeva come si campava a casa mia, lui lo sapeva!
E ora lui ha bell'e rivenduto ogni cosa e ci ha guadagnato sessanta
lire! E lui lo sapeva come m'andavano le cose! Signor Filippo....
quelle cinque creature, quella povera donna di su' madre e questa
ghigna di galeotto che gli sta davanti non s'è toccato pane
in tutto l'inverno! Farina gialla, acqua della fonte e una
salacca.... una salacca, signor Filippo... una salacca sola in sette
persone, la sera di Ceppo! -
E gli colavano fitte le lacrime giù per la barba arruffata.
- E quella donnaccia e que' ladri arricchiti de' su' parenti avranno
ogni cosa! E nessuno lo sa quello che si patisce! e nessuno ci vede,
e nessuno ci compiange perchè l'onore preme a tutti e si ha
vergogna di portare la nostra miseria a mostra per le vie. -
Vermutte canta - dice la gente - Vermutte è allegro; dunque
gli affari di Vermutte vanno bene. - Altro, se vanno bene! Se chi
dice a quella maniera mi potesse vedere nel core, cascherebbe in
terra di picchio dallo spavento. Debiti! E poi chi li
pagherà? L'affare delle vetture s'è ridotto a nulla
con tutto questo seminìo di diligenze, di tranvai e di
vapori. Avevo aperto una botteguccia di pentole, granate....
sa? un po' d'ogni cosa. Messero su la cooperativa, e m'è
toccato chiuderla. Signor Filippo, Dio mi vede nell'anima: quelle
creature che ho lasciato a casa e questo disgraziato che a sentirlo
discorrere pare che voglia ammazzare bestie e cristiani, da jersera
alle sette, ch'i' possa sprofondare se non è vero, siamo con
una libbra di pane in tutti! Da jersera alle sette, sor Filippo; e
ora, se non giudico male dal sole, si deve andar verso le tre e
mezzo o giù di lì.
- Sono le tre e venti.
- Glielo dicevo! -
Io lo guardavo senza fiatare, pensando a un visibilio di tristissime
cose. Anche Vermutte si chiuse nel suo dolore e continuammo in
silenzio la strada. A un tratto fummo scossi da una voce che gridava
dietro di noi. Ci voltammo e si vide un ragazzo in lontananza, che
correva facendoci segnali che si aspettasse,
- Toh! - disse Vermutte - è il mi' ragazzo maggiore. O
questa?
- O babbooo.... - gridava scalmanato il ragazzo, da lontano.
- Che volevi?
- Tornate subito indietro.
- Che è stato?
- Dice mi' madre che vi cercano a casa del sor Augusto,... Dice che
v'ha lasciato mille lire! - E cominciò a fare delle capriole
in mezzo alla strada e a buttare il cappello per aria.
- Dio del cielo! - urlò Vermutte. E senza ricordarsi che io
dovevo andare in padule, voltò a precipizio il cavallo, e:
- Ahu! ahu! via, via, via!...
Io gridavo e lui non mi badava, e:
- Via, via, via! -
Per fortuna ebbe a fermarsi per imbarcare il figliolo, e allora
scesi lesto con un salto, per non correre il pericolo di rimanere in
trappola. Ma lui mi si buttò addosso e voleva menarmi con
sè ad ogni costo.
- Signor Filippo, me n'ho per male. Se non viene a pigliare una
sbornia con me, me n'ho per male da cristiano battezzato! -
E m'abbracciava, e mi strizzava; eppoi saltava addosso al ragazzo
tutto bianco dagli svoltoloni fatti nella polvere, e giù:
baci a josa, e scapaccioni e solletico.
- Mille lire! Dio del cielo! -
E senza accorgersene, in quel tempestìo, buttò
lontano, con una manata, un pezzo di pane che il figliolo gli aveva
portato e che gli porgeva perchè lo prendesse.
- Raccattalo: lo mangio poi. Ora m'è passata la fame. La
pipa. Un sigaro. Signor Filippo, me lo dà lei? Grazie. O le
guide? O la frusta? O il ragazzo? O io? -
Pareva impazzato.
- Mille lire! O il sigaro? Ah, eccolo qui. -
Se lo ficcò in bocca e, senza neanche accenderlo, senza
ricordarsi di me che lo salutavo, saltò in legno, e, via, a
perdita di fiato, verso casa.
__________________
Pippo del Mugelli chiese a Terzilio un fuscello di granata e si mise
a sfruconare il cannuccio della pipa, che gli s'era intasato; e,
appena compiuta l'operazione, domandò che ore erano
perchè voleva andare a letto.
- Toh! o che è bell'è finita? - brontolarono gli
ascoltatori che, adagio adagio, si erano affollati intorno al
tavolino.
Pippo del Mugelli, sentendo che erano appena le nove e che pioveva a
diluvio, ordinò un altro ponce e si rintanò a
succhiarselo in un canto.
- O dunque? O Vermutte la bastonò la moglie! La bruciò
la casa? O la sbornia da olio santo la prese?
- Se domani è una bella giornata - rispose Pippo, guardando
in viso i più accaniti; - se domani è una bella
giornata andate a domandarglielo. -
NON MAI, NON MAI!
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Fuori del cancello della villa era già, da una ventina di
minuti, una fiorita di strilli e di risate argentine da mettere
l'allegrezza nell'anima più desolata. Erano i ragazzi dei
contadini, i quali, fatti avvisare dalla padrona, s'erano radunati
lì, in quel sereno e tepido pomeriggio d'aprile, ad aspettare
il padroncino minore che, anche quell'anno, per la prima volta, dopo
una rigida invernata, fra poco sarebbe uscito, col permesso del
medico, a respirare l'aria della campagna, adagiato nel suo doloroso
carrozzino col mantice di tela bianca.
Il padroncino comparve sulla porta della villa, due contadini
alzarono di peso il triste veicolo per depositarlo in piana terra ai
piedi della gradinata, e se ne andarono salutando muti appena
compiuta la loro opera.
Il carrozzino, spinto dolcemente da una vecchia cameriera, calava
lento, per evitare scosse brusche al piccolo malato, giù pel
viale pieno di sole, mentre la madre, camminandogli al fianco,
accarezzava con gli occhi, Dio sa con quale spasimo nel core!, la
sua infelice creatura la quale rispondeva a quelle carezze con un
sorriso di rassegnato dolore.
I ragazzi, aggruppati fuori del cancello in fondo al viale, si erano
levati involontariamente il cappello, avevano cessato come per
incanto dai loro strilli e guardavano.
- Mamma, gli hai presi i dolci per i miei amici?
- Sì, figliolo mio.
- E il vino bianco?
- Anche quello. -
La carrozzina scendeva lentamente e si fermava ad ogni dieci passi
per non affaticare troppo, in quel primo viaggio dopo tanti mesi, lo
sventurato giovinetto.
- Che ti ha detto il medico, mamma?
- Che presto guarirai.
- Siii?... -
E un sorriso malinconico di speranza sfiorava le sue pallide labbra.
Le due donne si scambiarono un'occhiata piena di lacrime.
Il medico non aveva detto nulla, perchè era inutile. Disse
tutto nove anni addietro, e pur troppo non sbagliò!, quando
il bambino cadde di collo alla balia, dalle braccia di quella
spensierata la quale ora, infelice anche lei, sconta amaramente fra
i rimorsi la pena della sua spensieratezza. Pur troppo il dottore
non sbagliò quando, dopo aver tentato ogni mezzo suggeritogli
dalla sua scienza, dichiarò incurabile il fanciullo e
gravissime e irrimediabili le lesioni prodotte alla spina dalla
caduta. -
Forse vivrà - aveva detto il dottore - vivrà per mezzo
di cure speciali ed assidue, ma di una vita languida e dolorosa; e
mai non potrà servirsi delle sue gambe. -
E il presagio non fallì. Da nove anni il giovinetto infelice
campa miseramente, alternando il letto con quella dolorosa sedia
mobile a ruote. Quanto durerà quello stato? Forse molti,
molti anni!
Arrivato in mezzo al gruppo dei suoi amici, che gli si accostarono
cautamente festosi, il giovinetto guardò sorridente quei
lieti visi abbronzati, quei corpicini vigorosi e diritti, e porse
alle loro carezze le sue mani ghiacce, del colore della perla.
- E ora rallegratemi, - chiese il pallido giovinetto - rallegratemi
con la vostra allegria. Correte, saltate.... Sì, sopra tutto,
saltate. Saltate quella fossa, rampicate su quegli alberi, fate a
chi primo arriva in fondo al prato, correte dietro alle farfalle e
gridate.... gridate forte, che qui, all'aria aperta, le vostre grida
non mi danno noia. -
I suoi occhi brillavano, una lieve sfumatura di rosso tinse le sue
gote, e si chetò perchè era stanco.
Nell'aria e per i campi era una festa di luce e di fiori; e i
ragazzi si sparpagliarono intorno, trillando come uno sciame di
rondini.
Il giovinetto, appoggiata di fianco ad un cuscino la tempia
fradicia di sudore, mesto sorridendo, seguiva con lo sguardo avido e
profondo la gioia de' suoi giovani amici. Guardava, guardava, e il
pensiero gli fingeva liete e sicure speranze; ma il cuore sgomento
gli diceva: - Non mai, non mai! -
Superando lo strepito gaio di tante voci giovanili, montava dai
campi, fioca dalla distanza, la voce di un canto lontano:
- O giovinezza, o giovinezza cara,
Luce della mattina, alba fiorita,
Altro non sei che ricordanza amara,
Altro non sei che inganno della vita.
E mi parevi, allor che teco andai.
Tanto fedel da non lasciarmi mai;
Fedele mi sembravi e amica tanto,
E m'hai lasciato solo in mezzo al pianto! -
La madre del pallido giovinetto, seduta lì presso, tenendo
gli occhi fissi nel cielo, pareva guardasse quella voce che passava
sconsolata per l'aria.
TEMPERAMENTI SANI
__________________
Quella mattina erano arrivate tristissime notizie dall'Affrica. Il
signor Felice e il signor Pietro, l'uno negoziante d'olio e l'altro
di granaglie, parlavano costernati fra loro, in mezzo alla strada,
tenendo in mano un giornale.
Si leggeva sui loro volti biechi e accigliati il tumulto delle
passioni che agitavano i loro animi di patriotti. Lo scoraggiamento
per il disastro, la pietà per le vittime, l'ira contro i
barbari vincitori, il rancore contro i responsabili dell'eccidio, si
rimescolavano bollenti nel loro cuore, traducendosi esteriormente in
brusche movenze, in convulsi serramenti di pugni, in animi
monosillabi, in torbide occhiate, in gesti minacciosi.
Suonò in quel momento la campana di mezzogiorno. Come
all'annunzio improvviso di una strepitosa vittoria delle nostre
armi, le loro fisionomie si irradiarono di serena beatitudine; si
strinsero con effusione la mano e, uno per un verso uno per l'altro,
si allontanarono sorridenti e frettolosi.
Tutti e due ci avevano per desinare il loro piatto favorito. Il
signor Felice ci aveva la fricassea d'agnello; il signor Pietro, il
cavolo ripieno.
IL MONUMENTO
__________________
- La questione, caro signor Annibale, è semplice, semplice.
Noi, in questa faccenda, se non si rimedia, ci si fa una di quelle
figure da vergognarci, tutte le volte che metteremo il capo fuori di
casa nostra, a dire che siamo abitanti di questa ricca, di questa
industriosa, di questa nobile Terra.
- Verità sacrosanta!
- Come! un paesucolo di duemilacinquecento abitanti appena, un
borghettaccio d'affamati come Nebbiano, un branco d'accattoni deve
avere la sua brava statua di marmo al suo concittadino.... al suo
illustre concittadino! e noi, tremilacentosei anime, nè anche
un piolo di pietra serena da mostrare a un forestiero che capiti nel
nostro Paese?
- È una vergogna!
- Continueranno a vituperarci, e avranno ragione; ci chiameranno
incivili, e nessuno potrà dar loro torto; ci additeranno come
ingrati verso i nostri grandi, e non avremo argomenti per tappar
loro la bocca; ce ne diranno di tutti i colori, caro signor
Annibale, e noi dovremo abbassar la testa perchè....
- Quanto agli affari del decoro, dell'onore e di tutta questa roba
da signori e da poeti, io, caro Falsetti, me n'occuperei poco. Si
lascian dire e buona notte. Penso, piuttosto, ad un'altra cosa;
penso all'utile che potrebbe venirne al nostro amato paese....
penso.... Ma che mi burla!... Ma ci pensa, lei, dato che si potesse
arrivare allo scopo di erigere sopra una delle nostre piazze un
monumento da fare strepito, il vantaggio che ne potrebbero ricavare
gli alberghi, le trattorie, i caffè....
- O i vetturini?
- Giusto! o i vetturini? -
E, infiammati dall'amore del luogo natìo, i due conoscenti,
dopo essere arrivati perfino a credersi amici nel calore della
discussione, si esaltarono talmente che, in pochi minuti, giunsero,
d'amore e d'accordo, alla conclusione che anche il loro paese
avrebbe avuto una statua, e che la statua sarebbe stata equestre.
- Sissignori, equestre! - esclamò il signor Annibale,
guardando spavaldo e minaccioso ai colli di Nebbiano. - E crepino
d'invidia tutti quelli che ci vogliono male!
- O equestre o nulla! Quel che ci va, ci vuole!
- Al naturale o più grande del vero?
- Più grande del vero, diavolo mai!
- Due volte?
- È poco.
- Quattro?
- Siamo d'accordo.
- Sta bene.
- Qua la mano.
- Ecco la mano. -
E, nel fervore dell'entusiasmo, non si erano accorti nè anche
del signor Leopoldo il quale, seguendoli a breve distanza e avendo
inteso tutto, alzò la voce plaudendo, e dichiarò
solennemente che, se aprivano una sottoscrizione, lui si sarebbe
subito firmato per cinque lire.
- Bravo signor Leopoldo!
- Grazie, signor Leopoldo. E ora, non per presunzione.... ma, se noi
tre ci mettiamo all'opera sul serio, l'affare è fatto. -
__________________
Con delle tempre d'uomini a quel modo, c'era poco da scherzare.
Il giorno dopo fu messo insieme, nella giornata, un comitato di
sette persone; e la sera erano già riuniti a discutere nello
scrittoio del computista Machioni il quale, avendo un figliolo
avvocato, s'era messo generosamente a loro disposizione, calcolando
che da cosa nasce cosa.
Fatta la nomina delle cariche e aperta la discussione, fu, per prima
cosa, deliberato all'unanimità che la statua sarebbe stata
equestre sul serio e, possibilmente, di bronzo; e fu anche convenuto
che il monumento sarebbe sorto sulla Piazza del Plebiscito, sebbene
alcuni avessero addotto delle buone ragioni per preferire la Piazza
Cavour. Furono sciolti inni al patriottismo, al progresso
dell'umanità, alle glorie paesane, e venne fissato il modo di
raccogliere la somma occorrente, mandando in giro schede di
sottoscrizione, ma facendo assegnamento, più che sopra ogni
altra cosa, sulle tombole pubbliche, sulle fiere di beneficenza,
sulle accademie che gratuitamente avrebbe dato la banda cittadina, e
sulle recite dei dilettanti filodrammatici della Società
Ernesto Rossi.
Intanto, seguendo il nobile esempio del signor Leopoldo, e dopo
avere spiegato a quattro membri del Comitato che equestre voleva
dire «a cavallo», firmarono tutti per una offerta di
cinque lire.
- Mi pare - disse il presidente, stropicciandosi di compiacenza le
mani - mi pare che il più sia fatto. E ora, prima di
sciogliere l'adunanza.... Corpo di Bacco!... mi pareva d'avere
qualche altra cosa da dire, ma ora.... con la testa un po'
confusa.... Ah! eccola. Dicevo io... E questo monumento, a chi lo
facciamo? -
Il silenzio che si sparse fra i radunati, dimostrò che
l'osservazione era stata trovata acuta e meritevole d'attenzione; e
atteggiati in pose da crepuscoli michelangioleschi, rimasero tutti
fermi a pensare.
Dopo un quarto d'ora buono, il professor Bandernoli, uomo di grande
dottrina accoppiata a una rara modestia e a una condotta esemplare,
chiese la parola.
- Parli.
- Fra le molte glorie paesane, tra le più immacolate, tra le
più fulgide gemme intellettuali della seconda metà del
secolo passato, io non esito, o signori, a pronunziare un nome....
il nome del canonico Palandri ! -
Una gran risata troncò la parola al Bandernoli il quale,
roteando inveleniti quegli occhi abitualmente carichi di miele,
batteva i pugni sopra la tavola, chiedendo di essere ascoltato.
- Ma no, ma no, caro Professore...
- Ma, via, Professore; un canonico a cavallo! -
E giù, un'altra gran risata.
- Si abbandoni l'idea del cavallo - urlò il Bandernoli,
scattando come una molla - si abbandoni l'idea del cavallo! Davanti
a un nome come quello di un Agostino Palandri, si abbandona
qualunque idea preconcetta;... e il riso, o signori, è una
irriverenza indegna; è una profanazione sacrilega....
è.... oh! E io... io me ne vado.
- No, no, Professore.
- La preghiamo, signor Professore.
- Senta, senta; mi dia retta, Professore.
- Non sento e non do ascolto a nessuno. Scancellino il mio nome e
quelle cinque lire, e io me ne vado. -
E se ne andò davvero.
Ma il giorno dopo, il vuoto lasciato dal professor Bandernoli fu
riempito col nome di Celestino Chiavacci farmacista; nome caro ad
Igèa per le sue inimitabili imitazioni delle pasticche
Gérodel. Vorrei tesserne qui il meritato elogio, ma la sua
rara modestia e il sentimento della mia incompetenza mi costringono
a tacere.
__________________
Passarono tre mesi di inutili premure. Il professor Bandernoli non
fu possibile tirarlo nuovamente alla fede.
- Faremo da noi! - disse il presidente. E invitò il comitato
per una nuova adunanza, nella quale, ai tre soli membri che
intervennero, ritornò il fervore nell'animo e la sicurezza
d'arrivare vittoriosamente allo scopo prefisso.
Il maestro della banda mandò a dire che aderiva all'invito
del Comitato purchè pensassero loro alla illuminazione e alle
spese di servizio. Il direttore della filodrammatica Ernesto Rossi
scrisse di accettare, chiamandosi onorato, ma libero da spese. Un
gruppo delle più distinte gentildonne avevano espresso con
una bella lettera la loro ammirazione per la nobile idea, e
promettevano di mettersi subito all'opera per raccogliere doni e
organizzare una fiera di beneficenza.
Tutte queste comunicazioni del presidente furono accolte da
entusiastici applausi. E l'adunanza fu sciolta fra vivaci strette di
mano, rallegramenti reciproci e allusioni di disprezzo, e abbastanza
palesi, al professor Bandernoli e a quelli straccioni di Nebbiano.
Due mesi più tardi l'idea della statua equestre era andata
all'aria. Girando per il paese si sarebbero ravvisati, anche senza
conoscerli personalmente, i membri del Comitato e i loro aderenti,
dallo sconforto che appariva sui loro volti.
Uno scultore amico del presidente aveva scritto che, dando egli
quasi gratuita l'opera sua, il monumento, tutto compreso e
calcolato, sarebbe venuto a costare dalle cinquanta alle
sessantamila lire.
- Sorbe! - disse il Falsetti, tastandosi il portafogli nella tasca
di petto.
- Alla macchia! - esclamò il signor Annibale, schiacciando
una cimice di bosco, quando il Machioni andò a dirglielo in
giardino, dopo desinare.
- Ci ho gusto! - brontolò il professor Bandernoli, pensando
che, soppresso il cavallo, forse si apriva uno spiraglio di
probabilità per il suo canonico Palandri.
Il paese, in genere, sentì male la cosa. Le signore, poi,
erano inconsolabili, e specialmente quelle che avevano già
dato delle ordinazioni alla modista o alla sarta per andare in giro
a raccogliere offerte.
__________________
- E allora, signori miei, che si fa? Mi pare che ogni esitazione sia
inutile.
- Pur troppo!
- Bisogna piegare il capo dinanzi alla ineluttabile
difficoltà, e rinunziare coraggiosamente all'idea del
cavallo. -
Questo diceva una sera il presidente ai membri del Comitato, che,
mogi mogi, lo stavano a sentire. E l'adunanza si sciolse
malinconicamente silenziosa.
__________________
La popolazione, adagio adagio s'era tutta interessata della grave
questione; e, in ogni bottega e in ogni luogo di riunione serale
erano discussioni, dove più dove meno, secondo l'ambiente,
aspre e tumultuose.
I socialisti tacevano minacciosi; gli anarchici preparavano i sassi
da tirarsi alla statua appena fosse stata messa al posto; i
clericali soffiavano discordia da tutte le parti dopo che era stata
messa in ridicolo l'idea del Canonico equestre; i vetturini, i
caffettieri e gli albergatori, brontolavano perchè svanite le
loro più belle speranze d'un monumento sbalorditoio da
chiamare gli Inglesi nel loro paese a branchi come le pecore; le
persone civilmente equilibrate.... quelle non dicevano nulla
perchè non ce n'era nè anche una.
Cioè!... No, non è vero. Dicendo che non ce n'era
nè anche una, ho esagerato. Ce n'erano tre. Ma tutt'e tre si
guardarono scrupolosamente di far palese il loro pensiero, per lo
spavento di vedersi diradare gli avventori in bottega.
__________________
Il medesimo scultore aveva scritto al Presidente che per la sola
statua in piedi, a grandezza naturale, ci sarebbero volute circa
ventimila lire.
- Troppe! sempre troppe, permio baccone! - osservava il presidente
ai membri del Comitato che lo stavano a sentire con la coda fra le
gambe - sempre troppe, dopo le defezioni di chi ci aveva, con tanto
slancio, promesso il suo appoggio....
Chi lo sa! Lo scultore, questo ve l'assicuro io perchè ci
diamo del tu, lo scultore è un galantuomo dicerto. Mah! Io
m'informerò meglio, sentirò magari da qualchedun
altro, ma, secondo me, con tutti questi affari d'Affrica, ci deve
essere stato un rincaro nel marmo. -
La banda civica era entrata in un periodo di dissoluzione e, come
quei vermi che a spezzarli diventano due, già dal suo seno
era sorta una fanfara di dissidenti, tutti suonatori di strumenti
d'ottone. I filodrammatici Ernesto Rossi si erano sciolti dopo che
il loro presidente aveva preso le difese di quelli di Nebbiano
quando ne bastonarono quattro quella sera che si azzardarono a
passare dal paese in barroccino. Le signore dissero che a stare in
mezzo a quella cagnara ci andava del loro decoro e dichiararono che,
se qualcuno voleva la fiera di beneficenza, se la facesse da
sè.
Quando fu tastato il Sindaco per sentire se si sarebbe adoprato a
ottenere dal Comune un sussidio per un monumento da erigersi alla
memoria di.... di.... (a questo ci si sarebbe pensato dopo), il
Sindaco rispose che ben volentieri lo avrebbe fatto, ma a cose
definitivamente stabilite. Il deputato al parlamento e il
consigliere provinciale, badando a non perder voti nel caso di nuove
elezioni, promisero il loro caloroso appoggio, lodando la
patriottica iniziativa, degna veramente del nobile collegio che
altamente si onoravano di rappresentare.
Ma, nonostante la buona volontà spiegata da tutti, le cose
non andavano punto bene. Il presidente fu costretto a dimettersi per
causa di gravi scissure sorte in seno del Comitato dopo quella
benedetta questione fra la Misericordia e la Pubblica assistenza....
una questionaccia, via.... Già è meglio non parlarne.
Ne fu sostituito un altro: il veterinario Trabalzi, una specie
d'uomo di paglia, come lo credevano il Falsetti e il Machioni; ma il
bravo Trabalzi aveva le sue idee e le sostenne. Accettò, ma,
a condizione che si parlasse d'un busto e non d'una statua,
poichè lui a fare il pagliaccio non c'era avvezzo e, quando
s'era ingolfato in una impresa, lui non era uomo da tornare
indietro.
Sotto una mano di ferro come quella del nuovo presidente, pareva,
dopo un paio d'adunanze, che le cose accennassero a una piega
migliore; ma tutti i nuovi progetti andarono in fumo quando un altro
scultore ebbe scritto che un busto di marmo sopra una colonnetta di
bardiglio, sarebbe costato duemila lire circa.
- Che ladri questi scultori! - disse il presidente Trabalzi,
sbacchiando con impeto la lettera sul tavolino.
- Quanto a quello che lei chiama «un ricordo marmoreo
qualunque» - aggiungeva in un poscritto lo scultore - gradirei
una spiegazione. Se si trattasse d'un medaglione, si può
andare, secondo le dimensioni, dalle cinquecento alle mille lire.
Trattandosi di altra cosa, me lo sappia dire, e io sarò
fortunato di mettermi a sua disposizione.
- Che concludiamo, signori? - domandò il presidente Trabalzi,
interrogando l'accigliato uditorio..
In poche battute fu concluso tutto e, questa volta, finalmente, in
modo definitivo. L'uomo da onorarsi col monumento era stato trovato.
Il busto sarebbe stato eretto al nonno del Trabalzi, a quel gran
benefattore il quale, sessant'anni addietro, aveva impiantato la
florida industria delle mattonelle lucide di asfalto impenetrabile
per le terrazze scoperte.
Venuti ai voti, furono tre favorevoli e tre contrari, essendosi
astenuto, per un riguardo delicatissimo e che gli fece tanto onore,
il nipote del grande industriale. A una seconda votazione: lo
stesso; a una terza: lo stesso. Bisognò abbandonarne l'idea.
Rifece allora capolino il nome del canonico Palandri, ma gli
fu opposto, e prevalse subito, quello di Garibaldi, non tanto per
fare un dispetto al professor Bandernoli, quanto perchè si
era venuti a risapere che uno scalpellino d'un paese sopra a
Firenze, che si chiama Fiesole, ce n'aveva uno di pietra serena
avanzatogli dal tempo della Capitale e che avrebbe potuto
rilasciarlo, messo e murato al posto, per trentacinque lire,
cioè quante erano quelle già versate dal Comitato
nelle mani del Cassiere. Il giorno per l'inaugurazione: la festa del
titolare; il posto dove collocarlo: una nicchia nella facciata del
palazzo comunale.
La sera di poi gli affari del Comitato si trovarono al medesimo
punto di quando avevano incominciato, perchè il Sindaco si
oppose energicamente al progetto di deturpare con una nicchia la
facciata storica del palazzo comunale, e non ci fu verso di poterlo
smuovere.
- Mettiamolo di faccia, nella casa del Tempesti.
- Già! e io vi lascio sfondare il muro. Quanto mi date? -
rispose il Tempesti quando il Comitato, rappresentato dal suo
segretario, andò a domandargliene.
Dopo una violenta protesta, nella quale ne toccarono di mattonella
anche gli abitanti di Nebbiano, il Comitato si sciolse e, alla
unanimità, fu deciso di spendere le trentacinque lire in una
bella cena, mandando al diavolo tutti quelli che per filantropia o
per amor patrio si occupano di far del bene al proprio paese.
- Una bella cena da Beppe del Cervo d'Oro! e questa è la
minuta. Tieni, Bavetta (Bavetta era il giovane di banco del
computista Machioni) portagliela e digli che stasera alle nove
precise saremo da lui. -
Bavetta tornò dopo poco a dire che stava bene ogni cosa e che
alle nove potevano andare. Ma una mezz'ora dopo, Beppe del Cervo
d'Oro, il quale aveva fatto meglio i suoi conti, mandò un
ragazzo a dire al Presidente che scorciassero la minuta o
allungassero il prezzo perchè lui, per cinque lire a testa,
tutta quella roba non gliela poteva dare.
MENICO
__________________
All'età di sedici anni entrò a mezza paga tra le opre
della fattoria. A diciotto era già a opra intera e con
assegno fisso perchè trafficasse intorno alle botti e al
granaio anche in que' giorni nei quali la pioggia impediva i lavori
della campagna.
Il fattore Ippolito, vecchio merlo, ammaestrato da sessant'anni
d'esperienza, ne aveva subito aocchiato la qualità della
carne e la quadratura delle spalle. Tanto che, ogni volta che si
presentava l'occasione d'un lavoro aspro e delicato: - Ditelo a
Menico. - Così, quando c'era da portare alla villa una
barrocciata di roba fragile e grave, col tempo piovoso e le strade
guaste: - Attaccate il Moro. -
Ma per Menico erano trionfi. Un soldato valoroso che si sente
chiamare per nome nei momenti di maggior pericolo, poteva aprire il
core all'orgoglio come lo apriva quel vigoroso ragazzo quando il
fattore diceva: - Chiamate Menico. -
E Menico non fece pentire chi aveva riposto in lui tanta fiducia.
Sobrio, forte e obbediente, incominciò a lavorare quei
terreni quasi da fanciullo; e non ha mai cessato, e non ha mai
rallentato fino agli ottantadue anni, quanti ora ne conta. Taciturno
e insocevole, ora come da giovane, punto si espande coi suoi
pettegoli compagni di lavoro. Chi canta, chi ciarla, chi ride. Lui
tace e lavora, niente lo distrae, niente lo commove. Quando sente
rammentare i suoi genitori che tanto somigliavano a lui, increspa la
fronte, aggrotta le ciglia e lavora.
A chi gli domanda perchè non ha preso moglie, lui non
risponde con le parole: alza in alto con una mano la vanga, e
battendone il manico con l'altra, fa capire che quella è la
sua sposa. Gira in tondo un'occhiata di compassione ai suoi fratelli
di fatica, e ripiglia silenzioso il lavoro.
In ogni angolo di quei poggi egli ha un ricordo che basta a
riempirgli a trabocco quelli che altri crederebbero vuoti del suo
cuore.
Dove è quella bella strada carreggiabile, sessant'anni fa era
un abisso di frane scoscese. Lui ci lavorò.
Quei bei vigneti sulla costa di levante erano, trent'anni addietro,
desolate prunicce dove un grillo sarebbe morto di fame. Lui ci
lavorò.
La vedete quella bella chiudenda d'olivi, quasi
pianeggiante? Là, cinquanta anni or sono, era un
dirupo. Tutto a forza di colmate. A quelle colmate lui ci
lavorò.
Quella bella posta, tutta a viti scelte e a fruttami, elle è
la delizia di chi la vede, lui la piantò, lui fece tutti
gl'innesti; e quando fu finita, il padrone vecchio, bon'anima, gli
regalò una bella cacciatora usata e gli disse: - Bravo! -
Quante gioie sconfinate in quel core vergine di animale da
lavoro! Ma anche a lui non sono mancati gli affanni. Le lunghe
siccità che minacciavano i raccolti del padrone; le piene
irrompenti che strisciavano i seminati, erano pene ineffabili al
core di Menico. L'anno che la grandine devastò tutto il
raccolto di quelle colline fiorenti, Menico stette a letto due
giorni con la febbre. La sola febbre che egli abbia avuto in tanti
anni di vita, i soli due giorni nei quali egli non sia comparso sul
lavoro.
Il padrone vecchio, morendo lasciò due lire il giorno per
Menico quando egli non fosse stato più buono al lavoro.
Menico sorrise a quell'annunzio, e piantò più profonda
la vanga nel terreno.
Ieri, quando comparve con gli altri a mietere nelle terre a mano,
non si sentiva bene. Lui, sempre innanzi nella proda, ieri rimaneva
indietro ai più fiacchi e perfino alle donne.
- Non vi sentite bene oggi, Menico!
- Non mi sento bene. -
E si asciugava il sudore e si ergeva impettito per respirare, a
bocca spalancata.
Alla merenda non volle mangiare. Seduto all'ombra d'un albero, con
le spalle appoggiate al tronco, rimase lì, con la testa in
seno e le braccia incrociate, e non si mosse nè anche quando
gli altri ripresero il lavoro.
I vecchi si voltavano ogni tanto a guardarlo pensierosi. I
giovanotti e le ragazze avevano voglia di scherzare e, magari, di
sfogare un po' la loro ruggine contro quel serpente che, per
tenergli dietro, bisognava consumarsi un'ala di fegato.
- Fai fai, v'è preso la fiaccona anche a voi, eh, Menico!
- Bona, eh, quella liretta e quaranta guadagnata in panciolle!
- Volete una materassa, Menico! -
Menico non rispondeva.
- Ora vi cantiamo la ninna nanna. La volete, Menico, un po' di ninna
nanna? -
E due giovinastri e due ragazzacce sguaiate, battendo il tempo con
le falci sui covoni, si misero a cantare:
E ninna e ninna e nanna
Piccino della mamma
E dormi, e ninna e nà,
Se no, si dice al gatto,
E il bimbo dormirà.
Un vecchio si accostò a Menico per accertarsi e per
domandargli se avesse bisogno di qualche cosa; e posatagli una mano
sulla spalla, lo scosse lievemente per destarlo.
Il corpo di Menico, già morto da una mezz'ora, strisciando la
schiena al tronco scabroso dell'albero, andò a fermarsi, a
rotoloni, in un solco.
LA GIACCHETTA RIVOLTATA
__________________
È curiosa. Dopo tanti anni d'una relazione che poteva quasi
chiamarsi amicizia, non ero stato mai nella sua stanza di studio.
Avendo da parlargli d'un affarucolo, della rettificazione del
confine fra un suo podere e quella mia vignuccia del paretaio, ci
capitai, come s'era fissato, l'altra sera. Ti ricordi? Tu eri alla
finestra e mi domandasti: - O dove vai? - e io ti risosi: - Vado dal
sor Maurizio. -
Quando entrai, lui scriveva. Mi disse che avessi pazienza un
momento, mi pregò di sedere, e continuò a scrivere. Io
approfittai di quel momento per dare un'occhiata alla stanza. Era un
salottino caldo caldo, ornato con signorile semplicità e
pieno d'ogni ben di Dio; una specie di arsenale artisticamente
arruffato che dava chiara e sicura idea dell'indole gentile di quel
buon vecchione il quale, chi sa da quanti anni, accatastava
lì dentro tutta quella roba. Oggetti curiosi da meritare una
spiegazione ce n'erano parecchi; ma più di tutti mi
dètte nell'occhio una giacchetta di panno bigio, tutta logora
e strapanata, la quale, appesa a un beccatello, ciondolava dentro la
vetrina delle armi. - Forse, è la sua cacciatora prediletta -
pensai. - Ma no: è troppo lacera e indecente per un vecchio
signore sempre lindo e sempre ravviato con severa eleganza
com'è lui. È una curiosità che voglio levarmi.
Quando avremo finito di parlare delle nostre faccende, gliene voglio
domandare.
- Eccomi da lei - mi dissi il signor Maurizio, posando la penna e
stendendo la mano verso quella pipa di spuma che tu gli rubi con gli
occhi tutte volte che scende in paese per i suoi affari.
- Mi scusi - continuò il signor Maurizio. - Avevo qui una
lettera di gran premura... Anzi.... ma non vorrei esser troppo
esigente.
- Mi dica, mi dica.
- Che ritorna in paese, lei, stasera?
- Subito, appena ho finito qui con lei.
- Che vorrebbe farmi il favore d'impostarmela?
- Ma si figuri! -
Parlammo dei nostri affari, e dopo, chiacchierando del più e
del meno, quando mi parve il momento opportuno.... Non me lo so
spiegare neppure io.... Da tanti anni ci conosciamo; io gli voglio
un ben dell'anima, so che anche lui ne vuole a me, ma.... è
inutile, quando discorro con lui, non son buono di vincere una certa
suggezione. A volte in verità, mi darei magari
dell'imbecille: m'impappino, piglio lucciole per lanterne... Basta.
Quando, come dicevo, mi parve il momento opportuno:
- Lei, signor Maurizio, mi deve levare una curiosità. Mi dice
che cos'è quella giacchetta! -
Scosse il capo sorridendo:
- Ragazzate, ragazzate! Ricordi lontani lontani. C'è una
storiella intorno a quella giacchetta.... c'è una storiella.
I miei figlioli la conoscono. Delle persone di fuori non la
conosceva che il suo povero babbo al quale, guardi le combinazioni!
ebbi a raccontarla una sera quando, ma son molti, molti anni!,
quando capitò qui come ci è capitato lei, e per un
affare press'a poco, se ben mi ricordo, dello stesso genere. -
E, in tempo che mi parlava, teneva gli occhi a quella giacchetta, un
po' sorridendo malinconico, un po'accigliandosi dolorosamente.
- Era un galantuomo suo padre, ed era un uomo di cuore come sono
tutti i galantuomini. Quanto rise quella sera! E come andò
via commosso e addolorato quella sera! Ragazzate, ragazzate! Quella
giacchetta lì me la misi addosso per la prima volta
trentasette anni or sono. Fra mia madre e un sartuccio che veniva
qui a casa a giornata, me la fecero per andare a Pisa il terzo anno
che ero a quella Università. -
E sorrideva sotto i suoi baffoni bianchi.
- Senza cavarmela mai da dosso, feci il ganimede tutta l'invernata
perchè era di panno per quei tempi assai pregiato e
perchè, non so come, me l'avevano, fra tutti e due,
inciampata discretamente di taglio. Per quell'anno andò bene,
ma l'anno seguente, dopo tanto struscìo, non si riconosceva
quasi più. S'avvicinava il carnevale coi nostri ballonzoli,
con un po' di teatro, e.... un'altra giacchetta per cambiarmi non
l'avevo. Altri tempi, amico mio. Oggi uno studente parte per
l'Università con un corredo da sposa, e due grosse valigie
non bastano, qualche volta, a contenere il ricco ed effemminato
bagaglio. A quei giorni: il vestito che avevamo addosso, quattro
libri e un po' di biancheria dentro una sacca di traliccio da
tappeti, i nostri sedici anni e il nostro cuore vergine e
spensierato.
Un altra giacchetta per cambiarmi non l'avevo, e mi piaceva di
essere decente. Se avessi scritto a casa, non ci sarebbe stato
pericolo, ma non volli farlo. Cerco d'un sartino abbastanza
affamato, lo trovo e gli dico: - Quanto vuoi per rivoltarmi questa
giacchetta? - Dalla bramosia di agguantar l'occasione, senza neanche
guardarmela, dice: - Cinque paoli.
- Te ne dò quattro.
- Quattro e mezzo.
- Quattro.
- Sta bene.
- Ma - dico io - ne ho bisogno subito.
- Mi ci metto nel momento - dice lui - e domani in giornata gliela
riporto. Me la lasci.
- Vieni a casa mia; sto qui vicino. - (Stavo in via Cacciarella e
lui in Piazza Santa Caterina).
Quando fummo a casa gli detti la giacchetta, lo lasciai partire e,
poco dopo, uscii anch'io, infilzandomi il cappotto sopra alla
camicia.
Fu puntuale, il giorno dopo riebbi la mia giacchetta che pareva
tornata nuova.
L'anno seguente siamo alle solite. Verso la fine dell'inverno non
era più portabile. Senza ricordarmi che l'avevo già
fatta rivoltare, chiamo il solito sarto e gli do la stessa
commissione. Egli, o smemorato come me o, come è più
probabile, molto furbo, la piglia e me la rivolta.
- Eh! caro mio. O che lavoro è questo ? - Gli osservai quando
me la riportò.
- Perchè? - mi domandò lui.
- O se ò peggio di prima!
- Era già stata rivoltata; me n'accorsi appena ebbi
incominciato il lavoro.
- E perchè non sospendesti e venisti a dirmelo?
- Noi stiamo agli ordini, signor Maurizio. -
I miei compagni non mi lasciarono pelle addosso. - Bau, bau! - mi
facevano da lontano. La chiamavano il cane, quella povera
giacchetta. «Bada, bada! non la toccare perchè si
rivolta!» Ma io la trattengo qui con delle scemerie, mentre i
suoi affari....
- Senta, signor Maurizio - dissi io - se lei mi dice
«vattene» me ne vado, ma se lei mi onora....
- Poco onore e poco merito. Il rammentare le cose passate è
sempre un conforto per noi vecchi, e specialmente quando se ne
può parlare con un giovane, al quale si vuol bene come io
voglio bene a lei.-
Mi stese la mano, e io gliela strinsi con una voglia matta di
baciargliela.
- E allora continuo - riprese il signor Maurizio. - Dovendo
presentarmi ai professori prima degli esami, buttai giù buffa
e scrissi a mia madre. Otto giorni dopo il procaccia mi
consegnò un bel vestito nuovo e una lettera affettuosa. - E
dètte un'occhiata al ritratto di sua madre appeso alla
parete, in faccia alla scrivania.
- Per lo stesso procaccia - continuò il signor Maurizio -
mandai a casa la vecchia giacchetta, pregando mia madre di regalarla
a Nando. Nando era un ragazzo della mia età, figlio d'una
famiglia di nostri contadini; il mio compagno di giochi puerili
nell'infanzia, il mio compagno indivisibile alla caccia, alle gite
alpine e alle prime scappate giovanili.... Una specie di negro
bianco, un cane, una innamorata, la mia ombra. Se gli avessi detto:
«Buttati in quella fornace perchè ho freddo,» mi
avrebbe ringraziato e ci si sarebbe buttato. Eccolo qui. -
E mi accennò, alle sue spalle, un vecchio tocco in penna
ingiallito, fatto da lui, che rappresentava Nando nell'atto di
sollevare in alto una lepre perchè i cani, che gli facevano
ressa intorno, non gliela sciupassero.
- Torno a casa - continuò il signor Maurizio. - Torno a casa
per le vacanze del Ceppo e trovo Nando che m'era venuto incontro con
la cavalla, alla stazione. Pareva uno zerbino.
- O cotesta!? - gli domando io.
- Che cosa?
- Cotesta bella giacchetta nuova.
- È la sua.
- Quale?
- Toh! quella che mandò lei alla signora padrona
perchè me la regalasse.
- Sì, press'a poco la riconosco; ma.... Fammi un po' vedere.
O se è meglio di quando te la mandai!
- L'ho fatta rivoltare. -
Venne la primavera e, con la primavera, le prime voci di guerra.
Incominciaron subito gli arrolamenti dei volontari. Sul principio
clandestini, poi palesi. Inni, suoni e bandiere per le vie. Italia,
Italia! Il solo nome di Garibaldi metteva la febbre nel sangue dei
giovani generosi. - Garibaldi è sul continente! - Garibaldi
è a Torino! - Ha parlato con Vittorio Emanuele! - Cavour gli
ha dato una missione segreta! - L'hanno arrestato! - No! - È
a Genova! - Ha preso la via delle Alpi! - È sempre a Caprera!
- È a Como! - Il sangue di noi giovani bolliva. Era un
esaltamento nuovo, era un delirio. L'Università era deserta.
Il campano, quel vecchio e malinconico bronzo mugolone che da tanti
secoli, imprecato o benedetto, chiama i dormienti alla pace della
scuola, pareva che, mutata indole e voce, mandasse gridi di guerra e
cantasse gloria a Dio per la patria, mettendoci i brividi nelle
ossa.
- Tu sei pronto? - Sì. - Il tale? - È partito. - Il
tal altro? - Partito. - E tu? - Stasera. - E ogni sera erano lacrime
di gioia, erano abbracci lunghi lunghi, erano addii di fuoco, baci
sonanti di promessa e di speranze. L'Italia, l'Italia!
Tre giorni dopo, alla stazione di Genova (chi glielo avesse detto
non lo so) mi sento chiamare:
- Signor padrone.
- Nando!... Via, via sul momento!... Via subito, via subito a casa!
- E, a spintoni, me lo cacciavo avanti, spingendolo verso un treno
in partenza per la Toscana. Quando fummo dinanzi a uno sportello
aperto, si voltò opponendomi resistenza, e:
- Sotto le rote ci vado, in vagone, no! -
Io lo guardavo supplichevole e sconcertato; lui guardava me,
rispettoso e risoluto.
- La padrona mi ha dato un ordine. «Riportami a casa il mio
figliolo» - mi ha detto - «o parti con lui!» -
L'abbracciai come un fratello e lo menai nel branco dei miei
compagni che, nella furia dell'entusiasmo, poco mancò che non
gli mettessero in brani quella povera giacchetta.
Eccola là! Nando non tornò più a casa sua. -
E mandò un sospiro. Il signor Maurizio soffriva. Lo vedevo
bene da una vena che gli era gonfiata, serpeggiando su quella nobile
fronte di galantuomo. Non ebbi il coraggio di interromperlo.
- Nando non tornò più a casa sua! Arrivato a Piacenza,
m'ammalai.... Una cosa leggiera, ma dovetti star là in uno
spedale parecchi giorni. Le notizie delle prime vittorie
affrettarono la mia guarigione; intanto i miei compagni erano
già lassù.... forse qualcuno morto.... pur troppo! E
io avevo perduto il tempo migliore!
Appena potei reggermi sulle gambe via! - Il quartier generale
dov'è? - La settimana passata era qui. Ieri partirono per in
su. Non lo sappiamo. - Io e il mio ragazzo non avevamo nè
abiti militari nè armi. Bisogna arrivare al quartier
generale. Ai primi carri di feriti che incontrammo, potei avere due
fucili.
- Che ne volete fare, senza cartucce? - ci fu domandato.
- Dateci anche quelle e qualche cosa ne faremo.
- Non ne abbiamo.
- Son cannonate questo rumore sordo che sentiamo?
- Sì
- Dove siamo?
- A Varese.
- È molto distante?
- Lo vedete quello sprone di montagna lontano? È là
dietro. Fra un'ora ci arrivate.
- E Garibaldi?
- Lassù.
- E le cose della giornata?
- Per noi che dobbiamo tornare indietro male; lassù, bene.
- Saremo in tempo a far nulla?
- Andate, andate; oggi, lassù, ce n'è per tutti. Di
dove siete!
- Toscani.
- Bravi Ragazzi! Liquore ce ne avete?
- Eccovene.
- Grazie. -
Da un'ora, il mio compagno ed io, si andava di passo accelerato, e
l'ultimo gomito della via, presso lo sprone di montagna indicatoci,
era poco distante. Il cannone si era chetato, ma il crepito della
fucileria si faceva più fitto e pareva vicinissimo a noi;
tanto vicino, che il miagolio di qualche palla, forse deviata, si
sentiva, di quando in quando, passare alto sulle nostre teste. -
Nando, fra poco siamo in ballo anche noi! - Mi guardò,
sorrise e tirò innanzi, a capo basso. Dopo qualche minuto di
cammino silenzioso.... Chi sa? I suoi pensieri dovevano essere
lontani lontani. Forse andavano coi miei alle nostre famiglie, alle
nostre case....
- Signor padrone.
- Che?
- Quel bell'innesto che si fece insieme al ciliegio della vigna
è seccato. Lo troncò il vento. Si ricorda quel
vento?... quel ven.... Ah! Dio.... Dio mio! -
Non disse altro. Aprì le braccia, raggrinzò il viso e
cadde riverso per terra!
Tanti anni, tanti anni sono passati! Là! fumiamo. -
Il signor Maurizio si alzò da sedere e andò lento
lento verso la vetrina delle armi. Prese quella giacchetta e
scotendone la polvere con una mano, leggermente come se avesse
voluto farle ina carezza:
- Guardi! - mi disse; e puntò l'indice verso un piccolo foro
tondo accanto a un bottone di sinistra. - Di qui passò la
palla che aveva spezzato il core a quel mio povero ragazzo.
IL PROFESSORE
__________________
Un gran cartellone rosso vinato aveva annunziato alle turbe attonite
un visibilio di roba per l'inaugurazione del nuovo teatro Giacomo
Puccini. Accademie vocali e strumentali, un corso di recite della
società filodrammatica Gustavo Modena, giochi di prestigio,
quadri viventi e, da, ultimo, due grandi veglioni per gli abbonati.
Terminava con un elenco di nomi delle principali celebrità
che vi si sarebbero prodotte e di quelli dei sette professori che
avrebbero fatto parte dell'orchestra.
Si aprì il corso delle rappresentazioni con la Pianella
perduta nella neve, novissima per la maggior parte di quel pubblico,
che ebbe un vero e clamoroso successo, attribuito specialmente
all'esecuzione dell'orchestra, che fu dichiarata addirittura
insuperabile. Se non che, dopo la prima rappresentazione, i sette
professori erano diventati otto, perchè vi fu aggiunto
improvvisamente Cecco d'Orsola, con gran sorpresa dei suoi
concittadini, i quali, a quella notizia, fecero la bocca fino agli
orecchi dalle risate. Narrando questo, io non intendo denigrare la
reputazione di Cecco; Dio me ne guardi! Eppoi ogni allusione maligna
sarebbe inutile, perchè tutti ormai conoscono le sue
eccellenti qualità: figliolo esemplare, marito e padre
amorosissimo, amico impareggiabile, impiegato zelantissimo,
sonatore.... Qui bisogna che mi fermi un momento per trovare
l'epiteto conveniente.... L'ho trovato. Come sonatore lo chiameremo
innocuo, perchè lui non ha mai molestato nessuno; lui non
conosce affatto la musica e lui non ha mai toccato nessuno
strumento, se si eccettua quel violino che gli fu consegnato la
seconda sera delle rappresentazioni, senza che egli sapesse
nè anche da che parte si pigliava in mano,
Il direttore d'orchestra esasperato e piccato da un articolo del
Sistro che metteva in ridicolo i suoi sette sonatori, chiamandoli i
sette peccati mortali, volle aumentarne uno a tutti i costi e, per
non spendere a farlo venir di fuori, non essendovene altri in paese,
inventò la trappola di metter Cecco d'Orsola nel branco a
fare da comparsa.
Quando egli viene in orchestra, va di ritto al suo posto di coda, si
mette a sedere, smoccola il lume, accomoda la parte sul
leggìo e, dopo una diecina di minuti, alla più lunga,
s'addormenta. Generalmente fa tutta una tirata fino al termine dello
spettacolo, ma qualche volta si desta di sussulto, prima del tempo,
quando lo pigliano nel naso o in un occhio con le pallottole di
midolla di pane, coi tappi di sughero o con le cicche che gli tirano
dalla barcaccia. Si ricompone subito trasognato, guarda di traverso
quei giovanottacci che ridono alle sue spalle e tira giù una
gran fregata alle corde, come viene viene, non tanto per vendicarsi
dell'offesa, quanto per dimostrare che il pane lui non lo guadagna a
ufo, e che sa tenere alto il decoro del suo titolo di professore e
quello della sua posizione sociale di bidello della cooperativa di
consumo.
- Ha riposato bene, professore!
- Professore, ben alzato. -
A questi complimenti che gli rivolgono quei giovanottacci della
barcaccia quando, finito lo spettacolo, attraversa l'atrio per
andarsene, egli, qualche volta, specialmente quando vede gente di
fuori, risponderebbe volentieri per le rime; ma pensando ai sessanta
centesimi che ha guadagnato quella sera, tira innanzi a capo basso e
se ne va a casa dove l'aspettano una moglie, un cane da lepre e, se
non ho fatto male il conto, nove figlioli.
__________________
Eppure, Cecco d'Orsola, poco tempo addietro era stato a un pelo di
diventare un grosso e danaroso commerciante.
Quando prese moglie, il guadagno sul quale poteva fare un incerto
assegnamento, montava a circa centocinquanta o dugento lire l'anno,
che raspollava sù sù, portando lettere alle ville
dintorno, allevando nidiate di merli e d'usignoli, tosando cani e
facendo la barba per un soldo ai contadini. La moglie faceva la
treccia e, col suo guadagno di trenta o quaranta centesimi la
settimana, provvedeva alla biancheria e alle spese minute della
famiglia.
Finchè non vennero figlioli, fu per i due sposi una cuccagna,
e, vero miracolo della miseria, lei trovava il modo di mettersi
addosso anche qualche trina; lui trovava quell'altro di fumare a
pipa e di prendere il ponce tutte le domeniche.
Fino al terzo figliolo, nessun cambiamento si notò nei
costumi dei due coniugi; al quarto, come le vele di due paranze
prese al largo dal libeccio s'imbrogliano una dietro l'altra via via
che il vento rinfresca, così sparirono le trine di lei e fu
soppresso il ponce di lui. Al quinto sparì la pipa; al
sesto.... al sesto, Cecco pensò seriamente ai casi suoi e
aprì in un sottoscala una rivendita d'ogni cosa: pentoli,
granate, ventole per il fuoco, salvadanari, trabiccoli per il letto,
fiammiferi ecc. ecc. Ma il commercio veramente remunerato le lo
faceva di certe paste con gli anaci, di sua invenzione, che chiamava
parigine, le quali, ogni mattina, andavano via a ruba fra i ragazzi
delle scuole, a un centesimo l'una.
Delizioso mestiere per lui! La piccolezza dello stambugio gli
permetteva di fare ogni cosa da sedere; e lì si grogiolava,
nell'inverno stando dentro tutto stoppinato con lo scaldino fra le
gambe e la pipa in bocca; nell'estate, seduto sulla porta, tutto
sbracalato, a sonnecchiare, a sbadigliare e a scacciarsi le mosche
col giornale.
- Bravi, bravi bambini! Fermi, fermi con quelle mani. Si guarda e
non si tocca. Quante lei? E voi?... Cinque? E il soldo dove l'avete?
Va bene!... Passa via! pezzo di ladro, se non t'ammazzo io, non
t'ammazza nessuno! -
Un cane aveva dato una linguata nella cesta delle parigine. E i
ragazzi, fra grandi risa:
- L'ha leccate, l'ha leccate! -
La seggiola di Cecco volava dietro al cane, e il cane se la batteva
a precipizio, con la coda fra le gambe.
- Non ha leccato nulla! - gridava Cecco.
- Sì, l'ha leccate, l'ha leccate! - gridavano i ragazzi,
più forte di lui.
- Ha leccato questa e quella lì.
- È vero, è vero: questa e quella lì!
- L'ho veduto anch'io....
- Sì, sì, l'ho veduto anch'io. -
Cecco, allora, levava dalla cesta le due parigine sospette, dicendo:
«Queste le mangerò io» di sotterfugio ce le
rimetteva appena allontanatosi quel primo gruppo di avventori, e
riprendeva coi nuovi che arrivavano lo scambio rumoroso di paste e
di centesimi, e la distribuzione di consigli paterni, dei quali
Cecco era prodigo con tutti, ma specialmente con quelli che
acquistavano una maggior quantità di parigine.
- Bravo, bravo bambino! studia e fatti onore. Oggi un dieci a tutti!
Bravi ragazzi, così va bene! E tenetelo a mente: quando si
compra, bisogna pagare; e la roba degli altri non si tocca, se no,
siamo ladri.... Dico bene? -
Finita la vendita, poco prima delle nove, consegnava la bottega alla
moglie e dormiva fino all'ora di desinare. Dopo mangiato, faceva un
pisolino di due o tre ore, e verso buio andava in piazza a prendere
una boccata d'aria, perchè proprio ne aveva bisogno prima
d'andare a cena e a letto.
Una mattina, avanti giorno, mentre preparava assonnato le sue
parigine, sbadigliando, brontolando e impastando, sbagliò la
qualità e la dose degli ingredienti. Invece di sale, ci
buttò zucchero; invece di anaci, coriandoli.
Da quello sbaglio, la sua fortuna. Il grido dei nuovi biscotti coi
coriandoli passò presto dai ragazzi alle famiglie, e alla
bottega di Cecco fu una processione continua di gente del paese e
della campagna, fra le quali primeggiavano i villeggianti dei
dintorni che non davano respiro al povero Cecco, il quale fu
costretto a chiamare in aiuto un suo fratello calzolaro. Ma nemmeno
in due poterono bastare al lavoro, e bisognò, dopo pochi
giorni, mettere all'opera anche la moglie e i tre figlioli maggiori.
Dai villeggianti, la fama delle parigine si estese ai loro amici e
parenti lontani, e cominciarono allora a fioccar lettere, cartoline,
telegrammi e vaglia postali in tal quantità, da mettere alla
disperazione Cecco e il suo fratello che non sapevano più
dove battersi la testa, in mezzo a quel trambusto indiavolato. Ma
Cecco e il suo fratello, da buoni toscani, amici sinceri del quieto
vivere, e previdenti, annusata la tempesta che li minacciava,
pensarono seriamente ai casi loro, e si misero al coperto prima che
incominciasse a piovere più forte.
- Mondo birbone! e questa si chiama vita da cristiani?
- Se non ci si piglia rimedio a tempo, qui, caro mio, ci si lascia
la pelle!
- Sangue d'un cane! qui non si mangia più un boccone in pace!
- Qui c'è appena tempo di riprender fiato la notte!
- Qui non si conosce più quand'è festa e quando
è giorno di lavoro!
- E servitori di tutti!
- Eppoi che maniere! - Io n'ho bisogno di un chilo per domattina!...
Io di due chili in tutti i modi, per domani sera. Io di tre per...
Ma, signori, abbiamo due braccia sole!
- Siamo di carne anche noi!
- Io non ne posso più!
- Io mi tengo ritto per miracolo!
- Si chiude e si fa finita?
- Finiamola! -
E presi da un sacro orrore per quella vita da galeotti, i due
fratelli decisero di vendere la bottega allo Svizzero, di mandare al
diavolo tutti i loro tormentatori e.... crepi chi vuol crepare!...
__________________
- Professore, ben alzato.
- Ha riposato bene, professore? -
Fra quei giovanottacci della barcaccia v'era anche il figliolo di
quel birbone dello Svizzero che a forza di parigine aveva comprato,
in due anni, pezzo di figuro! un bel cavallo, un bel calesse e una
bella casa colle persiane, col giardino e ogni cosa!
PELLICCIA
__________________
Pare che anche lui, povera bestiaccia, venisse al mondo sotto
cattiva luna. Di quattro fratelli, nati e allevati insieme in una
solitaria capanna di pastori dell'Appennino, Pelliccia fu il meno
favorito dalla sorte sebbene fosse il più bello e, quel che
val meglio, il più buono.
Leone fu comprato da un ricco signore americano, e ora se la passa
fra i tappeti e le carezze della padrona che gli parla sempre in
inglese e alla quale egli, povero pastore incivilito, dimostra la
propria riconoscenza strappandole spesso, a forza di tenere zampate,
gli abiti preziosi e i guanti finissimi delle mani che lo
accarezzano.
Lupa andò in campagna con un fattore, e ora, padrona di vaste
possessioni boscose, passa le belle giornate abbaiando dietro ai
fagiani dei quali non conosce il valore che dai rimproveri bonarj di
Milord, un vecchio cane da penna, e dai loro ossi gustosi che sono
tutti a lei riservati perchè a Milord non piacciono.
Argante, forse più fortunato di tutti, morì di cimurro
all'età di sette mesi.
Lui, Pelliccia, capitato per una lunga trafila di peripezie nelle
mani di un villanzone brutale, legato da sei anni a una corta
catena, fa ora da guardia a una casaccia mezza in rovina, abbaiando
a chi passa e stroncandosi i denti ai sassi che i ragazzi gli
tirano. Che giorni lunghi, povera bestia! Che notti interminabili
quando il freddo, la pioggia e la fame gli fanno veglia nel casotto
umido e sgretolato, e quando il sole lo arrostisce, gl'insetti lo
divorano e la sete lo brucia! Oh, i bei giorni dell'infanzia! Che
corse, che strillìo di guaìti, che rotoloni fra l'erba
lunga della selva intorno alla capanna! Che scorpacciate di ricotta
e di siero avanzato, che bevute lunghe e ristoratrici al rio del
mulino dopo mattinate intere di gazzarra dietro alle galline
spaurite o dietro alla mamma che non aveva più pelo negli
orecchi dalle nostre tirate! Povera mamma, quanta pazienza! Tutto
sopportava in pace, e solamente mandava qualche represso guaito
quando le nostre giovani zanne, affilate come lesine, le cavavano
sangue da un orecchio o da un labbro. E a quei guaìti il
babbo, acchiocciolato in un canto e sonnacchioso, apriva gli occhi e
guardava. Che sarà stato di loro?
Questi ricordi lontani e dolcemente dolorosi dovevano passare per la
testa di Pelliccia quando, spesso, sentendo su in casa
l'acciottolìo dei piatti dei suoi padroni che mangiavano,
seduto al vento fuori del casotto, mandava alla finestra sbadigli e
sospiri.
Povero Pelliccia, quanto è cambiato dai giorni sereni della
sua giovinezza! Quel bel pelo lucido e bianco che gli procurò
il nome al quale risponde, è diventato ora un feltro sudicio
e giallastro; quegli occhi dolci i quali pareva non cercassero che
amore e carezze, sono ora iniettati di sangue e feroci; quei bei
denti bianchi i quali prima non chiedevano che un po' di pane per
campare e niente altro, affacciandosi ora gialli e smozzicati dalle
labbra pallide e arricciate, non chiedono che carne viva di uomini
da lacerare.
E la sua fama era terribile nei dintorni. Molti operai e contadini,
quando erano costretti a passare di notte da quella casa, si
armavano d'un randello o d'una pistola per paura che quel canaccio
avesse strappato la catena: il prete, prima di venire per le
rogazioni o per l'acqua santa, ordinava che lo chiudessero in
capanna; e le mamme del vicinato, quando i loro figlioli erano
più forche del solito, li minacciavano di farli mangiare da
Pelliccia.
Ma, da qualche mese, questa fama paurosa non era più meritata
da quel disgraziato animale. Gli stenti d'ogni genere ne avevano
affrettata la vecchiezza, e Pelliccia non era più buono
neanche per il facile servizio che doveva prestare ai suoi padroni.
Non esciva quasi più dal casotto dove stava tutto il giorno e
tutta la notte a russare, e ogni volta che passava gente, o non
abbaiava affatto o, se abbaiava, la sua voce era tanto fioca da non
sentirsi di casa quando le finestre erano chiuse. Il continuo
latrare di tanti anni, l'arsura della sete e le stratte del collare
quando si avventava ai passanti, gli avevano rovinato la gola.
- La cagna di Poldo mugnaio - disse un giorno il capoccia ai suoi
figlioli - ha fatto sei cuccioli. Me n'ha promesso uno, e io direi
di disfarsi di Pelliccia. -
I figlioli approvarono con un movimento del capo. Pelliccia avendo
sentito rammentare il suo nome, li guardava con amore dal suo
casotto, dimenando lentamente la coda. Tutto fu concertato in un
momento. Due giovanotti entrarono in casa ed escirono subito dopo,
uno con un fucile e l'altro con una vanga sulle spalle. Il capoccia
andò a staccare dall'arpione del muro la catena di Pelliccia
il quale, saltandogli addosso a festeggiarlo meglio che poteva,
abbaiava di gioia e gli correva dintorno a balzellone,
arrotolandogli la catena alle gambe. Una forte pedata fece capire a
Pelliccia che i suoi entusiasmi affettuosi erano, come sempre, poco
graditi in quel momento; e con la coda fra le gambe, si mise dietro
alla taciturna comitiva.
Sul tratto di via maestra che i tre contadini percorrevano per
arrivare alla coltivazione nuova dove Pelliccia doveva essere
ammazzato e sepolto al piede d'un olivo, veniva verso di loro una
lucente carrozza tirata da due magnifici cavalli al trotto. Dentro
alla carrozza scoperta erano due persone: un signore e una signora
che parevano bearsi conversando allegramente e contemplando lo
splendore di quei colli festosi. Erano marito e moglie, due ricchi
possidenti del piano, i quali capitavano per la prima volta in quei
luoghi solitarj a fare la loro passeggiata mattutina.
Il cocchiere, non pratico di quelle vie, scorgendo gente,
rallentò la corsa per domandare notizie della strada che
aveva da percorrere per tornare a casa. La signora, alla vista dei
tre uomini e del cane, forse sospettando del vero, ordinò al
cocchiere che fermasse.
- È vostro cotesto cane? - domandò la signora al
vecchio che strascicava Pelliccia per la catena.
- Sì, signora.
- E dove lo menate? che volete farne! Perchè quel fucile e
quella vanga? -
Il capoccia, sorridendo come se avesse dovuto rispondere che lo
menavano a spasso, disse che andavano ad ammazzarlo. La signora
impallidì, gli occhi le si inumidirono, guardò
Pelliccia e stringendo nella sua la mano del marito, domandò
al capoccia:
- Perchè, perchè lo ammazzate?
- Se lei signoria ci vuol canzonare - rispose il vecchio - è
un conto; se dice sul serio, guardi meglio questa bestia, e si
persuaderà che a tenere intorno casa questo mangiapane
puzzolente è quasi vergogna. Noi s'era pensato di governare
un olivo. -
La signora disse qualche cosa nell'orecchio al marito, il quale
rispose di sì con un lampo dei generosi occhi sorridenti. E
rivolta al contadino, balbettò dalla commozione e dallo
sdegno represso:
- Cotesto cane lo voglio io. Ditemi il prezzo, ditemi quanto vi devo
dare. Cotesto cane è mio. -
Il contadino dette in una grande risata, alla quale fecero coro le
due facce melense dei figlioli.
- Lei signoria fa chiasso; e noi s'ha poco tempo da perdere -
rispose il capoccia, accennando a continuare per la sua via.
- Vi ripeto che cotesto cane è mio, e non v'inganno - riprese
la signora, frenando a fatica lo sdegno che le faceva saltellare
convulsamente il labbro superiore.
- Sbrighiamoci e presto; quanto vi devo dare?
- Se lei signoria dice davvero - rispose il contadino, quasi
intimidito dal modo aspro e risolato della signora - se lei dice
davvero, e allora mi dia.... mi dia quello che vole. -
Il contadino, con la prontezza che hanno per il calcolo a loro
vantaggio quelle volpi mascherate da polli, aveva subito riflettuto
che a non chiedere ci avrebbe guadagnato, e rimase al «mi dia
quello che vole», e si mise a far carezze al cane che
intenerito gli saltava addosso, uggiolando.
Un foglio di banca passò nelle mani del contadino, e
Pelliccia, riluttante e spaurito, fu messo di peso nella carrozza e
obbligato, da due manate dei giovanotti, ad accucciarsi sulla pedana
di pelle d'orso.
I cavalli spiccarono il trotto, e i contadini rimasero in gruppo
sulla via, con gli occhi sgranati sopra un bel foglio da cinquanta
lire, mentre Pelliccia spenzolava la testa fuori della carrozza,
mandando lamenti ai vecchi padroni e sforzandosi di vincere la
resistenza dei nuovi che lo tenevano forte alla catena perchè
non si buttasse di sotto.
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Oh.... ora sì che va bene, povero e calunniato Pelliccia!
Veramente è un po' tardi, ma meglio tardi che mai.
In verità, chi non l'avesse conosciuto prima, chi non avesse
visto la sua passata miseria, avrebbe potuto prenderlo ora per un
signore. Il suo giubbone era sempre un po' spelacchiato, ma in
compenso era bianco e lucido come una felpa di seta. Di pulci non se
ne parlava nemmeno, le mosche gli giravano intorno alla larga, e
l'odore che mandava faceva pensare ai chilogrammi di sapone fenicato
che ci saranno voluti per la lunga e paziente cura igienica alla
quale doveva essere stato sottoposto. Sebbene camminasse sempre un
po' a stento, sembrava più giovane di quello che non fosse.
Era un po' ingrassato, la sua voce era meno fioca e i suoi occhi
avevano preso un'espressione insolita di dolcezza da parere quasi
che il ringhioso e taciturno Pelliccia avesse ora imparato anche a
ridere. Intorno al collo gli girava un bel collare a placche
d'ottone lucente, il quale aveva da una parte una larga campanella e
dall'altra, ornamento che dava una certa aria di grottesco al
vecchio villano rivestito, aveva un gran flocco di seta celeste.
Quel luccichio del collare e il fiocco svolazzante lo facevano
somigliare a una balia. E veramente il paragone non era lontano dal
vero, perchè Pelliccia, nella nuova casa che lo aveva
ospitato, esercitava il delicato ufficio di bambinaio.
Eccolo lì. Seduto davanti alla porta del giardino aspetta il
suo allievo, aspetta che arrivi per la solita passeggiata mattutina.
E che attenzione! che tremori d'impazienza! che rizzate d'orecchi
ogni volta che sente cigolare un uscio o scopre il passo di persone
che si avvicinano.... Eccolo, questo è proprio lui! Ecco il
padroncino! Pelliccia scodinzola più forte, si alza, si
scuote il pelliccione traballando, sbadiglia sonoro e, correndo di
qua e di là, risponde abbaiando agli strilli del suo alunno
che da lontano lo chiama pronunziando male il suo nome.
Tenuto per le mani dalla madre e da una cameriera, il bambino, che
da pochi giorni ha incominciato a muovere i primi passi, comparisce
sulla porta dove Pelliccia gli è andato incontro; e le due
donne, dopo averlo fatto aggrappare alla campanella del collare, lo
abbandonano sicure alle tenerezze del cane.
Ed ecco che incomincia il lavoro di Pelliccia, quel lavoro per il
quale forse egli ha capito di ricompensare i nuovi padroni per il
bene che gli hanno fatto e di guadagnarsi onoratamente quel ghiotto
catino di zuppa che il guardaboschi gli prepara ogni giorno
profumandogliela deliziosamente con le risciacquature di tutti i
ciottoli di cucina.
Non più salti, non più sbalzelloni, non più
bruschi scotimenti della groppa. Sono pericolosi. Pelliccia lo sa e
si ricorda dei rimproveri e degli ammaestramenti dei primi giorni.
Va, si ferma, ripiglia il cammino o torna indietro; ora prende per
le aiuole erbose, ora per gli stradelli inghiaiati, secondo i
capricci del suo piccolo amico. E se lo guarda, e lo interroga con
gli occhi e si schermisce con garbo da quelle manine prepotenti che
gli tormentano gli orecchi e gli tirano il pelo; si piega e gli
porge il collo perchè si riagguanti alla campanella quando
è cascato a sedere per terra; e, ogni tanto, perchè
proprio non può farne a meno, con una gran linguata gli
ripulisce tutta la faccia.
E sono strilli, son guaiti, son risate che non hanno fine, alle
quali partecipa anche la madre che si è fermata a lavorare
sulla porta, tutte le volte che Pelliccia, invitato dal suo allievo,
si mette a fare il bambino anche lui. Lo butta in terra con una
prudente musata, finge di scappare, gli corre in tondo, e poi si
arruffano e si svoltolano e ruzzolano insieme tra i fiori, color dei
fiori anch'essi in quell'affastellamento, in quella confusione di
fiocchi, di pelo, di trine, di guance rosee e di occhiolini lucenti.
E in quei momenti, guai al forestiero che si azzardi ad entrar solo
nel giardino! guai all'imprudente che capiti a turbargli
quell'idillio! L'antica ferocia, quella ferocia che gli è
stata insegnata dagli uomini, ribolle sinistra nei suoi occhi, quasi
ritornano giovanili gli scatti delle sue membra, si pianta rigido
davanti al suo padroncino per fargli scudo del corpo, e mostrando le
zanne sgangherate, ringhia minaccioso e, all'occasione, s'avventa.
Son passati sei mesi, e da qualche giorno Pelliccia non è
più in condizioni da fare quel mestiere troppo faticoso per
lui. Fa quello che può; ma girate e salti per il giardino,
non più. Accucciato presso la porta, sul ripiano di quella
gradinata che egli, ogni mattina, si prova inutilmente a discendere
perchè le forze gli mancano, rimane lì sospiroso a
guardare, finchè dura la ricreazione del suo giovane amico.
Nonostante, non si è ancora dato per vinto. Allorchè
le persone che ne prendono cura hanno messo il fanciullo sul suo
seggiolino e lo hanno accostato a una tavola piena di balocchi.
Pelliccia gli si avvicina a tentoni, strascicando le gambe di
dietro. Siede accanto a lui, e appoggiandosi di fianco a una gamba
della tavola, rimane lì pensieroso a sonnecchiare, col capo
ciondoloni. Se cade in terra un balocco, si scuote, si abbassa a
stento, lo raccatta con la bocca e lo porge al suo vivace e
impazientissimo allievo. Non può fare altro. Fa quello che
può. Ma quando il trattenimento del bambino si prolunga oltre
le sue forze, dopo una breve lotta contro le cascaggini, adagio
adagio si accuccia e si addormenta.
Da qualche giorno, a raccattare i balocchi che cascano dalla tavola
è stata messa una vecchia cameriera tedesca; ma il fanciullo
ci se la dice poco. Di nulla nulla sono bizze, pianti e strilli
disperati, perchè lui rivuole il suo cane; e quando essa, per
calmarlo, gli racconta che Pelliccia è andato a fare un
viaggio lontano lontano, i soldati, i cannoni e i cavalli di piombo
volano intorno per l'aria, e magari nella sua testa, peggio della
grandine.
- Voglio Pelliccia! voglio Pelliccia! -
Ma Pelliccia non risponde più alla voce che lo chiama. Un
piccolo marmo, all'ombra d'un abeto del parco, ricorda il suo nome e
narra in brevi parole la sua onesta e travagliata esistenza.
QUESTIONE D'INTERESSI
__________________
Il cavallo del fattore, passando pochi minuti avanti, aveva lasciato
in mezzo alla strada un discreto mucchio di quel che i cavalli
sogliono lasciare in mezzo alle strade. Un bianchetto di passere vi
si affollarono sopra, bisbigliandosi e beccandosi fra loro accanite.
Intorno intorno erano duelli feroci di scarabei. Due uomini, con un
corbello in spalla e una corta pala in mano, arrivando di corsa da
direzioni opposte, si incontrarono lì, e lì si
fermarono guardandosi in cagnesco.
- Starò a vedere se avrai il coraggio di toccarla! - disse
uno dei due uomini, mandando faville dagli occhi.
- Starò a vedere se questo coraggio l'avrai te! - rispose
l'altro, scotendo in alto la pala.
- Io l'ho veduta prima!
- Io, prima di te!
- Io, dalla svoltata.
- Io, dall'olmo del ponticino.
- A mezzo!
- No.
- A pari e caffo?
- No, perchè è mia di diritto.
- Ghigna di ladro!
- Muso di porco!
- O toccala, se hai core!
- O pròvati, se hai fegato! -
E si puntarono biechi, pronti allo slancio, come bestiacce in amore.
Le passere, appollaiate sulle cime dei pioppi dintorno, guardavano
aspettando.
Gli scarabei, rotolandosi nella polvere, continuavano, zitti zitti,
a darsele a morte.
- Insomma, io direi di farla finita!
- Lo direi anch'io.
- Dunque, la raccatto io?
- Se ti ci provi, ti mangio!
- Prepotente!
- Puzzone!
- Vigliacco!
- Pidocchioso!
- Morto di fame!
- Smetti con cotesta pala! - Butta giù cotesta mano!
- No! - Sì - Già - Ma - Ppun!.., -
E si azzuffarono, e si avvoltolarono in un diluvio di botte
così furibonde che, poche ore dopo, il medico ricuciva e
incerottava la testa d'uno di quei disgraziati, e i carabinieri
portavano in prigione quell'altro, mezzo sciancato e pieno di
lividi.
LA STREGA
__________________
L'aria era fredda, piovigginava fitto e sottile, e gli alberi lungo
la via, tristi e aggrondati, lasciavano cadere, ad ogni sbuffo di
vento, una scossa di grosse gocciole e di foglie gialle sul piano
fangoso della via.
Una vecchia oltre la settantina e un ragazzetto sui nove anni, nonna
e nipote, andavano lentamente, riparandosi stretti sotto un solo
ombrello d'incerato verde, accecando con le scarpe inzaccherate
tutte le pozzanghere: la vecchia perchè non le vedeva, il
ragazzo perchè ci si divertiva.
- Con questo tempo in giro, nonna Pelagia ?
- Se Dio m'aiuta, volevo arrivare alle Capannacce; ma ho paura di
non farcela.... O chi siete? -
La vecchia aveva risposto senza riconoscere la donna che le aveva
rivolto la domanda.
- Toh!... Non mi riconoscete? Maria del Tognetti!
- Ah, già! già! Vi riconosco alla voce. Maria del
Tognetti! Scusatemi, Maria, perchè proprio non vi avevo
riconosciuta. Un po' son mezza cieca; eppoi, col grembiule in capo a
cotesta maniera, se non vi facevi avanti per la prima, non v'avrei
raffigurata davvero. Vado alle Capannacce dalla povera Veronica che
ci ha la sua creatura malata, e, da quel che si sente dire, quasi
moribonda. Quegli omini e quelle donne, che oggi son tutti fermi per
via di questa stagione, guardano a casa; e io mi son messa in testa
d'arrivare fin lassù; ma ho paura che le forze non mi
bastino. Ne sapete nulla voi. Maria ? Ma sia vero quello che
raccontano che quel figliolo sia stregato?
- Dice che sia vero; ma poi....
- Dio Signore, quanti malanni c'è in giro per il mondo! Ohi
ohi. Crediatemi, Maria, non ne posso più. Ma, oramai che mi
ci son messa, vo' vedere se mi riesce d'arrivarci. O a casa vostra,
Maria, tutti in salute?
- Ci contentiamo. Ma se sapeste, Pelagia mia, quanti dolori da parte
di quel benedetto ragazzo che non conosce altro che sigari e
osterie!
- Ma dunque non vi basta l'animo....?
- Ah, Pelagia mia! -
Le due donne si fermarono in mezzo alla strada a conversare con gran
calore sotto la pioggia che rinforzava; e Cecchetto, approfittando
di quella breve sosta, sgattaiolò di sotto l'ombrello e si
mise a far le ture con la mota nei rigagnoletti che correvano per la
via in fondo ai solchi delle ruote.
Maria aveva urgenza d'arrivar presto a casa, e frettolosa
proseguì il suo viaggio, con un dolce rimprovero alla vecchia
imprudente e augurandole che Dio la rimeritasse per quell'atto di
carità. Cecchetto rientrò fradicio come un pulcino
sotto l'ombrello e, dando la spalla alla nonna perchè vi si
appoggiasse, ripresero il cammino.
__________________
Sul verone coperto d'una delle quattro case delle Capannacce stava
riunito un gruppo di contadini intorno a una giovane donna la quale,
seduta, teneva sulle ginocchia una creaturina magra e pallida come
un cadavere, che, contorcendosi smaniosa, piagnucolava con un filo
di voce appena sensibile.
La madre cercava di calmarla con ruvida tenerezza, e ogni tanto
volgeva la faccia per dare un'occhiata feroce alle due strade che
facevano capo sull'aia. Gli uomini che le stavano intorno, torvi e
taciturni, davano anch'essi sguardi sinistri alla campagna.
V'era su quelle facce un così strano miscuglio di rassegnato
dolore e di ferocia selvaggia, da mettere i brividi nelle ossa.
Che genere di tempesta si scatenava negli animi di quella gente?
Da qualche tempo, quel bambino che prima era un fiore di bellezza e
di salute, aveva cominciato a scemare a vista d'occhio. Fu chiamato,
così per fare, il medico condotto; ma dopo tre o quattro
visite, avendo egli capito che lo credevano pazzo perchè
aveva parlato di ferro e di mare, aveva pensato bene di risparmiare
il cavallo, e non s'era fatto più rivedere.
Intanto il bambino andava ogni giorno di male in peggio. S'erano
consultate, senza cavarne nessun costrutto, tutte le donnicciole dei
dintorni, l'avevano fatto benedire dal prete, gli erano stati
già scongiurati i bachi; ma tutto inutilmente, e nessuno
della famiglia sapeva più. a che santo votarsi.
Fra i contadini del casolare più reputati per saggezza ed
esperienza vi fu una specie di consiglio, e venne deciso di chiamare
il capostregone.
- Ooh! ora sì che mi garbate! - esclamò una vecchia
ringhiosa, la nonna di quel misero bambino, quando gli uomini,
rientrando in casa, le dettero la lieta novella.
- Ora sì che mi garbate! E Dio ci assista e la beatissima
Vergine ora che finalmente ci siamo ricordati di quella povera
creatura! - E fingendoselo già risanato, corse ad accarezzare
il suo nipotino che la respingeva divincolandosi bizzoso, e voltando
indietro la faccia.
E il capostregone venne. Acclamato, accarezzato come un messo della
Provvidenza, venne finalmente il professor Baronto, sensale di
bestie, vetturale in ritiro e, a tempo avanzato, benefattore
dell'umanità sofferente.
Fattosi presentare il bambino, lo guardò attento per qualche
minuto, masticando a fior di labbra parole incomprensibili; poi
trinciò nell'aria, con quelle manacce nere e bernoccolute,
alcuni segni cabalistici, e dopo aver fatto un gesto di speranza ai
contadini che attoniti e imbambolati pendevano dai suoi occhi di
volpe, disse di aver bisogno di riconcentrarsi un momento. Chiese un
ramoscello d'olivo benedetto, accese la pipa e si rintanò in
un angolo della cucina a meditare.
Gli uomini di casa, immaginandosi il bambino già guarito e
franco al lavoro, e vedendolo ardito bifolco in mezzo alle vitelle
sitose, o dietro all'aratro a rompere i maggesi, cantando al sole
d'agosto, se lo passavano da braccio a braccio, spalancandogli sugli
occhi spenti le loro boccacce che ridevano.
Le donne, affaccendate e premurose, dopo aver posato il bambino
nella culla, asciugavano a una gran fiamma, maneggiandolo caute come
una santa reliquia, il pastrano giallo e pillaccheroso di Baronto.
Finita la meditazione, Baronto si alzò, fingendosi ispirato,
e chiese alla massaia una scodella bianca, un'ampolla d'olio vergine
e una penna di gallina vecchia.
Tutto fu approntato sollecitamente con premura febbrile e presentato
a Baronto il quale, presi quegl'ingredienti misteriosi e
rimboccatesi le maniche della camicia, si ritirò in una
stanza, pregando silenzio e che lo lasciassero solo per qualche
momento a compiere il sortilegio per la salute di quella innocente
creatura.
I contadini si raccolsero in gruppo attorno al fuoco, bisbigliando
sottovoce e correndo solleciti a tappare con le mani la bocca al
bambino, tutte le volte che si attentava a mandare qualche fioco
vagito.
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Distante ancora quasi un chilometro dalle Capannacce, la vecchia
Pelagia, strascicandosi a stento sotto la pioggia, veniva avanti,
ora recitando la corona, ora bisticciandosi col suo Cecchetto, su
per l'ultimo tratto di via ripida e fangosa.
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- Eccolo, eccolo! - I contadini avevano sentito il rumore degli
scarponi ferrati di Baronto, il quale si accostava alla porta. Si
voltarono tutti da quella parte, pallidi e a bocca spalancata,
sapendo imminente la sentenza della loro creatura.
Baronto ricomparve in cucina sorridendo. I contadini, capito
iò suo cenno, si alzarono di scatto e corsero da lui,
serrandoglisi intorno e guardandolo negli occhi, senza fiatare.
- La creatura è salva!
- Aaah! -
Fu un urlo di gioia bestiale. Le due donne dettero in un pianto
dirotto e si buttarono in ginocchioni presso la culla dentro la
quale il bambino, forse già entrato in agonìa,
boccheggiava a occhi chiusi, senza più flato di piangere.
- La creatura è salva! - riprese Baronto. E mostrando la
scodella il cui fondo era pieno d'olio:
- Le vedete quelle sette bollicine in croce! Quelle non falliscono.
La vostra creatura ha il maldocchio che gli corre per le vene....
- Uuuh!
- Quell'angiolo innocente ve l'hanno stregato!
- Uuh! Uuh!
- Ah, infami!
- Ma io me lo pensavo!
- Ah, scellerati!
- Ma io l'avevo detto!
- Dio, Dio, Dio! -
E contorcendosi di rabbia furibonda e sollevando in aria i pugili
serrati, gli uomini giravano per la stanza a occhi stralunati, dando
guizzi da belve come se lo avessero davanti e volessero
avventarglisi a sbranarlo, l'assassino infernale che aveva guastato,
che aveva soffiato veleno nel sangue di quell'angiolo del Signore.
- Calma, calma! e statemi a sentire - continuò Baronto con
voce avvinata e solenne.
- La creatura è salva; ma ci vuol giudizio, risolutezza e
discorsi pochi. Quelle sette bollicine in croce mi dicono anche chi
è che vi ha stregato la creatura; ma il nome della persona io
non ve lo posso dire....
- Ditelo! ditelo! - urlarono i contadini, mandando fiamme dagli
occhi.
- Se potessi, lo direi; ma non posso. L'arte della magìa che
esercito per amore dei miei fratelli in Cristo mi mette degli
obblighi che, se li trasgredissi, le sette fiaccole dell'Apocalisse
mi brucerebbero l'anima in eterno. Il giuramento l'ho fatto, e qui
ve lo ripeto. -
E, chiudendo gli occhi, tese in avanti le braccia nerborute, irte di
lunghe setole nere.
I contadini lo guardarono attoniti.
- Ecco la verità! - sacramentò Baronto, guardando
accigliato la culla. - Ecco la verità! La prima persona che
oggi, dopo la campana del credo, capiterà sull'aja.... quella
vi ha stregato la creatura e quella solamente ve la potrà
guarire, se vi riescirà di fargli promettere l'anima al
demonio.... -
Una mezz'ora dopo, Baronto, tenendo in braccio un fiasco d'aleatico
e nel taschino del panciotto un foglio di dieci lire, se ne andava a
pancia piena, accompagnato dalle benedizioni di tutta quella buona
gente.
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La campana del credo era già sonata da una ventina di minuti,
e nessuno compariva sull'aja. I contadini, aggruppati sul verone
coperto della casa, torvi nelle facce e silenziosi, mandavano
occhiate sinistre alla campagna e alle strade.
__________________
La vecchia Pelagia, dopo tanta fatica, era finalmente arrivata.
Appena giunta all'ultima svoltata, dalla quale si vedeva la casa e
il verone dove stavano raccolti i contadini ad aspettare,
ringraziò Dio sospirando e, per riposarsi un momento, si mise
a sedere sulla spalletta fradicia d'un ponticello. Cecchetto,
utilizzando quel tempo, si mise a tirar sassata a un cardo di
marroni il quale, passato d'occhio nella colta, dondolava al vento
sull'ultima cima d'un castagno.
Appena ripreso flato, la vecchia si mosse e, in pochi minuti,
arrivò sfinita sull'aja delle Capannacce.
- La strega!... La strega!... - brontolarono con la voce tra i
denti, i contadini, stringendosi fra loro le mani ghiacce dal
ribrezzo.
Le due donne dal verone si ritirarono in casa, senza badare alla
vecchia Pelagia che le chiamava per nome. In quel mentre, gli
uomini, scambiate poche parole fra loro, si mossero in gruppo
serrato giù per la scala e le vennero incontro risoluti.
Cecchetto era rimasto a tirar sassate al castagno.
- Isidoro! - chiamò la vecchia sorridendo, appena ebbe
riconosciuto il capoccia fra gli uomini che le stavano dinanzi.
- Isidoro!... La vostra creatura! Dio la benedica e ve la salvi! Ma
che è vero?... O la povera Veronica?... Non ne posso
più; ma non potevo stare, se non venivo a vedere con
quest'occhi.... -
Ma, a un tratto, tirandosi indietro:
- Che avete? che avete, che mi parete tanto stralunati? Forse
qualche disgrazia?...-
Gli uomini le si serrarono intorno minacciosi, mentre la vecchia,
senza raccapezzarsi, ma presentendo qualche cosa di grave, guardava
spaventata quelle facce tenebrose.
Il capoccia, agguantata la vecchia per un braccio e balbettando come
se le parole gli si annodassero giù per la gola, ruppe primo
il silenzio.
- Pelagia.... quella creatura more!... Non abbiamo altro che quella,
Pelagia!... Quella creatura è nelle vostre mani.... Voi lo
sapete.... lo sapete meglio di noi, Pelagia.... Una promessa....
fate una promessa, Pelagia, e ritornerete viva a casa.
- Una promessa! - ruggirono gli altri, facendole sentire sulla
faccia il caldo dei loro fiati.
- Vergine santissima! - esclamò la vecchia.
- Rispettate il nome della Madonna, Pelagia.... La promessa!...
- La promessa!...
- Ma che è stato? Ma io non vi capisco.... Ahi! me lo
troncherete questo braccio - gridava la misera vecchia, guardando
supplichevole, con gli occhi pieni di lacrime. E sperando protezione
dalle sue amiche, chiamava:
- Veronica.... Nunziata.... non mi rispondono !
- La promessa, Pelagia! la promessa!
- Ma che cosa vi devo promettere?
- Lo sapete meglio di noi.
- Dio mi vede nel core: non lo so.
- Ah, non lo sapete!
- Non lo so; ve lo giuro per la salute di questa mia creatura.... O
dove è andato? - e chiamava con voce squarciata:
- Cecchetto.... Cecchetto....
- Ah, non lo sai, vecchia scellerata! Che male ti s'era fatto,
vecchia assassina, perchè tu ne facessi tanto a noi? Prometti
l'anima al demonio, strega maledetta, salvaci il nostro figliolo che
more..., e se non bastano le parole....
- No, no, siete cristiani....
- Piglia, piglia!
- Una povera vecchia! una vostra amica!... anime sante!
Ahimè, Dio mio. Dio mio!
- Piglia, versiera indemoniata! piglia, piglia, piglia! -
E si sentivano i tonfi sordi dei pugni e dei calci scaricati su
quella povera carcassa.
- Cecchetto.... Cecchetto!... Ahi, mi ammazzate! O Dio, Dio, Vergine
santissima, vi raccomando l'anima mia!...
- Al forno, al forno! foco nel forno! - gridavano gli uomini, sempre
più inferocendosi a quelle preghiere; e dieci mani sacrileghe
raddoppiavano la loro furia sulla misera vecchia la quale, cascata
in ginocchio, con voce sempre più fioca, continuò a
raccomandarsi a Dio, chiamando il suo nipotino, finchè non
cadde in terra stordita, fra le imprecazioni di quei furibondi.
Le donne erano uscite sul verone a far coraggio agli uomini, e
urlavano: - Finitela, finitela! Sode a cotesta birbona ! Cavategli
il core a cotest'anima dannata! -
E da tutte le finestre del casolare erano grida di implacabile
ferocia e gesti di maledizione; quando, in mezzo a quel diabolico
tumulto, giunse il povero Cecchetto il quale, appena vista la sua
nonna per terra con le vesti strappate, immobile e sanguinosa nella
faccia, perduto il lume degli occhi, si avventò al gruppo dei
contadini, urlando disperato:
- Non me l'ammazzate! è la mi' nonna, non me l'ammazzate! - E
dava pedate, e graffi e morsi a quei manigoldi, i quali, non
accorgendosi nè anche di lui, avevano alzata la vecchia da
terra, e trasportandola verso la casa, gridavano:
- Al forno, al forno la strega! foco nel forno! -
Pioveva a diluvio. Cecchetto, pazzo dallo spavento, correva di qua e
di là per l'aja, guardando ora alle finestre, ora alle
strade, come se da qualche parte potesse arrivargli un soccorso. Ma
dalle finestre non venivano che occhiate e grida feroci; dalla
campagna e dalle strade il rumore del vento e il gorgogliare delle
fosse gonfie a trabocco.
A un tratto il ragazzo mandò una voce acutissima,
restò un momento a guardare per accertarsi, poi, rapido come
il vento, si precipitò a salti giù per una strada,
gridando: - I soldati! i soldati! -
Due carabinieri, sorpresi dal mal tempo in aperta campagna,
affrettavano il passo verso le Capannacce, per ripararvisi
dall'improvviso diluvio.
TIPI CHE SPARISCONO
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Le linguacce dicevano che era vino calato alle gambe; ma, in
verità, senza escludere affatto che anche il vino ci avesse
la sua parte, erano vene varicose. Con questo malanno addosso, il
dottor Prospero non era più buono di fare un passo a piedi; e
per poter visitare i suoi malati, quelli soli che per loro fortuna
stavano di casa lungo la via maestra, si faceva caricare sopra un
calessino sgangherato, e tutti i giorni, dalle sei della mattina
alle undici, andava a giro per il Comune.
In quelle condizioni, senza scender mai dal suo veicolo,
perchè gli era affatto impossibile, andava a portare, diceva
lui, mezzo scherzando e mezzo sul serio, la salute alle case. E
questa salute andava a portarla in un certo suo modo particolare
che, a giudicarne così a occhio e croce, pareva promettere
imminente un allargamento del cimitero, se i fatti non avessero
dimostrato che in quel Comune le faccende della salute andavano
precisamente come in quegli altri, dove ad averne cura v'erano certe
barbe di scienziati da creder vicina, in grazia loro, l'abolizione
della morte o giù di lì.
Ma per capir meglio il dottor Prospero da vecchio e nell'esercizio
delle sue funzioni, non è male conoscerlo giovane studente
dalle leggende che i suoi condiscepoli d'Università gli
avevano applicate con le loro fervide fantasie.
Di lui si raccontava, fra le altre, che all'esame di matricola, in
clinica medica, aveva preso un panciotto per un attacco di petto; e
alla prova di medicina operatoria, dovendo fare l'amputazione di una
gamba, sbagliò, non si sa bene se per una fatale distrazione,
per timor pànico o per entusiasmo scientifico, e
tagliò una gamba del letto invece di quella del malato;
tantochè, rovinando il letto, quel malcapitato paziente,
ruzzolò sull'impiantito, fratturandosi in tre posti la gamba
sana.
Queste, come si capisce, erano spiritose invenzioni di quei capi
scarichi; ma quest'altra è vera.
Venuto in condotta, accadde sui primi tempi che un giorno, chiamato
da un contadino per una urgentissima operazione al figliolo, egli
non voleva andare; ma finalmente si decise a muoversi quando lo
scaltro contadino, gli ebbe detto che nel bosco sotto casa c'era la
beccaccia.
- Vede, sor dottore - diceva il furbo, lacrimando - lei signoria
potrebbe fare un viaggio e due servizj: ammazzare la beccaccia e
salvarmi la creatura. -
Il dottor Prospero andò e, naturalmente, ammazzò la
creatura, e la beccaccia fu salva.
Ma torniamo dove eravamo rimasti. Una mattina, stanco dopo una lunga
passeggiata, mi trovavo a riposarmi e a mangiare un boccone in una
botteguccia di campagna nella quale si parlava di un pover'uomo, che
abitava su nella stessa casa, gravemente ammalato di febbre tifoidea
accompagnata da una polmonite doppia. Le critiche sul sistema di
cura e le espressioni di trepidazione e di dubbio sulla sorte che si
preparava a quella povera famiglia minacciata della perdita del suo
unico sostegno, si succedevano accalorate e piene di sconforto;
quando comparve e si fermò davanti alla bottega il dottor
Prospero, bianco di polvere e arrostito dal sole. Appena fermata la
sua brenna, quasi invisibile dentro una nuvola di mosche e di
tafanelli, si voltò in su e chiamò:
- O Rosa.
- Sor dottore - rispose la moglie del malato, affacciandosi alla
finestra, nel tempo che di dentro si sollevò un
pigolìo lacrimoso di bambini.
- Come sta cotest'uomo?
- Male, sor dottore, male dimolto.
- Ah, ah, ah! - Si udiva la voce fioca del malato il quale, sentendo
parlare in quei termini della sua pelle, si lamentava.
- E allora - disse il dottore, aggrottando le ciglia - qui bisogna
fare un esame minuto, bisogna vedere sul serio di che si tratta
perchè non vorrei....; basta, ora si vedrà. - E alla
donna che si era ritirata dalla finestra:
- O Rosa.
- Sor dottore.
- Affacciatevi, Rosa.
- Che mi diceva?
- Bisogna guardargli la lingua a cotest'uomo. Rosa. L'ha sempre
rustica e appiccicosa come giovedì, oppure?...
- Veramente, stamani mi parrebbe un po' meno peggio del solito.
- O quelle screpolature che mi diceste l'altra settimana, ce l'ha
sempre?
- Sissignore.
- Tosse dimolto?
- Ora no; ma stanotte non ha avuto pace un momento.
- Suda?
- Nossignore.
- O nella nottata ha sudato?
- Fino alla mezzanotte è stato in un mar di sudori; ma poi,
ha avuto un bisogno, e m'è toccato scompannarlo tutto; e ora
eccolo sempre qui colla pelle secca che pare una serpe.
- Non è nulla, Rosa. Poi vi dirò quello che gli
dovrete fare per riattivargli la traspirazione alle acute. Ora
seguitiamo il nostro esame e guardiamo se ci riesce d'orizzontarci
con sicurezza perchè al terzo settenario.... cioè....
siamo al terzo o al secondo, Rosa?
- Badi, veh; la febbre, salvo errore, gli entrò, mi pare, la
mattina del.... Si ricorda quando ribaltò la diligenza di
Natale!
- Il dodici.... domenica a quindici.
- Sissignore. Dunque oggi s'entrerebbe...
- Nel terzo settenario....
- Nossignore; s'entrerebbe nella quarta settimana, perchè,
badi: dodici e sette fa diciannove, diciannove e sette....
- Be' be': questo importa poco. Diciamo piuttosto un'altra cosa,
Rosa: cotesta benedetta pancia come l'ha? l'ha sempre dura come ne'
giorni passati o gli s'è un po' ammorvidita?
- O come devo fare a dirglielo, sor dottore! A me mi parrebbe sempre
dimolto gonfia; ma sarà vero?
- Benedetta voi! ci vole anche tanto poco a conoscerlo. O gli occhi
e le mani per tastargliela, non l'avete! Com'è? floscia o
tirata! Dateglici delle manate a mano aperta.... Giù!
sentiamo.
«Ccià, ccià, ccià.»
- Va meglio, va meglio, Rosa; molto meglio dei giorni passati! -
disse pronto il dottore, giudicando dal suono. Ma era un malinteso.
La donna lo chiarì, venendo subito alla finestra a raccontare
che quelle bòtte erano sculaccioni dati al suo figliolo
maggiore il quale s'era messo, quel birbante! a fare i baffi con un
fiammifero spento, alla Madonna di Pompei. Gli strilli e i pianti
disperati del ragazzo non lasciavan dubbio sull'equivoco.
- E allora, via, non mi fate perder tempo, Rosa, - brontolò
un po' stizzito e un po' mortificato il dottor Prospero. -
Sentiamole, via, queste condizioni dell'addome, e vediamo se ci
riesce di venire a qualche cosa di concludente. -
La donna andò ad eseguire gli ordini, e:
«Ccià, ccià, ccià» faceva la pancia
del malato; e il malato, a ogni bòtta:
- Ah, ah, ah.
- Pare che vada meglio davvero, Rosa. Copritelo, copritelo. E il
polso!
- Questo, poi, sor dottore....
- Eh, Gesù mio Signore, affoghereste in un bicchier d'acqua!
Pigliategli il polso in mano.... Gliel'avete preso!
- Sissignore.
- Lo sentite battere?
- Nossignore.
- Scorrete con le dita e lo troverete.... L'avete trovato?
- Mi parrebbe di sì. Ma ora lei signoria come fa a sentirlo?
- Eh, permio baccone! credevo che mi aveste un po' più di
stima. Le sentite bene le pulsazioni?
- Sissignore.
- Vi riesce di fare «ta, ta, ta»?
- Sissignore.
- O via! A ogni colpo del polso, fate a cotesta maniera e
vedrete....
- Ta, ta, ta, ta...
- Basta, basta, Rosa; ho sentito. Va meglio, va meglio. Oh, sia
lodato il Signore! O i soliti vaneggiamenti gli ha avuti anche
stanotte! -
La donna, spenzolandosi dalla finestra e parlando sotto voce per non
essere sentita dal malato:
- Gli ha avuti anche stanotte, sissignore. Stia zitto, chè, a
avere avuto voglia di ridere.... in verità.... Ma mi dica!
l'aveva presa con lei. Diceva che era una bestia, gli faceva il
verso quando lei signoria sbadiglia come ha fatto ora, eppoi gli
voleva tirare una schioppettata....
- Ma insomma, da quel che sento, si tratta di cosa leggiera
perchè proprio fuori di sentimento addirittura....
- Questo no, nossignore. Proprio fori di sentimento non c'è
andato mai.
- Meglio così, meglio così. E la voce gli s'è
punto rialzata? -
E senza aspettare la risposta, il dottor Prospero cominciò a
chiamare:
- O Gosto.... Gostooo!
- Uh, uh - rispondeva con voce spenta e cavernosa il malato. E il
dottore, che non aveva sentito, seguitava a chiamare:
- O Gosto.... Gostooo!...
- Gli ha risposto, dottore; non lo sente?
- Uh, uh, uh!...
- Allegri, allegri, Gosto, - gridò il medico il quale
finalmente aveva sentito. - Allegri, Gosto; anche questa burrasca
è passata. -
Si dette una fregata di compiacenza alle mani, accese la sua gran
pipa di ciliegio, poi disse a Rosa che gli portasse giù una
serqua d'ova che egli ricambiò con una ricetta che aveva
preparata col lapis sopra un brincello di carta. Ma prima di
consegnargliela, voleva riempirvi una lacuna che aveva lasciato, non
ricordandosi il nome del medicamento.
- Corpo di bacco! - brontolava il dottor Prospero, grattandosi la
zazzera arruffata. - O che mi vol tornare in mente! Già,
accidenti a tutte queste medicine nove, che ne 'nventano una la
settimana! Voi ve ne dovreste ricordare, Rosa. Come si chiamava
quella polverina sottile che vi segnai anche l'altra volta?
- Bicarbonato, dottore - disse l'oste, di fondo alla bottega dove
era andato a preparargli il solito bicchiere di vino.
- No, Gianni. Ci corre poco perchè finisce in ato anche
quella; ma bicarbonato non è dicerto.
- Precipitato?
- Neanche.
- Sublimato?
- Nemmeno. -
Qui nacque una discussione animata fra l'oste, la donna e il medico,
il quale si ricordò finalmente che era salicilato.
Bevve allora più contento il suo bravo bicchier di vino a
digiuno, e poi, lui e il cavallo, acclamati come veri benemeriti
della salute pubblica, si allontanarono fra lo scatenìo del
suo trespolo sgangherato, in mezzo a una nuvola di tafani e di
polvere.
Gosto, è superfluo dirlo, si ristabilì perfettamente
in una quindicina di giorni; e ora, prima Dio eppoi il dottor
Prospero, ha già ricominciato a dare certe legnate alla
moglie, che anche lei non fa altro che dire di quella gran bella
salute.
LA GIOVENCA ROSSA
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Il vecchio Ambrogio, padre di quei cinque giovanotti e di quelle due
ragazze, era a letto con mia polmonite gravissima.
Anche il figliolo minore, Eusebio, un ragazzaccio di quattordici
anni, messo in apprensione da quello che aveva detto il medico la
mattina uscendo burbero dalla camera del malato, era venuto a casa
presto, lasciando soli alla pastura quattro vitelli e la giovenca
rossa, il più bel capo della loro stalla.
- Sole a quel modo, saranno sicure quelle bestie, ragazzo? -
domandò a Eusebio il fratello maggiore.
- Prima di lasciarle ho assicurato tutte le pastoie. Non c'è
pericoli. -
Le pastoie erano state assicurate, ma non era vero che non ci
fossero pericoli.
- Son bestie giovani. Mi fido poco. Va' a dargli un'occhiata,
ragazzo. -
E il ragazzo andò, brontolando. Una mezz'ora dopo, tutte le
persone di casa, dalle finestre e di sull'aia, attente e spaurite,
guardavano in direzione del poggio dal quale venivano grida e pianti
disperati.
- È la voce d'Eusebio!
- No.
- Sì.
- Sì.
- È lui, è lui!
- Qualche disgrazia, qualche disgrazia! -
E, cupi negli sguardi e senza una parola, via tutti, tutti (li corsa
in quella direzione.
La giovenca rossa, in mezzo a una piaggia scoscesa, mugliava, a
gambe all'aria, con una gamba troncata. Poco distante, Eusebio, si
rotolava per la terra, dandosi pugni nel capo e mandando grida
acutissime.
Il fratello maggiore, a quella vista, perso il lume degli occhi, gli
si avventò con urli bestiali. Gli altri, gli si attaccarono
addosso per trattenerlo.
- Lasciatelo fare, ha ragione, lasciatelo fare chè m'ammazzi.
Ah, ah, ah! - gridava forte il ragazzo, battendo il capo tra le
zolle dure e tra i pruni.
- Infame! hai rovinato la nostra famiglia ! - gridava il. fratello,
con voce soffocata.
- Ammazzatemi, ammazzatemi! - chiedeva disperato il ragazzo, e si
percoteva coi pugni la testa, supplicando smanioso che lo punissero.
La giovenca rossa soffiava e mugliava, leccandosi la zampa troncata.
- Via, lesti, per il veterinario! -
Un giovanotto si staccò di corsa dal branco, e gli altri,
sbagliando, imbrogliandosi, urtandosi nella foga, si misero intorno
alla bestia per incannucciarle la gamba.
- No, è troppo corto questo.
- Quel palo laggiù!
- No, quell'altro.
- Quello più là.
- Cotesto.
- O una fune?
- Non ce n'è.
- Un legacciolo, donne, un salcio, una sottana, un grembiule....
- Bòna lì.... Ahi!... Bòna, Rossa!... -
La giovenca, spaurita da tutto quell'armeggìo, sferrava calci
e mandava mugli squarciati, tentando d'alzarsi.
Alla peggio e dopo fatiche inaudite, fu improvvisata intorno alla
gamba rotta un'armatura di pali e di canne, tenuta insieme da forti
legature di salci, e di grembiuli di quelle donne. Ma appena finito
il lavoro, la giovenca, buttandosi via da dosso tutta quella gente,
con un grand'urto improvviso, si rizzò in piedi sbuffando per
ricadere subito, con un tonfo sordo, fra lo sgretolìo dei
pali e delle canne che si troncarono come fuscelli secchi, non
appena la bestia si appoggiò sulla gamba fiaccata.
Quando arrivò il veterinario, accompagnato da Zeno macellaro,
i contadini, senza speranza e dopo tante fatiche, scapigliati e
lordi, nelle mani e nei visi, di sangue, di sudore e di lacrime,
sedevano muti intorno alla giovenca la quale, spossata anch'essa,
giaceva immobile al sole, dentro un nuvolo di mosche.
- Ho portato Zeno con me, - disse il veterinario - perchè
quando ho sentito di che si trattava, ho pensato che, più che
di me, ci sarebbe stato bisogno di lui. -
Un pianto dirotto dei contadini tenne dietro a quelle parole. Il
veterinario guardò la gamba della giovenca, scosse il capo e,
voltosi al macellaro:
- Zeno, intendetevi con cotesta gente. È affare vostro. Io
non posso far nulla.
- E allora, che mi dite, voi, Pasquale? - domandò Zeno al
giovanotto maggiore. - Vostro padre è malato; si deve
contrattare fra noi? -
Pasquale si alzò lentamente e, fatto un cenno a Zeno,
andarono insieme a parlare in disparte, a ridosso d'un cespuglio di
marruche.
La discussione fu animata e lunghissima. Ma finalmente il contratto
fu concluso, e questo si capì dalle parole che Pasquale
rivolse al macellaro, con voce alta e cavernosa:
- Siete un ladro! M'avete strozzato perchè sapevi che di
macellari, in questi dintorni, non ci siete che voi. Ladro! -
E brontolando la parola «ladro» venne, con le braccia
ciondoloni e il cappello affondato sugli occhi, a dare ai suoi
fratelli la notizia del magro contratto.
- Ladro! - ripeterono tutti in coro, buttandosi di nuovo a
singhiozzare desolati.
Zeno, perchè la carne della bestia non avesse a soffrire,
andò sollecito a piantare nella gola della giovenca il suo
coltello affilato.
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Il vecchio Ambrogio, dimenticato per tre ore da tutta la famiglia,
anche lui aveva sistemato in quel tempo, Dio sa come, le sue
faccende; e, freddo, allungato nel letto, non fu a tempo a sapere
che quel cane di macellaro, d'una bestia che ne valeva cinquanta,
non aveva voluto dar più di trentadue scudi.
LA VISITA DEL PREFETTO
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Passeggiando per le vie del paese, nessuno, sul momento, si sarebbe
accorto che ci era alle viste qualche cosa di grosso, dopo che il
Sindaco aveva ricevuto quel telegramma dalla Prefettura. Una gran
folla dentro e davanti alla farmacia del Verdiani e niente altro. Ma
dai cortili e dai giardini, per chi avesse dato un'occhiata sul di
dietro delle case, l'affare cambiava aspetto. A quasi tutte le
finestre era uno sventolìo di sottane e di vestiti neri tesi
al sole, mentre un odore acuto di naftalina volava sottile per
l'aria, mescolandosi al profumo degli amorini e delle mammole in
fiore. Sulle terrazze e all'aria aperta era uno sbacchettìo e
uno stropiccìo generale per levar polvere e frittelle, e per
rimettere possibilmente a nuovo un arsenale di calìe, che da
qualche diecina d'anni dormivano saporitamente in fondo agli armadi
Un vero disastro per le tignole!
Il telegramma giunto al Sindaco gli annunziava l'arrivo del Prefetto
per il giorno dopo, col treno delle dodici e quaranta.
- È un'ora brutta! - diceva il Sindaco di Torrefosca ai
membri della Giunta riuniti per l'urgenza.
- È un'ora brutta per sapere se si deve preparare una
colazione, un desinare o un rinfresco.... Basta. Di questo ne
riparleremo più tardi, quando sarà arrivato anche
l'assessore Verdiani. Ooooh! dove s'era rimasti?... Ah! E allora,
dunque resta fissato che lei pensa subito in serata a far avvisare i
capifabbrica e la Direttrice delle scuole; lei si occupi del maestro
della banda....
- L'ho già avvisato.
- Bravo! Lei mi diceva che si prenderà l'incarico delle
vetture; e io penserò al Proposto e alle suore del
Conservatorio. Ma il Verdiani, dico io, che fa quest'assessore
Verdiani?... Segretario!
- Son subito da lei, signor Sindaco - rispose il segretario,
movendosi dalla stanza accanto e comparendo sollecito in quella
della Giunta.
- Ma dunque, dico io, questo Verdiani, segretario, viene, sì
o no?
- Ho mandato il Trambusti....
- Ma il Trambusti che fa? Che fa questo Trambusti? Torni almeno lui,
corpo di...! sangue d'un!... -
Il Sindaco cominciava a impennarsi a buono e, sentendo tutta la
responsabilità che gli pesava addosso, era impaziente di
sistemare degnamente le cose.
- Chi c'è di là, segretario?
- Il Torrini e l'ingegnere.
- Mi mandi subito di qua il Torrini.
- Se non sbaglio, eccolo, signor Sindaco.
- Chi?
- Il Trambusti. Lo sente? - rispose il segretario - è per le
scale che monta. O che urlìo è questo? corpo di!... -
e affacciandosi alla porta: - Silenzio! Che maniera è
cotesta! Sangue d'un!... O che vi credete d'essere al mercato?
Bell'educazione davvero!
- Ma io, signor segretario....
- 'Gnamo, 'gnamo; pochi discorsi e chetiamoci ! -
Il Trambusti entrò tutto scalmanato a raccontare che il
Verdiani l'aveva mandato via come un birbone, e che gli aveva detto
che facessero senza di lui, perchè lui non poteva venire in
punte maniere.
- Segretario, abbia pazienza, ci arrivi un momento lei e senta un
po' di che cosa si tratta, e mi mandi di qua l'ingegnere. -
Il Verdiani, cognato del Bargelli trattore, era un elemento troppo
necessario per l'occasione, ora che si doveva parlare di colazione,
di pranzo o di rinfresco.
Con l'ingegnere tu stabilito che quel monte di materiali in piazza
Garibaldi sarebbe stato levato subito in serata, e che avrebbe fatto
riempire con un po' di ghiaia tutti gli avvallamenti del lastrico in
Via Mazzini e nel Corso Umberto I. Dello sprillo della fontana,
l'ingegnere disse che s'era provato, ma era tempo perso per via
della ruggine.
Finalmente arrivò anche il Verdiani con un diavolo per
capello. E in verità, povero Verdiani! aveva ragione. Non
è tollerabile, via! non si può sopportare che in un
paese civile accadano scene come quella accaduta a lui dopo la
notizia del telegramma! Belle prepotenze! Come se lui fosse
obbligato a tenere in farmacia una botte di benzina! Dice: lo doveva
prevedere. Prevedere un corno! Quando in tempi ordinarj, se ne vende
una boccia o due l'anno, a far dimolto, chi va a pensare?... Ma poi
che maniere! Appena ebbe detto che la benzina era finita e che, se
avevan delle frittelle sui soprabiti, se le levassero col sapone:
urli, fischi, trattamenti che neanche a un galeotto; eppoi una
sassata in un vetro, e Dio sa come poteva andare a finire se non
arrivavano i carabinieri a vuotare la farmacia e a dargli tempo di
chiudere. E, quel che è peggio, c'era la serva del Sindaco
che era la più accanita di tutti....
- Ma, in fin dei conti - interruppe il Sindaco, scattando - nessuno
le chiedeva altro che di trovarsi in grado di corrispondere ai
bisogni del pubblico e di aver fornita la farmacia, come prescrive
il regolamento dei medicinali.
- Sissignore; e siamo perfettamente d'accordo; ma la benzina, lei
m'insegna, non è un medicinale. Permicio baccone! Eh, sarebbe
bella davvero che mi volessero contare per medicinali anche le
candele, i bottoni e i gomitoli di refe che mia moglie tiene in uno
scaffale a parte!
- Ma io volevo dire....
- Lei dica quello che vole; e io direi che sarebbe l'ora di farla
finita....
- Signor Verdiani!...
- Sissignore; sarebbe l'ora di farla finita con queste persecuzioni.
- Andiamo, andiamo, signor Verdiani: lei non è penetrato
della gravità della situazione, e lei, mi permetta di
dirglielo, lei non possiede il senso dell'opportunità.
- Ma, signor Sindaco....
- Consideri se questo è il momento....
- Già! E il vetro rotto me lo ripaga lei?
- Si metta a sedere, e finiamola!-
Questo «finiamola» il Sindaco lo disse con un tono di
voce così grosso, che il Verdiani non ebbe fiato di
replicare. Si levò la papalina e andò a sedere tutto
rannuvolato sopra una seggiola in disparte.
- Si diceva, - riprese il Sindaco, dirigendo la parola al Verdiani -
si parlava di questa refezione da offrirsi al signor Prefetto, se
sarebbe bastato un bel rinfresco, o....
- A che ora arriva?
- Ve l'ho detto anche dianzi: a mezzogiorno e mezzo circa.... Ma poi
si capisce che, fra un ninnolo e un altro, si pena poco a fare il
tocco sonato e magari le due.
- E se n'anderà?
- Di questo non se ne sa niente. Ma, dicerto, gente d'affari come
quella, se n'anderà coll'omnibusse delle cinque.
- Il treno delle cinque è stato soppresso. - disse uno dei
presenti.
- Male! - osservò il Verdiani.
- E allora - continuò il Sindaco - se n'anderà con
quello delle nove o, alla più lunga, col diretto delle dieci
e quaranta.
- Gua'! Se non fosse per la spesa, un desinare a quell'ora farebbe
comodo anche a noi - osservò l'assessore Zingoni. - Sarebbe
il male del ritardo d'una mezz'ora o giù di lì, ma
finalmente....
- Mi dica, - chiese il Sindaco all'assessore Verdiani - il suo
cognato, che lei sappia, sarà in casa a quest'ora?
- Credo.
- Io vorrei parlare un po' con lui. Che ne dicono lor signori!
- Mi parrebbe fatto bene - osservò lo Zingoni -
perchè, se la spesa....
- Segretario!
- Mi diceva, signor Sindaco!
- Mandi subito il Trambusti a dire al trattore Bargelli se
può arrivare un momento qui, chè abbiamo bisogno di
lui.
- Lo mando nel momento. -
Il segretario uscì, ma rientrò, dopo qualche secondo,
per dire al Sindaco che di là c'era il presidente della
società operaia che aveva bisogno di parlargli.
- Vengo, vengo subito. Con permesso, signori. -
- No, no.... tutti son troppi! Io direi che bastasse una
rappresentanza - diceva il Sindaco al presidente della
società operaia.
- Quando lei ne ha mandati otto o dieci, mi parrebbe.... Se no, si
fa una processione da non finir mai, perchè..., badi, le
faccio il conto: Giunta, consiglio.... cioè, prima la banda.
Dunque: Banda, giunta, consiglio, clero, scuole, società
operaia....
- Noi dopo le scuole!? - osservò il presidente, con l'amaro
sulle labbra.
- E allora diremo così:... oh, dunque si diceva: banda,
giunta, consiglio, clero, reduci, società operaia....
- Noi dopo i reduci, noi?! - balbettò il presidente, col
veleno nel fiato.
- Ma, caro lei, in qualche modo bisognerà adattarsi!
bisognerà che qualcuno....
- Vediamo, vediamo, signor Sindaco, guardiamo se fosse possibile....
- C'è poco da guardare, amico mio. Il proposto mi manda a
dire che lui e i suoi preti, se non son messi subito dopo il
consiglio, si rifiutano di venire; i reduci hanno detto che dietro
la società operaia loro non ci stanno; lei mi dice a cotesta
maniera.... E allora ditemi come si fa a contentarvi!
- Se si trattasse di cosa mia particolare, capirà bene,
signor Sindaco.... Ma quei giovanotti? Sa.... son ragazzi piuttosto
allegri.... di mano lesta....
- Be'! Parlerò nuovamente col Cangialli e guarderò se
si piega.... Mi rincresce.... ci ho di là la Giunta
adunata.... mi rincresce di non potermi trattenere....
- Ma che le pare, signor Sindaco! Anzi, mi scusi - Sa! glielo
ripeto, non è per un'idea mia, ma ripensando che....
- Vedremo, vedremo; vedremo di fare il meglio che sarà
possibile.... Arrivederlo.
- Signor Sindaco, arrivederlo. -
__________________
- Il Bargelli trattore non s'è anche visto, eh? -
domandò il Sindaco, rientrando nella stanza della giunta.
Poi, avendo veduto l'assessore Zingoni il quale, cascato di
traverso, con un braccio allungato sulla tavola, dormiva come un
tasso:
- Che sconvenienza, che sconvenienza! - esclamò disgustato.
- Verdiani, mi faccia il favore, lo scota un po' che si desti. -
Il Verdiani, nero come era, gli fiancò una gomitata nel
groppone, da stroncargli una costola; e lo Zingoni, destandosi di
sussulto: - Eh? Oh! Il Prefetto? Ah! - Sorrise si stirò le
braccia e brontolò una specie di scusa per fare intendere che
lui dopo desinare.... È una sconvenienza.... si capisce...
ma, anche a casa sua, quando ha mangiato.... Cascaggini,
cascaggini!...
- Segretario, - chiamò il Sindaco - che è tornato il
Trambusti?
- Sissignore.
- C'era il Bargelli a casa?
- Sissignore. E ha mandato a dire che a momenti sarà qui.
- Va bene. Chiuda perchè vien vento, e dica al Trambusti che
vada subito a chiamarmi il Cangialli perchè ho bisogno di
vederlo.
- Eccolo il Bargelli, signor Sindaco - disse il segretario che s'era
affacciato alla finestra a guardare in piazza.
- Meglio così. Appena salito, lo faccia passare; e quando
torna il Trambusti gli dica che vada di corsa a far chetare
quell'accidente di trombone che ci leva di sentimento. -
Angiolino della Baciocca, per non perder tempo, s'era già
messo a provare per la prova che il maestro della banda aveva
fissato per la sera alle otto. Di cima e di fondo al paese, e
perfino dalle colline d'intorno venivano stonature e berci di
strumenti; ma quelli son lontani e.... lasciamoli fare.
Il segretario, tornando indietro:
- Un telegramma, signor Sindaco.
Ah! è il deputato. Sentiamo.
«Trattenuto capitale - importantissimi lavori commissione
Bilancio - non posso - mio grande rammarico - presenziare festa -
ricevimento solenne - Prego ossequiare mio nome conte senatore
prefetto.
DEL-MAZZO»
- Guarda, l'aveva saputo anche lui! - osservò il Sindaco. -
Non c'è pericolo che gliene scappi una, veh, a quell'uomo!
Che mente! che mente! Segretario, bisognerà rispondergli.
- Ho già preparato il telegramma, e quando avremo finito qui,
vado subito a spedirglielo.
- Va benissimo; e si ricordi anche del Prefetto.
- Me ne ricordo; ma ho pensato che per oggi è inutile
telegrafare, perchè a quest'ora gli uffizi della prefettura
son chiusi, e domattina sarà inutile ugualmente perchè
gli uffizi non si aprono fino alle dieci, e alle nove poco
più il signor Prefetto sarà già in viaggio per
venire da noi. Che mi dice?
- Va bene, va bene. Faremo i nostri ringraziamenti e le nostre scuse
a voce, così non si sta ad ammattire....
- E si risparmia una lira! - osservò lo Zingoni, con quella
rapidità e larghezza di vedute, che tutti gli hanno sempre
riconosciuto come assessore delle finanze.
Il Sindaco approvò, dandogli una manata sulla collottola
grassa, e disse al segretario che andasse a cercare del Bargelli.
- Vado a chiamarlo subito. -
Quando il segretario uscì per andare in cerca del Bargelli,
sul pianerottolo delle scale si trovò faccia a faccia con la
signora del Sindaco, la quale gli domandò se erano sempre
adunati.
- Sissignora. Che voleva vedere il suo signor consorte?
- Sì
- L'avviso subito. -
Il Sindaco, sentendo raspare alla maniglia dell'uscio:
- Chi è?... Ah! Che è lei, segretario?
- C'è di qua la sua signora che desidera vederla.
Auff! Vengo subito. -
__________________
Attraversando la sala dei donzelli, si fece incontro al Sindaco un
giovinetto, chiedendogli, per favore, una mezza parola.
- Chi è lei?
- Sono il segretario del Circolo dei velocipedisti....
- Non posso, non posso.... Parli col segretario.
- E lo piantò lì a bocca spalancata per andare dalla
sua signora.
- Illustrissimo....
- Ah, bravo Bargelli! Passate, passate di là da quei signori
e parlate intanto con loro. Fra un momento ci sarò anch'io. -
__________________
La moglie del primo cittadino di Torrefosca, comunicando il tremore
delle sue membra agitate al catafalco di fiocchi, di fiori e di
spennacchi che le trionfava sul capo, aspettava accigliata nella
sala dei matrimonj. Entrato il Sindaco nella stanza, essa non si
mosse. Lo fulminò con un'occhiata di disprezzo, e con voce
soffocata dalla rabbia:
- Bella figura farà tua moglie domani al ricevimento!
- Che c'è, che c'è? Siamo alle solite?
- Guarda tua moglie! Guardi, signor Sindaco di Torrefosca! - E si
mostrava tutta, allargandosi la sottana. - Belli domani! io a
braccetto, e lei alla sinistra di un conte, con queste calìe
addosso! Bella figura! Guardi questa bavera, spilorcio! - e gliela
sventolò davanti. - Guardi quest'ombrellino! - e
l'aprì. - Si guardi cotesta cravatta, signor cavaliere!
- Ma io non vedo, poi....
- Sei un avaraccio!
- Ma, scusa, Letizia....
- Vergogna, con quattro poderi e un mulino!
- Ma, corpo d'un...! Giurammio baccaccio!... Ma che vuoi che
supponessi, io?... Chi va a pensare?... Ma si rimedia, ma si
provvede, ma dimmi, ma fai, ma se vuoi quattrini....
- Ora, eh? E di qui a domattina si stacca e si cuce un abito! E di
qui a domattina si riveste quella tua povera figliola che non ha un
cencio di vestito decente da mettersi addosso, e che è a casa
che piange!
- Ma almeno la cravatta per me....
- L'egoista!... Ma tua moglie non è formata di cotesta pasta;
il sangue della mia famiglia, casa Stanganini! non si smentisce; e
tua moglie a te ci aveva già pensato, e la cravatta l'avresti
già avuta nel cassettone, se Gonippo merciaio non le avesse
finite tutte stamani. -
Fu battuto con le noccole nell'uscio.
- Chi è?
- Amici.
- Chi amici?
- Io, signor Sindaco.
- Chi io?
- Il Trambusti.
- Avanti! -
Il Trambusti si affacciò sulla porta per dire al Sindaco che
di là l'aspettavano perchè il Bargelli aveva furia, se
no, col tempo così contato, lui non poteva restar galante
d'aver preparato tutto.
- Ho capito. Vengo subito. Andate.
- Dammi una trentina di lire - disse la moglie al Sindaco - e
guarderò di fare quello che mi sarà possibile.
- O venti non basterebb...!
- Giuliano!...
- No, no, non t'inquietare, via. Letizia, non t'inquietare. Tieni,
tieni. - E, spaurito dagli occhi della moglie, che, nei momenti
più gravi, diventavan gialli come quelli de' gatti, fu lesto
a metter fuori le trenta lire e a domandarle se le occorreva altro.
- Vorrei menare con me il Trambusti per un paio d'ore?
Non so quel che ci sia da fare in uffizio. Senti il segretario. Io
torno di là. Ooooh! -
__________________
Un branco di gente l'aspettava nell'andito:
«Signor Sindaco, ha detto l'ingegnere che quelle antenne non
è stato possibile trovarle.
«A che ora la riunione? Qui o alla stazione?
«Il presidente dei reduci e fratellanza militare è di
là che l'aspetta.
«Il Grassi della banda è venuto a dire che la montura
la mandò a allargare e ancora non gliel'hanno riportata. Come
si rimedia?
«Dice Pallino se quel mandato glielo vuol firmare ora o se
deve ripassare più tardi.
«La signora Direttrice ha scritto che si sente male.»
- Dal segretario, dal segretario! - brontolava il Sindaco, cercando
di liberarsi da quell'assalto. - Dal segretario, dal segretario! - e
si precipitò nella stanza della Giunta, dicendo al Trambusti
che lui non c'era per nessuno.
- Mi tocca a escire, signor Sindaco.
- O dove andate?
- M'ha detto la sua signora che ha bisogno di me.
- Ah, sì! Allora ditelo al segretario. Non ci son per
nessuno, anche se venisse.... - e chiuse l'uscio con uno
sbatacchione tale, che fece quasi cascare dalla seggiola l'assessore
Zingoni che s'era addormentato un'altra volta.
__________________
Il Trambusti, prima di mettersi dietro alla signora Letizia,
mandò un ragazzo a dire a sua moglie che poi alle sette gli
facesse trovar preparato il solito paiolo d'acqua calda; ma che, per
carità, non se ne scordasse.
__________________
Il Sindaco e la Giunta, alle ventiquattro sonate, escivano dal
palazzo comunale allegri e soddisfatti per andarsene a cena. Tutto
era ordinato: pranzo, legni, banda, associazioni...; tutto era stato
previsto e ora, per grazia di Dio, non mancava altro che una bella
giornata piena di sole, perchè ogni cosa riuscisse come era
stata immaginata.
- Quando fece la luna nova, Zingoni?
- Sabato notte alle quattro e venticinque.
- Ne siete sicuro?
- Perdiana baccone! Ho letto il lunario stamani; e quello non
fallisce.
Allora siamo a cavallo! -
__________________
La sera alle dieci, dopo il tempestìo della banda che
provò per tre ore, senza prender respiro, quel bel passo
doppio che, cinque anni fa, piacque tanto anche al professor
Buonamici, tutto il paese dormiva.
Tutti no. Il Sindaco, ritirato nel suo scrittoio, scriveva il saluto
da farsi alla stazione e il brindisi per il pranzo. Ora pensava
profondo col capo fra le mani; ora sorrideva ispirato, guardando il
Prefetto negli occhi; ora gestiva tanto concitato da schizzare
intorno l'inchiostro, fino alla tenda bianca della finestra.
Nella stanza degli armadj, la signora Letizia e la figlia, aiutate
da due sartine del paese, ansando dalla bramosia e senza una parola,
tiravano via a cucire, con la febbre nelle mani.
In una povera catapecchia in fondo al paese, il Trambusti, con le
gambe in un catino, non trovava la via di farsi calmare lo spasimo
che gli era entrato nei piedi.
__________________
- Ah! che mattinata di paradiso!.... Bravi, bravi giovanotti! -
Il Sindaco, spalancando la finestra di camera, aveva salutato quel
bel cielo sereno e quattro suonatori i quali, già in montura,
passeggiavano pavoneggiandosi per la strada.
- Ben alzato, signor Sindaco.
- Bon giorno, Zingoni. Ma che mattinata, eh? -
Lo Zingoni che stava di casa di rimpetto al Sindaco, aveva aperto
anche lui la finestra e guardava, stropicciandosi gli occhi gonfi e
assonnati, quella spera di azzurro incantevole.
- Bella entratura di mese! Ma per le campagne ci vorrebbe un po'
d'acqua. Per i grani non dirò; ma le robe baccelline ne
toccano. Eppoi, caro Sindaco, i proverbi non mentiscono:
Acqua d'aprile
Ogni gocciola vale un barile.
- Arriverà.... cioè: pioverà, non dubiti.... -
Il Sindaco era distratto: «In questa solenne occasione, in
questa classica Terra, non seconda a nessuna di questa patriottica e
fertile vallata...» Ripassava mentalmente il saluto della
stazione.
- Signor Sindaco. - Non sentiva la voce che lo chiamava, e:
«Mentre al di là degli oceani....»
- Signor Sindaco.
- Che volevi, bambino!
- M'ha mandato il legnaiolo, quello che prepara la tavola da
mangiare, a sentire se lei ci avesse una ventina di bullette di
Francia perchè alla magoncina non hanno anche aperto.
- Ci dovrebbero essere. Senti un po'giù da coteste donne....
Costì.... O dove vai?... Sona il campanello.... Più
forte!... «mentre al di là degli oceani, la nostra
bandiera....»
- Bon giorno, signor Sindaco.
- Bon giorno, signori.
- Signor Sindaco, ben alzato.
- Bon giorno, ragazze. Brave, brave!... Uh, come siete belle!
- O la signora Esterina?
- È al di là degli oceani che cuce.... cioè....
no.... volevo dire: son giù che fanno colazione.
- Signor Sindaco, ben alzato.
- Salute, signori, salute!
- Bella giornata, eh?
- Stupenda! -
Un organetto ambulante si fermò sotto la finestra dello
Zingoni a russare e a belare sfiatato:
Ah che la morte ognora
È tarda nel venir....
- Che opera, che opera la Semiramide! - esclamò il Sindaco,
buttando un soldo nella strada.
Lo Zingoni spaventato dal pericolo del soldo, dette una gran
finestrata, e per tutta la mattina non si seppe più nulla di
lui.
Benchè fossero appena le otto, il paese si animava a vista
d'occhio. La strada brulicava di gente, e le botteghe si aprivano,
una dopo l'altra, tutte abbellite a festa davanti a quel bel cielo
di primavera. Chi metteva fuori bandiere, chi imbullettava festoni,
chi lustrava, chi spolverava, chi lavava.... Laggiù in piazza
si vedeva da lontano il Raglianti che, sbatacchiando di qua e di
là il tubo di tela della botte, annaffiava la strada, con un
branco di ragazzi d'intorno, i quali, fra grandi risate, si
divertivano a farsi infradiciare. L'ingegnere e il segretario
passarono di fuga, seguiti a stento dal Trambusti che s'arrancava
sotto un fascio di bandiere per la sala del banchetto.
Era un viavai affaccendato e giocondo; un gridare, un ridere, un
ciarlare a voce alta; saluti festosi, chiamate da lontano, sberci di
tromboni e strilli di ragazzi matti dalla contentezza perchè
era vacanza; e uno scatenìo di sonagliere e di legni che
arrivavano dalla campagna; e un brillare acceso di sole sui colori
diversi della folla; e un pigolìo di rondini, e uno
svolazzare di vento innamorato tra i profumi delle terrazze e delle
finestre adornate di fiori e di giovani occhi sorridenti.
Il Sindaco, tornato a casa dal Comune dove era stato un paio d'ore
per invigilare e per dare le ultime disposizioni, dopo essersi
bardato dei suoi finimenti di gala, non esclusa quella famosa tuba,
quella specie di lupo campatoio che da quindici anni perdeva il pelo
ma non il vizio, quella tuba solenne dalla tesa tanto larga da
sembrare un paracadute, si affacciò alla finestra a dare
un'occhiata.
- Viva il nostro Sindacooooo!
- Zitti, zitti! - accennò con la mano, come per dire:
«È presto ora, è presto. Più tardi,
più tardi» e si tirò indietro quasi commosso nel
pensare che, in fin dei conti, tutta quella roba era merito suo, e:
«In questa solenne occasione, in questa classica
Terra....» Allungando passi smisurati per la stanza, dava
un'ultima ripassata al saluto della stazione.
A mezzogiorno preciso, la giunta e una rappresentanza di
consiglieri, vennero a prenderlo a casa per fargli scorta fino al
palazzo del Comune. Salutata da uno scoppio d'applausi, seguito da
uno più grosso di risate, comparve prima la serva a
spalancare i due battenti della porta, e subito dopo, il Sindaco si
presentò raggiante sulla soglia, avendo a fianco la sua
signora che sfolgorava sotto una fiammante bavera della stessa roba
di quella della sua cravatta nuova, e:
- Addio, buona Letizia; fra poco ti mando il legno. Signori,
andiamo.... -
Chi non ha visto quel gruppo, incedente maestoso tra la folla che si
allargava salutando al loro passaggio, chi non ha visto quello
sciamannato sbrendolìo di falde, di barbe arruffate, di
calzoni a tromba, di solini sfilaccicati e di ciarponi neri
svolazzanti, Ha visto ben poco nel suo mondo o, per dir meglio, non
ha visto nulla.
Avete mai veduto?...
Che cosa?
Vi siete mai trovati?...
Dove?
Parevano.... Dio mio! che cosa parevano!... Parevano un branco
d'uccellacci di padule, uno sciopero di saltimbanchi fischiati, una
processione di quacqueri in lutto, parevano.... Chi me lo sa dire
che cosa parevano?... Parevano il Sindaco, la Giunta e una
rappresentanza del Consiglio comunale di Torrefosca.
Davanti al palazzo del Comune, la folla variopinta era così
fitta, che un chicco di panico non sarebbe cascato in terra a
buttarcene sopra una manata.
Al passaggio dei rappresentanti, fu fatto largo alla peggio, e,
preceduti da una guardia che dava spintoni a destra, e dal Trambusti
che dava gomitate a sinistra, poterono finalmente arrivare alla
gradinata dove il segretario, con uno scartafaccio in mano, aveva
già cominciato a far la chiama per ordinare il corteggio.
- Reduci e fratellanza militare.
- Presenti.
- Sfilate, sfilate e andate al vostro posto.
- Società operaia....
- Società operaia... - Nessuno rispondeva.
- Società operaia....?
- Non vengono - disse una voce.
- Si farà anche senza di loro - osservò un'altra.
- Avanti, avanti, giovinotti, se no si fa tardi.
- Filodrammatici «Provando e riprovando.»
- Presenti.
- Costà dal lampione. Bravi, bravi! costì. C'è
recita stasera, giovanotti?
- Nossignore: domenica. Stasera si prova.
- Circolo ricreativo «l'Amicizia.»
- Presenti.
- Laggiù dietro a loro. Va benissimo!
- Circolo ricreativo «Onore e Concordia.»
- Hanno protestato e son andati a fare una merenda in campagna.
- Buon appetito.
- Legnate!
- Silenzio!
- Velocipedisti.
- Presenti.
- Si mettano costì. E voi, Trambusti, andate in testa a dire
alla banda che faccia una cinquantina di passi avanti, se no,
quaggiù non ci riman posto.... Ammodo.... ammodo!
Costì.... Va bene!
- Tiro a segno.
- Presenti.
- Più serrati.... A cotesta maniera.... Bravo sor Giuseppe!
- Scole elementari. -
Uno strillìo di ragazzi rispose:
- Presenti.
- No, no, signora maestra.... In fondo, in fondo.... Ma facciano un
po' di largo, santo Dio benedetto!... O le guardie! Ma dove si son
ficcate queste guardie? Lo vedete che, se non vi tirate indietro,
non è possibile far nulla!... Silenzio!... Che bel gusto, eh?
Indietro, donne, indietro! -
E sbracciandosi e scalmanandosi, il segretario cercava di supplire a
tutto, sventolando un gran faldone bruno-rossiccio, senza essersi
ancora accorto che da un gomito gli si vedeva la camicia, attraverso
a un sette che s'era procurato armeggiando intorno alla tavola del
banchetto.
- Ooh! dunque noi qui siamo all'ordine.... Giudizio costassù!
-
Il segretario aveva gridato a un suo cugino dilettante fotografo, il
quale, appollaiato sopra un tetto, per metter meglio in foco la
macchina, era venuto quasi in cima alla gronda. E dietro a lui tutti
i ragazzi del casamento.
- Dice il signor Sindaco, se ci possiamo movere - domandò il
Trambusti da lontano.
- Ai suoi ordini. -
- Zun, zun, zun.... -
La banda attaccò il famoso passo doppio che cinque anni fa
piacque tanto anche al professor Buonamici, e il corteggio si mosse.
__________________
La cornetta dell'ultimo cantoniere avvertì che il treno era
alle viste. Un fremito lungo si levò dalle due banchine
gremite di popolo e, come a una folata improvvisa di vento in un
campo fiorito, ombrellini, bandiere, nastri, penne e fazzoletti si
agitarono festosi nell'aria.
- Indietro, signori, indietro! -
Ansando maestoso e balenando scintille dai vetri e dagli ottoni,
quasi fosse consapevole di portar chiusi sotto alle sue squamme
tanto onore e tanta gioia per un popolo intero che l'aspettava, il
gran rettile d'acciaio, con un alto e lunghissimo sibilo,
entrò nella stazione.
- Torrefosca.... Torrefosca.... -
Un uomo sulla quarantina, di aspetto grave e signorile faceva cenni
alle guardie, con la mano inguantata, perchè venissero ad
aprirgli.
Fu un urlo generale.
- È lui! è lui!... Viva.... Vivaaa.... Viva il nostro
Prefetto! Vivaaaaa....! -
Il Sindaco, buttata indietro con uno spintone la guardia che si
avvicinava allo sportello, si avventò alla maniglia e, appena
aperto, si tirò indietro due passi pestando un piede alla
moglie che s'era avvicinata sporgendo un mazzo di fiori, fece un
profondo inchino e rimase a fronte bassa e a braccia spalancate, con
un guanto nella destra e la tuba nella sinistra.
In quell'istante, le suore dell'Immacolata, a un cenno del Proposto,
fecero intonare alle loro alunne la cantata, così detta,
dell'omaggio.
Salve, salve! all'orizzonte
Spunta fulgida una stella,
Salve, salve!...
Il momento era grandioso e commovente.
L'uomo sulla quarantina, dall'aspetto grave e signorile, scendeva
dal vagone, fra l'ammirazione e i commenti simpatici della folla:
«Che bell'uomo!» «Così giovane, già
prefetto!» «Ha gli occhiali d'oro, avete veduto? ha gli
occhiali d'oro!» «È un conte, non è
vero?» «Dice di sì» «Come si vede
bene che è un conte!»
Il Sindaco, visibilmente commosso, aveva già attaccato col
saluto: «In questa solenne occasione, in questa patriottica
Terra non seconda....»
La voce gli si strozzò nella gola e si interruppe
bruscamente.
- Che è accaduto?
- Il Prefetto gli ha dato un biglietto e ora se ne va!
- O questa!
- Mah! -
L'uomo sulla quarantina, dall'aspetto grave e signorile, era un
viaggiatore di commercio della premiata Casa Fratelli Broken e
Compagni di Zurigo.
- E allora?... Segretario!... signor capo.... Ma come? -
Dal vagone di fondo, sorretto da una donna e aiutato da una guardia,
scese a stento un vecchio con la testa tutta fasciata, il quale
tornava da Sovigliana dove era stato a farsi tagliare una natta dal
professor Bellucci. Una gran botta per chiudere lo sportello, eppoi:
- Partenza! partenza!
- No! no!... signor capo.... signor capo!...
- Partenza.
- Signor capo.... Segretario!... No, no! un momento!... -
Il Sindaco pareva impazzato. Correva in su e in giù,
chiamando con voce rantolosa, il segretario e il capostazione, senza
sapere dove battersi la testa. Ma il capostazione e il segretario
non era possibile trovarli tra la folla che incominciava a
tumultuare confusa.
- Che si sia addormentato in un vagone ?!
- Partenza.... Pronti!
- Noooo! - urlò il Sindaco, con una steccaccia che parve un
ruggito. E si precipitò lungo i montatoj a guardare dentro ai
vagoni.
A un tratto mandò un grido, spalancò lo sportello d'un
vagone di prima classe alla coda del treno, dove un signore dormiva,
e s'infilò dentro, senza accorgersi che il convoglio era
già in movimento.
Il conduttore, visto da lontano uno sportello aperto, corse, lo
chiuse e, affrettandosi brontolando, rientrò rapido nella
galleria2 mentre il treno, che aveva dodici minuti di ritardo,
accelerava, sbuffando, la corsa.
- No, no! Stia fermo! Lei si vole ammazzare!... Non si provi!
Dentro! dentro!... - gridavano due guardie, correndo dietro al
convoglio e minacciando.
Il Sindaco, spenzolato fuori del finestrino, cercava d'arrivare la
nottola di sicurezza per aprire, e non intendeva ragione.
- Non si attenti! no! no!
- No, no! - gridò con un solo urlo il popolo inorridito.
Il primo cittadino di Torrefosca, perduta ogni speranza di evasione,
inquadrò la sua dignità nel finestrino, e battendosi
tragicamente la destra sullo sparato della camicia dove, a ogni
botta, lasciava cinque ditate nere:
- Sono infamie, signor capo! Sono infamie, segretario! Primo aprile!
È una burla sanguinosa! Sono infamie!... Ma io! Ma io!
Auff.... Auff....-
Pavesato a festa da centinaia di braccia che si agitavano e di facce
che si spenzolavano fuori dai vagoni ridendo sonore, il treno si
allontanò inesorabile dentro una nuvola di fumo.