di David K. Fieldhouse
Colonialismo
Sommario: 1. Introduzione. 2. La funzione storica del colonialismo
nel secolo XX. 3. Sistemi di governo: a) tipi di dipendenza; b)
sistemi giuridici e amministrativi degli imperi. 4. Sistemi
economici: a) le teorie; b) gli strumenti dell'economia imperiale;
c) le conseguenze economiche del colonialismo. 5. Conclusioni: a)
conseguenze dovute a sistemi politici estranei; b) ripercussioni del
dominio straniero sulla psicologia della società coloniale;
c) le conseguenze economiche del colonialismo. □ Bibliografia.
1. Introduzione
‛Colonialismo', come termine per qualificare e classificare, manca
di precisione (come del resto ‛imperialismo'). All'inizio del sec.
XX tale espressione fu talvolta usata per indicare la condizione di
dipendenza di territori politicamente subordinati; ma più
tardi, nell'uso comune, venne soppiantata dal termine ‛imperialismo'
che, a partire dall'ultimo decennio dell'Ottocento, venne usato, dai
critici ostili al dominio europeo su altri popoli, quale termine
generico indicante sia la condizione di predominio europeo che le
sue cause economiche. Così, Lenin definiva l'imperialismo
come ‛capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si
è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario,
l'esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è
cominciata la ripartizione del mondo tra i trusts internazionali ed
è già compiuta la ripartizione dell'intera superficie
terrestre tra i più grandi paesi capitalistici" (v. Lenin,
1917; tr. it., p. 266). Negli anni cinquanta, comunque, il termine
‛colonialismo' è stato riesumato per descrivere gli effetti
della dominazione su popoli dipendenti e i rapporti tra questi e lo
Stato imperiale che esercita il potere. Nel presente articolo
‛colonialismo' sarà inteso in questo senso: come il complesso
di controlli e influenze politico-economici esercitati dalle potenze
metropolitane dell'Europa e del Nordamerica sui territori
formalmente loro soggetti, cioè su territori che non erano
riconosciuti quali Stati sovrani secondo il diritto internazionale.
Il periodo considerato va approssimativamente dall'inizio del sec.
XX - cioè dopo che fu portata a termine la spartizione fra le
maggiori potenze di quasi tutta l'Africa, l'Asia e delle isole del
Pacifico - fino alla graduale dissoluzione dei sistemi coloniali tra
il 1945 ed il 1971.
Dato che il termine ‛colonialismo' si riferisce principalmente alle
società dipendenti piuttosto che alle potenze metropolitane,
bisognerà concentrare l'attenzione su quei caratteri dei
sistemi coloniali che, in qualche modo, differenziavano le colonie
propriamente dette dagli Stati sovrani ad esse paragonabili. Questi
caratteri possono essere suddivisi, a grandi linee, in tre
categorie: sistemi di controllo e governo politico; sistemi di
controllo e sfruttamento economico; sistemi di controllo
intellettuale e ideologico. Noi ci proponiamo di concentrare
l'attenzione principalmente sugli aspetti politici ed economici, per
i quali disponiamo di informazioni più solide, e di fare solo
brevi cenni alle eventuali ripercussioni del colonialismo sulla
psicologia delle società coloniali.
2. La funzione storica del colonialismo nel secolo XX
Per comprendere il carattere dei moderni sistemi coloniali (che si
erano formati lentamente in un periodo che abbraccia circa quattro
secoli prima del 1900) è necessario tener presente che, se
essi non vennero acquisiti in modo del tutto casuale, furono anche
il prodotto del caso oltre che di un disegno premeditato. Le cause
della loro iniziale annessione e del loro permanere nella condizione
di colonie possono essere analizzate sia a livello particolare sia a
livello generale. Le ragioni contingenti dell'acquisizione di
territori dipendenti sono state le più varie: esplorazione;
esigenze belliche e sistemi di sicurezza; periodi di nazionalismo e
di sciovinismo; momentanee necessità della diplomazia;
attività missionaria; e infine iniziative economiche. Questi
e altri fattori contribuirono in origine alla formazione di un
impero, e in certi casi le stesse considerazioni o gli stessi
fattori sono state le cause del mantenimento delle colonie durante
il sec. XX. Ma, in realtà, è assurdo analizzare il
colonialismo del sec. XX riferendosi in modo troppo aderente e
meccanico alle sue origini storiche. Infatti, in molti, se non nella
maggioranza dei casi, l'impero è sopravvissuto alle sue
funzioni originarie.
È, dunque, più utile considerare il colonialismo moderno ad un livello più generale e vederlo come prodotto diffuso, ma nondimeno transitorio, di una situazione di disequilibrio tra l'Europa e molte altre parti del mondo. Questo nuovo rapporto ebbe inizio nel sec. XV, quando la tecnologia e l'ingegneria navale fornirono per la prima volta mobilità all'Europa, e un certo predominio su talune società d'oltremare, soprattutto quelle d'America; e giunse al suo culmine alla fine del sec. XIX, quando la moderna tecnologia industriale diede all'Europa e al Nordamerica, per la prima volta, un netto predominio su tutto il resto del mondo. L'esito non è stato sempre quello di un impero formalmente costituito: tale supremazia poteva esprimersi attraverso un'egemonia non istituzionalizzata, come è avvenuto in gran parte dell'Asia. Tuttavia, quando gli Europei ebbero motivi sufficienti e dove l'azione politica non fu impedita da rivalità reciproche, si trovò spesso più vantaggioso esplicitare il predominio di fatto nelle forme di una sovranità politica istituzionalizzata. Il risultato fu la vera e propria divisione del globo in un certo numero di sistemi coloniali. I
l colonialismo, dunque, è stato
il riflesso di una fase oggettiva dell'evoluzione della
società mondiale, allorché le grandi potenze trovarono
vantaggioso esprimere la loro superiorità governando i paesi
più deboli. Fu, comunque, un periodo estremamente breve:
durò infatti, in quasi tutta l'Africa e nell'Asia
meridionale, soltanto settant'anni se non meno. Non è nelle
finalità del presente articolo spiegare perché il
fenomeno del colonialismo si esaurì così rapidamente;
ma è chiaro che la sua rovina fu dovuta all'effetto combinato
sia di ulteriori cambiamenti intervenuti nell'equilibrio del potere
nel mondo - poiché nel frattempo nuovi paesi andavano facendo
propri i benefici della tecnologia moderna - sia del mutato
atteggiamento da parte delle potenze imperiali, che erano giunte
alla conclusione che il colonialismo, mutate le circostanze, non
presentava più alcuna utilità. Possiamo, quindi,
considerare il colonialismo come un sistema transitorio, e ora
estinto, di rapporti politici ed economici fra l'Europa e quei paesi
oggi convenzionalmente chiamati il Terzo Mondo. Le questioni
fondamentali da esaminare sono: in qual modo il potere degli imperi
coloniali è stato esercitato sia nel campo dello sviluppo
economico sia in quello dell'amministrazione, e quali conseguenze
ciò abbia avuto per i popoli soggetti.
3. Sistemi di governo
La caratteristica di gran lunga più rilevante del
colonialismo moderno è stata la subordinazione totale di una
società ad un'altra. Le implicazioni di tale subordinazione
sono tante e tali che, al confronto, le particolari forme di
amministrazione appaiono relativamente poco importanti. Tuttavia,
agli effetti pratici, l'incidenza della dominazione coloniale e la
sua importanza per il futuro della società coloniale è
stata notevolmente varia. Ci proponiamo quindi di condurre
un'analisi formale dei tipi di dipendenza nei termini del diritto
internazionale e di descrivere poi il carattere
dell'autorità, dell'amministrazione e del diritto pubblico in
ciascuno dei principali imperi coloniali durante il sec. XX.
a) Tipi di dipendenza
Nell'età moderna si sono avute tre principali forme di
dipendenza.
Colonie. - Tecnicamente si dovrebbe usare la parola colonia solo per
quei territori che erano formalmente annessi alla madrepatria e
pienamente soggetti alla sua sovranità. Tutti i possedimenti
delle maggiori potenze, anteriori al 1800, e alcuni di quelli
acquisiti nell'ultimo scorcio del sec. XIX, erano mantenuti in
questa condizione. Le più importanti conseguenze giuridiche
della piena condizione coloniale erano, da un lato, che i nati e
residenti in un territorio coloniale erano considerati a tutti gli
effetti sudditi della madrepatria, sebbene non godessero
necessariamente di pieni diritti di cittadinanza, e, dall'altro
lato, che non vi erano limitazioni di sovranità imposte dal
diritto internazionale.
Protettorati e Stati protetti. - In termini rigorosamente giuridici
questi non furono mai possedimenti dello Stato protettore, ma
rimasero Stati con personalità giuridica internazionale o
unità territoriali che in un determinato momento avevano
accettato ‛protezione' e avevano rinunciato così a ogni
diretto rapporto con Stati terzi in cambio di garanzie di
protezione. Talvolta ciò fu stabilito con un trattato
formale, in altri casi fu la conseguenza di un'occupazione di fatto.
Il termine ‛protettorato' fu comunemente usato per indicare
aggregati di entità relativamente piccole, amministrati in
tutto dalla potenza protettrice; mentre negli ‛Stati protetti' erano
conservate almeno le forme di autogoverno esercitate da
autorità indigene.
Mandati e territori in amministrazione fiduciaria. - Furono creati,
essenzialmente, dal Trattato di Versailles (1919), sebbene si
possano annoverare come esempi precedenti le isole Ionie, che furono
di fatto un mandato britannico dal 1815. I moderni mandati e
territori in amministrazione fiduciaria erano stati tutti, un tempo,
colonie o protettorati delle potenze europee sconfitte o del
Giappone, e vennero così chiamati per evitare l'impressione
che i vincitori volessero impossessarsi di un bottino coloniale. I
mandati del 1919 furono divisi in categorie denominate A, B, C, a
seconda del grado in cui potevano essere assorbiti in un sistema
imperiale, ma rimasero tutti sotto il controllo della Commissione
permanente per i mandati della Società delle Nazioni. Dopo il
1945 questi mandati, cui si aggiunsero colonie italiane e
giapponesi, furono ribattezzati come 'territori in amministrazione
fiduciaria' e posti sotto il più rigoroso controllo delle
Nazioni Unite.
Tali distinzioni giuridiche avevano conseguenze pratiche. Per
esempio, le potenze imperiali avevano, paradossalmente, maggiore
libertà nell'amministrare i protettorati che non le colonie,
perché i cittadini del protettorato non godevano dei diritti
propri dei cittadini del territorio metropolitano, riconosciuti
invece alle popolazioni del tutto soggette delle colonie.
Così pure gli Stati protetti conservavano spesso forme
indigene di governo e di legislazione, mentre i regolamenti dei
mandati e dei territori in amministrazione fiduciaria imponevano
limitazioni alle potenze amministranti. Ad ogni modo non bisogna
esagerare l'importanza di tali distinzioni. La maggior parte dei
protettorati erano amministrati quasi allo stesso modo delle colonie
di tipo analogo, e anche negli Stati protetti la tendenza era di
ristrutturare le istituzioni indigene.
b) Sistemi giuridici e amministrativi degli imperi
Passeremo ora in rassegna il sistema costituzionale e amministrativo
delle cinque principali potenze coloniali del sec. XX: Gran
Bretagna, Francia, Olanda, Portogallo e Belgio.
L'impero britannico e il Commonwealth. - La suprema autorità
legislativa risiedeva nel Parlamento a Westminster. Sebbene non ne
facesse parte alcun rappresentante dei territori dipendenti, esso
vantava tuttavia il diritto di legiferare con pieni ed effettivi
poteri anche per i paesi d'oltremare. Nel caso di colonie
propriamente dette, tale potere era fondato sul fatto che i coloni
erano sudditi britannici i quali dovevano obbedienza alla Corona in
Parlamento. Altri territori dipendenti furono posti entro la sfera
del sistema legislativo da una serie di leggi sulla Foreign
jurisdiction. In pratica, comunque, il Parlamento britannico si
occupò poco degli affari coloniali. L'amministrazione
corrente e il potere di emanare decreti amministrativi erano nelle
mani dell'esecutivo - il sovrano, il Consiglio della corona e i
ministri - in forza di prerogative o di poteri delegati dal
Parlamento. Questi poteri erano esercitati quasi esclusivamente dai
due segretari di Stato per le Colonie e per l'India e dai loro
rispettivi dicasteri: il Ministero per le Colonie e quello per
l'India. Il Ministero per gli Affari Esteri conservava, dal canto
suo, la competenza per l'‛Irāq, l'Egitto, gli Stati del Golfo
Persico e qualche altro territorio. In tal modo il centro reale del
potere risiedeva nel Ministero per le Colonie e nel Ministero per
l'India. I loro quadri erano costituiti da funzionari civili
reclutati per mezzo di concorsi pubblici. Tali funzionari erano ben
informati, competenti, permeati di alti ideali circa i doveri che
l'amministrazione fiduciaria aveva verso i popoli soggetti, pronti a
individuare quelle proposte che avrebbero potuto danneggiare gli
interessi dei ‛natìvi'. Certamente i burocrati non erano puri
e semplici strumenti dell'imperialismo capitalista.
Malgrado
ciò, tuttavia, il Ministero per le Colonie non era
sufficientemente qualificato, almeno prima del 1945, per agire quale
forza dinamica per il progresso dei territori dipendenti: non
disponeva di personale sufficiente; le sue sezioni più
importanti erano competenti per aree geografiche e non ve n'erano di
specializzate per la pianificazione economica; le questioni tecniche
venivano trattate da comitati di esperti costituiti di volta in
volta. Soprattutto, la consuetudine burocratica portava a esercitare
più un controllo negativo che positivo. Anche durante il
periodo del rapido sviluppo economico dopo il 1945, le iniziative
positive erano lasciate ai funzionari coloniali residenti sul posto.
La delega del controllo era ancora più accentuata nel caso
dell'India. In certe occasioni, e particolarmente quando
l'affermarsi del nazionalismo indiano a partire dal 1920
sollevò gravi problemi d'ordine politico, Londra fu in grado
di esercitare un effettivo controllo sull'India. Ma, per il resto,
l'amministrazione indiana godeva di una sostanziale autonomia e il
Ministero per l'India operava più come una Commissione
suprema per l'India - pagata, sia detto incidentalmente, dal reddito
indiano - che come effettivo centro decisionale. Cosicché in
India e negli altri territori dipendenti le ripercussioni del
colonialismo sui popoli soggetti erano largamente determinate dal
livello qualitativo dei funzionari britannici ivi dislocati,
piuttosto che dalla politica metropolitana.
Agli inizi del sec. XX si verificarono forti contrasti tra l'Indian
Civil Service e il Colonial Service. Fin dal 1790 il Covenanted
Service, la più antica branca dell'amministrazione indiana,
era costituita da un corpo scelto appositamente addestrato, che
svolgeva in India tutta la sua carriera. Nel 1915 i suoi membri
erano appena 1.200, ma costituivano l'effettivo governo dell'India.
Vi era inoltre un Uncovenanted Service, con un organico molto
più numeroso del primo e ribattezzato dal 1889 Provincial and
Subordinate Services, costituito da ruoli amministrativi minori; il
Political Service che forniva personale residente in grado di dare
una consulenza agli esponenti dei Principati indiani; e infine
organismi distaccati che fornivano il personale destinato ai Lavori
Pubblici e ad altri dipartimenti tecnici. Erano tutti i corpi
altamente qualificati, che offrivano attraenti carriere alle classi
medie britanniche e indiane, anche se fu soltanto dagli anni venti
che un consistente numero di posti in ognuno di questi organismi -
tranne il Provincial and Subordinate Services - venne occupato da
Indiani. L'India offriva così un classico esempio di
amministrazione burocratica esercitata da funzionari immigrati,
generalmente efficiente ma autoritaria e per molti aspetti estranea
ai bisogni e ai modi di procedere degli Indiani.
Anche le dipendenze coloniali erano amministrate burocraticamente,
ma il Colonial Service acquistò solo tardi una adeguata
competenza. Anteriormente al 1920 non vi fu nessun serio sforzo per
addestrare il personale di nuova assunzione e, fino al 1930, manco
un amministrazione generale per le colonie. Il livello qualitativo
degli amministratori coloniali migliorò col tempo a mano a
mano che l'amministrazione diventava sempre più una
professione. Il fulcro dell'amministrazione erano le elevate
capacità dell'Ufficiale o Commissario distrettuale, quasi
sempre un funzionario che viveva da solo in regioni remote e che
acquistava ampia conoscenza della ‛sua' provincia, ai cui interessi
egli si dedicava secondo il suo modo di vedere. Proprio come un
dittatore, adottava un atteggiamento paternalistico. Egli
costituiva, necessariamente, un ostacolo allo sviluppo di sistemi
democratici, sia perché il suo ruolo lo costringeva ad
adottare modi autocratici, sia perché diffidava degli
indigeni colti e di chiunque altro minacciasse le basi fondamentali
del sistema coloniale. Ma la chiave del colonialismo britannico
consiste nel fatto che l'Ufficiale distrettuale non era e non si
considerava lo strumento di una potenza occupante ostile o del
capitalismo sfruttatore, ma il rappresentante della civiltà
cui incombeva il compito di dispensare la giustizia e di guidare
coloro che gli erano soggetti verso forme di vita migliori.
I sistemi di amministrazione nei territori dipendenti erano
oltremodo vari, e durante il sec. XX hanno subito cambiamenti
sostanziali. In linea di massima, all'inizio di questo secolo, tutti
questi territori, tranne i Dominions che avevano forme di
autogoverno e che solo giuridicamente erano territori dipendenti,
venivano amministrati da burocrazie più o meno autocratiche,
e tutti effettuarono sensibili passi in avanti verso forme di
autogoverno, attraverso istituzioni rappresentative, già
prima di acquistare l'indipendenza formale. Senza considerare i
Dominions, vi erano quattro tipi fondamentali di amministrazione
coloniale, che si potevano riscontrare, rispettivamente, nell'India
britannica, in talune colonie dell'Atlantico, nella maggioranza
delle colonie e dei protettorati coloniali in Africa come altrove,
e, infine, negli Stati protetti.
All'inizio del secolo l'India britannica - eccettuati i Principati
semiautonomi - era governata autocraticamente da un forte governo
centrale e da varie amministrazioni provinciali egualmente
autocratiche, che nel 1935 ammontavano a undici. Il governatore
generale era coadiuvato da un ristretto Consiglio esecutivo e le
leggi erano approvate da un più ampio Consiglio legislativo
in cui, dal 1909, era presente anche una minoranza di membri eletti.
I governatori delle provincie erano affiancati da consigli analoghi.
Dal 1921, comunque, la componente rappresentativa aumentò.
A
seguito delle riforme Montagu-Chelmsford, il numero e i poteri dei
rappresentanti indiani eletti nel Consiglio legislativo centrale
vennero accresciuti, mentre nelle provincie s'instaurò
un'amministrazione pienamente rappresentativa e governi pienamente
responsabili ebbero competenza per alcune materie ‛trasferite'. Il
Government of India act, del 1935, perfezionò il
trasferimento dei poteri ai gabinetti provinciali e attribuì
una competenza ministeriale limitata all'amministrazione centrale,
prefigurando un ulteriore trasferimento di attribuzioni. Tale legge
non ebbe mai piena attuazione soprattutto perché i sovrani
dei diversi principati indiani si rifiutarono di uniformare i loro
Stati all'India britannica; ciononostante, diversi suoi punti
essenziali furono inseriti nella Costituzione indiana che
entrò in vigore dopo l'indipendenza, nel 1950. Al di sotto
del livello provinciale, l'amministrazione si fondava sul distretto,
controllato da un funzionario amministrativo. Questi funzionari in
origine erano semplici esattori delle imposte, ma dal 1900
esercitarono il controllo su tutte le branche dell'amministrazione,
eccetto che su alcune più specialisticbe, come i tribunali, i
servizi forestali e i lavori pubblici. Il sistema dei funzionari
rappresentava il classico modello di ‛dominio diretto' benevolo,
efficiente e paternalistico. I giudici appartenevano a un corpo
distinto, in modo da garantire il principio della separazione dei
poteri. Dal 1900 il diritto indiano si basava su tre grandi codici
compilati verso la metà del sec. XIX. Il codice penale era
fondamentalmente quello britannico, ma i tribunali applicavano una
vasta gamma di consuetudini indigene che variavano a seconda della
regione e della religione.
Tre colonie insulari, Barbados, Bahama e Bermude, avevano una
situazione del tutto particolare in quanto conservavano costituzioni
che risalivano al sec. XVII. Il governatore e il Consiglio esecutivo
esercitavano il potere esecutivo, ma vi erano assemblee interamente
elette che potevano legiferare e decidere col voto circa le imposte.
In queste e altre isole delle Indie Occidentali, il modello
dell'amministrazione centrale e locale, nonché la
legislazione, erano ricalcati completamente su quelli inglesi: e
ciò in netto contrasto con la maggior parte dei territori
dipendenti dell'Africa e dell'Asia.
Il tipo di amministrazione di gran lunga più diffuso
nell'impero coloniale era quello noto come Crown Colony Government,
sebbene questa denominazione fosse approssimativa e, di fatto, le
istituzioni variassero di molto. Nella maggior parte dei territori
il potere amministrativo era nelle mani di un governatore britannico
e di un Consiglio esecutivo di funzionari, mentre la legislazione
era approvata da un Consiglio legislativo costituito prevalentemente
da funzionari e, in misura inferiore alla metà, da membri non
d'ufficio nominati o eletti. Fu soltanto dopo il 1944 che i Consigli
legislativi divennero strumenti chiave nel processo verso forme di
autogoverno e di regime democratico, quando, a una colonia dopo
l'altra, venne concessa una amministrazione elettiva e quando membri
eletti vennero posti alla guida di dipartimenti ministeriali.
Oltremodo varie erano le forme dell'amministrazione locale nelle
Crown Colonies. Fondamentalmente tutti i territori, tranne quelli
delle Indie Occidentali, erano suddivisi in distretti cui
sovraintendevano funzionari britannici, ma i metodi usati da costoro
mutavano a seconda delle circostanze. Per comodità di analisi
si usa distinguere due opposte alternative dicendo che, nella
pratica, i sistemi amministrativi si avvicinavano maggiormente o
all'uno o all'altro. Il primo era il 'dominio diretto', sul modello
dell'India britannica, in cui l'autorità si fondava
interamente sui funzionari britannici residenti e dove gli elementi
locali subalterni potevano operare in virtù delle
attribuzioni loro concesse e non in base alla posizione che
occupavano nella società locale. Al polo opposto vi era il 'dominio indiretto' che, come si era venuto elaborando
originariamente in India, nelle Figi e nella Nigeria settentrionale,
lasciava notevole potere alle tradizionali 'autorità
indigene'. Così come fu razionalmente organizzato da lord
Lugard in Nigeria, il sistema era inteso a proteggere la
società indigena e il senso che essa aveva della propria
dignità contro il trauma provocato dalla totale perdita di
potere in favore degli stranieri, mentre introduceva gradualmente,
allo stesso tempo, le componenti migliori della civiltà
europea. Durante il periodo 1920-1945 il 'dominio indiretto' fu
considerato un obiettivo da perseguire nella maggior parte dei
territori dipendenti dell'impero. Ma durante i successivi decenni di
decolonizzazione, questo sistema cadde largamente in discredito,
perché si riteneva tendesse a perpetuare il potere delle
élites tradizionali, ostacolando in tal modo la
modernizzazione dei territori coloniali.
Il principio che era alla base del 'dominio indiretto' può
essere osservato anche negli Stati protetti, ivi compresi i diversi
Principati dell'India, i Sultanati di Malaya, Tonga e Zanzibar.
Questi paesi mantenevano formalmente la loro condizione di Stati
sovrani, ma, come Stati protetti, lasciavano all'Inghilterra il
controllo delle relazioni estere e della difesa e, in pratica,
accettavano diversi livelli di 'consigli' negli affari interni. Di
fatto, i cosiddetti 'consigli' tendevano ad irrigidirsi in
imposizioni; cosicché, per esempio, gli Stati della
Federazione Malese erano, in realtà, amministrati dai
residenti britannici, a loro volta controllati dall'Alta commissione
con sede a Kuala Lumpur.
L'impero francese. - In linea di principio il sistema coloniale
francese differiva sostanzialmente da quello britannico. La Francia
era una repubblica e tutte le colonie vere e proprie erano parte
integrante di essa. Perciò le colonie inviavano
rappresentanti all'assemblea di Parigi (alla Camera 20 deputati su
612 nel 1936, 80 su 600 nel periodo 1946-1958). Molti Francesi
credevano che il fine dell'impero fosse quello d'integrare le
colonie con la metropoli. In pratica, comunque, ciò si
dimostrò irrealizzabile. L'Algeria, le colonie dei Caraibi,
le isole della Riunione e di Saint-Pierre-et-Miquelon erano veri e
propri dipartimenti della Repubblica e tutti, tranne l'Algeria,
conservarono tale condizione quando il resto dell'impero divenne
indipendente. Ma la maggior parte dei possedimenti d'Oltremare
rimase ben distinta dalla Francia e tentativi alquanto ingegnosi,
fatti nel 1946 e nel 1958 per rendere i rapporti all'interno
dell'impero più razionali creando l'Unione francese e la
Comunità francese, fallirono. Il carattere del colonialismo
francese ebbe pertanto, in pratica, molto in comune con il
colonialismo britannico.
Come in Gran Bretagna, la suprema autorità era rappresentata
dall'Assemblea metropolitana, ma, anche in questo caso, il potere
effettivo era esercitato dalla burocrazia. Dal 1894 vi fu un
ministro delle Colonie e il relativo dicastero che coordinava
l'azione politica in gran parte dei territori dipendenti, ad
eccezione dell'Algeria (perché incorporata nella metropoli) e
della Tunisia, del Marocco e dei mandati successivi al 1919, che
erano sotto la giurisdizione del Ministero degli Esteri. Le leggi
più importanti erano approvate dall'Assemblea che votava
anche i bilanci annuali delle colonie e, all'occasione, i deputati
coloniali potevano far sentire la loro influenza tramite il gioco
delle alleanze con i gruppi metropolitani. Ma, per lo più, le
colonie erano regolate da decreti presidenziali o da ordinanze
amministrative. Il ministro era in teoria coadiuvato da consigli
consultivi di esperti; in pratica però l'amministrazione
dell'impero era gestita da funzionari di carriera con pochissime
interferenze da parte dei politici.
Lo stesso tipo di gestione tramite funzionari si riscontrava nei
territori dipendenti. Dal 1894 quasi tutti i funzionari coloniali
erano preparati presso l'École Coloniale e costituivano un
organico unito da un forte spirito di corpo. L'amministrazione
coloniale era burocratica da cima a fondo. Ad eccezione
dell'Algeria, si facevano poche distinzioni pratiche tra colonie,
protettorati e mandati. I governatori generali delle tre federazioni
dell'Africa Occidentale, dell'Africa Equatoriale e dell'Indocina
godevano di maggiore libertà da interferenze metropolitane
che non i governatori dei territori dipendenti minori; ma tutti
erano soggetti alla stretta sorveglianza esercitata dalla Inspection
des Colonies con sede a Parigi e al controllo dei bilanci. Nei loro
territori, tuttavia, i governatori erano praticamente dei despoti.
La maggior parte delle colonie vere e proprie avevano assemblee con
diverse attribuzioni; queste assomigliavano ai consigli esecutivi e
legislativi britannici e alcune avevano membri non d'ufficio ma
nominati o eletti. Ma i loro poteri legislativi o di bilancio erano
considerevolmente minori di quelli dei consigli della British Crown
Colony e non furono mai considerati quali parlamenti in embrione se
non dopo il 1946. I principali organi di governo dei territori
dipendenti erano il Conseil de gouvernement per una federazione o il
Conseil d'administration per i territori minori: essi erano composti
quasi esclusivamente da funzionari. Fu soltanto dopo il 1946, con
l'avvento di assemblee rappresentative in tutti i territori
d'Oltremare, che il tipo d'amministrazione poté essere
influenzato efficacemente dall'opinione locale non europea. La
Francia repubblicana governava i territori d'Oltremare più
autocraticamente che non la monarchica Gran Bretagna.
Al livello degli organi subalterni dell'amministrazione coloniale i
sistemi francesi e inglesi avevano molto in comune. Soltanto le
Antille francesi, le isole di Saint-Pierre-et-Miquelon e della
Riunione avevano la stessa legislazione della metropoli e unitamente
al Senegal, alla Nuova Caledonia, a Tahiti, alla Guiana, alla
Cocincina e a parte del Madagascar, avevano municipalità
completamente elettive sul modello di quelle francesi. Per il resto,
l'amministrazione locale era gestita da funzionari distrettuali
molto simili a quelli delle colonie britanniche. Tali funzionari
applicavano normalmente una prassi paragonabile a quella del
‛dominio diretto' britannico, che ignorava le entità
politiche indigene e utilizzava gli elementi non europei come
subalterni più per le loro capacità professionali che
per la loro condizione d'origine; sebbene, in pratica, per
convenienza, molte istituzioni indigene venissero conservate. Il
risultato principale di tale prassi fu che i nativi più
ambiziosi divennero consapevoli che potevano conseguire un certo
avanzamento nella loro condizione sociale e un certo potere solo
collaborando col sistema amministrativo straniero. Una minoranza,
proveniente specialmente dal Senegal, fu in grado di acquisire una
cultura secondaria o universitaria in Francia e riuscì ad
elevare moltissimo la propria condizione sociale: la prima
generazione di dirigenti degli Stati indipendenti, sorti dopo il
1960, proveniva principalmente da questo gruppo e dai deputati delle
colonie all'Assemblea della Repubblica. Per contro, solo pochi capi
tradizionali conservarono la loro condizione o il loro potere
precoloniali.
Altri due ordinamenti tipici dell'amministrazione francese, non
riscontrabili nei possedimenti britannici, erano la coscrizione
militare obbligatoria e il lavoro obbligatorio prestato
gratuitamente per opere pubbliche. Tali ordinamenti vennero imposti
in modo selettivo in un limitato numero di possedimenti, soprattutto
nell'Africa a sud del Sahara. La coscrizione obbligatoria era
attuata nei confronti di quanti godevano dei diritti di cittadinanza
francese, mentre chi ne era privo sottostava al lavoro coatto.
Questo tipo di lavoro era usato, in principio, solamente per opere
pubbliche, ma poteva essere assegnato a imprenditori privati che
appaltavano lavori per il governo. La pratica ebbe finalmente
termine nel 1946.
L'Olanda. - L'impero coloniale olandese era costituito
essenzialmente dalle Indie Olandesi e dai piccoli territori caribici
di Suriname, Sint Eustatius e Curaçao. Fermeremo la nostra
attenzione sulle Indie Olandesi.
Il sistema olandese rassomigliava da vicino a quello britannico in
India. L'autorità in ultima istanza spettava agli Stati
Generali in Olanda, ma anche qui il potere effettivo era esercitato
dal Ministero per le Colonie che, a sua volta, lasciava larga
discrezionalità al governatore generale residente a Batavia.
Con un proprio apparato burocratico, un proprio bilancio e proprie
forze armate, nonché un consiglio esecutivo di funzionari di
carriera egli era, per molti aspetti, un sovrano indipendente, in
tutto simile al governatore generale dell'India britannica. Dal 1916
era stato creato un parlamento, il Volksraad (i cui membri parte
erano nominati e parte eletti) che, analogamente all'assemblea
legislativa indiana, in un primo momento ebbe soltanto poteri
consultivi e poi, gradualmente, poté esercitare un limitato
controllo sui bilanci e un certo potere di legiferare. Col tempo il
Volksraad poté avere un'ulteriore evoluzione, ma, fino
all'occupazione giapponese del 1941, l'amministrazione indonesiana
rimase autocratica e paternalistica. L'aspetto più
caratteristico del sistema di governo olandese in Indonesia
consisteva nel fatto che la collaborazione indigena
all'amministrazione locale era garantita attraverso una
varietà di forme, che andavano da un piccolo numero di Stati
protetti e da semiautonome unità amministrative tradizionali,
fino ai consigli locali elettivi o semielettivi di Giava. Per la
verità, il sistema era in rapida evoluzione negli anni
trenta, ma palesava profondi contrasti fra Giava, che era
relativamente ‛moderna', e le altre isole, in molte delle quali
persistevano aspetti tradizionali.
Il Portogallo. - Il colonialismo portoghese ha costituito un fatto
unico nel nostro secolo, poiché, mentre il Portogallo era
stato il primo fra gli Stati europei a insediarsi con possedimenti
permanenti in terre d'oltremare nel sec. XV, esso è stato
anche l'ultima grande potenza coloniale del sec. XX. A parte alcune
piccole basi in Oriente nonché le isole Azzorre e Madera,
incorporate nella metropoli dal 1832, l'impero portoghese era
costituito dai territori africani della Guinea portoghese,
dell'Angola, del Mozambico e da piccole isole oceaniche. La
caratteristica specifica di questo impero, a prescindere dal rifiuto
portoghese di decolonizzare, era data dal fermo proposito del
Portogallo di trattare le colonie come se fossero parte integrante
della madrepatria. Anche qui l'assemblea nazionale, in cui dal 1930
in poi sedettero rappresentanti delle colonie, era investita
dell'autorità suprema ed esisteva, anche in questo caso, un
Ministero delle Colonie. Ma gli affari coloniali, in particolare
quelli economici, erano strettamente integrati con quelli del
Portogallo e gestiti dai dicasteri portoghesi. La linea politica
generale era di trapiantare nelle colonie la cultura e la lingua
portoghese nonché la religione cattolica, così da
poter costituire, alla fine, una repubblica intercontinentale
portoghese. Tuttavia, nella pratica, il colonialismo portoghese era
simile al modello francese, ma sempre in ritardo di circa una
generazione nella sua applicazione. L'amministrazione era nelle mani
di governatori o di governatori generali, di consigli consultivi
formati da esperti e di dicasteri burocratici costituiti da
funzionari dislocati: tutti sotto il diretto controllo di Lisbona.
Esistevano assemblee legislative, ma avevano scarso potere. Al di
fuori delle capitali e di poche grandi città, la struttura
amministrativa era basata sul 'dominio diretto' esercitato da
funzionari distrettuali europei, che avevano alle loro dipendenze
elementi africani. Poche concessioni venivano fatte alle tradizioni
e alle entità politiche indigene. Il lavoro coatto era
sfruttato su larga scala e, sino al 1960, c'erano sanzioni penali
per inadempienze in fatto di contratti privati di lavoro.
I
l Congo Belga. - Il moderno colonialismo belga ebbe inizio solo nel
1908, quando lo Stato Libero del Congo fu dato in amministrazione al
governo belga dal suo effettivo proprietario, re Leopoldo II.
D'allora in poi i Belgi cercarono di ricalcare i modelli
contemporanei più validi, adottando generalmente i metodi
francesi o britannici. Il parlamento belga aveva il potere di
legiferare, ma lasciava molta libertà d'azione alla Corona
che, a sua volta, agiva attraverso un ministro competente per le
colonie ed un Ministero delle Colonie. Due caratteristiche erano
peculiari del sistema belga: il Congo rimaneva un'entità
giuridicamente distinta con la sua carta costituzionale e le sue
leggi; il Ministero delle Colonie aveva propri rappresentanti presso
tutte le grandi compagnie capitalistiche che dominavano l'economia
congolese e nelle quali il governo congolese aveva un interesse.
All'interno, invece, l'amministrazione del Congo rassomigliava al
più austero e autocratico dei regimi britannici o francesi.
Prima degli anni cinquanta non si ebbero assemblee legislative e
nessuna forma di rappresentanza. La struttura amministrativa
centrale e provinciale era nelle mani di funzionari belgi. Si fecero
alcuni tentativi di adottare il modello britannico del ‛dominio
indiretto', ma le entità amministrative e perfino gli
Africani scelti a collaborare all'amministrazione erano creature
dell'autorità imperiale. Le uniche parvenze di autogoverno si
potevano riscontrare nei centri maggiori, dove furono istituiti
dapprima municipalità per i cittadini europei e in seguito
Centres extracoutumiers per i non Europei con la funzione di gestire
i servizi sociali. Una rigorosa discriminazione tra Europei e
Africani venne attuata in campo giuridico. Lo Stato poteva esigere
dagli Africani lavoro coatto e contratti di lavoro controllato per
ditte private.
4. Sistemi economici
La seconda questione di rilievo da considerare è quella
dell'effetto prodotto dal colonialismo sull'evoluzione economica dei
territori dipendenti. In termini generali dobbiamo chiederci se il
dominio straniero abbia avuto un benefico effetto sul potenziale
economico dei territori dipendenti, 'sviluppando' le loro risorse
con l'inserirle nel sistema commerciale internazionale, con
l'immissione di capitali e con l'introduzione di tecniche; oppure se
abbia sfruttato tali territori a beneficio delle potenze
metropolitane. È nostro intento tratteggiare brevemente i
vari motivi che hanno indotto gli studiosi moderni a sostenere l'una
o l'altra di queste tesi; enumerare quindi alcuni dei mezzi con cui
le potenze imperiali potevano influire o, in effetti, influirono
sullo sviluppo economico delle colonie; e, infine, riesaminare gli
effetti del colonialismo sui sistemi commerciali, sugli investimenti
di capitale e sulla produzione in determinati territori coloniali.
a) Le teorie
Queste possono essere suddivise in cinque tipi principali a seconda
delle ragioni con cui ciascuna ha sostenuto che il colonialismo ebbe
o non ebbe benefici effetti sui paesi dipendenti.
Secondo le argomentazioni degli economisti neoclassici, le colonie
trassero indubbi vantaggi dall'essere più strettamente
collegate al mercato internazionale, in quanto ciò
apportò loro i benefici, sia pure relativi, di un tipo di
produzione specializzata in luogo di una produzione di mera
sussistenza, e perché ciò permise di utilizzare le
risorse potenziali latenti. Condizione preliminare per uno sviluppo
fondato su queste basi era una libertà commerciale che
permettesse ai territori dipendenti di acquistare nei mercati esteri
più economici e di vendere nei più cari. Anche se ne
risultava una specializzazione nella produzione di materie prime
destinate all'esportazione, piuttosto che un'industrializzazione, il
paese dipendente si sarebbe verosimilmente arricchito e, in seguito,
l'accresciuta ricchezza avrebbe potuto stimolare la diversificazione
dell'economia in altri settori. L'impero britannico, nel periodo di
libertà commerciale che gli fu proprio prima del 1932,
fornisce forse il miglior esempio di applicazione di questi
principî. Altri esempi sono il Congo Belga e le Indie
Olandesi.
I neomercantilisti e i protezionisti generalmente accettarono la
tesi neoclassica del bilancio relativo, ma postulavano che benefici
ulteriori sarebbero derivati da un sistema economico imperiale
controllato, in contrapposizione al libero mercato internazionale.
Tariffe preferenziali, investimenti metropolitani e pianificazione
imperiale avrebbero dato ad un territorio dipendente un mercato
più sicuro, capitali più adeguati e guadagni maggiori,
che non un sistema di libero scambio; con ciò si sarebbero
inoltre ridotti al minimo i contraccolpi causati alle vulnerabili
economie monocolturali dalle variazioni dei prezzi delle merci nel
mercato mondiale. L'impero francese e, dopo il 1958, la CEE
costituiscono due chiari esempi di applicazioni di questi principi.
I teorici marxisti del primo Novecento, soprattutto R. Hilferding e
Lenin, ritenevano che principale caratteristica economica del
colonialismo fosse l'esportazione del surplus di capitale dalle
metropoli verso i territori dipendenti e che le colonie fossero
state conquistate soprattutto allo scopo di facilitare investimenti
attratti dalla presenza di fattori favorevoli (minerali, materie
prime, manodopera a basso costo, ecc.). Secondo i postulati generali
del marxismo tali investimenti determinavano, come conseguenza
necessaria, un netto trasferimento di risorse reali dai territori
dipendenti sfruttati alle metropoli, cosicché il colonialismo
determinava un ulteriore impoverimento nelle società
già povere.
I teorici marxisti più recenti, particolarmente quelli che
hanno scritto dagli anni cinquanta in poi - E. Mandel, P. Baran ed
altri -, hanno modificato questa impostazione rilevando che, in
realtà, soltanto una quantità esigua di capitale
è stato investito nei territori dipendenti. Essi sostengono
piuttosto che il colonialismo permise alle grandi società
internazionali di ottenere il monopolio dei mercati coloniali e
delle fonti di materie prime, che sfruttarono investendo nel
contempo il minimo possibile nei territori dipendenti. Inoltre, la
fine formale della condizione coloniale non avrebbe necessariamente
assicurato benefici alle ex colonie, in quanto la potenza economica
delle grandi società internazionali era sufficiente a
perpetuare il loro controllo anche sugli Stati indipendenti.
Gli economisti dello sviluppo degli anni cinquanta e sessanta hanno,
in genere, denunciato anch'essi il colonialismo, perché le
potenze imperiali non avevano permesso ai territori dipendenti di
adottare gli stessi dispositivi che gli economisti stavano
applicando nella madrepatria per ridurre la disoccupazione ed
accrescere la ricchezza: e cioè, tariffe protettive per le
industrie ‛nascenti', sovvenzioni, pianificazione
governativà, ecc. Ne era seguito uno sviluppo economico
‛disarmonico', che si basava eccessivamente sulla produzione
primaria destinata all'esportazione, mentre erano inadeguati gli
investimenti e insufficiente l'industrializzazione. La soluzione che
si proponeva era la libertà politica, che avrebbe condotto a
una elaborata pianificazione economica e a investimenti stranieri su
larga scala - i cosiddetti e ‛aiuti' - per realizzare il ‛lancio' o
‛decollo' verso un sostenuto sviluppo economico.
Potremmo elencare, naturalmente, molte altre critiche mosse al
colonialismo per le conseguenze economiche che produce; ma gli
esempi riportati indicano sufficientemente le tendenze salienti del
dibattito in corso. I temi da considerare sono, in primo luogo,
quali strumenti economici e quali politiche furono veramente
adottati dalle potenze metropolitane e, quindi, quali furono gli
effetti realmente prodotti sullo sviluppo economico dei singoli
territori dipendenti.
b) Gli strumenti dell'economia imperiale
Il colonialismo per incidere in modo sensibile sui territori
dipendenti - in modo tale cioè che il loro sviluppo economico
risultasse diverso da quello che altrimenti avrebbero potuto avere -
aveva dovuto operare tramite un sistema di norme e di pratiche
politiche imposte dalle potenze metropolitane. Queste norme, a loro
volta, possono essere suddivise in due categorie: dispositivi di
controllo riguardanti i rapporti con gli altri paesi, solitamente
applicati all'intero sistema imperiale, e provvedimenti di politica
interna che potevano essere specifici delle singole colonie. La
prima categoria influiva sulle circostanze generali in cui
l'economia coloniale doveva operare; la seconda interessava il vero
e proprio funzionamento dell'economia. Elencheremo brevemente i
tratti caratteristici di questi sistemi fornendo qualche indicazione
sui territori in cui hanno trovato applicazione.
Tra i fattori riguardanti i rapporti con l'estero, vanno tenuti
soprattutto presenti i seguenti tre punti.
La politica tariffaria. - Questa rivestiva, per molti aspetti,
un'importanza decisiva, in quanto interessava i rapporti di un
territorio dipendente con la metropoli e con il mercato
internazionale. Nel sec. XX, fino agli anni trenta, tre importanti
imperi - quello britannico, quello olandese e quello belga -
praticavano il libero scambio. Nel 1932 gli Inglesi adottarono un
trattamento preferenziale all'interno del proprio impero sia per
l'ingresso di merci inglesi in alcune colonie (anche se non in
tutte), sia per la importazione di prodotti coloniali in Gran
Bretagna; gli Olandesi e i Belgi, viceversa, conservarono un regime
di libero scambio con le colonie. Tutti e tre questi imperi,
però, adottarono il contingentamento delle importazioni per
limitare l'afflusso di merci giapponesi sui mercati coloniali. Al
contrario, la Francia, il Portogallo, gli Stati americani, la
Spagna, l'Italia e (fino al 1918) la Germania - nazioni tutte a
regime protezionistico - applicarono tariffe protettive e
preferenziali ai loro territori dipendenti. I risultati erano molto
vari. Infatti il trattamento preferenziale non assicurava,
necessariamente, il monopolio di un mercato coloniale e, per
converso, una metropoli poteva rimanere il principale partner
commerciale di un territorio dipendente malgrado il regime di libero
scambio. In generale, gli effetti combinati dei legami di tipo
istituzionale, dei sistemi di trasporto marittimo e dei rapporti
politici tendevano ad accrescere il volume degli scambi commerciali
all'interno dell'impero oltre i livelli che probabilmente sarebbero
stati raggiunti se il territorio dipendente fosse stato
politicamente libero; le tariffe preferenziali potevano tuttavia
aumentarne ulteriormente il volume. Così, mentre la
percentuale di importazioni nell'Africa Occidentale Britannica -
totalmente al di fuori del sistema preferenziale imposto ad altri
territori dopo il 1932 - declinava costantemente dal 79,2% del 1920
al 46,4% del 1956, la quota delle importazioni francesi nell'Africa
Occidentale Francese - che erano soggette a regime preferenziale -
ebbe un incremento dal 36,4% nel 1920 al 68,7% nel 1949. Le
conseguenze economiche di questi sistemi contrastanti sono
più difficili da valutare. Nel sistema britannico le
principali industrie importatrici delle colonie dovevano mantenersi
competitive: ciò le rese maggiormente capaci di rendersi
economicamente indipendenti dall'Inghilterra dopo l'indipendenza
politica, al contrario degli Stati francofoni dell'Africa
occidentale i cui prodotti continuarono a dipendere, in modo
determinante, dal mercato protetto della Francia e della CEE. Per
altro verso, come si vedrà più avanti né il
libero scambio né il protezionismo sembrano aver avuto una
funzione di stimolo per la diversificazione dell'economia nelle
colonie. Si potrebbe concludere che soltanto una politica
tariffaria, formulata per venire incontro alle esigenze specifiche
di un singolo territorio, avrebbe potuto stimolare una crescita
economica ‛equilibrata' anziché una produzione ipertrofica di
certi beni; ma una politica tariffaria di questo tipo non è
mai stata adottata nelle colonie. Pertanto, da questo punto di
vista, l'impero è stato un ostacolo alla ristrutturazione di
una economia ancora monocolturale.
La politica monetaria. - Tutte le potenze imperiali imposero un
sistema monetario di tipo europeo ai territori dipendenti oppure,
dove già esisteva, lo vincolarono più o meno
strettamente alla moneta corrente dell'impero. Le conseguenze
economiche furono differenti a seconda delle caratteristiche dei
territori dipendenti e del variare della congiuntura monetaria
internazionale. Nel periodo anteriore al 1914 le potenze imperiali
accettavano valute indigene tutte le volte che queste potevano
essere integrate nel sistema monetario internazionale: ciò
avvenne, per esempio, in India, in Indocina e in Marocco. Altrove,
specialmente in tutta l'Africa a sud del Sahara e nella zona del
Pacifico, la penetrazione economica e i sistemi fiscali coloniali
resero necessaria la sostituzione delle unità monetarie
locali, quali, per esempio, le conchiglie. In questi territori la
potenza imperiale di solito imponeva la propria moneta come valuta
legale e permetteva che banche private, con o senza condizioni di
monopolio, emettessero banconote e controllassero la
disponibilità monetaria. Le conseguenze economiche
dell'introduzione di una monetazione di tipo europeo furono davvero
considerevoli. Infatti, per quanto riguardava i problemi interni
della colonia, l'uso di una moneta standard, abbinato alla crescita
della produzione di beni e del commercio, portò quasi un
rivolgimento economico: da un' ‛economia naturale' ad un' ‛economia
monetaria'. Per quanto riguardava i rapporti con l'estero, inoltre,
la colonia veniva integrata, con un corso di cambi fissi, nel
sistema commerciale internazionale. Ma fino al 1914 e oltre, faceva
poca differenza per un territorio dipendente quale moneta venisse
usata, perché tutte erano agganciate all'oro e pienamente
convertibili. Le entrate di valuta in sterline potevano essere
liberamente usate per acquistare sui mercati del dollaro o del
franco, per cui i territori dipendenti non venivano seriamente
colpiti da mutamenti nei tassi dei cambi. Dopo il 1914, comunque, e
ancor più dopo il 1939, la situazione cambiò. Fra il
1914 e il 1939, la maggior parte delle valute cessarono di essere
convertibili in oro e tutte di tanto in tanto subirono svalutazioni.
Queste si ripercuotevano automaticamente sulle monete coloniali;
cosicché poteva succedere che i territori dipendenti
venissero ad avere il proprio tasso di cambio modificato a causa
delle esigenze delle metropoli senza che si tenesse alcun conto
delle loro necessità. Perfino l'India e l'Indocina, le cui
valute, rupie o piastre, nominalmente autonome, erano allora legate
rispettivamente alla sterlina e al franco, risentivano
sfavorevolmente di questa condizione. Per di più, dato che le
monete metropolitane erano ora divenute meri simboli coniati in
lega, i territori dipendenti dalla Gran Bretagna, che usavano i
tagli monetari del sistema della sterlina, avevano speciali monete
locali con corso legale soltanto nei rispettivi territori. Data la
nuova situazione, Londra pretendeva che il volume della circolazione
monetaria nella colonia potesse essere aumentato con il cambio delle
monete d'argento in quelle simboliche oppure con versamenti in
interessi sulla valuta. Il valore dell'argento o dei beni era
accreditato alla colonia ed era trattenuto come copertura a Londra
sotto forma di titoli di sicuro affidamento (il 90%), di lingotti e
di moneta. Il sistema forniva ai territori dipendenti solide
disponibilità finanziarie liberamente convertibili al valore
nominale in sterline e quindi in valuta estera.
Negli anni quaranta esso venne, tuttavia, contestato per il fatto
che i territori dipendenti venivano ad essere privati di grandi
capitali, forzatamente 'prestati' all'Inghilterra a un basso tasso
d'interesse quale copertura, mentre si sarebbe potuto impiegarli
meglio per lo sviluppo. Parimenti si affermava che una bilancia
commerciale sfavorevole avrebbe ridotto automaticamente il volume
del denaro in circolazione accentuando così i fenomeni di
depressione. Infine, il sistema impediva alle colonie di usare il
controllo della moneta come mezzo di regolamentazione dell'economia.
I Francesi adottarono metodi alquanto differenti per sostenere e
controllare i sistemi monetari coloniali. Essi erano meno esosi per
quanto riguardava la copertura da depositare a Parigi, ma lasciavano
anch'essi al governo metropolitano il controllo effettivo della
disponibilità monetaria delle colonie.
Non è possibile, in questa sede, esprimere un giudizio su
questi fatti, ma è chiaro che le conseguenze economiche di
una valuta controllata dall'esterno divennero molto maggiori - sia
in senso positivo che negativo - una volta che le valute europee
cominciarono ad essere manovrate. Inoltre, il fatto che dal 1939
fino alla fine degli anni cinquanta la maggior parte delle valute
europee fossero di fatto non convertibili in valute 'forti,' quale
per esempio il dollaro, comportò che i territori dipendenti
potevano adoperare le loro entrate di valuta solo col consenso dei
governi metropolitani: in pratica, i dollari erano severamente
razionati per sostenere le valute metropolitane. Quindi, per quasi
due decenni la provenienza delle importazioni nelle colonie fu ancor
più rigidamente controllata per mezzo dell'allocazione della
valuta di quanto fosse mai stata per mezzo dei sistemi tariffari.
Una conseguenza ovvia ma di grande importanza dell'indipendenza
politica fu dunque che i nuovi Stati poterono, per la prima volta,
sperimentare sia i vantaggi economici che i rischi inerenti alla
gestione di valute autonome.
I trasporti marittimi. - Un ultimo fattore ‛esterno' che ha avuto
ripercussioni sullo sviluppo economico delle colonie è
rappresentato dai trasporti marittimi. Esso era importante in quanto
le tariffe dei noli e la qualità dei servizi forniti erano
decisive per economie di quel tipo, strutturate in funzione
dell'esportazione. Nessuna potenza imperiale imponeva un monopolio
nazionale sui trasporti e sulle spedizioni così come, invece,
era avvenuto prima della metà del sec. XIX. I porti coloniali
erano aperti a navi di tutte le bandiere e furono imposte
limitazioni soltanto in tempo di guerra o durante periodi
post-bellici di ristrettezze. La Francia e qualche altro Stato,
comunque, applicavano diritti differenziali di trasporto e di
attracco, unitamente a sovvenzioni a favore delle compagnie di
navigazione, come incentivo alla loro marina mercantile nazionale.
Più importanti erano i vari accordi sul trasporto marittimo,
stipulati da compagnie di navigazione commerciale di diverse
nazionalità per regolamentare le tariffe e le condizioni
relative a particolari regioni. Giacché queste compagnie
costituivano veri e propri cartelli internazionali con poteri quasi
monopolistici, si è comunemente ritenuto che esse
sfruttassero i territori dipendenti esigendo tariffe di nolo
esorbitanti. Accuse simili sono state sempre difficili da sostenere
come da respingere, ma, nel complesso, sembra verosimile che,
secondo le parole di un rapporto delle Nazioni Unite del 1967
sull'Africa occidentale, ‟non vi sono indicazioni che le tariffe dei
noli [...] siano eccessive nel senso che esse procurino profitti
esorbitanti alle compagnie commerciali di navigazione".
A differenza dei fattori esterni, la politica dell'amministrazione
all'interno dei territori dipendenti era estremamente varia.
È perciò possibile soltanto indicare i principali
campi in cui l'intervento delle amministrazioni coloniali era
necessario e i caratteri più comuni delle loro politiche.
Vediamo dunque i principali fattori di tipo interno.
Il regime fiscale. - La maggior parte dei territori dipendenti
contavano sui dazi d'importazione quale maggiore fonte di reddito
insieme alle imposte fondiarie, e alle imposte sui redditi
individuali e di famiglia. Il carico fiscale maggiore gravava,
quindi, sulle popolazioni indigene. Invece, coloro che provenivano
dalla nazione dominante, sia che fossero coloni stabilitisi in modo
definitivo oppure società, erano relativamente poco tassati.
Certamente ciò era di stimolo per le loro attività ma,
d'altro lato, assottigliava la base del gettito fiscale privando i
territori dipendenti di fondi potenziali per lo sviluppo economico.
Il diritto. - Il carattere dominante del diritto in quasi tutte le
colonie era il suo dualismo. Il codice penale metropolitano
normalmente era applicato a tutti, mentre il codice civile soltanto
ai coloni provenienti dalla madre- patria e a una minoranza di
nativi ‛assimilati', principalmente nelle città. Ciò
permetteva ai settori ‛modernizzati' dell'economia di operare
secondo la prassi in vigore in Europa, facilitando in tal modo le
attività delle società straniere. D'altra parte, le
consuetudini indigene erano solitamente rispettate e ciò,
mentre presentava ovvi vantaggi sociali, tendeva ad accentuare e a
perpetuare il divario esistente, nella vita economica e sociale, tra
‛moderno' e ‛tradizionale'.
La politica agricola. - Essa ricopriva ovviamente un ruolo centrale
in società che si reggevano sulla produzione primaria. Tale
politica variava enormemente a seconda dei tempi e dei luoghi. Per
un verso, particolarmente in Algeria e nell'Africa centro-orientale
e meridionale, tutte le potenze imperiali permisero l'alienazione,
su larga scala, della terra a favore dei coloni provenienti dalla
madrepatria. Invece nell'Africa occidentale, in gran parte dell'Asia
coloniale e in alcune zone del Pacifico meridionale prevalse una
politica che manteneva i diritti indigeni sulla terra e inoltre
impediva il frazionamento della proprietà tra i membri delle
comunità tribali. La politica adottata, in genere,
determinava o rifletteva il carattere prevalente della produzione
dei beni primari: forme agricole locali nell'Africa occidentale e in
India, agricoltura di tipo europeo in parte del Kenia e nell'Africa
centrale e meridionale, produzione a piantagioni in molti altri
territori.
La politica del lavoro. - Questa era importante dovunque vi fossero
attività produttive gestite dagli espatriati - miniere,
piantagioni o colture agricole - e dove l'offerta locale di
manodopera indigena era inadeguata o restia ad un rapporto di lavoro
salariato. Il problema si poneva in termini estremamente gravi
nell'Africa a sud del Sahara, ma era presente anche nell'Asia
sud-orientale, nel Pacifico e nelle Indie Occidentali. I palliativi
più comuni furono l'immigrazione con obbligo di lavoro, i
contratti forzosi di lavoro e il lavoro coatto. Il primo di tali
rimedi, che fu usato con molta larghezza, produsse rilevanti
movimenti demografici attraverso frontiere e oceani. Il lavoro
coatto fu raramente utilizzato per scopi privati, ma lo fu
comunemente per fini pubblici, spesso dando luogo a scandali, come
accadde per la costruzione della ferrovia nell'Africa Equatoriale
Francese. Tali abusi vennero notevolmente ridotti quasi dappertutto
dopo il 1945.
La pianificazione economica e l'intervento dello Stato. - Le
amministrazioni coloniali in genere non presero iniziative su larga
scala per quanto riguardava la pianificazione e lo sviluppo
economico fino a dopo il 1945, allorquando la politica di
programmazione divenne quasi un fatto universale. Nessuna
amministrazione coloniale, ivi compresa quella dell'India, ebbe,
prima del 1939, un ufficio addetto alla pianificazione economica e
quasi tutte le iniziative pubbliche furono prese esclusivamente nel
settore dei trasporti e dell'irrigazione. Infatti, pressoché
tutte le ferrovie esistenti nei territori dipendenti vennero
costruite e gestite dalle stesse autorità coloniali, oppure
amministrate, per loro, da compagnie private. Egualmente le opere
portuali, le migliorie nelle vie di comunicazione fluviali e i
lavori d'irrigazione furono tutti lasciati all'iniziativa pubblica,
fondamentalmente perché simili imprese non erano remunerative
per le aziende private. Le eccezioni più importanti si ebbero
nel Congo Belga dove gran parte delle vie di comunicazione furono
costruite e gestite da società private o parastatali con
contributo governativo. Dopo il 1945, ad ogni modo, la maggior parte
delle iniziative economiche vennero promosse dai governi
metropolitani e dalle amministrazioni coloniali con capitali forniti
a condizioni agevolate dalle metropoli. In tal modo i nuovi Stati
ereditarono sia la teoria che la pratica dei piani a scadenza
periodica nonché il presupposto ottimistico che, con
un'adeguata capacità di previsione e con capitali
sufficienti, lo sviluppo economico si sarebbe verificato senza
fallo.
I servizi sociali: istruzione e sanità. - Giudicando con
parametri europei, durante il periodo coloniale, in questi campi si
concluse relativamente poco. La politica scolastica, resa asfittica
da ridotti mezzi finanziari, era in genere orientata a diffondere il
più possibile l'istruzione primaria - spesso in
collaborazione con associazioni missionarie -, ma anche a limitare
il numero di coloro che potevano ricevere un'istruzione superiore e
universitaria alle strette esigenze del commercio,
dell'amministrazione e dell'insegnamento. Ad eccezione forse
dell'india, nessuno di questi paesi possedeva, al momento
dell'indipendenza, una struttura educativa adeguata a un'economia
modernamente sviluppata. Parimenti, quasi tutte le amministrazioni
concentrarono la loro attività, in campo sanitario, nella
lotta per debellare le malattie endemiche, lotta in cui ebbero
notevole successo. L'assistenza sanitaria a carattere terapeutico
scarseggiava e la vita media continuava ad essere breve nella
maggior parte dei territori dipendenti.
c) Le conseguenze economiche del colonialismo
Le conseguenze economiche del colonialismo possono essere
considerate o dal punto di vista dei benefici che le metropoli ne
hanno tratto o da quello dei suoi effetti sui territori dipendenti.
In questa sede ci soffermeremo particolarmente sui territori
dipendenti; ma bisogna subito dire che non è possibile alcuna
precisa valutazione. Non soltanto vi è un'enorme
disparità nella documentazione da un territorio all'altro, ma
anche in via teorica la stima delle conseguenze specifiche della
condizione coloniale richiederebbe un raffronto fra quel che
veramente è avvenuto e ciò che - per astratta ipotesi
- sarebbe potuto accadere se un dato territorio avesse sempre
conservato la sua indipendenza politica. Simili calcoli sono forse
possibili, ma finora non sono stati mai fatti. Ci proponiamo,
dunque, di prendere in esame tre principali aspetti della vita
economica nei territori dipendenti durante la prima metà del
sec. XX: il controllo esercitato sull'economia da coloro che
provenivano dalla madrepatria; la concentrazione
dell'attività nella produzione di beni primari per
l'esportazione; il processo d'industrializzazione. Ciò che va
considerato in ciascuno di questi casi è se, nel complesso,
il colonialismo abbia accresciuto o diminuito la ricchezza e il
potenziale economico dei territori dipendenti.
Il controllo economico degli stranieri. - Abbiamo già detto
che alcuni recenti critici del colonialismo hanno sostenuto che una
sua caratteristica fondamentale era il controllo di taluni settori
dei sistemi economici coloniali da parte delle maggiori
società internazionali e che queste società
utilizzavano le loro posizioni monopolistiche o oligopolistiche per
sfruttare le economie che ne dipendevano. Quale era l'estensione di
tale controllo straniero? Era un prodotto del colonialismo? Quali
conseguenze ha avuto sullo sviluppo economico?
Il controllo dei residenti stranieri era in effetti molto comune in
tutti i sistemi coloniali, ma aveva caratteri e cause molto diversi
a seconda del luogo e dell'epoca storica. Si rende quindi necessaria
una duplice classificazione: prima secondo la maggiore o minore
complessità dei sistemi economici indigeni dei territori
dipendenti; quindi secondo i vari periodi di tempo. Durante il primo
quarto del sec. XX la grande maggioranza delle società
straniere operanti nelle colonie si occupavano del commercio, della
produzione di beni primari e di servizi ausiliari, come
l'attività bancaria e i trasporti, piuttosto che
dell'industria. L'investimento effettivo di capitale era in genere
alquanto scarso, sicché queste società non erano
interessate ad investire eccedenze di capitale a più alto
rendimento, ma piuttosto ad acquistare merci per rivenderle o per
uso industriale. Di regola soltanto quando i mercati interni dei
territori dipendenti ebbero una certa espansione e quando le tariffe
resero conveniente insediare in loco una produzione industriale, le
società industriali occidentali incominciarono a impiantare
su larga scala, in questi paesi, filiali o succursali. Questo
processo può essere osservato in India sin dagli anni venti e
nel Congo Belga a partire dal 1950: in questo caso perché gli
alti costi dei trasporti interni hanno di fatto determinato la
produzione. In molti altri territori però tale processo
divenne rilevante solo dopo il conseguimento dell'indipendenza
politica ed è propriamente considerato come un aspetto del
‛neocolonialismo'.
La tipica società straniera era, quindi, un'azienda
commerciale, agricola, mineraria o bancaria. Perché queste
imprese si trovavano in quei luoghi e perché poterono
conquistare una posizione così preminente? In primo luogo, le
società commerciali, quali ad esempio la Niger Company
più tardi assorbita nella Unilever), le banche, come la
Barclays D.C. and O., e una moltitudine di aziende commerciali e
agricole minori iniziarono la loro attività nelle colonie
quando e perché la società indigena, incapace,
incompetente, priva di capitale o di contatti con i paesi stranieri,
non sembrava poter svolgere determinate funzioni economiche in modo
soddisfacente per gli Europei. Per esempio, le compagnie commerciali
francesi e inglesi, che inizialmente monopolizzavano l'esportazione
degli oli vegetali dall'Africa occidentale e in seguito estesero le
loro operazioni all'acquisto dell'olio e alla vendita delle merci
importate in tutto il paese, poterono far ciò in parte
perché, verso la fine del sec. XIX, il volume d'affari era
diventato troppo grande per le risorse africane, e in parte
perché la dipendenza dagli intermediari. africani
organizzati, che gestivano i monopoli locali, causava un aumento
eccessivo dei prezzi. Ugualmente, piantagioni di tè,
caffè, gomma e altri prodotti venivano di solito create solo
quando e perché quella tale merce non era o non poteva essere
prodotta dai contadini locali sulle loro terre. Similmente la
rappresentanza d'affari dell'Asia meridionale e della Cina si
sviluppò per offrire ai commercianti, ai piantatori e agli
altri operatori economici europei una gamma di risorse commerciali,
cui diversamente non sarebbe stato possibile accedere. Le banche
straniere erano indispensabili in quanto nessuna società
coloniale poteva fornire il tipo di operazioni bancarie che
rispondesse alle esigenze degli Europei. In breve, le società
straniere iniziarono, di solito, ad operare nei territori coloniali
non appena questi incominciarono a far parte dell'economia
internazionale di mercato, poiché veniva ad esse riconosciuto
un ruolo essenziale al successo dell'attività economica
europea in un quadro economico fondamentalmente differente.
Rimangono, comunque, due interrogativi. Queste società
straniere usarono il loro potere economico per sfruttare le
popolazioni indigene? Il sistema era in grado di perpetuarsi? A
entrambe le domande è difficile rispondere con sicurezza.
Senza dubbio le grandi compagnie commerciali, operanti
principalmente in Africa, tendevano ad usare le loro posizioni
oligopolistiche per ridurre i prezzi pagati ai produttori e alzare i
prezzi dei prodotti importati. Ma, almeno in Africa occidentale,
ciò non fornì alti margini di profitto, perché
i beni esportati tendevano ad eccedere la richiesta dei mercati
mondiali. Le compagnie minerarie, se erano fortunate, potevano
realizzare larghi profitti; ma di recente è stato provato che
il reddito medio degli investimenti nelle miniere d'oro del
Sudafrica, nel periodo 1919- 1963, era del 9% rispetto alla media
del 7,6% di tutti i titoli a reddito variabile nel Regno Unito. Una
ragione più valida per parlare di ‛sfruttamento', può
essere ritenuta quella del trasferimento delle risorse effettive dal
territorio dipendente alla metropoli. Inevitabilmente le
società straniere, nonché le aziende locali finanziate
da azionisti o da creditori stranieri, trasferivano in patria una
parte dei loro profitti così come facevano le maestranze, da
parte loro, per i propri risparmi. La situazione coloniale era resa
peggiore dalla virtuale assenza di imposte locali sulle
società e sulle maestranze straniere, e dalla mancanza di
controllo sui trasferimenti di capitali. Si può dunque
fondatamente ritenere che la mancanza nella situazione coloniale di
adeguati controlli sulle imprese straniere può aver ridotto o
annullato per i territori dipendenti i vantaggi economici derivanti
dall'espansione commerciale.
È egualmente difficile dare una risposta generale circa la
tendenza all'‛autoperpetuazione' del predominio straniero. È
evidente che, una volta che una grande azienda straniera si fosse
installata, era estremamente difficile per gli abitanti di un paese
relativamente povero competere nello stesso campo di
attività, per mancanza di capitali, di contatti con i paesi
stranieri e di capacità tecniche. Nondimeno la competizione
era possibile. Il successo dei Siriani immigrati nell'Africa
occidentale, dei banchieri cinesi nell'Asia sud-orientale e degli
uomini d'affari indigeni in India - tutti operanti in
attività economiche avviate e di fatto monopolizzate dagli
Europei - mostrò che, con una sufficiente determinazione e
con altrettanta prontezza nell'adottare le tecniche nuove, il
predominio europeo poteva essere contrastato. Il processo era,
comunque, lento. Ad esso venne in aiuto l'indipendenza politica, in
parte perché molti Europei decisero di rimpatriare e in parte
perché i nuovi governi imposero loro delle restrizioni. Ma,
in ultima istanza, subentrare nel controllo dei settori di
tecnologia avanzata dipendeva dalla capacità delle
società indigene di assumere i ruoli in precedenza occupati
dagli Europei.
Produzione di beni primari e forniture di generi alimentari. - Viene
spesso ripetuto che uno degli aspetti più negativi del
colonialismo consistette nell'incoraggiamento, da parte delle
potenze imperiali e degli imprenditori privati, alla produzione ‛in
eccesso' - risultasse vantaggiosa o meno per i territori dipendenti
- di materie prime non lavorate, richieste prevalentemente sul
mercato metropolitano o mondiale; e che lo sviluppo economico
avrebbe potuto essere meglio assecondato impiegando quelle stesse
risorse produttive per l'industrializzazione o anche per accrescere
i beni alimentari a favore del consumo locale. Non ci sono dubbi,
naturalmente, che per la maggior parte dei territori dipendenti
‛sviluppo' abbia significato soprattutto l'avvio o l'espansione
della produzione specializzata di beni primari. Se è vero che
in teoria le stesse risorse avrebbero potuto essere impiegate per
l'industrializzazione, tuttavia, per ragioni che considereremo
oltre, ciò costituiva raramente una possibilità reale.
In pratica, la produzione di beni destinati all'esportazione
impiegava risorse naturali e di manodopera - sebbene raramente
investisse capitali rilevanti - che altrimenti sarebbero forse state
indirizzate alla produzione per il mercato interno o per i consumi
familiari, oppure sarebbero rimaste inutilizzate. Nel primo caso,
l'argomento economico a favore della produzione di materie prime era
che questa poteva dare in termini reali un più alto reddito e
altresì ampliare la gamma dei beni di consumo disponibili sul
mercato locale; nel secondo caso l'argomento addotto era che
l'utilizzazione di risorse latenti avrebbe certamente accresciuto la
ricchezza.
Contro tali argomentazioni alcuni teorici hanno sostenuto che la
presenza delle società commerciali straniere operanti in
situazioni quasi monopolistiche, l'instabilità del mercato
internazionale delle materie prime e la sovrapproduzione a livello
mondiale privavano di fatto una parte dei produttori indigeni dei
profitti preventivati, sicché essi avrebbero fatto meglio a
occuparsi unicamente della produzione destinata al mercato locale.
Quale di queste due tesi si avvicina di più ai fatti?
Sfortunatamente le circostanze sono troppo varie per consentire una
generalizzazione valida. Ma ciò permette di capire che i
profitti reali erano molto diversi a seconda dei periodi, delle aree
geografiche e dei beni prodotti. In generale si può dire che
quattro fossero i fattori che determinavano relativi vantaggi: a)
condizioni locali particolarmente adatte a un dato prodotto; b)
disponibilità di risorse naturali e di manodopera non del
tutto utilizzate; c) trasporti interni e marittimi o dispositivi di
mercato efficienti; d) una domanda sufficiente ad assicurare un buon
margine di profitto, cioè un corso di cambi favorevole.
È evidente che le combinazioni di questi quattro fattori
erano innumerevoli, ma possiamo esemplificare due tipi opposti di
situazione facendo riferimento a due importanti aree di produzione
di materie prime: l'Africa occidentale e l'India.
Il caso dell'India fornisce la prova che la produzione locale di
prodotti agricoli di facile smercio poteva essere relativamente
remunerativa sia per il singolo produttore che per tutto il sistema
economico. Iuta, zucchero, cotone, grano e riso venivano prodotti
tutti per il mercato inglese o per quelli esteri, sotto lo stimolo
di fattori d'ordine puramente economico e, soprattutto, come
alternativa alla produzione alimentare per il consumo interno. Dal
punto di vista del singolo produttore il sistema di distribuzione,
ai suoi inizi prevalentemente controllato dagli Indiani, sembrava
per lo più garantire un ragionevole profitto in base ai
prezzi del mercato internazionale e la produzione, del resto, era
naturalmente elastica di fronte ai prezzi di mercato. Dal punto di
vista dell'economia nazionale l'esportazione su larga scala forniva
valuta estera per finanziare, a un corso di cambi favorevole,
l'importazione di beni strumentali e anche di generi alimentari.
Egualmente importante, in un paese con una popolazione in rapido
aumento e con pochissima terra non coltivata, fu l'aumento della
produttività per acro nelle zone coltivate a vegetali non
alimentari, destinati prevalentemente all'esportazione e alla
lavorazione locale. Tale produttività crebbe ad un tasso
medio annuale dello 0,86% dal 1891 al 1941; mentre la
produttività dei terreni coltivati a grano alimentare
diminuì a una media dello 0,11%. Nello stesso periodo la
popolazione era cresciuta in media dello 0,67% all'anno. In tal modo
l'esportazione di vegetali non alimentari (cotone e iuta) rese
possibile all'India di importare più frumento di quanto essa
ne avrebbe potuto raccogliere localmente dalla stessa estensione di
terreno; e in effetti le disponibilità alimentari
aumentarono, durante questo periodo, a una media annua dello 0,10%.
L'India, d'altra parte, costituiva un'economia relativamente
avanzata con un complesso sistema commerciale indigeno. La
situazione era invece differente nell'Africa occidentale, dove i
contadini si dedicavano alla produzione destinata all'esportazione
spesso solo per la pressione dei funzionari coloniali, dove quasi
tutti i dispositivi del mercato erano nelle mani di società
straniere e dove i trasporti erano più costosi e le tecniche
produttive estremamente primitive. Accadeva inoltre che i prezzi dei
prodotti caratteristici dell'Africa occidentale - oli vegetali,
cacao, caffè - fossero, sul mercato mondiale, estremamente
incostanti e, in genere, data la sovrabbondanza a livello
internazionale di tali prodotti, si abbassassero per lunghi periodi.
Di conseguenza nell'Africa occidentale la remuneratività
della produzione di merci da esportazione tendeva ad essere minore
che in India. Nondimeno essa variava smisuratamente da una regione
all'altra. Nelle zone costiere, dove le condizioni naturali erano
favorevoli e dove i costi dei trasporti erano bassi, i contadini
produttori spesso si arricchirono; al contrario le regioni
dell'entroterra, come per es. il Mali e il Niger odierni,
risentirono fortemente degli alti costi dei trasporti e del
complesso relativamente sfavorevole dei fattori di produzione.
È possibile che in queste zone la produzione di materie prime
fosse contraria ai veri interessi sia dei produttori che della
società nel suo insieme, ciononostante è probabile che
nel complesso anche l'Africa occidentale abbia tratto giovamento da
questa specializzazione, stimolata dal colonialismo, nella
produzione primaria destinata all'esportazione. Per di più,
l'istituzione durante e dopo la seconda guerra mondiale di una
regolamentazione statale del mercato, permise alle amministrazioni
di tassare i produttori e di impiegare tali proventi per
modernizzare l'economia in tutti i settori, in una misura che non
sarebbe stata possibile con una economia più autarchica.
La specializzazione nella produzione di beni primari, tanto comune
nelle situazioni coloniali, rappresentò dunque un punto di
partenza valido per delle economie in via di sviluppo? I fatti fanno
pensare che poté esserlo e altresì non esserlo. Per un
verso, tutte le antiche colonie di insediamento bianco in America e
nel continente australasiatico raggiunsero alti livelli di vita e
assai spesso finanziarono l'industrializzazione con le esportazioni
di prodotti agricoli primari, di legname o di minerali. Per un altro
verso, è chiaro che molti sistemi economici coloniali e
postcoloniali di questo tipo s'impelagarono nella produzione di beni
primari, e trovarono difficoltà perfino a mantenere, dato
l'incremento demografico, bassi livelli di consumo. Quattro fattori
sembrano aver determinato in tutto o in parte situazioni così
opposte: le differenze, lungo il corso degli anni, nella domanda
internazionale di un particolare tipo di prodotto; i diversi effetti
dei meccanismi di mercato; la pesante dipendenza iniziale della
maggior parte delle colonie non europee dalle capacità e dal
capitale straniero, il che significava che un larga e talvolta
sproporzionata parte dei profitti non fruttava nulla al sistema
sociale che li produceva; infine, cosa più importante, la
produzione pro capite nella maggior parte delle economie coloniali
sottosviluppate troppo bassa per dar luogo ad un tasso di
accumulazione sufficiente e quindi per fornire risorse da investire
nella modernizzazione dell'economia. Quest'ultimo fattore,
naturalmente, può essere stato aggravato dal drenaggio di
risorse costituito dai profitti degli stranieri; ma
fondamentalmente, la povertà della maggior parte delle
società coloniali ed ex coloniali può esser ascritta
alla bassa produttività pro capite e per ettaro. Se il
colonialismo ha mancato in qualcosa, è nel fatto che le
amministrazioni non poterono o non vollero affrontare l'immane
compito di ristrutturare la società contadina e l'agricoltura
per portare la produttività a livelli comparabili con quelli
dell'agricoltura delle zone temperate a insediamento bianco.
L'industrializzazione e l'economia equilibrata. - Una critica
analoga delle conseguenze economiche del colonialismo è che
le amministrazioni coloniali, tese esclusivamente a soddisfare gli
interessi metropolitani, non incoraggiarono o addirittura non
permisero una industrializzazione e una diversificazione
dell'economia, creando così sistemi economici ‛sbilanciati' o
‛disarmonici'. L'argomento è troppo vasto perché possa
esser trattato adeguatamente in questa sede, ma è possibile
fare alcuni rilievi generali.
Storicamente è innegabile che, prima degli anni cinquanta,
solo di rado le potenze coloniali incoraggiarono in modo concreto le
imprese industriali nei territori dipendenti; ma, tuttavia, nel sec.
XX non vi sono state restrizioni formali alla industrializzazione.
Perciò, è più esatto affermare che, fino a
quando non prevalse, all'incirca dopo il 1950, l'influsso degli
economisti dello ‛sviluppo', era convinzione generalmente accettata
che, per le economie meno sviluppate, la cosa più conveniente
fosse specializzarsi nella produzione di beni primari. Rispetto ai
governi indigeni post-coloniali, il difetto maggiore del dominio
coloniale consistette, dunque, nella relativa assenza di misure che,
nel processo di industrializzazione, stimolassero positivamente la
diversificazione.
Ciò fa pensare che il problema più importante sia,
piuttosto, quello del perché le forze economiche non abbiano
dal canto loro dato origine a un maggiore sviluppo industriale.
Ovviamente, le considerazioni circa le imprese straniere e quelle
circa gli imprenditori indigeni saranno diverse. Gli stranieri erano
verosimilmente propensi ad investire in attività industriali
in una colonia solo quando ciò risultava più proficuo
di altre imprese produttive sia in territori dipendenti che in
patria. Fino a dopo il 1945 questo fatto si verificava raramente. Le
ragioni sono rilevanti. Nella maggior parte dei casi, la produzione
in patria di manufatti industriali da esportare nelle colonie
sembrava presentare un maggior profitto economico. Anche se in
colonia i salari erano più bassi, tale vantaggio era,
però, neutralizzato dalla necessità di qualificare la
manodopera industriale e di impiegare tecnici stranieri con salari
superiori a quelli normalmente pagati in patria. Le materie prime di
produzione locale potevano costituire un'attrattiva per gli
investimenti industriali, ma solo quando la trasformazione di un
prodotto locale costituiva il fatto primario del processo
produttivo. Un più elaborato processo di trasformazione, date
le condizioni del mercato locale, avrebbe richiesto prodotti
già parzialmente lavorati che erano più economici in
Europa. Per contro, le deficienze delle infrastrutture - in modo
particolare delle comunicazioni, dei rifornimenti di energia, dei
servizi sanitari e scolastici - erano generalmente validi fattori di
dissuasione. Soprattutto, finché le colonie non avessero
fornito alcun concreto incoraggiamento (tariffe protettive, premi,
sussidi, esenzioni fiscali, appalti governativi e così via)
per l'installazione di industrie, gli imprenditori stranieri
avrebbero avuto pochi incentivi ad impiantare fabbriche e
diversificare così le economie coloniali.
Le stesse considerazioni non erano applicabili automaticamente agli
imprenditori indigeni che fossero capaci di sfruttare occasioni
favorevoli e fossero pronti ad affrontare rischi inaccettabili per
gli stranieri. Infatti in India, in Indonesia, nel Congo e in molti
altri territori dipendenti, furono uomini di questo stampo a
fondare, durante il periodo coloniale, importanti industrie. Ma
anche in questa direzione esistevano fattori che limitavano lo
sviluppo. L'abilità e le capacità imprenditoriali
degli indigeni erano limitate. Capitale e credito erano scarsi. Data
la mancanza di dazi sulle importazioni, erano necessarie condizioni
del tutto particolari oppure una grande fede per credere
nell'affermazione di industrie appena avviate, sebbene sia
necessario ricordare che le più importanti industrie moderne
di proprietà indiana erano già fiorenti, in India,
ancor prima che negli anni venti si adottasse l'uso delle tariffe
protettive, e che tali industrie si svilupparono rapidamente,
protette da deboli barriere doganali, prima del 1947 e cioè
prima dell'indipendenza. Deve essere altresì rilevato, anche
se non si tratta di una colonia, che il Giappone, durante il periodo
cruciale del suo primo sviluppo industriale precedente il 1914, era
in pratica un'economia a libero scambio. Quindi, l'ostacolo
più rilevante alla industrializzazione e alla
diversificazione della produzione nella maggior parte delle
società coloniali è stato probabilmente la limitatezza
dei mercati locali. Dato il bassissimo livello del reddito pro
capite e in molti casi la scarsa popolazione, era di per sé
svantaggioso impiantare industrie per la fabbricazione di prodotti
che richiedevano elaborazioni complesse e costi elevati (in
particolare i prodotti dell'industria pesante) a meno che non vi
fossero fattori particolarmente favorevoli ad una produzione
destinata ai mercati esteri. Il caso era differente per quelle merci
- come ad esempio sapone, cibi lavorati, cemento, tessili non
pregiati, ecc. - che richiedevano limitati investimenti di capitale
o per merci voluminose che erano protette dalla concorrenza
dell'importazione da alti costi di trasporto: queste furono le prime
produzioni che, storicamente, si svilupparono nella maggior parte
dei territori dipendenti. Anche la presenza di un nucleo
relativamente piccolo di coloni europeri era, a volte, sufficiente a
stimolare le prime imprese manifatturiere. Tuttavia, malgrado
ciò, la limitatezza del mercato locale nonché la
disponibilità, a buon mercato, di prodotti importati
dall'estero costituivano, nella maggioranza dei casi, disincentivi
veramente insormontabili. Sebbene il secondo di tali disincentivi
fosse dovuto alla cosiddetta politica della ‛porta aperta' imposta
dal colonialismo, il fatto determinante era che il sottosviluppo
costituiva di per sé il principale ostacolo
all'industrializzazione.
5. Conclusioni
Quali furono, dunque, le conseguenze generali del colonialismo sui
territori dipendenti alla fine del periodo coloniale? È
evidente che un unico criterio di valutazione non può
adattarsi a territori così diversi sotto ogni aspetto; ma,
nella misura in cui l'importanza del fattore imperiale può
essere isolata e generalizzata, sembrano emergere, dalle discussioni
su riportate, le seguenti conclusioni.
a) Conseguenze dovute a sistemi politici estranei
Il carattere essenziale comune a tutti i sistemi coloniali sembra
essere stato la concentrazione dell'autorità e dei poteri
amministrativi nelle mani di organi metropolitani e dei loro
funzionari nei territori d'oltremare. Malgrado le notevoli
differenze e l'esistenza di assemblee più o meno elettive in
molte colonie, da un punto di vista politico il colonialismo
significò essenzialmente un regime estraneo esercitato da
amministratori di carriera stranieri. Ciò ebbe incalcolabili
e, per qualche aspetto, paradossali conseguenze. Per cominciare, in
senso positivo, il regime coloniale creò quasi dal nulla un
numero di nuove entità politiche raramente riscontrato in
passato, almeno nell'Africa a sud del Sahara. I funzionari coloniali
imposero modelli di legislazione, di ordine e di efficienza
amministrativa che, nel sec. XX, erano normali in Europa, ma che in
genere erano estranei alle tradizioni indigene delle società
dipendenti. Dato che questi modelli erano essenziali per il
funzionamento di uno Stato secondo i moderni criteri europei, questo
aspetto del colonialismo ha costituito probabilmente
l'eredità più importante per gli Stati indipendenti
che si formarono in seguito. D'altro lato, tuttavia, la tradizione
politica che gran parte delle colonie ereditò dalle potenze
imperiali non fu una democrazia - che generalmente fu un'innovazione
dell'ultimo minuto, alle soglie dell'indipendenza - ma una
autocrazia centralizzata esercitata da un'élite istruita. Non
è stato dunque un fatto sorprendente che solo pochi paesi di
recente indipendenza siano stati in grado o abbiano avuto
l'intenzione di instaurare sistemi di governo democratico-liberali
di tipo occidentale, né che le nuove élites dirigenti
indigene abbiano aspirato ad usare l'arma dell'autoritarismo
burocratico che avevano appreso dai loro antichi maestri. Più
sorprendente al contrario è stato che, negli anni settanta,
in un piccolo numero di paesi vigessero ancora elaborate
costituzioni democratiche; ed è significativo che questo sia
generalmente accaduto in territori che, come l'India, Ceylon o come
quelli che erano stati le Indie Occidentali Britanniche, avevano
avuto, durante il periodo coloniale, un'esperienza relativamente
lunga d'istituzioni rappresentative.
b) Ripercussioni del dominio straniero sulla psicologia della
società coloniale
In secondo luogo vanno prese in considerazione le ripercussioni del
dominio straniero sulla psicologia delle società coloniali.
L'esser soggetti - che nella maggior parte dei casi aveva comportato
un'iniziale conquista, la cancellazione delle istituzioni indigene,
l'introduzione del cristianesimo, la messa al bando delle credenze
indigene e delle pratiche ‛pagane', nonché periodi
relativamente lunghi in cui le popolazioni indigene erano private
praticamente di ogni mansione di rilievo - costituì
inevitabilmente per queste popolazioni un'esperienza traumatica. Le
loro reazioni furono estremamente diverse. Alcune comunità
coloniali rimasero moralmente indenni, sostenute spesso da salde
tradizioni culturali o religiose. Ciò fu del tutto normale
per paesi con religioni ‛evolute' quali l'islam, il buddhismo e
l'induismo. All'estremo opposto, alcune società sembrarono
perdere del tutto la fiducia in se stesse e, in alcuni casi,
svilupparono addirittura un ‛desiderio di morte' collettivo.
Analogamente, alcune società sono uscite dal colonialismo ben
dotate intellettualmente e psicologicamente per assumere un ruolo
positivo nel mondo moderno; altre, invece, sono apparse incapaci di
assumersi il peso dell'indipendenza. Tali contrasti non possono
essere spiegati esclusivamente con il particolare carattere del
sistema coloniale cui un territorio è stato assoggettato,
anche se esso ha avuto indubbiamente una certa importanza. In ultima
analisi, l'impatto con il regime coloniale dipendeva dal carattere
di fondo della società soggetta e dalla sua capacità
di resistere e perfino di trarre profitto dal contrasto con un
regime allotrio.
c) Le conseguenze economiche del colonialismo
Ancora una volta i fatti portano a opposte conclusioni. Non sembrano
esservi ragioni valide per asserire che il colonialismo sia stato
storicamente la causa della povertà e del sottosviluppo nei
paesi poveri dell'America, dell'Africa, dell'Asia e delle isole del
Pacifico. L'età dell'oro precoloniale è in gran parte
un mito. L'Europa ha compiuto molte distruzioni nei territori
dipendenti, ma occorre anche dire che il mondo sottosviluppato,
prima dell'avvento del colonialismo, era certamente più e non
meno povero e sottosviluppato.
Per molte società coloniali, il dominio straniero può
essere stato il mezzo più rapido, e forse un mezzo
necessario, per la liberazione dai vincoli di sistemi economici e
sociali preindustriali. Si potrebbe certamente sostenere - come fece
diffusamente Marx - che nell'era del capitalismo industriale il
dominio straniero è stato una forza necessariamente
distruttiva che, sola, poteva mettere in grado una società,
come quella indiana, di raggiungere il progresso. Pochissime
società, e fra esse il Giappone resta il migliore esempio,
sono state capaci di passare volontariamente, in breve tempo, dalla
condizione precapitalistica a quella di società industriale
moderna, senza esservi obbligate dall'occupazione straniera.
Se ne dovrebbe dedurre che la misura dell'utilità del colonialismo, quale forza propulsiva della crescita economica, consiste inizialmente nella sua capacità di abbattere gli ostacoli che si frappongono all'accumulazione del capitale. Secondo questo criterio, il dominio straniero realizzò molto, e probabilmente, in un certo periodo, più di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi governo indigeno storicamente concepibile nella maggior parte dei territori. Ma il vero punto debole del colonialismo va ricercato in ciò che esso non fece, piuttosto che in quel che fece. Le potenze europee erano, infatti, troppo deboli per assolvere fino in fondo al loro compito. Esse non avevano risorse sufficienti per modernizzare imperi di tale vastità. Fino agli anni cinquanta non disponevano di chiare indicazioni, da parte degli economisti, sul modo migliore di promuovere lo sviluppo. Fatto ancor più importante, venne loro meno la volontà di distruggere come condizione preliminare per ricostruire. Col tempo, la loro originaria fiducia nella missione civilizzatrice dell'Europa venne meno, a mano a mano che diveniva chiaro l'altissimo costo politico e sociale della ristrutturazione delle società indigene. Durante la prima metà del sec. XX quasi tutti i sistemi coloniali perdettero il loro slancio e si rifugiarono nel compromesso concedendo la loro fiducia a piccoli gruppi di collaboratori indigeni che, il più delle volte, erano anche gli elementi più conservatori della società coloniale. Principalmente per questa ragione l'indipendenza politica può essere considerata come una condizione necessaria per uno sviluppo economico sostenuto. Soltanto uno Stato sovrano, che fosse stato fermamente deciso a fare dell'aumento della ricchezza il suo obiettivo principale e in grado di mobilitare la volontà nazionale per conseguire tale meta, avrebbe potuto forse superare gli ostacoli insiti nella condizione di sottosviluppo.
Il colonialismo può perciò essere considerato, per
vari aspetti, come un utile e forse necessario periodo di tutela per
molte società; ma, a lungo
andare, esso si è
trasformato in una camicia di forza che ha impedito il normale
sviluppo dell'economia e degli altri settori della vita nazionale.