Colonialismo


Enciclopedia del Novecento (1975)

di David K. Fieldhouse

Colonialismo

Sommario: 1. Introduzione. 2. La funzione storica del colonialismo nel secolo XX. 3. Sistemi di governo: a) tipi di dipendenza; b) sistemi giuridici e amministrativi degli imperi. 4. Sistemi economici: a) le teorie; b) gli strumenti dell'economia imperiale; c) le conseguenze economiche del colonialismo. 5. Conclusioni: a) conseguenze dovute a sistemi politici estranei; b) ripercussioni del dominio straniero sulla psicologia della società coloniale; c) le conseguenze economiche del colonialismo. □ Bibliografia.

1. Introduzione

‛Colonialismo', come termine per qualificare e classificare, manca di precisione (come del resto ‛imperialismo'). All'inizio del sec. XX tale espressione fu talvolta usata per indicare la condizione di dipendenza di territori politicamente subordinati; ma più tardi, nell'uso comune, venne soppiantata dal termine ‛imperialismo' che, a partire dall'ultimo decennio dell'Ottocento, venne usato, dai critici ostili al dominio europeo su altri popoli, quale termine generico indicante sia la condizione di predominio europeo che le sue cause economiche. Così, Lenin definiva l'imperialismo come ‛capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l'esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trusts internazionali ed è già compiuta la ripartizione dell'intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici" (v. Lenin, 1917; tr. it., p. 266). Negli anni cinquanta, comunque, il termine ‛colonialismo' è stato riesumato per descrivere gli effetti della dominazione su popoli dipendenti e i rapporti tra questi e lo Stato imperiale che esercita il potere. Nel presente articolo ‛colonialismo' sarà inteso in questo senso: come il complesso di controlli e influenze politico-economici esercitati dalle potenze metropolitane dell'Europa e del Nordamerica sui territori formalmente loro soggetti, cioè su territori che non erano riconosciuti quali Stati sovrani secondo il diritto internazionale. Il periodo considerato va approssimativamente dall'inizio del sec. XX - cioè dopo che fu portata a termine la spartizione fra le maggiori potenze di quasi tutta l'Africa, l'Asia e delle isole del Pacifico - fino alla graduale dissoluzione dei sistemi coloniali tra il 1945 ed il 1971.

Dato che il termine ‛colonialismo' si riferisce principalmente alle società dipendenti piuttosto che alle potenze metropolitane, bisognerà concentrare l'attenzione su quei caratteri dei sistemi coloniali che, in qualche modo, differenziavano le colonie propriamente dette dagli Stati sovrani ad esse paragonabili. Questi caratteri possono essere suddivisi, a grandi linee, in tre categorie: sistemi di controllo e governo politico; sistemi di controllo e sfruttamento economico; sistemi di controllo intellettuale e ideologico. Noi ci proponiamo di concentrare l'attenzione principalmente sugli aspetti politici ed economici, per i quali disponiamo di informazioni più solide, e di fare solo brevi cenni alle eventuali ripercussioni del colonialismo sulla psicologia delle società coloniali.

2. La funzione storica del colonialismo nel secolo XX

Per comprendere il carattere dei moderni sistemi coloniali (che si erano formati lentamente in un periodo che abbraccia circa quattro secoli prima del 1900) è necessario tener presente che, se essi non vennero acquisiti in modo del tutto casuale, furono anche il prodotto del caso oltre che di un disegno premeditato. Le cause della loro iniziale annessione e del loro permanere nella condizione di colonie possono essere analizzate sia a livello particolare sia a livello generale. Le ragioni contingenti dell'acquisizione di territori dipendenti sono state le più varie: esplorazione; esigenze belliche e sistemi di sicurezza; periodi di nazionalismo e di sciovinismo; momentanee necessità della diplomazia; attività missionaria; e infine iniziative economiche. Questi e altri fattori contribuirono in origine alla formazione di un impero, e in certi casi le stesse considerazioni o gli stessi fattori sono state le cause del mantenimento delle colonie durante il sec. XX. Ma, in realtà, è assurdo analizzare il colonialismo del sec. XX riferendosi in modo troppo aderente e meccanico alle sue origini storiche. Infatti, in molti, se non nella maggioranza dei casi, l'impero è sopravvissuto alle sue funzioni originarie.

È, dunque, più utile considerare il colonialismo moderno ad un livello più generale e vederlo come prodotto diffuso, ma nondimeno transitorio, di una situazione di disequilibrio tra l'Europa e molte altre parti del mondo. Questo nuovo rapporto ebbe inizio nel sec. XV, quando la tecnologia e l'ingegneria navale fornirono per la prima volta mobilità all'Europa, e un certo predominio su talune società d'oltremare, soprattutto quelle d'America; e giunse al suo culmine alla fine del sec. XIX, quando la moderna tecnologia industriale diede all'Europa e al Nordamerica, per la prima volta, un netto predominio su tutto il resto del mondo. L'esito non è stato sempre quello di un impero formalmente costituito: tale supremazia poteva esprimersi attraverso un'egemonia non istituzionalizzata, come è avvenuto in gran parte dell'Asia. Tuttavia, quando gli Europei ebbero motivi sufficienti e dove l'azione politica non fu impedita da rivalità reciproche, si trovò spesso più vantaggioso esplicitare il predominio di fatto nelle forme di una sovranità politica istituzionalizzata. Il risultato fu la vera e propria divisione del globo in un certo numero di sistemi coloniali. I

l colonialismo, dunque, è stato il riflesso di una fase oggettiva dell'evoluzione della società mondiale, allorché le grandi potenze trovarono vantaggioso esprimere la loro superiorità governando i paesi più deboli. Fu, comunque, un periodo estremamente breve: durò infatti, in quasi tutta l'Africa e nell'Asia meridionale, soltanto settant'anni se non meno. Non è nelle finalità del presente articolo spiegare perché il fenomeno del colonialismo si esaurì così rapidamente; ma è chiaro che la sua rovina fu dovuta all'effetto combinato sia di ulteriori cambiamenti intervenuti nell'equilibrio del potere nel mondo - poiché nel frattempo nuovi paesi andavano facendo propri i benefici della tecnologia moderna - sia del mutato atteggiamento da parte delle potenze imperiali, che erano giunte alla conclusione che il colonialismo, mutate le circostanze, non presentava più alcuna utilità. Possiamo, quindi, considerare il colonialismo come un sistema transitorio, e ora estinto, di rapporti politici ed economici fra l'Europa e quei paesi oggi convenzionalmente chiamati il Terzo Mondo. Le questioni fondamentali da esaminare sono: in qual modo il potere degli imperi coloniali è stato esercitato sia nel campo dello sviluppo economico sia in quello dell'amministrazione, e quali conseguenze ciò abbia avuto per i popoli soggetti.

3. Sistemi di governo

La caratteristica di gran lunga più rilevante del colonialismo moderno è stata la subordinazione totale di una società ad un'altra. Le implicazioni di tale subordinazione sono tante e tali che, al confronto, le particolari forme di amministrazione appaiono relativamente poco importanti. Tuttavia, agli effetti pratici, l'incidenza della dominazione coloniale e la sua importanza per il futuro della società coloniale è stata notevolmente varia. Ci proponiamo quindi di condurre un'analisi formale dei tipi di dipendenza nei termini del diritto internazionale e di descrivere poi il carattere dell'autorità, dell'amministrazione e del diritto pubblico in ciascuno dei principali imperi coloniali durante il sec. XX.

a) Tipi di dipendenza

Nell'età moderna si sono avute tre principali forme di dipendenza.

Colonie. - Tecnicamente si dovrebbe usare la parola colonia solo per quei territori che erano formalmente annessi alla madrepatria e pienamente soggetti alla sua sovranità. Tutti i possedimenti delle maggiori potenze, anteriori al 1800, e alcuni di quelli acquisiti nell'ultimo scorcio del sec. XIX, erano mantenuti in questa condizione. Le più importanti conseguenze giuridiche della piena condizione coloniale erano, da un lato, che i nati e residenti in un territorio coloniale erano considerati a tutti gli effetti sudditi della madrepatria, sebbene non godessero necessariamente di pieni diritti di cittadinanza, e, dall'altro lato, che non vi erano limitazioni di sovranità imposte dal diritto internazionale.

Protettorati e Stati protetti. - In termini rigorosamente giuridici questi non furono mai possedimenti dello Stato protettore, ma rimasero Stati con personalità giuridica internazionale o unità territoriali che in un determinato momento avevano accettato ‛protezione' e avevano rinunciato così a ogni diretto rapporto con Stati terzi in cambio di garanzie di protezione. Talvolta ciò fu stabilito con un trattato formale, in altri casi fu la conseguenza di un'occupazione di fatto. Il termine ‛protettorato' fu comunemente usato per indicare aggregati di entità relativamente piccole, amministrati in tutto dalla potenza protettrice; mentre negli ‛Stati protetti' erano conservate almeno le forme di autogoverno esercitate da autorità indigene.

Mandati e territori in amministrazione fiduciaria. - Furono creati, essenzialmente, dal Trattato di Versailles (1919), sebbene si possano annoverare come esempi precedenti le isole Ionie, che furono di fatto un mandato britannico dal 1815. I moderni mandati e territori in amministrazione fiduciaria erano stati tutti, un tempo, colonie o protettorati delle potenze europee sconfitte o del Giappone, e vennero così chiamati per evitare l'impressione che i vincitori volessero impossessarsi di un bottino coloniale. I mandati del 1919 furono divisi in categorie denominate A, B, C, a seconda del grado in cui potevano essere assorbiti in un sistema imperiale, ma rimasero tutti sotto il controllo della Commissione permanente per i mandati della Società delle Nazioni. Dopo il 1945 questi mandati, cui si aggiunsero colonie italiane e giapponesi, furono ribattezzati come 'territori in amministrazione fiduciaria' e posti sotto il più rigoroso controllo delle Nazioni Unite.
Tali distinzioni giuridiche avevano conseguenze pratiche. Per esempio, le potenze imperiali avevano, paradossalmente, maggiore libertà nell'amministrare i protettorati che non le colonie, perché i cittadini del protettorato non godevano dei diritti propri dei cittadini del territorio metropolitano, riconosciuti invece alle popolazioni del tutto soggette delle colonie. Così pure gli Stati protetti conservavano spesso forme indigene di governo e di legislazione, mentre i regolamenti dei mandati e dei territori in amministrazione fiduciaria imponevano limitazioni alle potenze amministranti. Ad ogni modo non bisogna esagerare l'importanza di tali distinzioni. La maggior parte dei protettorati erano amministrati quasi allo stesso modo delle colonie di tipo analogo, e anche negli Stati protetti la tendenza era di ristrutturare le istituzioni indigene.

b) Sistemi giuridici e amministrativi degli imperi

Passeremo ora in rassegna il sistema costituzionale e amministrativo delle cinque principali potenze coloniali del sec. XX: Gran Bretagna, Francia, Olanda, Portogallo e Belgio.

L'impero britannico e il Commonwealth. - La suprema autorità legislativa risiedeva nel Parlamento a Westminster. Sebbene non ne facesse parte alcun rappresentante dei territori dipendenti, esso vantava tuttavia il diritto di legiferare con pieni ed effettivi poteri anche per i paesi d'oltremare. Nel caso di colonie propriamente dette, tale potere era fondato sul fatto che i coloni erano sudditi britannici i quali dovevano obbedienza alla Corona in Parlamento. Altri territori dipendenti furono posti entro la sfera del sistema legislativo da una serie di leggi sulla Foreign jurisdiction. In pratica, comunque, il Parlamento britannico si occupò poco degli affari coloniali. L'amministrazione corrente e il potere di emanare decreti amministrativi erano nelle mani dell'esecutivo - il sovrano, il Consiglio della corona e i ministri - in forza di prerogative o di poteri delegati dal Parlamento. Questi poteri erano esercitati quasi esclusivamente dai due segretari di Stato per le Colonie e per l'India e dai loro rispettivi dicasteri: il Ministero per le Colonie e quello per l'India. Il Ministero per gli Affari Esteri conservava, dal canto suo, la competenza per l'‛Irāq, l'Egitto, gli Stati del Golfo Persico e qualche altro territorio. In tal modo il centro reale del potere risiedeva nel Ministero per le Colonie e nel Ministero per l'India. I loro quadri erano costituiti da funzionari civili reclutati per mezzo di concorsi pubblici. Tali funzionari erano ben informati, competenti, permeati di alti ideali circa i doveri che l'amministrazione fiduciaria aveva verso i popoli soggetti, pronti a individuare quelle proposte che avrebbero potuto danneggiare gli interessi dei ‛natìvi'. Certamente i burocrati non erano puri e semplici strumenti dell'imperialismo capitalista.

Malgrado ciò, tuttavia, il Ministero per le Colonie non era sufficientemente qualificato, almeno prima del 1945, per agire quale forza dinamica per il progresso dei territori dipendenti: non disponeva di personale sufficiente; le sue sezioni più importanti erano competenti per aree geografiche e non ve n'erano di specializzate per la pianificazione economica; le questioni tecniche venivano trattate da comitati di esperti costituiti di volta in volta. Soprattutto, la consuetudine burocratica portava a esercitare più un controllo negativo che positivo. Anche durante il periodo del rapido sviluppo economico dopo il 1945, le iniziative positive erano lasciate ai funzionari coloniali residenti sul posto. La delega del controllo era ancora più accentuata nel caso dell'India. In certe occasioni, e particolarmente quando l'affermarsi del nazionalismo indiano a partire dal 1920 sollevò gravi problemi d'ordine politico, Londra fu in grado di esercitare un effettivo controllo sull'India. Ma, per il resto, l'amministrazione indiana godeva di una sostanziale autonomia e il Ministero per l'India operava più come una Commissione suprema per l'India - pagata, sia detto incidentalmente, dal reddito indiano - che come effettivo centro decisionale. Cosicché in India e negli altri territori dipendenti le ripercussioni del colonialismo sui popoli soggetti erano largamente determinate dal livello qualitativo dei funzionari britannici ivi dislocati, piuttosto che dalla politica metropolitana.

Agli inizi del sec. XX si verificarono forti contrasti tra l'Indian Civil Service e il Colonial Service. Fin dal 1790 il Covenanted Service, la più antica branca dell'amministrazione indiana, era costituita da un corpo scelto appositamente addestrato, che svolgeva in India tutta la sua carriera. Nel 1915 i suoi membri erano appena 1.200, ma costituivano l'effettivo governo dell'India. Vi era inoltre un Uncovenanted Service, con un organico molto più numeroso del primo e ribattezzato dal 1889 Provincial and Subordinate Services, costituito da ruoli amministrativi minori; il Political Service che forniva personale residente in grado di dare una consulenza agli esponenti dei Principati indiani; e infine organismi distaccati che fornivano il personale destinato ai Lavori Pubblici e ad altri dipartimenti tecnici. Erano tutti i corpi altamente qualificati, che offrivano attraenti carriere alle classi medie britanniche e indiane, anche se fu soltanto dagli anni venti che un consistente numero di posti in ognuno di questi organismi - tranne il Provincial and Subordinate Services - venne occupato da Indiani. L'India offriva così un classico esempio di amministrazione burocratica esercitata da funzionari immigrati, generalmente efficiente ma autoritaria e per molti aspetti estranea ai bisogni e ai modi di procedere degli Indiani.

Anche le dipendenze coloniali erano amministrate burocraticamente, ma il Colonial Service acquistò solo tardi una adeguata competenza. Anteriormente al 1920 non vi fu nessun serio sforzo per addestrare il personale di nuova assunzione e, fino al 1930, manco un amministrazione generale per le colonie. Il livello qualitativo degli amministratori coloniali migliorò col tempo a mano a mano che l'amministrazione diventava sempre più una professione. Il fulcro dell'amministrazione erano le elevate capacità dell'Ufficiale o Commissario distrettuale, quasi sempre un funzionario che viveva da solo in regioni remote e che acquistava ampia conoscenza della ‛sua' provincia, ai cui interessi egli si dedicava secondo il suo modo di vedere. Proprio come un dittatore, adottava un atteggiamento paternalistico. Egli costituiva, necessariamente, un ostacolo allo sviluppo di sistemi democratici, sia perché il suo ruolo lo costringeva ad adottare modi autocratici, sia perché diffidava degli indigeni colti e di chiunque altro minacciasse le basi fondamentali del sistema coloniale. Ma la chiave del colonialismo britannico consiste nel fatto che l'Ufficiale distrettuale non era e non si considerava lo strumento di una potenza occupante ostile o del capitalismo sfruttatore, ma il rappresentante della civiltà cui incombeva il compito di dispensare la giustizia e di guidare coloro che gli erano soggetti verso forme di vita migliori.
I sistemi di amministrazione nei territori dipendenti erano oltremodo vari, e durante il sec. XX hanno subito cambiamenti sostanziali. In linea di massima, all'inizio di questo secolo, tutti questi territori, tranne i Dominions che avevano forme di autogoverno e che solo giuridicamente erano territori dipendenti, venivano amministrati da burocrazie più o meno autocratiche, e tutti effettuarono sensibili passi in avanti verso forme di autogoverno, attraverso istituzioni rappresentative, già prima di acquistare l'indipendenza formale. Senza considerare i Dominions, vi erano quattro tipi fondamentali di amministrazione coloniale, che si potevano riscontrare, rispettivamente, nell'India britannica, in talune colonie dell'Atlantico, nella maggioranza delle colonie e dei protettorati coloniali in Africa come altrove, e, infine, negli Stati protetti.

All'inizio del secolo l'India britannica - eccettuati i Principati semiautonomi - era governata autocraticamente da un forte governo centrale e da varie amministrazioni provinciali egualmente autocratiche, che nel 1935 ammontavano a undici. Il governatore generale era coadiuvato da un ristretto Consiglio esecutivo e le leggi erano approvate da un più ampio Consiglio legislativo in cui, dal 1909, era presente anche una minoranza di membri eletti. I governatori delle provincie erano affiancati da consigli analoghi. Dal 1921, comunque, la componente rappresentativa aumentò.

A seguito delle riforme Montagu-Chelmsford, il numero e i poteri dei rappresentanti indiani eletti nel Consiglio legislativo centrale vennero accresciuti, mentre nelle provincie s'instaurò un'amministrazione pienamente rappresentativa e governi pienamente responsabili ebbero competenza per alcune materie ‛trasferite'. Il Government of India act, del 1935, perfezionò il trasferimento dei poteri ai gabinetti provinciali e attribuì una competenza ministeriale limitata all'amministrazione centrale, prefigurando un ulteriore trasferimento di attribuzioni. Tale legge non ebbe mai piena attuazione soprattutto perché i sovrani dei diversi principati indiani si rifiutarono di uniformare i loro Stati all'India britannica; ciononostante, diversi suoi punti essenziali furono inseriti nella Costituzione indiana che entrò in vigore dopo l'indipendenza, nel 1950. Al di sotto del livello provinciale, l'amministrazione si fondava sul distretto, controllato da un funzionario amministrativo. Questi funzionari in origine erano semplici esattori delle imposte, ma dal 1900 esercitarono il controllo su tutte le branche dell'amministrazione, eccetto che su alcune più specialisticbe, come i tribunali, i servizi forestali e i lavori pubblici. Il sistema dei funzionari rappresentava il classico modello di ‛dominio diretto' benevolo, efficiente e paternalistico. I giudici appartenevano a un corpo distinto, in modo da garantire il principio della separazione dei poteri. Dal 1900 il diritto indiano si basava su tre grandi codici compilati verso la metà del sec. XIX. Il codice penale era fondamentalmente quello britannico, ma i tribunali applicavano una vasta gamma di consuetudini indigene che variavano a seconda della regione e della religione.
Tre colonie insulari, Barbados, Bahama e Bermude, avevano una situazione del tutto particolare in quanto conservavano costituzioni che risalivano al sec. XVII. Il governatore e il Consiglio esecutivo esercitavano il potere esecutivo, ma vi erano assemblee interamente elette che potevano legiferare e decidere col voto circa le imposte. In queste e altre isole delle Indie Occidentali, il modello dell'amministrazione centrale e locale, nonché la legislazione, erano ricalcati completamente su quelli inglesi: e ciò in netto contrasto con la maggior parte dei territori dipendenti dell'Africa e dell'Asia.

Il tipo di amministrazione di gran lunga più diffuso nell'impero coloniale era quello noto come Crown Colony Government, sebbene questa denominazione fosse approssimativa e, di fatto, le istituzioni variassero di molto. Nella maggior parte dei territori il potere amministrativo era nelle mani di un governatore britannico e di un Consiglio esecutivo di funzionari, mentre la legislazione era approvata da un Consiglio legislativo costituito prevalentemente da funzionari e, in misura inferiore alla metà, da membri non d'ufficio nominati o eletti. Fu soltanto dopo il 1944 che i Consigli legislativi divennero strumenti chiave nel processo verso forme di autogoverno e di regime democratico, quando, a una colonia dopo l'altra, venne concessa una amministrazione elettiva e quando membri eletti vennero posti alla guida di dipartimenti ministeriali.
Oltremodo varie erano le forme dell'amministrazione locale nelle Crown Colonies. Fondamentalmente tutti i territori, tranne quelli delle Indie Occidentali, erano suddivisi in distretti cui sovraintendevano funzionari britannici, ma i metodi usati da costoro mutavano a seconda delle circostanze. Per comodità di analisi si usa distinguere due opposte alternative dicendo che, nella pratica, i sistemi amministrativi si avvicinavano maggiormente o all'uno o all'altro. Il primo era il 'dominio diretto', sul modello dell'India britannica, in cui l'autorità si fondava interamente sui funzionari britannici residenti e dove gli elementi locali subalterni potevano operare in virtù delle attribuzioni loro concesse e non in base alla posizione che occupavano nella società locale. Al polo opposto vi era il 'dominio indiretto' che, come si era venuto elaborando originariamente in India, nelle Figi e nella Nigeria settentrionale, lasciava notevole potere alle tradizionali 'autorità indigene'. Così come fu razionalmente organizzato da lord Lugard in Nigeria, il sistema era inteso a proteggere la società indigena e il senso che essa aveva della propria dignità contro il trauma provocato dalla totale perdita di potere in favore degli stranieri, mentre introduceva gradualmente, allo stesso tempo, le componenti migliori della civiltà europea. Durante il periodo 1920-1945 il 'dominio indiretto' fu considerato un obiettivo da perseguire nella maggior parte dei territori dipendenti dell'impero. Ma durante i successivi decenni di decolonizzazione, questo sistema cadde largamente in discredito, perché si riteneva tendesse a perpetuare il potere delle élites tradizionali, ostacolando in tal modo la modernizzazione dei territori coloniali.
Il principio che era alla base del 'dominio indiretto' può essere osservato anche negli Stati protetti, ivi compresi i diversi Principati dell'India, i Sultanati di Malaya, Tonga e Zanzibar. Questi paesi mantenevano formalmente la loro condizione di Stati sovrani, ma, come Stati protetti, lasciavano all'Inghilterra il controllo delle relazioni estere e della difesa e, in pratica, accettavano diversi livelli di 'consigli' negli affari interni. Di fatto, i cosiddetti 'consigli' tendevano ad irrigidirsi in imposizioni; cosicché, per esempio, gli Stati della Federazione Malese erano, in realtà, amministrati dai residenti britannici, a loro volta controllati dall'Alta commissione con sede a Kuala Lumpur.

L'impero francese. - In linea di principio il sistema coloniale francese differiva sostanzialmente da quello britannico. La Francia era una repubblica e tutte le colonie vere e proprie erano parte integrante di essa. Perciò le colonie inviavano rappresentanti all'assemblea di Parigi (alla Camera 20 deputati su 612 nel 1936, 80 su 600 nel periodo 1946-1958). Molti Francesi credevano che il fine dell'impero fosse quello d'integrare le colonie con la metropoli. In pratica, comunque, ciò si dimostrò irrealizzabile. L'Algeria, le colonie dei Caraibi, le isole della Riunione e di Saint-Pierre-et-Miquelon erano veri e propri dipartimenti della Repubblica e tutti, tranne l'Algeria, conservarono tale condizione quando il resto dell'impero divenne indipendente. Ma la maggior parte dei possedimenti d'Oltremare rimase ben distinta dalla Francia e tentativi alquanto ingegnosi, fatti nel 1946 e nel 1958 per rendere i rapporti all'interno dell'impero più razionali creando l'Unione francese e la Comunità francese, fallirono. Il carattere del colonialismo francese ebbe pertanto, in pratica, molto in comune con il colonialismo britannico.
Come in Gran Bretagna, la suprema autorità era rappresentata dall'Assemblea metropolitana, ma, anche in questo caso, il potere effettivo era esercitato dalla burocrazia. Dal 1894 vi fu un ministro delle Colonie e il relativo dicastero che coordinava l'azione politica in gran parte dei territori dipendenti, ad eccezione dell'Algeria (perché incorporata nella metropoli) e della Tunisia, del Marocco e dei mandati successivi al 1919, che erano sotto la giurisdizione del Ministero degli Esteri. Le leggi più importanti erano approvate dall'Assemblea che votava anche i bilanci annuali delle colonie e, all'occasione, i deputati coloniali potevano far sentire la loro influenza tramite il gioco delle alleanze con i gruppi metropolitani. Ma, per lo più, le colonie erano regolate da decreti presidenziali o da ordinanze amministrative. Il ministro era in teoria coadiuvato da consigli consultivi di esperti; in pratica però l'amministrazione dell'impero era gestita da funzionari di carriera con pochissime interferenze da parte dei politici.

Lo stesso tipo di gestione tramite funzionari si riscontrava nei territori dipendenti. Dal 1894 quasi tutti i funzionari coloniali erano preparati presso l'École Coloniale e costituivano un organico unito da un forte spirito di corpo. L'amministrazione coloniale era burocratica da cima a fondo. Ad eccezione dell'Algeria, si facevano poche distinzioni pratiche tra colonie, protettorati e mandati. I governatori generali delle tre federazioni dell'Africa Occidentale, dell'Africa Equatoriale e dell'Indocina godevano di maggiore libertà da interferenze metropolitane che non i governatori dei territori dipendenti minori; ma tutti erano soggetti alla stretta sorveglianza esercitata dalla Inspection des Colonies con sede a Parigi e al controllo dei bilanci. Nei loro territori, tuttavia, i governatori erano praticamente dei despoti. La maggior parte delle colonie vere e proprie avevano assemblee con diverse attribuzioni; queste assomigliavano ai consigli esecutivi e legislativi britannici e alcune avevano membri non d'ufficio ma nominati o eletti. Ma i loro poteri legislativi o di bilancio erano considerevolmente minori di quelli dei consigli della British Crown Colony e non furono mai considerati quali parlamenti in embrione se non dopo il 1946. I principali organi di governo dei territori dipendenti erano il Conseil de gouvernement per una federazione o il Conseil d'administration per i territori minori: essi erano composti quasi esclusivamente da funzionari. Fu soltanto dopo il 1946, con l'avvento di assemblee rappresentative in tutti i territori d'Oltremare, che il tipo d'amministrazione poté essere influenzato efficacemente dall'opinione locale non europea. La Francia repubblicana governava i territori d'Oltremare più autocraticamente che non la monarchica Gran Bretagna.

Al livello degli organi subalterni dell'amministrazione coloniale i sistemi francesi e inglesi avevano molto in comune. Soltanto le Antille francesi, le isole di Saint-Pierre-et-Miquelon e della Riunione avevano la stessa legislazione della metropoli e unitamente al Senegal, alla Nuova Caledonia, a Tahiti, alla Guiana, alla Cocincina e a parte del Madagascar, avevano municipalità completamente elettive sul modello di quelle francesi. Per il resto, l'amministrazione locale era gestita da funzionari distrettuali molto simili a quelli delle colonie britanniche. Tali funzionari applicavano normalmente una prassi paragonabile a quella del ‛dominio diretto' britannico, che ignorava le entità politiche indigene e utilizzava gli elementi non europei come subalterni più per le loro capacità professionali che per la loro condizione d'origine; sebbene, in pratica, per convenienza, molte istituzioni indigene venissero conservate. Il risultato principale di tale prassi fu che i nativi più ambiziosi divennero consapevoli che potevano conseguire un certo avanzamento nella loro condizione sociale e un certo potere solo collaborando col sistema amministrativo straniero. Una minoranza, proveniente specialmente dal Senegal, fu in grado di acquisire una cultura secondaria o universitaria in Francia e riuscì ad elevare moltissimo la propria condizione sociale: la prima generazione di dirigenti degli Stati indipendenti, sorti dopo il 1960, proveniva principalmente da questo gruppo e dai deputati delle colonie all'Assemblea della Repubblica. Per contro, solo pochi capi tradizionali conservarono la loro condizione o il loro potere precoloniali.

Altri due ordinamenti tipici dell'amministrazione francese, non riscontrabili nei possedimenti britannici, erano la coscrizione militare obbligatoria e il lavoro obbligatorio prestato gratuitamente per opere pubbliche. Tali ordinamenti vennero imposti in modo selettivo in un limitato numero di possedimenti, soprattutto nell'Africa a sud del Sahara. La coscrizione obbligatoria era attuata nei confronti di quanti godevano dei diritti di cittadinanza francese, mentre chi ne era privo sottostava al lavoro coatto. Questo tipo di lavoro era usato, in principio, solamente per opere pubbliche, ma poteva essere assegnato a imprenditori privati che appaltavano lavori per il governo. La pratica ebbe finalmente termine nel 1946.

L'Olanda. - L'impero coloniale olandese era costituito essenzialmente dalle Indie Olandesi e dai piccoli territori caribici di Suriname, Sint Eustatius e Curaçao. Fermeremo la nostra attenzione sulle Indie Olandesi.
Il sistema olandese rassomigliava da vicino a quello britannico in India. L'autorità in ultima istanza spettava agli Stati Generali in Olanda, ma anche qui il potere effettivo era esercitato dal Ministero per le Colonie che, a sua volta, lasciava larga discrezionalità al governatore generale residente a Batavia. Con un proprio apparato burocratico, un proprio bilancio e proprie forze armate, nonché un consiglio esecutivo di funzionari di carriera egli era, per molti aspetti, un sovrano indipendente, in tutto simile al governatore generale dell'India britannica. Dal 1916 era stato creato un parlamento, il Volksraad (i cui membri parte erano nominati e parte eletti) che, analogamente all'assemblea legislativa indiana, in un primo momento ebbe soltanto poteri consultivi e poi, gradualmente, poté esercitare un limitato controllo sui bilanci e un certo potere di legiferare. Col tempo il Volksraad poté avere un'ulteriore evoluzione, ma, fino all'occupazione giapponese del 1941, l'amministrazione indonesiana rimase autocratica e paternalistica. L'aspetto più caratteristico del sistema di governo olandese in Indonesia consisteva nel fatto che la collaborazione indigena all'amministrazione locale era garantita attraverso una varietà di forme, che andavano da un piccolo numero di Stati protetti e da semiautonome unità amministrative tradizionali, fino ai consigli locali elettivi o semielettivi di Giava. Per la verità, il sistema era in rapida evoluzione negli anni trenta, ma palesava profondi contrasti fra Giava, che era relativamente ‛moderna', e le altre isole, in molte delle quali persistevano aspetti tradizionali.

Il Portogallo. - Il colonialismo portoghese ha costituito un fatto unico nel nostro secolo, poiché, mentre il Portogallo era stato il primo fra gli Stati europei a insediarsi con possedimenti permanenti in terre d'oltremare nel sec. XV, esso è stato anche l'ultima grande potenza coloniale del sec. XX. A parte alcune piccole basi in Oriente nonché le isole Azzorre e Madera, incorporate nella metropoli dal 1832, l'impero portoghese era costituito dai territori africani della Guinea portoghese, dell'Angola, del Mozambico e da piccole isole oceaniche. La caratteristica specifica di questo impero, a prescindere dal rifiuto portoghese di decolonizzare, era data dal fermo proposito del Portogallo di trattare le colonie come se fossero parte integrante della madrepatria. Anche qui l'assemblea nazionale, in cui dal 1930 in poi sedettero rappresentanti delle colonie, era investita dell'autorità suprema ed esisteva, anche in questo caso, un Ministero delle Colonie. Ma gli affari coloniali, in particolare quelli economici, erano strettamente integrati con quelli del Portogallo e gestiti dai dicasteri portoghesi. La linea politica generale era di trapiantare nelle colonie la cultura e la lingua portoghese nonché la religione cattolica, così da poter costituire, alla fine, una repubblica intercontinentale portoghese. Tuttavia, nella pratica, il colonialismo portoghese era simile al modello francese, ma sempre in ritardo di circa una generazione nella sua applicazione. L'amministrazione era nelle mani di governatori o di governatori generali, di consigli consultivi formati da esperti e di dicasteri burocratici costituiti da funzionari dislocati: tutti sotto il diretto controllo di Lisbona. Esistevano assemblee legislative, ma avevano scarso potere. Al di fuori delle capitali e di poche grandi città, la struttura amministrativa era basata sul 'dominio diretto' esercitato da funzionari distrettuali europei, che avevano alle loro dipendenze elementi africani. Poche concessioni venivano fatte alle tradizioni e alle entità politiche indigene. Il lavoro coatto era sfruttato su larga scala e, sino al 1960, c'erano sanzioni penali per inadempienze in fatto di contratti privati di lavoro.
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l Congo Belga. - Il moderno colonialismo belga ebbe inizio solo nel 1908, quando lo Stato Libero del Congo fu dato in amministrazione al governo belga dal suo effettivo proprietario, re Leopoldo II. D'allora in poi i Belgi cercarono di ricalcare i modelli contemporanei più validi, adottando generalmente i metodi francesi o britannici. Il parlamento belga aveva il potere di legiferare, ma lasciava molta libertà d'azione alla Corona che, a sua volta, agiva attraverso un ministro competente per le colonie ed un Ministero delle Colonie. Due caratteristiche erano peculiari del sistema belga: il Congo rimaneva un'entità giuridicamente distinta con la sua carta costituzionale e le sue leggi; il Ministero delle Colonie aveva propri rappresentanti presso tutte le grandi compagnie capitalistiche che dominavano l'economia congolese e nelle quali il governo congolese aveva un interesse. All'interno, invece, l'amministrazione del Congo rassomigliava al più austero e autocratico dei regimi britannici o francesi. Prima degli anni cinquanta non si ebbero assemblee legislative e nessuna forma di rappresentanza. La struttura amministrativa centrale e provinciale era nelle mani di funzionari belgi. Si fecero alcuni tentativi di adottare il modello britannico del ‛dominio indiretto', ma le entità amministrative e perfino gli Africani scelti a collaborare all'amministrazione erano creature dell'autorità imperiale. Le uniche parvenze di autogoverno si potevano riscontrare nei centri maggiori, dove furono istituiti dapprima municipalità per i cittadini europei e in seguito Centres extracoutumiers per i non Europei con la funzione di gestire i servizi sociali. Una rigorosa discriminazione tra Europei e Africani venne attuata in campo giuridico. Lo Stato poteva esigere dagli Africani lavoro coatto e contratti di lavoro controllato per ditte private.

4. Sistemi economici

La seconda questione di rilievo da considerare è quella dell'effetto prodotto dal colonialismo sull'evoluzione economica dei territori dipendenti. In termini generali dobbiamo chiederci se il dominio straniero abbia avuto un benefico effetto sul potenziale economico dei territori dipendenti, 'sviluppando' le loro risorse con l'inserirle nel sistema commerciale internazionale, con l'immissione di capitali e con l'introduzione di tecniche; oppure se abbia sfruttato tali territori a beneficio delle potenze metropolitane. È nostro intento tratteggiare brevemente i vari motivi che hanno indotto gli studiosi moderni a sostenere l'una o l'altra di queste tesi; enumerare quindi alcuni dei mezzi con cui le potenze imperiali potevano influire o, in effetti, influirono sullo sviluppo economico delle colonie; e, infine, riesaminare gli effetti del colonialismo sui sistemi commerciali, sugli investimenti di capitale e sulla produzione in determinati territori coloniali.

a) Le teorie

Queste possono essere suddivise in cinque tipi principali a seconda delle ragioni con cui ciascuna ha sostenuto che il colonialismo ebbe o non ebbe benefici effetti sui paesi dipendenti.

Secondo le argomentazioni degli economisti neoclassici, le colonie trassero indubbi vantaggi dall'essere più strettamente collegate al mercato internazionale, in quanto ciò apportò loro i benefici, sia pure relativi, di un tipo di produzione specializzata in luogo di una produzione di mera sussistenza, e perché ciò permise di utilizzare le risorse potenziali latenti. Condizione preliminare per uno sviluppo fondato su queste basi era una libertà commerciale che permettesse ai territori dipendenti di acquistare nei mercati esteri più economici e di vendere nei più cari. Anche se ne risultava una specializzazione nella produzione di materie prime destinate all'esportazione, piuttosto che un'industrializzazione, il paese dipendente si sarebbe verosimilmente arricchito e, in seguito, l'accresciuta ricchezza avrebbe potuto stimolare la diversificazione dell'economia in altri settori. L'impero britannico, nel periodo di libertà commerciale che gli fu proprio prima del 1932, fornisce forse il miglior esempio di applicazione di questi principî. Altri esempi sono il Congo Belga e le Indie Olandesi.

I neomercantilisti e i protezionisti generalmente accettarono la tesi neoclassica del bilancio relativo, ma postulavano che benefici ulteriori sarebbero derivati da un sistema economico imperiale controllato, in contrapposizione al libero mercato internazionale. Tariffe preferenziali, investimenti metropolitani e pianificazione imperiale avrebbero dato ad un territorio dipendente un mercato più sicuro, capitali più adeguati e guadagni maggiori, che non un sistema di libero scambio; con ciò si sarebbero inoltre ridotti al minimo i contraccolpi causati alle vulnerabili economie monocolturali dalle variazioni dei prezzi delle merci nel mercato mondiale. L'impero francese e, dopo il 1958, la CEE costituiscono due chiari esempi di applicazioni di questi principi.

I teorici marxisti del primo Novecento, soprattutto R. Hilferding e Lenin, ritenevano che principale caratteristica economica del colonialismo fosse l'esportazione del surplus di capitale dalle metropoli verso i territori dipendenti e che le colonie fossero state conquistate soprattutto allo scopo di facilitare investimenti attratti dalla presenza di fattori favorevoli (minerali, materie prime, manodopera a basso costo, ecc.). Secondo i postulati generali del marxismo tali investimenti determinavano, come conseguenza necessaria, un netto trasferimento di risorse reali dai territori dipendenti sfruttati alle metropoli, cosicché il colonialismo determinava un ulteriore impoverimento nelle società già povere.

I teorici marxisti più recenti, particolarmente quelli che hanno scritto dagli anni cinquanta in poi - E. Mandel, P. Baran ed altri -, hanno modificato questa impostazione rilevando che, in realtà, soltanto una quantità esigua di capitale è stato investito nei territori dipendenti. Essi sostengono piuttosto che il colonialismo permise alle grandi società internazionali di ottenere il monopolio dei mercati coloniali e delle fonti di materie prime, che sfruttarono investendo nel contempo il minimo possibile nei territori dipendenti. Inoltre, la fine formale della condizione coloniale non avrebbe necessariamente assicurato benefici alle ex colonie, in quanto la potenza economica delle grandi società internazionali era sufficiente a perpetuare il loro controllo anche sugli Stati indipendenti.

Gli economisti dello sviluppo degli anni cinquanta e sessanta hanno, in genere, denunciato anch'essi il colonialismo, perché le potenze imperiali non avevano permesso ai territori dipendenti di adottare gli stessi dispositivi che gli economisti stavano applicando nella madrepatria per ridurre la disoccupazione ed accrescere la ricchezza: e cioè, tariffe protettive per le industrie ‛nascenti', sovvenzioni, pianificazione governativà, ecc. Ne era seguito uno sviluppo economico ‛disarmonico', che si basava eccessivamente sulla produzione primaria destinata all'esportazione, mentre erano inadeguati gli investimenti e insufficiente l'industrializzazione. La soluzione che si proponeva era la libertà politica, che avrebbe condotto a una elaborata pianificazione economica e a investimenti stranieri su larga scala - i cosiddetti e ‛aiuti' - per realizzare il ‛lancio' o ‛decollo' verso un sostenuto sviluppo economico.

Potremmo elencare, naturalmente, molte altre critiche mosse al colonialismo per le conseguenze economiche che produce; ma gli esempi riportati indicano sufficientemente le tendenze salienti del dibattito in corso. I temi da considerare sono, in primo luogo, quali strumenti economici e quali politiche furono veramente adottati dalle potenze metropolitane e, quindi, quali furono gli effetti realmente prodotti sullo sviluppo economico dei singoli territori dipendenti.

b) Gli strumenti dell'economia imperiale

Il colonialismo per incidere in modo sensibile sui territori dipendenti - in modo tale cioè che il loro sviluppo economico risultasse diverso da quello che altrimenti avrebbero potuto avere - aveva dovuto operare tramite un sistema di norme e di pratiche politiche imposte dalle potenze metropolitane. Queste norme, a loro volta, possono essere suddivise in due categorie: dispositivi di controllo riguardanti i rapporti con gli altri paesi, solitamente applicati all'intero sistema imperiale, e provvedimenti di politica interna che potevano essere specifici delle singole colonie. La prima categoria influiva sulle circostanze generali in cui l'economia coloniale doveva operare; la seconda interessava il vero e proprio funzionamento dell'economia. Elencheremo brevemente i tratti caratteristici di questi sistemi fornendo qualche indicazione sui territori in cui hanno trovato applicazione.

Tra i fattori riguardanti i rapporti con l'estero, vanno tenuti soprattutto presenti i seguenti tre punti.

La politica tariffaria. - Questa rivestiva, per molti aspetti, un'importanza decisiva, in quanto interessava i rapporti di un territorio dipendente con la metropoli e con il mercato internazionale. Nel sec. XX, fino agli anni trenta, tre importanti imperi - quello britannico, quello olandese e quello belga - praticavano il libero scambio. Nel 1932 gli Inglesi adottarono un trattamento preferenziale all'interno del proprio impero sia per l'ingresso di merci inglesi in alcune colonie (anche se non in tutte), sia per la importazione di prodotti coloniali in Gran Bretagna; gli Olandesi e i Belgi, viceversa, conservarono un regime di libero scambio con le colonie. Tutti e tre questi imperi, però, adottarono il contingentamento delle importazioni per limitare l'afflusso di merci giapponesi sui mercati coloniali. Al contrario, la Francia, il Portogallo, gli Stati americani, la Spagna, l'Italia e (fino al 1918) la Germania - nazioni tutte a regime protezionistico - applicarono tariffe protettive e preferenziali ai loro territori dipendenti. I risultati erano molto vari. Infatti il trattamento preferenziale non assicurava, necessariamente, il monopolio di un mercato coloniale e, per converso, una metropoli poteva rimanere il principale partner commerciale di un territorio dipendente malgrado il regime di libero scambio. In generale, gli effetti combinati dei legami di tipo istituzionale, dei sistemi di trasporto marittimo e dei rapporti politici tendevano ad accrescere il volume degli scambi commerciali all'interno dell'impero oltre i livelli che probabilmente sarebbero stati raggiunti se il territorio dipendente fosse stato politicamente libero; le tariffe preferenziali potevano tuttavia aumentarne ulteriormente il volume. Così, mentre la percentuale di importazioni nell'Africa Occidentale Britannica - totalmente al di fuori del sistema preferenziale imposto ad altri territori dopo il 1932 - declinava costantemente dal 79,2% del 1920 al 46,4% del 1956, la quota delle importazioni francesi nell'Africa Occidentale Francese - che erano soggette a regime preferenziale - ebbe un incremento dal 36,4% nel 1920 al 68,7% nel 1949. Le conseguenze economiche di questi sistemi contrastanti sono più difficili da valutare. Nel sistema britannico le principali industrie importatrici delle colonie dovevano mantenersi competitive: ciò le rese maggiormente capaci di rendersi economicamente indipendenti dall'Inghilterra dopo l'indipendenza politica, al contrario degli Stati francofoni dell'Africa occidentale i cui prodotti continuarono a dipendere, in modo determinante, dal mercato protetto della Francia e della CEE. Per altro verso, come si vedrà più avanti né il libero scambio né il protezionismo sembrano aver avuto una funzione di stimolo per la diversificazione dell'economia nelle colonie. Si potrebbe concludere che soltanto una politica tariffaria, formulata per venire incontro alle esigenze specifiche di un singolo territorio, avrebbe potuto stimolare una crescita economica ‛equilibrata' anziché una produzione ipertrofica di certi beni; ma una politica tariffaria di questo tipo non è mai stata adottata nelle colonie. Pertanto, da questo punto di vista, l'impero è stato un ostacolo alla ristrutturazione di una economia ancora monocolturale.

La politica monetaria. - Tutte le potenze imperiali imposero un sistema monetario di tipo europeo ai territori dipendenti oppure, dove già esisteva, lo vincolarono più o meno strettamente alla moneta corrente dell'impero. Le conseguenze economiche furono differenti a seconda delle caratteristiche dei territori dipendenti e del variare della congiuntura monetaria internazionale. Nel periodo anteriore al 1914 le potenze imperiali accettavano valute indigene tutte le volte che queste potevano essere integrate nel sistema monetario internazionale: ciò avvenne, per esempio, in India, in Indocina e in Marocco. Altrove, specialmente in tutta l'Africa a sud del Sahara e nella zona del Pacifico, la penetrazione economica e i sistemi fiscali coloniali resero necessaria la sostituzione delle unità monetarie locali, quali, per esempio, le conchiglie. In questi territori la potenza imperiale di solito imponeva la propria moneta come valuta legale e permetteva che banche private, con o senza condizioni di monopolio, emettessero banconote e controllassero la disponibilità monetaria. Le conseguenze economiche dell'introduzione di una monetazione di tipo europeo furono davvero considerevoli. Infatti, per quanto riguardava i problemi interni della colonia, l'uso di una moneta standard, abbinato alla crescita della produzione di beni e del commercio, portò quasi un rivolgimento economico: da un' ‛economia naturale' ad un' ‛economia monetaria'. Per quanto riguardava i rapporti con l'estero, inoltre, la colonia veniva integrata, con un corso di cambi fissi, nel sistema commerciale internazionale. Ma fino al 1914 e oltre, faceva poca differenza per un territorio dipendente quale moneta venisse usata, perché tutte erano agganciate all'oro e pienamente convertibili. Le entrate di valuta in sterline potevano essere liberamente usate per acquistare sui mercati del dollaro o del franco, per cui i territori dipendenti non venivano seriamente colpiti da mutamenti nei tassi dei cambi. Dopo il 1914, comunque, e ancor più dopo il 1939, la situazione cambiò. Fra il 1914 e il 1939, la maggior parte delle valute cessarono di essere convertibili in oro e tutte di tanto in tanto subirono svalutazioni. Queste si ripercuotevano automaticamente sulle monete coloniali; cosicché poteva succedere che i territori dipendenti venissero ad avere il proprio tasso di cambio modificato a causa delle esigenze delle metropoli senza che si tenesse alcun conto delle loro necessità. Perfino l'India e l'Indocina, le cui valute, rupie o piastre, nominalmente autonome, erano allora legate rispettivamente alla sterlina e al franco, risentivano sfavorevolmente di questa condizione. Per di più, dato che le monete metropolitane erano ora divenute meri simboli coniati in lega, i territori dipendenti dalla Gran Bretagna, che usavano i tagli monetari del sistema della sterlina, avevano speciali monete locali con corso legale soltanto nei rispettivi territori. Data la nuova situazione, Londra pretendeva che il volume della circolazione monetaria nella colonia potesse essere aumentato con il cambio delle monete d'argento in quelle simboliche oppure con versamenti in interessi sulla valuta. Il valore dell'argento o dei beni era accreditato alla colonia ed era trattenuto come copertura a Londra sotto forma di titoli di sicuro affidamento (il 90%), di lingotti e di moneta. Il sistema forniva ai territori dipendenti solide disponibilità finanziarie liberamente convertibili al valore nominale in sterline e quindi in valuta estera.
Negli anni quaranta esso venne, tuttavia, contestato per il fatto che i territori dipendenti venivano ad essere privati di grandi capitali, forzatamente 'prestati' all'Inghilterra a un basso tasso d'interesse quale copertura, mentre si sarebbe potuto impiegarli meglio per lo sviluppo. Parimenti si affermava che una bilancia commerciale sfavorevole avrebbe ridotto automaticamente il volume del denaro in circolazione accentuando così i fenomeni di depressione. Infine, il sistema impediva alle colonie di usare il controllo della moneta come mezzo di regolamentazione dell'economia. I Francesi adottarono metodi alquanto differenti per sostenere e controllare i sistemi monetari coloniali. Essi erano meno esosi per quanto riguardava la copertura da depositare a Parigi, ma lasciavano anch'essi al governo metropolitano il controllo effettivo della disponibilità monetaria delle colonie.
Non è possibile, in questa sede, esprimere un giudizio su questi fatti, ma è chiaro che le conseguenze economiche di una valuta controllata dall'esterno divennero molto maggiori - sia in senso positivo che negativo - una volta che le valute europee cominciarono ad essere manovrate. Inoltre, il fatto che dal 1939 fino alla fine degli anni cinquanta la maggior parte delle valute europee fossero di fatto non convertibili in valute 'forti,' quale per esempio il dollaro, comportò che i territori dipendenti potevano adoperare le loro entrate di valuta solo col consenso dei governi metropolitani: in pratica, i dollari erano severamente razionati per sostenere le valute metropolitane. Quindi, per quasi due decenni la provenienza delle importazioni nelle colonie fu ancor più rigidamente controllata per mezzo dell'allocazione della valuta di quanto fosse mai stata per mezzo dei sistemi tariffari. Una conseguenza ovvia ma di grande importanza dell'indipendenza politica fu dunque che i nuovi Stati poterono, per la prima volta, sperimentare sia i vantaggi economici che i rischi inerenti alla gestione di valute autonome.

I trasporti marittimi. - Un ultimo fattore ‛esterno' che ha avuto ripercussioni sullo sviluppo economico delle colonie è rappresentato dai trasporti marittimi. Esso era importante in quanto le tariffe dei noli e la qualità dei servizi forniti erano decisive per economie di quel tipo, strutturate in funzione dell'esportazione. Nessuna potenza imperiale imponeva un monopolio nazionale sui trasporti e sulle spedizioni così come, invece, era avvenuto prima della metà del sec. XIX. I porti coloniali erano aperti a navi di tutte le bandiere e furono imposte limitazioni soltanto in tempo di guerra o durante periodi post-bellici di ristrettezze. La Francia e qualche altro Stato, comunque, applicavano diritti differenziali di trasporto e di attracco, unitamente a sovvenzioni a favore delle compagnie di navigazione, come incentivo alla loro marina mercantile nazionale. Più importanti erano i vari accordi sul trasporto marittimo, stipulati da compagnie di navigazione commerciale di diverse nazionalità per regolamentare le tariffe e le condizioni relative a particolari regioni. Giacché queste compagnie costituivano veri e propri cartelli internazionali con poteri quasi monopolistici, si è comunemente ritenuto che esse sfruttassero i territori dipendenti esigendo tariffe di nolo esorbitanti. Accuse simili sono state sempre difficili da sostenere come da respingere, ma, nel complesso, sembra verosimile che, secondo le parole di un rapporto delle Nazioni Unite del 1967 sull'Africa occidentale, ‟non vi sono indicazioni che le tariffe dei noli [...] siano eccessive nel senso che esse procurino profitti esorbitanti alle compagnie commerciali di navigazione".

A differenza dei fattori esterni, la politica dell'amministrazione all'interno dei territori dipendenti era estremamente varia. È perciò possibile soltanto indicare i principali campi in cui l'intervento delle amministrazioni coloniali era necessario e i caratteri più comuni delle loro politiche.

Vediamo dunque i principali fattori di tipo interno.

Il regime fiscale. - La maggior parte dei territori dipendenti contavano sui dazi d'importazione quale maggiore fonte di reddito insieme alle imposte fondiarie, e alle imposte sui redditi individuali e di famiglia. Il carico fiscale maggiore gravava, quindi, sulle popolazioni indigene. Invece, coloro che provenivano dalla nazione dominante, sia che fossero coloni stabilitisi in modo definitivo oppure società, erano relativamente poco tassati. Certamente ciò era di stimolo per le loro attività ma, d'altro lato, assottigliava la base del gettito fiscale privando i territori dipendenti di fondi potenziali per lo sviluppo economico.
Il diritto. - Il carattere dominante del diritto in quasi tutte le colonie era il suo dualismo. Il codice penale metropolitano normalmente era applicato a tutti, mentre il codice civile soltanto ai coloni provenienti dalla madre- patria e a una minoranza di nativi ‛assimilati', principalmente nelle città. Ciò permetteva ai settori ‛modernizzati' dell'economia di operare secondo la prassi in vigore in Europa, facilitando in tal modo le attività delle società straniere. D'altra parte, le consuetudini indigene erano solitamente rispettate e ciò, mentre presentava ovvi vantaggi sociali, tendeva ad accentuare e a perpetuare il divario esistente, nella vita economica e sociale, tra ‛moderno' e ‛tradizionale'.

La politica agricola. - Essa ricopriva ovviamente un ruolo centrale in società che si reggevano sulla produzione primaria. Tale politica variava enormemente a seconda dei tempi e dei luoghi. Per un verso, particolarmente in Algeria e nell'Africa centro-orientale e meridionale, tutte le potenze imperiali permisero l'alienazione, su larga scala, della terra a favore dei coloni provenienti dalla madrepatria. Invece nell'Africa occidentale, in gran parte dell'Asia coloniale e in alcune zone del Pacifico meridionale prevalse una politica che manteneva i diritti indigeni sulla terra e inoltre impediva il frazionamento della proprietà tra i membri delle comunità tribali. La politica adottata, in genere, determinava o rifletteva il carattere prevalente della produzione dei beni primari: forme agricole locali nell'Africa occidentale e in India, agricoltura di tipo europeo in parte del Kenia e nell'Africa centrale e meridionale, produzione a piantagioni in molti altri territori.
La politica del lavoro. - Questa era importante dovunque vi fossero attività produttive gestite dagli espatriati - miniere, piantagioni o colture agricole - e dove l'offerta locale di manodopera indigena era inadeguata o restia ad un rapporto di lavoro salariato. Il problema si poneva in termini estremamente gravi nell'Africa a sud del Sahara, ma era presente anche nell'Asia sud-orientale, nel Pacifico e nelle Indie Occidentali. I palliativi più comuni furono l'immigrazione con obbligo di lavoro, i contratti forzosi di lavoro e il lavoro coatto. Il primo di tali rimedi, che fu usato con molta larghezza, produsse rilevanti movimenti demografici attraverso frontiere e oceani. Il lavoro coatto fu raramente utilizzato per scopi privati, ma lo fu comunemente per fini pubblici, spesso dando luogo a scandali, come accadde per la costruzione della ferrovia nell'Africa Equatoriale Francese. Tali abusi vennero notevolmente ridotti quasi dappertutto dopo il 1945.
La pianificazione economica e l'intervento dello Stato. - Le amministrazioni coloniali in genere non presero iniziative su larga scala per quanto riguardava la pianificazione e lo sviluppo economico fino a dopo il 1945, allorquando la politica di programmazione divenne quasi un fatto universale. Nessuna amministrazione coloniale, ivi compresa quella dell'India, ebbe, prima del 1939, un ufficio addetto alla pianificazione economica e quasi tutte le iniziative pubbliche furono prese esclusivamente nel settore dei trasporti e dell'irrigazione. Infatti, pressoché tutte le ferrovie esistenti nei territori dipendenti vennero costruite e gestite dalle stesse autorità coloniali, oppure amministrate, per loro, da compagnie private. Egualmente le opere portuali, le migliorie nelle vie di comunicazione fluviali e i lavori d'irrigazione furono tutti lasciati all'iniziativa pubblica, fondamentalmente perché simili imprese non erano remunerative per le aziende private. Le eccezioni più importanti si ebbero nel Congo Belga dove gran parte delle vie di comunicazione furono costruite e gestite da società private o parastatali con contributo governativo. Dopo il 1945, ad ogni modo, la maggior parte delle iniziative economiche vennero promosse dai governi metropolitani e dalle amministrazioni coloniali con capitali forniti a condizioni agevolate dalle metropoli. In tal modo i nuovi Stati ereditarono sia la teoria che la pratica dei piani a scadenza periodica nonché il presupposto ottimistico che, con un'adeguata capacità di previsione e con capitali sufficienti, lo sviluppo economico si sarebbe verificato senza fallo.

I servizi sociali: istruzione e sanità. - Giudicando con parametri europei, durante il periodo coloniale, in questi campi si concluse relativamente poco. La politica scolastica, resa asfittica da ridotti mezzi finanziari, era in genere orientata a diffondere il più possibile l'istruzione primaria - spesso in collaborazione con associazioni missionarie -, ma anche a limitare il numero di coloro che potevano ricevere un'istruzione superiore e universitaria alle strette esigenze del commercio, dell'amministrazione e dell'insegnamento. Ad eccezione forse dell'india, nessuno di questi paesi possedeva, al momento dell'indipendenza, una struttura educativa adeguata a un'economia modernamente sviluppata. Parimenti, quasi tutte le amministrazioni concentrarono la loro attività, in campo sanitario, nella lotta per debellare le malattie endemiche, lotta in cui ebbero notevole successo. L'assistenza sanitaria a carattere terapeutico scarseggiava e la vita media continuava ad essere breve nella maggior parte dei territori dipendenti.

c) Le conseguenze economiche del colonialismo

Le conseguenze economiche del colonialismo possono essere considerate o dal punto di vista dei benefici che le metropoli ne hanno tratto o da quello dei suoi effetti sui territori dipendenti. In questa sede ci soffermeremo particolarmente sui territori dipendenti; ma bisogna subito dire che non è possibile alcuna precisa valutazione. Non soltanto vi è un'enorme disparità nella documentazione da un territorio all'altro, ma anche in via teorica la stima delle conseguenze specifiche della condizione coloniale richiederebbe un raffronto fra quel che veramente è avvenuto e ciò che - per astratta ipotesi - sarebbe potuto accadere se un dato territorio avesse sempre conservato la sua indipendenza politica. Simili calcoli sono forse possibili, ma finora non sono stati mai fatti. Ci proponiamo, dunque, di prendere in esame tre principali aspetti della vita economica nei territori dipendenti durante la prima metà del sec. XX: il controllo esercitato sull'economia da coloro che provenivano dalla madrepatria; la concentrazione dell'attività nella produzione di beni primari per l'esportazione; il processo d'industrializzazione. Ciò che va considerato in ciascuno di questi casi è se, nel complesso, il colonialismo abbia accresciuto o diminuito la ricchezza e il potenziale economico dei territori dipendenti.

Il controllo economico degli stranieri. - Abbiamo già detto che alcuni recenti critici del colonialismo hanno sostenuto che una sua caratteristica fondamentale era il controllo di taluni settori dei sistemi economici coloniali da parte delle maggiori società internazionali e che queste società utilizzavano le loro posizioni monopolistiche o oligopolistiche per sfruttare le economie che ne dipendevano. Quale era l'estensione di tale controllo straniero? Era un prodotto del colonialismo? Quali conseguenze ha avuto sullo sviluppo economico?
Il controllo dei residenti stranieri era in effetti molto comune in tutti i sistemi coloniali, ma aveva caratteri e cause molto diversi a seconda del luogo e dell'epoca storica. Si rende quindi necessaria una duplice classificazione: prima secondo la maggiore o minore complessità dei sistemi economici indigeni dei territori dipendenti; quindi secondo i vari periodi di tempo. Durante il primo quarto del sec. XX la grande maggioranza delle società straniere operanti nelle colonie si occupavano del commercio, della produzione di beni primari e di servizi ausiliari, come l'attività bancaria e i trasporti, piuttosto che dell'industria. L'investimento effettivo di capitale era in genere alquanto scarso, sicché queste società non erano interessate ad investire eccedenze di capitale a più alto rendimento, ma piuttosto ad acquistare merci per rivenderle o per uso industriale. Di regola soltanto quando i mercati interni dei territori dipendenti ebbero una certa espansione e quando le tariffe resero conveniente insediare in loco una produzione industriale, le società industriali occidentali incominciarono a impiantare su larga scala, in questi paesi, filiali o succursali. Questo processo può essere osservato in India sin dagli anni venti e nel Congo Belga a partire dal 1950: in questo caso perché gli alti costi dei trasporti interni hanno di fatto determinato la produzione. In molti altri territori però tale processo divenne rilevante solo dopo il conseguimento dell'indipendenza politica ed è propriamente considerato come un aspetto del ‛neocolonialismo'.

La tipica società straniera era, quindi, un'azienda commerciale, agricola, mineraria o bancaria. Perché queste imprese si trovavano in quei luoghi e perché poterono conquistare una posizione così preminente? In primo luogo, le società commerciali, quali ad esempio la Niger Company più tardi assorbita nella Unilever), le banche, come la Barclays D.C. and O., e una moltitudine di aziende commerciali e agricole minori iniziarono la loro attività nelle colonie quando e perché la società indigena, incapace, incompetente, priva di capitale o di contatti con i paesi stranieri, non sembrava poter svolgere determinate funzioni economiche in modo soddisfacente per gli Europei. Per esempio, le compagnie commerciali francesi e inglesi, che inizialmente monopolizzavano l'esportazione degli oli vegetali dall'Africa occidentale e in seguito estesero le loro operazioni all'acquisto dell'olio e alla vendita delle merci importate in tutto il paese, poterono far ciò in parte perché, verso la fine del sec. XIX, il volume d'affari era diventato troppo grande per le risorse africane, e in parte perché la dipendenza dagli intermediari. africani organizzati, che gestivano i monopoli locali, causava un aumento eccessivo dei prezzi. Ugualmente, piantagioni di tè, caffè, gomma e altri prodotti venivano di solito create solo quando e perché quella tale merce non era o non poteva essere prodotta dai contadini locali sulle loro terre. Similmente la rappresentanza d'affari dell'Asia meridionale e della Cina si sviluppò per offrire ai commercianti, ai piantatori e agli altri operatori economici europei una gamma di risorse commerciali, cui diversamente non sarebbe stato possibile accedere. Le banche straniere erano indispensabili in quanto nessuna società coloniale poteva fornire il tipo di operazioni bancarie che rispondesse alle esigenze degli Europei. In breve, le società straniere iniziarono, di solito, ad operare nei territori coloniali non appena questi incominciarono a far parte dell'economia internazionale di mercato, poiché veniva ad esse riconosciuto un ruolo essenziale al successo dell'attività economica europea in un quadro economico fondamentalmente differente.

Rimangono, comunque, due interrogativi. Queste società straniere usarono il loro potere economico per sfruttare le popolazioni indigene? Il sistema era in grado di perpetuarsi? A entrambe le domande è difficile rispondere con sicurezza. Senza dubbio le grandi compagnie commerciali, operanti principalmente in Africa, tendevano ad usare le loro posizioni oligopolistiche per ridurre i prezzi pagati ai produttori e alzare i prezzi dei prodotti importati. Ma, almeno in Africa occidentale, ciò non fornì alti margini di profitto, perché i beni esportati tendevano ad eccedere la richiesta dei mercati mondiali. Le compagnie minerarie, se erano fortunate, potevano realizzare larghi profitti; ma di recente è stato provato che il reddito medio degli investimenti nelle miniere d'oro del Sudafrica, nel periodo 1919- 1963, era del 9% rispetto alla media del 7,6% di tutti i titoli a reddito variabile nel Regno Unito. Una ragione più valida per parlare di ‛sfruttamento', può essere ritenuta quella del trasferimento delle risorse effettive dal territorio dipendente alla metropoli. Inevitabilmente le società straniere, nonché le aziende locali finanziate da azionisti o da creditori stranieri, trasferivano in patria una parte dei loro profitti così come facevano le maestranze, da parte loro, per i propri risparmi. La situazione coloniale era resa peggiore dalla virtuale assenza di imposte locali sulle società e sulle maestranze straniere, e dalla mancanza di controllo sui trasferimenti di capitali. Si può dunque fondatamente ritenere che la mancanza nella situazione coloniale di adeguati controlli sulle imprese straniere può aver ridotto o annullato per i territori dipendenti i vantaggi economici derivanti dall'espansione commerciale.

È egualmente difficile dare una risposta generale circa la tendenza all'‛autoperpetuazione' del predominio straniero. È evidente che, una volta che una grande azienda straniera si fosse installata, era estremamente difficile per gli abitanti di un paese relativamente povero competere nello stesso campo di attività, per mancanza di capitali, di contatti con i paesi stranieri e di capacità tecniche. Nondimeno la competizione era possibile. Il successo dei Siriani immigrati nell'Africa occidentale, dei banchieri cinesi nell'Asia sud-orientale e degli uomini d'affari indigeni in India - tutti operanti in attività economiche avviate e di fatto monopolizzate dagli Europei - mostrò che, con una sufficiente determinazione e con altrettanta prontezza nell'adottare le tecniche nuove, il predominio europeo poteva essere contrastato. Il processo era, comunque, lento. Ad esso venne in aiuto l'indipendenza politica, in parte perché molti Europei decisero di rimpatriare e in parte perché i nuovi governi imposero loro delle restrizioni. Ma, in ultima istanza, subentrare nel controllo dei settori di tecnologia avanzata dipendeva dalla capacità delle società indigene di assumere i ruoli in precedenza occupati dagli Europei.

Produzione di beni primari e forniture di generi alimentari. - Viene spesso ripetuto che uno degli aspetti più negativi del colonialismo consistette nell'incoraggiamento, da parte delle potenze imperiali e degli imprenditori privati, alla produzione ‛in eccesso' - risultasse vantaggiosa o meno per i territori dipendenti - di materie prime non lavorate, richieste prevalentemente sul mercato metropolitano o mondiale; e che lo sviluppo economico avrebbe potuto essere meglio assecondato impiegando quelle stesse risorse produttive per l'industrializzazione o anche per accrescere i beni alimentari a favore del consumo locale. Non ci sono dubbi, naturalmente, che per la maggior parte dei territori dipendenti ‛sviluppo' abbia significato soprattutto l'avvio o l'espansione della produzione specializzata di beni primari. Se è vero che in teoria le stesse risorse avrebbero potuto essere impiegate per l'industrializzazione, tuttavia, per ragioni che considereremo oltre, ciò costituiva raramente una possibilità reale. In pratica, la produzione di beni destinati all'esportazione impiegava risorse naturali e di manodopera - sebbene raramente investisse capitali rilevanti - che altrimenti sarebbero forse state indirizzate alla produzione per il mercato interno o per i consumi familiari, oppure sarebbero rimaste inutilizzate. Nel primo caso, l'argomento economico a favore della produzione di materie prime era che questa poteva dare in termini reali un più alto reddito e altresì ampliare la gamma dei beni di consumo disponibili sul mercato locale; nel secondo caso l'argomento addotto era che l'utilizzazione di risorse latenti avrebbe certamente accresciuto la ricchezza.

Contro tali argomentazioni alcuni teorici hanno sostenuto che la presenza delle società commerciali straniere operanti in situazioni quasi monopolistiche, l'instabilità del mercato internazionale delle materie prime e la sovrapproduzione a livello mondiale privavano di fatto una parte dei produttori indigeni dei profitti preventivati, sicché essi avrebbero fatto meglio a occuparsi unicamente della produzione destinata al mercato locale. Quale di queste due tesi si avvicina di più ai fatti?

Sfortunatamente le circostanze sono troppo varie per consentire una generalizzazione valida. Ma ciò permette di capire che i profitti reali erano molto diversi a seconda dei periodi, delle aree geografiche e dei beni prodotti. In generale si può dire che quattro fossero i fattori che determinavano relativi vantaggi: a) condizioni locali particolarmente adatte a un dato prodotto; b) disponibilità di risorse naturali e di manodopera non del tutto utilizzate; c) trasporti interni e marittimi o dispositivi di mercato efficienti; d) una domanda sufficiente ad assicurare un buon margine di profitto, cioè un corso di cambi favorevole. È evidente che le combinazioni di questi quattro fattori erano innumerevoli, ma possiamo esemplificare due tipi opposti di situazione facendo riferimento a due importanti aree di produzione di materie prime: l'Africa occidentale e l'India.
Il caso dell'India fornisce la prova che la produzione locale di prodotti agricoli di facile smercio poteva essere relativamente remunerativa sia per il singolo produttore che per tutto il sistema economico. Iuta, zucchero, cotone, grano e riso venivano prodotti tutti per il mercato inglese o per quelli esteri, sotto lo stimolo di fattori d'ordine puramente economico e, soprattutto, come alternativa alla produzione alimentare per il consumo interno. Dal punto di vista del singolo produttore il sistema di distribuzione, ai suoi inizi prevalentemente controllato dagli Indiani, sembrava per lo più garantire un ragionevole profitto in base ai prezzi del mercato internazionale e la produzione, del resto, era naturalmente elastica di fronte ai prezzi di mercato. Dal punto di vista dell'economia nazionale l'esportazione su larga scala forniva valuta estera per finanziare, a un corso di cambi favorevole, l'importazione di beni strumentali e anche di generi alimentari. Egualmente importante, in un paese con una popolazione in rapido aumento e con pochissima terra non coltivata, fu l'aumento della produttività per acro nelle zone coltivate a vegetali non alimentari, destinati prevalentemente all'esportazione e alla lavorazione locale. Tale produttività crebbe ad un tasso medio annuale dello 0,86% dal 1891 al 1941; mentre la produttività dei terreni coltivati a grano alimentare diminuì a una media dello 0,11%. Nello stesso periodo la popolazione era cresciuta in media dello 0,67% all'anno. In tal modo l'esportazione di vegetali non alimentari (cotone e iuta) rese possibile all'India di importare più frumento di quanto essa ne avrebbe potuto raccogliere localmente dalla stessa estensione di terreno; e in effetti le disponibilità alimentari aumentarono, durante questo periodo, a una media annua dello 0,10%.

L'India, d'altra parte, costituiva un'economia relativamente avanzata con un complesso sistema commerciale indigeno. La situazione era invece differente nell'Africa occidentale, dove i contadini si dedicavano alla produzione destinata all'esportazione spesso solo per la pressione dei funzionari coloniali, dove quasi tutti i dispositivi del mercato erano nelle mani di società straniere e dove i trasporti erano più costosi e le tecniche produttive estremamente primitive. Accadeva inoltre che i prezzi dei prodotti caratteristici dell'Africa occidentale - oli vegetali, cacao, caffè - fossero, sul mercato mondiale, estremamente incostanti e, in genere, data la sovrabbondanza a livello internazionale di tali prodotti, si abbassassero per lunghi periodi. Di conseguenza nell'Africa occidentale la remuneratività della produzione di merci da esportazione tendeva ad essere minore che in India. Nondimeno essa variava smisuratamente da una regione all'altra. Nelle zone costiere, dove le condizioni naturali erano favorevoli e dove i costi dei trasporti erano bassi, i contadini produttori spesso si arricchirono; al contrario le regioni dell'entroterra, come per es. il Mali e il Niger odierni, risentirono fortemente degli alti costi dei trasporti e del complesso relativamente sfavorevole dei fattori di produzione. È possibile che in queste zone la produzione di materie prime fosse contraria ai veri interessi sia dei produttori che della società nel suo insieme, ciononostante è probabile che nel complesso anche l'Africa occidentale abbia tratto giovamento da questa specializzazione, stimolata dal colonialismo, nella produzione primaria destinata all'esportazione. Per di più, l'istituzione durante e dopo la seconda guerra mondiale di una regolamentazione statale del mercato, permise alle amministrazioni di tassare i produttori e di impiegare tali proventi per modernizzare l'economia in tutti i settori, in una misura che non sarebbe stata possibile con una economia più autarchica.

La specializzazione nella produzione di beni primari, tanto comune nelle situazioni coloniali, rappresentò dunque un punto di partenza valido per delle economie in via di sviluppo? I fatti fanno pensare che poté esserlo e altresì non esserlo. Per un verso, tutte le antiche colonie di insediamento bianco in America e nel continente australasiatico raggiunsero alti livelli di vita e assai spesso finanziarono l'industrializzazione con le esportazioni di prodotti agricoli primari, di legname o di minerali. Per un altro verso, è chiaro che molti sistemi economici coloniali e postcoloniali di questo tipo s'impelagarono nella produzione di beni primari, e trovarono difficoltà perfino a mantenere, dato l'incremento demografico, bassi livelli di consumo. Quattro fattori sembrano aver determinato in tutto o in parte situazioni così opposte: le differenze, lungo il corso degli anni, nella domanda internazionale di un particolare tipo di prodotto; i diversi effetti dei meccanismi di mercato; la pesante dipendenza iniziale della maggior parte delle colonie non europee dalle capacità e dal capitale straniero, il che significava che un larga e talvolta sproporzionata parte dei profitti non fruttava nulla al sistema sociale che li produceva; infine, cosa più importante, la produzione pro capite nella maggior parte delle economie coloniali sottosviluppate troppo bassa per dar luogo ad un tasso di accumulazione sufficiente e quindi per fornire risorse da investire nella modernizzazione dell'economia. Quest'ultimo fattore, naturalmente, può essere stato aggravato dal drenaggio di risorse costituito dai profitti degli stranieri; ma fondamentalmente, la povertà della maggior parte delle società coloniali ed ex coloniali può esser ascritta alla bassa produttività pro capite e per ettaro. Se il colonialismo ha mancato in qualcosa, è nel fatto che le amministrazioni non poterono o non vollero affrontare l'immane compito di ristrutturare la società contadina e l'agricoltura per portare la produttività a livelli comparabili con quelli dell'agricoltura delle zone temperate a insediamento bianco.

L'industrializzazione e l'economia equilibrata. - Una critica analoga delle conseguenze economiche del colonialismo è che le amministrazioni coloniali, tese esclusivamente a soddisfare gli interessi metropolitani, non incoraggiarono o addirittura non permisero una industrializzazione e una diversificazione dell'economia, creando così sistemi economici ‛sbilanciati' o ‛disarmonici'. L'argomento è troppo vasto perché possa esser trattato adeguatamente in questa sede, ma è possibile fare alcuni rilievi generali.
Storicamente è innegabile che, prima degli anni cinquanta, solo di rado le potenze coloniali incoraggiarono in modo concreto le imprese industriali nei territori dipendenti; ma, tuttavia, nel sec. XX non vi sono state restrizioni formali alla industrializzazione. Perciò, è più esatto affermare che, fino a quando non prevalse, all'incirca dopo il 1950, l'influsso degli economisti dello ‛sviluppo', era convinzione generalmente accettata che, per le economie meno sviluppate, la cosa più conveniente fosse specializzarsi nella produzione di beni primari. Rispetto ai governi indigeni post-coloniali, il difetto maggiore del dominio coloniale consistette, dunque, nella relativa assenza di misure che, nel processo di industrializzazione, stimolassero positivamente la diversificazione.

Ciò fa pensare che il problema più importante sia, piuttosto, quello del perché le forze economiche non abbiano dal canto loro dato origine a un maggiore sviluppo industriale. Ovviamente, le considerazioni circa le imprese straniere e quelle circa gli imprenditori indigeni saranno diverse. Gli stranieri erano verosimilmente propensi ad investire in attività industriali in una colonia solo quando ciò risultava più proficuo di altre imprese produttive sia in territori dipendenti che in patria. Fino a dopo il 1945 questo fatto si verificava raramente. Le ragioni sono rilevanti. Nella maggior parte dei casi, la produzione in patria di manufatti industriali da esportare nelle colonie sembrava presentare un maggior profitto economico. Anche se in colonia i salari erano più bassi, tale vantaggio era, però, neutralizzato dalla necessità di qualificare la manodopera industriale e di impiegare tecnici stranieri con salari superiori a quelli normalmente pagati in patria. Le materie prime di produzione locale potevano costituire un'attrattiva per gli investimenti industriali, ma solo quando la trasformazione di un prodotto locale costituiva il fatto primario del processo produttivo. Un più elaborato processo di trasformazione, date le condizioni del mercato locale, avrebbe richiesto prodotti già parzialmente lavorati che erano più economici in Europa. Per contro, le deficienze delle infrastrutture - in modo particolare delle comunicazioni, dei rifornimenti di energia, dei servizi sanitari e scolastici - erano generalmente validi fattori di dissuasione. Soprattutto, finché le colonie non avessero fornito alcun concreto incoraggiamento (tariffe protettive, premi, sussidi, esenzioni fiscali, appalti governativi e così via) per l'installazione di industrie, gli imprenditori stranieri avrebbero avuto pochi incentivi ad impiantare fabbriche e diversificare così le economie coloniali.

Le stesse considerazioni non erano applicabili automaticamente agli imprenditori indigeni che fossero capaci di sfruttare occasioni favorevoli e fossero pronti ad affrontare rischi inaccettabili per gli stranieri. Infatti in India, in Indonesia, nel Congo e in molti altri territori dipendenti, furono uomini di questo stampo a fondare, durante il periodo coloniale, importanti industrie. Ma anche in questa direzione esistevano fattori che limitavano lo sviluppo. L'abilità e le capacità imprenditoriali degli indigeni erano limitate. Capitale e credito erano scarsi. Data la mancanza di dazi sulle importazioni, erano necessarie condizioni del tutto particolari oppure una grande fede per credere nell'affermazione di industrie appena avviate, sebbene sia necessario ricordare che le più importanti industrie moderne di proprietà indiana erano già fiorenti, in India, ancor prima che negli anni venti si adottasse l'uso delle tariffe protettive, e che tali industrie si svilupparono rapidamente, protette da deboli barriere doganali, prima del 1947 e cioè prima dell'indipendenza. Deve essere altresì rilevato, anche se non si tratta di una colonia, che il Giappone, durante il periodo cruciale del suo primo sviluppo industriale precedente il 1914, era in pratica un'economia a libero scambio. Quindi, l'ostacolo più rilevante alla industrializzazione e alla diversificazione della produzione nella maggior parte delle società coloniali è stato probabilmente la limitatezza dei mercati locali. Dato il bassissimo livello del reddito pro capite e in molti casi la scarsa popolazione, era di per sé svantaggioso impiantare industrie per la fabbricazione di prodotti che richiedevano elaborazioni complesse e costi elevati (in particolare i prodotti dell'industria pesante) a meno che non vi fossero fattori particolarmente favorevoli ad una produzione destinata ai mercati esteri. Il caso era differente per quelle merci - come ad esempio sapone, cibi lavorati, cemento, tessili non pregiati, ecc. - che richiedevano limitati investimenti di capitale o per merci voluminose che erano protette dalla concorrenza dell'importazione da alti costi di trasporto: queste furono le prime produzioni che, storicamente, si svilupparono nella maggior parte dei territori dipendenti. Anche la presenza di un nucleo relativamente piccolo di coloni europeri era, a volte, sufficiente a stimolare le prime imprese manifatturiere. Tuttavia, malgrado ciò, la limitatezza del mercato locale nonché la disponibilità, a buon mercato, di prodotti importati dall'estero costituivano, nella maggioranza dei casi, disincentivi veramente insormontabili. Sebbene il secondo di tali disincentivi fosse dovuto alla cosiddetta politica della ‛porta aperta' imposta dal colonialismo, il fatto determinante era che il sottosviluppo costituiva di per sé il principale ostacolo all'industrializzazione.

5. Conclusioni

Quali furono, dunque, le conseguenze generali del colonialismo sui territori dipendenti alla fine del periodo coloniale? È evidente che un unico criterio di valutazione non può adattarsi a territori così diversi sotto ogni aspetto; ma, nella misura in cui l'importanza del fattore imperiale può essere isolata e generalizzata, sembrano emergere, dalle discussioni su riportate, le seguenti conclusioni.

a) Conseguenze dovute a sistemi politici estranei

Il carattere essenziale comune a tutti i sistemi coloniali sembra essere stato la concentrazione dell'autorità e dei poteri amministrativi nelle mani di organi metropolitani e dei loro funzionari nei territori d'oltremare. Malgrado le notevoli differenze e l'esistenza di assemblee più o meno elettive in molte colonie, da un punto di vista politico il colonialismo significò essenzialmente un regime estraneo esercitato da amministratori di carriera stranieri. Ciò ebbe incalcolabili e, per qualche aspetto, paradossali conseguenze. Per cominciare, in senso positivo, il regime coloniale creò quasi dal nulla un numero di nuove entità politiche raramente riscontrato in passato, almeno nell'Africa a sud del Sahara. I funzionari coloniali imposero modelli di legislazione, di ordine e di efficienza amministrativa che, nel sec. XX, erano normali in Europa, ma che in genere erano estranei alle tradizioni indigene delle società dipendenti. Dato che questi modelli erano essenziali per il funzionamento di uno Stato secondo i moderni criteri europei, questo aspetto del colonialismo ha costituito probabilmente l'eredità più importante per gli Stati indipendenti che si formarono in seguito. D'altro lato, tuttavia, la tradizione politica che gran parte delle colonie ereditò dalle potenze imperiali non fu una democrazia - che generalmente fu un'innovazione dell'ultimo minuto, alle soglie dell'indipendenza - ma una autocrazia centralizzata esercitata da un'élite istruita. Non è stato dunque un fatto sorprendente che solo pochi paesi di recente indipendenza siano stati in grado o abbiano avuto l'intenzione di instaurare sistemi di governo democratico-liberali di tipo occidentale, né che le nuove élites dirigenti indigene abbiano aspirato ad usare l'arma dell'autoritarismo burocratico che avevano appreso dai loro antichi maestri. Più sorprendente al contrario è stato che, negli anni settanta, in un piccolo numero di paesi vigessero ancora elaborate costituzioni democratiche; ed è significativo che questo sia generalmente accaduto in territori che, come l'India, Ceylon o come quelli che erano stati le Indie Occidentali Britanniche, avevano avuto, durante il periodo coloniale, un'esperienza relativamente lunga d'istituzioni rappresentative.

b) Ripercussioni del dominio straniero sulla psicologia della società coloniale

In secondo luogo vanno prese in considerazione le ripercussioni del dominio straniero sulla psicologia delle società coloniali. L'esser soggetti - che nella maggior parte dei casi aveva comportato un'iniziale conquista, la cancellazione delle istituzioni indigene, l'introduzione del cristianesimo, la messa al bando delle credenze indigene e delle pratiche ‛pagane', nonché periodi relativamente lunghi in cui le popolazioni indigene erano private praticamente di ogni mansione di rilievo - costituì inevitabilmente per queste popolazioni un'esperienza traumatica. Le loro reazioni furono estremamente diverse. Alcune comunità coloniali rimasero moralmente indenni, sostenute spesso da salde tradizioni culturali o religiose. Ciò fu del tutto normale per paesi con religioni ‛evolute' quali l'islam, il buddhismo e l'induismo. All'estremo opposto, alcune società sembrarono perdere del tutto la fiducia in se stesse e, in alcuni casi, svilupparono addirittura un ‛desiderio di morte' collettivo. Analogamente, alcune società sono uscite dal colonialismo ben dotate intellettualmente e psicologicamente per assumere un ruolo positivo nel mondo moderno; altre, invece, sono apparse incapaci di assumersi il peso dell'indipendenza. Tali contrasti non possono essere spiegati esclusivamente con il particolare carattere del sistema coloniale cui un territorio è stato assoggettato, anche se esso ha avuto indubbiamente una certa importanza. In ultima analisi, l'impatto con il regime coloniale dipendeva dal carattere di fondo della società soggetta e dalla sua capacità di resistere e perfino di trarre profitto dal contrasto con un regime allotrio.

c) Le conseguenze economiche del colonialismo

Ancora una volta i fatti portano a opposte conclusioni. Non sembrano esservi ragioni valide per asserire che il colonialismo sia stato storicamente la causa della povertà e del sottosviluppo nei paesi poveri dell'America, dell'Africa, dell'Asia e delle isole del Pacifico. L'età dell'oro precoloniale è in gran parte un mito. L'Europa ha compiuto molte distruzioni nei territori dipendenti, ma occorre anche dire che il mondo sottosviluppato, prima dell'avvento del colonialismo, era certamente più e non meno povero e sottosviluppato.
Per molte società coloniali, il dominio straniero può essere stato il mezzo più rapido, e forse un mezzo necessario, per la liberazione dai vincoli di sistemi economici e sociali preindustriali. Si potrebbe certamente sostenere - come fece diffusamente Marx - che nell'era del capitalismo industriale il dominio straniero è stato una forza necessariamente distruttiva che, sola, poteva mettere in grado una società, come quella indiana, di raggiungere il progresso. Pochissime società, e fra esse il Giappone resta il migliore esempio, sono state capaci di passare volontariamente, in breve tempo, dalla condizione precapitalistica a quella di società industriale moderna, senza esservi obbligate dall'occupazione straniera.

Se ne dovrebbe dedurre che la misura dell'utilità del colonialismo, quale forza propulsiva della crescita economica, consiste inizialmente nella sua capacità di abbattere gli ostacoli che si frappongono all'accumulazione del capitale. Secondo questo criterio, il dominio straniero realizzò molto, e probabilmente, in un certo periodo, più di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi governo indigeno storicamente concepibile nella maggior parte dei territori. Ma il vero punto debole del colonialismo va ricercato in ciò che esso non fece, piuttosto che in quel che fece. Le potenze europee erano, infatti, troppo deboli per assolvere fino in fondo al loro compito. Esse non avevano risorse sufficienti per modernizzare imperi di tale vastità. Fino agli anni cinquanta non disponevano di chiare indicazioni, da parte degli economisti, sul modo migliore di promuovere lo sviluppo. Fatto ancor più importante, venne loro meno la volontà di distruggere come condizione preliminare per ricostruire. Col tempo, la loro originaria fiducia nella missione civilizzatrice dell'Europa venne meno, a mano a mano che diveniva chiaro l'altissimo costo politico e sociale della ristrutturazione delle società indigene. Durante la prima metà del sec. XX quasi tutti i sistemi coloniali perdettero il loro slancio e si rifugiarono nel compromesso concedendo la loro fiducia a piccoli gruppi di collaboratori indigeni che, il più delle volte, erano anche gli elementi più conservatori della società coloniale. Principalmente per questa ragione l'indipendenza politica può essere considerata come una condizione necessaria per uno sviluppo economico sostenuto. Soltanto uno Stato sovrano, che fosse stato fermamente deciso a fare dell'aumento della ricchezza il suo obiettivo principale e in grado di mobilitare la volontà nazionale per conseguire tale meta, avrebbe potuto forse superare gli ostacoli insiti nella condizione di sottosviluppo.

Il colonialismo può perciò essere considerato, per vari aspetti, come un utile e forse necessario periodo di tutela per molte società; ma, a lungo
andare, esso si è trasformato in una camicia di forza che ha impedito il normale sviluppo dell'economia e degli altri settori della vita nazionale.