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Filosofo del diritto (Venezia 1881 - Berna 1953), prof. (dal 1920)
nelle università di Ferrara, Cagliari, Catania, Parma.
Dimesso dalla cattedra (1938) in seguito ai provvedimenti
antiebraici, si rifugiò in Svizzera, dove insegnò
(1944-45) nei corsi organizzati per i rifugiati italiani, presso
l'università di Ginevra. Tornato in patria (1945), fu
chiamato all'univ. di Firenze; socio corrispondente dei Lincei
(1948). Fra le opere: Delitto e pena nel pensiero dei Greci (1905);
Sul concetto di buona fede (1912); Contributi a una teoria
filosofica dell'ordine giuridico (1913); La filosofia politica di G.
Mazzini (1917); Saggi di teoria del diritto (1923); Istituzioni di
teoria generale del diritto (1934); Romagnosi (1935); Riflessioni
sul problema della giustizia (1943); Teoria generale del diritto
(1950).
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DBI
di Alberto Cavaglion
LEVI, Alessandro.
Nacque a Venezia il 19 nov. 1881 da Giacomo, direttore delle
Assicurazioni generali e da Irene Levi-Civita, sorella di Giacomo,
già segretario di G. Garibaldi a Bezzecca, giurista e primo
cittadino di Padova all'inizio del Novecento.
Ebbe due sorelle, Olga e Iginia: la prima andò in sposa a
Claudio Treves, esponente di grande rilievo del partito socialista;
la seconda a Edmo Gerbi, agente di cambio livornese. Per i tre
nipoti, Piero e Paolo Treves, storici entrambi, come per Antonello
Gerbi, americanista e storico dell'Età moderna, il L. fu
qualcosa di più che "lo zio Sandro": un esempio da imitare,
non solo nel rigore degli studi.
Ingegno precoce, diede alle stampe il suo primo scritto quando aveva
soltanto quindici anni: un poemetto allegorico-mitologico (Le Ide,
Venezia 1896) composto, secondo le usanze del tempo, per le nozze di
un cugino, il matematico di fama internazionale Tullio Levi-Civita.
Dal 1898 il L. fu iscritto alla facoltà di giurisprudenza
dell'Università di Padova.
La giovinezza del L. trascorse, quindi, fra Venezia e Padova -
considerata, quando il L. vi giunse, la roccaforte del metodo
"positivo" -, nell'alveo di una cultura carica di memorie
risorgimentali e nel mezzo della temperie che vide sorgere in Italia
le prime organizzazioni socialiste. Il L. strinse un'amicizia
fraterna con un altro capostipite della borghesia ebraico-veneziana,
Elia Musatti, e decisive furono le impronte dategli dal cognato
Claudio Treves, dall'insegnamento patavino di A. Loria, G. Alessio,
N. Tamassia, ma, soprattutto, dal discepolato alla scuola di R.
Ardigò.
Già negli anni universitari il L. iniziò a collaborare
alla stampa socialista, firmandosi con lo pseudonimo di Alfa Lamda.
Da non dimenticare la giovanile collaborazione al periodico
Libertà di Padova; meritano, inoltre, un cenno gli articoli
apparsi fra aprile e dicembre 1907, sempre con lo stesso pseudonimo,
sul primo organo sionista (L'Idea sionnista), che si segnalano per
la lucidità con cui vengono affrontate la questione
dell'antisemitismo e quella dell'emancipazione ebraica.
A Padova il L. si laureò nel 1902 discutendo con B. Brugi (da
cui avrebbe preso le distanze più tardi, per l'adesione al
fascismo del vecchio maestro) una tesi su Delitto e pena nel
pensiero dei Greci pubblicata l'anno dopo (Torino 1903).
Il libro, che contiene una ricostruzione delle concezioni giuridiche
elleniche, ebbe un singolare destino: ispirato al metodo "positivo"
cattaneano, fu recensito benevolmente in La Critica di B. Croce (I
[1903], pp. 361-366) da G. Sorel, autore contrastato dal L. per
tutta la vita in quanto nemico della ragione "positiva", eversore,
creatore di miti, maestro segreto di tanto massimalismo socialista.
La carriera accademica del L. non fu facile. Nel 1907
subentrò a G. Del Vecchio nella cattedra di filosofia del
diritto presso l'Università libera di Ferrara.
Nell'ordinamento di quel tempo, tuttavia, i concorsi nelle
università libere non avevano valore giuridico di concorsi
statali e pertanto il L. dovette subire una serie di ripulse fino al
1920, anno che segnò il suo effettivo ingresso in carriera e
l'immissione in ruolo come professore ordinario
all'Università di Cagliari, da dove passò, l'anno
seguente, a Catania. Nel 1924 venne trasferito a Parma, dove rimase
fino a quando, nel 1938, le leggi razziali non lo privarono della
cattedra. All'Università di Firenze arrivò a insegnare
soltanto negli ultimi anni della sua vita, nel 1948, dopo l'esilio e
il secondo conflitto mondiale. A Firenze però aveva messo
radici già nel 1911, dopo il matrimonio con Sarina Nathan,
nipote del sindaco di Roma, Ernesto.
Tra il 1911 e il 1914, anno della morte del padre, trascorse ancora
molto tempo a Venezia, da dove seguì la vita del partito
socialista nel periodo travagliato della Grande Guerra, opponendosi
a coloro che attribuivano ai neutralisti una
corresponsabilità nella catastrofe di Caporetto; dopo
Caporetto fu responsabile della organizzazione dei soccorsi ai
profughi veneti nella zona di Cattolica. In questi anni fu vicino a
V. Brocchi e collaborò con il sindaco di Venezia, il conte F.
Grimani. L'ascesa al potere di B. Mussolini segnò
un'accentuazione dell'impegno politico del Levi.
Intensificò la collaborazione alla Critica sociale e
seguì da vicino la nascita del giornale di Claudio Treves La
Giustizia; a Firenze si avvicinò a G. Salvemini ai tempi del
processo contro il gruppo di Non mollare! (al termine di un'udienza
fu inseguito dalle camicie nere e malmenato in piazza S. Firenze).
Nel 1925 firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti
redatto da B. Croce. Nel 1928, con la moglie e pochi altri amici
fedeli (fra cui G. Pieraccini e C. Rosselli), in occasione
dell'anniversario della morte di G. Matteotti, proibito ogni omaggio
alla memoria del deputato socialista ucciso, partecipò a
Firenze a una temeraria cerimonia al monumento di Garibaldi e per
questo venne arrestato e rinchiuso nel carcere delle Muratte.
Gli anni del fascismo sono, dunque, segnati da un crescente impegno
civile e insieme da una ricerca storiografica volta a sottrarre la
memoria del Risorgimento ai tentativi di usurpazione operati dal
regime. All'indomani della condanna di Nello Rosselli al confino,
nel giugno 1927, il L. si era recato personalmente a Napoli per
chiedere a Croce di pubblicare nella Critica una recensione a
Mazzini e Bakounine di Nello che apparve nel fascicolo di luglio
(XXV [1927], pp. 241-246). Nello stesso periodo si avvicinò a
R. Mondolfo, P. Martinetti e al gruppo della Rivista di filosofia,
del cui nucleo redazionale fece parte fin dal 1927. Non fu tra
coloro che nel 1931 rifiutarono il giuramento di fedeltà al
regime. Il confino ebbe a patirlo, invece, a Pescara, nel tragico
1940.
Solo, privato da due anni dell'insegnamento universitario, lontano e
inquieto per la sorte dei congiunti, emigrati dopo le leggi razziali
in America o in una Londra prossima ormai a essere bombardata dai
nazisti, il L. trasse profitto dalla segregazione forzata trovando
il tempo per portare a termine articoli, che pubblicò sotto
lo pseudonimo di A.S. Sverni, sul D'Annunzio abruzzese, che
meriterebbero di essere riscoperti.
La caduta del fascismo nel 1943, il passaggio rapido e
pericolosissimo nella Firenze occupata dai Tedeschi, dove la sua
casa fu perquisita poco prima del suo arrivo, lo portarono ad
attraversare quelli che, in una suggestiva testimonianza,
definì i "giorni penosi" (Ricordi di giorni penosi, in Il
Carro minore, II [1947], poi in Id., Scritti minori storici e
politici, Padova 1957, pp. 391-418). In Svizzera riparò nel
tardo autunno 1943, e a Ginevra, insieme con L. Einaudi, tenne corsi
di diritto (R. Broggini, La frontiera della speranza. Gli ebrei
dall'Italia verso la Svizzera, 1943-1945, Milano 1998, ad nomen).
Alla fine della guerra ritornò a Firenze, riprese
l'insegnamento universitario e divenne membro dell'Accademia dei
Lincei.
Il L. morì a Berna il 6 sett. 1953, sulla strada del ritorno
da Bruxelles, dove si era recato per prendere parte ai lavori del
Congresso internazionale di filosofia.
Tre sostanzialmente i filoni che attraversano la sua opera: gli
studi di filosofia del diritto; quelli di storia del Risorgimento,
in particolare l'analisi del rapporto fra Risorgimento e socialismo;
e, infine la scrittura di biografie famigliari, forse il lato
più suggestivo della sua personalità,.
Nel campo degli studi accademici, dopo la tesi, la sua prima opera
teoretica compiuta è Per un programma di filosofia del
diritto (Torino 1905), ma il lavoro cui si dedicò alacremente
nei primi anni di insegnamento è una vera e propria summa
della filosofia positiva del diritto, uscita in francese,
nell'ambito di un'opera collettiva, coordinata da G. Richard,
professore di scienze sociali all'Università di Bordeaux (La
société et l'ordre juridique, Paris 1911). In questo
lavoro sono riassunte le linee generali del metodo "positivo" del
L., il suo animus di legalitario, di un socialista che poneva a
fondamento della storia italiana il principio discriminante della
libertà.
La filosofia è definita come una concezione umanistica
integrale della realtà: "La sfera del diritto è
distinta tanto dalla sfera economica, quanto dalla sfera morale, in
base alla tripartizione delle sfere dell'utile, del lecito e
dell'obbligatorio" (Bobbio, 1986, p. 192). Un'idea della distinzione
- e di rifiuto di ogni funzione pratica o deontologica della
filosofia - che si trovava in accordo con uno dei principî
cardine della filosofia di Croce, cui il L. fu legato da uno stretto
rapporto di collaborazione. Un ulteriore approfondimento di questi
temi si trova nei Contributi ad una teoria filosofica dell'ordine
giuridico (Genova 1914), in Filosofia del diritto e tecnicismo
giuridico (Bologna 1920), nei Saggi di teoria del diritto (ibid.
1924), nei due volumi di Istituzioni di teoria generale del diritto
(Padova 1934-35) e infine nella Teoria generale del diritto (ibid.
1950).
Il primo libro sulla storia del Risorgimento è La filosofia
politica di G. Mazzini (Bologna 1917), nato, come altri studi della
tradizione mazziniana ebraico-novecentesca, dal "conforto a recenti
acerbi dolori" (la morte del padre, nel 1914, una dura e inattesa
bocciatura concorsuale, la crisi interna al partito dopo la guerra
di Libia, la contesa fra interventisti e neutralisti), ma alimentato
da sussidi documentari preziosi provenienti dalla cerchia
famigliare, in particolare dall'archivio di E. Nathan, dal L. donato
alla Domus Mazziniana di Pisa, che sorse nella casa dove Mazzini era
morto, ospite di Giannetta Nathan e del consorte P. Rosselli. La
storia del pensiero politico del Risorgimento proseguì, poi,
con Il positivismo politico di C. Cattaneo (Bari 1928), libro
dedicato alla memoria di Matteotti e perciò posto sotto
sequestro, con il quale il L. portò a compimento il confronto
con i due grandi personaggi dell'Ottocento politico italiano,
Mazzini e Cattaneo, considerati complementari. Al primo "si
può sempre chiedere il viatico di una fede". Dal secondo "si
impara qualcosa di nuovo, che faccia meglio comprendere un problema
storico, economico, politico".
Visto come prosecuzione ideale del Risorgimento, il socialismo
democratico dopo la fine della prima guerra mondiale avrebbe dovuto
completare la strada iniziata con la conversione al parlamentarismo,
al costituzionalismo, anteponendo le graduali riforme al mito dello
sciopero generale e alla follia della violenza. Un socialismo
osservato da un militante disciplinato, ma solitario, fin
dall'inizio preoccupato per la "gente nova" che dall'interno del
movimento emergeva, quanto più il positivismo e la ragione
erano minati dall'irrompente irrazionalismo, donde "il dubbio, forse
inconfessato del Levi se il suo socialismo potesse più oltre
coincidere col socialismo ufficiale" (P. Treves, A. L.: dal
Risorgimento al socialismo, dal socialismo al Risorgimento, in
Critica sociale, LXVI [1974], 1, p. 42). In proposito sono
illuminanti, nell'anteguerra, l'articolo La crisi della democrazia
(in Annali dell'Università di Ferrara, 1912, pp. 3-27) e, nel
dopoguerra, l'apologia di Turati nelle "medaglie" dell'editore
Formiggini (Roma 1924). Sempre per Formiggini pubblicò, nel
1935, un profilo di Romagnosi.
Del socialismo riformista il L. fu un osservatore critico, convinto
che il decennio migliore per il partito fosse quello conclusosi con
la guerra libica. Dal socialismo riformista assorbì comunque
tutti i caratteri, anche quelli più comunemente considerati
come dei limiti dalla storiografia: la vena letteraria, il
carduccianesimo, l'ottimismo legalitario, non ultima l'indulgenza
all'autobiografismo, che il L. seppe trasformare mirabilmente in un
genere di scrittura tutto suo, coltivato per tutta la vita: quello
delle biografie di famiglia, che altro non sono se non una forma di
scrittura autobiografica allargata.
La più nota è Ricordi dei fratelli Rosselli (Firenze
1947), che va tuttavia considerata come seconda parte di un'opera
meno conosciuta, Ricordi della vita e dei tempi di Ernesto Nathan
(ibid. 1927): una vera rarità bibliografica, da considerarsi
un frutto gemellare, l'antefatto del libro sui Rosselli. Stampata
dalla casa editrice Nuova Italia, fu subito posta sotto sequestro a
causa dell'antimassonismo del regime e quindi inviata al macero.
Custode delle memorie famigliari, il L. seppe conciliare le giuste
esigenze della memoria privata con la storia politica dell'Italia,
lasciandoci in questi due libri una doppia autobiografia riflessa:
dalla Roma giolittiana, dove fu dato il caso che ebrei fossero, nel
1910, contemporaneamente sindaco (Nathan) e primo ministro (L.
Luzzatti), alla Roma fascista che nel 1937, un anno prima delle
leggi razziali, ordinò l'eliminazione di Carlo e Nello
Rosselli.