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      Ferdinando Martini (Firenze, 30 luglio 1841 – Monsummano Terme, 24
      aprile 1928) è stato uno scrittore e politico italiano. Fu
      senatore del Regno d'Italia nella XXVI legislatura.
      
      Biografia
      
      Figlio dell'autore di teatro Vincenzo Martini. Giornalista e
      scrittore. Collaborò dal 1872 al quotidiano Il Fanfulla
      firmandosi con il nome di battaglia «Fantasio». Nel
      luglio 1879 fondò il settimanale Fanfulla della domenica, che
      diresse fino al dicembre del 1880. Il 15 febbraio 1882 fondò
      La Domenica letteraria, che diresse fino all'agosto 1883.[2] Fu
      professore alla Normale di Pisa.
      
      Fu eletto deputato al Parlamento italiano nel 1876 e conservò
      questa carica per quarantatré anni e tredici legislature.
      Fu Ministro delle Colonie del Regno d'Italia nei Governi Salandra I
      e Salandra II nonché Ministro dell'Istruzione Pubblica nel
      Governo Giolitti I.
      
      Fu Governatore dell'Eritrea dal 1897 al 1907, lasciando un segno
      indelebile nella Colonia primogenita.
      
      Il 1º marzo 1923 fu nominato Senatore del Regno. Nel 1925 fu
      tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti, redatto
      da Giovanni Gentile.
      
      Intorno al 1887, su progetto dell'architetto Cesare Spighi, fece
      edificare alla periferia di Monsummano Terme, in località
      "Renatico", una splendida villa in stile rinascimentale con
      imponenti scalinate d'accesso. La villa che oggi è passata in
      proprietà del Comune di Monsummano, porta il nome di villa
      Renatico-Martini ed è sede del Museo di Arte Contemporanea e
      del Novecento.
      
      Nel 1925 fu tra i fondatori dell'Istituto dell'Enciclopedia
      Italiana. La biblioteca privata di Martini, la collezione degli
      autografi e la raccolta delle carte private, per volontà
      degli eredi, sono conservate dal 1931 presso la Biblioteca Comunale
      Forteguerriana di Pistoia. Il suo carteggio è conservato
      invece alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (Fondo
      Martini).
      
      Onorificenze
      
      Cavaliere dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro - nastrino per
      uniforme ordinaria     
      Cavaliere dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro
      Commendatore dell'Ordine della Corona d'Italia - nastrino per
      uniforme ordinaria     
      Commendatore dell'Ordine della Corona d'Italia
      Cavaliere dell'Ordine Civile di Savoia - nastrino per uniforme
      ordinaria     
      Cavaliere dell'Ordine Civile di Savoia
          
      Scritti
      
          Chi sa il gioco non l'insegni. Proverbio in un
      atto in versi, Pisa, 1871;
          Ad una donna. Versi, Venezia, Visentini, 1872;
          Il primo passo, Firenze, 1882;
          Fra un sigaro e l'altro: chiacchiere di Fantasio,
      Milano, G. Brigola, 1876, e successive edizioni tra le quali:
      Milano, Treves, 1930;
          Cose africane, da Saati ad Abba Carima, discorsi
      e scritti, Milano, F.lli Treves, 1896 ;
          Confessioni e ricordi, Firenze, Bemporad, 1922 (e
      successive edizioni);
          Lettere (1860-1928), Milano, Mondadori, 1934;
          Nell'Affrica italiana, Milano, Treves, 1891;
      
      *
      
      DBI
      
    di Raffaele Romanelli
Ferdinando Martini
      
      Nacque a Firenze il 30 luglio 1841, da Vincenzo, possidente nobile
      di Monsummano e allora segretario generale alle Finanze del
      Granducato di Toscana, e da Marianna dei marchesi Gerini.
      
      Il M. frequentò un istituto privato che gli dette
      un’istruzione alquanto approssimativa; apprese il latino e la
      scrittura in versi, che praticò però da giovanissimo
      con disinvoltura («strascichi dell’Arcadia», avrebbe
      ricordato il M.: Confessioni e ricordi, I, Firenze granducale,
      Milano 1929, p. 135). Scrisse allora e mise in scena le prime
      commediole, e pubblicò in giornaletti fiorentini che si
      occupavano di teatro, come La Lente e Lo Scaramuccia. Non
      andò oltre negli studi: faticò a prendere il
      baccellierato e non frequentò l’Università.
      
      Quattordicenne, perse la madre in un’epidemia di colera. Nel 1862,
      la morte del padre palesò il dissesto del patrimonio
      familiare: venduti tra gli altri beni i poderi di Monsummano, la
      proprietà si ridusse al palazzo di Firenze e alla villa
      Renatico-Martini, e il M., «non sapendo far altro», si
      dette alle lettere per guadagnarsi da vivere. Nei circoli
      intellettuali fiorentini frequentò tra gli altri R. Fucini,
      D. Comparetti, A. D’Ancona e conobbe G. Carducci, di cui rimase
      sempre devoto ammiratore. Nel 1863, con la commedia I nuovi ricchi
      (edita in Teatro di F. Martini, II, Milano 1873) vinse un premio
      istituito da B. Ricasoli per il teatro e con il ricavato si
      recò a Parigi. Intanto collaborava alla Nazione con
      recensioni e corrispondenze di viaggio che gli fecero conoscere un
      poco l’Europa. Nei ricordi della nipote Giuliana Benzoni il M. fu,
      in quegli anni, «moderatamente incanaglito in bagordi
      giovanili e definitivamente rinsavito sulle rive della Senna»
      (G. Benzoni, La vita ribelle, Bologna 1985, p. 24). Scrisse di
      teatro (Del teatro drammatico in Italia, Firenze 1862; Al teatro,
      ibid. 1895, che contiene anche una rassegna critica dell’opera
      teatrale del padre scritta nel 1876 come premessa alle sue opere) e
      varie commedie leggere, più tardi ripudiate.
      
      Nei primi anni Settanta il M. si cimentò con successo anche
      con un genere teatrale allora in voga, i «proverbi
      drammatici», commedie a tesi in versi alessandrini, o
      «martelliani» (Chi sa il gioco non l’insegni; La strada
      più corta; Il peggior passo è quello dell’uscio, poi
      raccolti in volume, Milano 1895).
      
      Nel 1866, sposata Giacinta Marescotti, figlia del conte Augusto, si
      dette all’insegnamento, dedicandosi nel contempo alla scrittura di
      racconti (Peccato e penitenza, del 1870, ma pubblicato a Firenze nel
      1873, e La marchesa, Livorno 1877, già apparsa a puntate ne
      La Provincia). Il M. insegnò dapprima in un istituto
      superiore di Vercelli, poi alla Scuola normale superiore di Pisa,
      dove, venuto a conoscenza della morte di G. Mazzini – che apprezzava
      soprattutto come letterato e autore degli Scritti d’un italiano
      vivente – inviò al Fanfulla una cronaca dell’evento. Avendo
      subito commemorato Mazzini di fronte agli studenti, contravvenne
      alle disposizioni delle autorità e fu costretto a lasciare
      l’insegnamento.
      
      Il M. collaborava a quel tempo con gli pseudonimi Fox e Fantasio al
      Fanfulla, quotidiano nato nel 1870 a Firenze e trasferito
      nell’ottobre dell’anno seguente a Roma.
      
      Gli scritti di questo periodo, insieme con i precedenti racconti di
      viaggio, sono riuniti in varie raccolte: Tra un sigaro e l’altro.
      Chiacchiere di Fantasio, Milano 1876; A zonzo, Catania 1899;
      Racconti, Milano 1888; Di palo in frasca, Modena 1891; Simpatie.
      Studi e ricordi, Firenze 1900; Pagine raccolte, ibid. 1912.
      
      Nel luglio 1879 fondò, e poi diresse fino al febbraio 1882,
      un supplemento letterario, Il Fanfulla della domenica, primo
      settimanale del genere di respiro nazionale (nel gennaio 1880 tirava
      già 23.000 copie), che lasciò polemicamente per
      fondare nello stesso mese di febbraio, la Domenica letteraria,
      pubblicato da Angelo Sommaruga fino al 22 marzo 1885 (interrotta,
      riprese le pubblicazioni dal 3 marzo al 7 nov. 1885 con
      l’intestazione Domenica letteraria - Cronaca bizantina). Il M.
      rivelò grandi capacità di organizzatore culturale
      assicurandosi le migliori firme del tempo, da Carducci a G. Verga a
      L. Capuana, G. Giacosa, E. De Marchi, Matilde Serao, con molti dei
      quali mantenne strette relazioni. Il 7 luglio 1881 diede anche vita
      al Giornale per i bambini, in cui, dal primo numero fino al 25 genn.
      1883, apparve a puntate La storia di un burattino (ossia il
      Pinocchio) di Collodi (Carlo Lorenzini).
      
      Erano gli anni delle polemiche sulla lingua, e il M., che pure aveva
      peccato di quel linguaggio retoricamente ornato, infarcito di
      locuzioni elaborate tipico dei toscani colti, seppe poi raffinare lo
      stile fino a guadagnarsi più tardi l’apprezzamento di B.
      Croce (La letteratura della Nuova Italia. Saggi critici, III, Bari
      1929, p. 330). La chiarezza e la leggerezza dello stile,
      apparentemente innate e in realtà coltivate con grande
      attenzione, ne fecero il «più schietto rappresentante
      della “toscanità”, di quell’equilibrio, di quella temperanza,
      di quel gusto discreto, di quell’amore per la proprietà e la
      precisione del linguaggio, che è comunemente riconosciuto
      alla Toscana odierna» (ibid., p. 333). Pulizia e
      semplicità della scrittura coincidevano con la figura arguta
      e conversevole, positiva, del grande signore che sorride di tutto e
      di se stesso per primo, che non manifesta grandi passioni e s’affida
      piuttosto all’ironia, allo scender di tono, al riportare le cose al
      livello comune, al buon senso (ma, avvertiva Croce, non sempre la
      gradevolezza accresceva la sostanza, e molte volte i giudizi critici
      del M. «girano intorno al problema, non lo risolvono»:
      ibid., p. 320).
      
      Un simile atteggiamento stilistico governò anche
      l’attività politica e amministrativa che assorbì il M.
      negli anni seguenti. Nelle elezioni dell’8 nov. 1874 gli fu proposto
      di candidarsi alla Camera (XII legislatura) per il collegio di
      Pescia, che era stato fino ad allora dominato da L. Galeotti,
      elevato quell’anno al laticlavio. Il M. era dunque un notabile del
      luogo, ma il profilo tradizionale del possidente nobile si era
      dissolto in quello moderno del pubblicista e giornalista privo di
      esperienza alcuna di amministratore, come gli fu subito
      rimproverato. Contrapposto a E. Brunetti per la Destra e al giurista
      F. Carrara per la Sinistra, fu sconfitto al ballottaggio da
      Brunetti; ma l’elezione di questo fu annullata per
      irregolarità il 9 giugno 1875.
      
      Al M. non furono risparmiate insinuazioni d’ogni tipo sulla sua vita
      privata e la sua condotta patrimoniale, tanto che dovette
      intervenire in sua difesa anche il suocero, il conte Marescotti.
      
      Alle elezioni suppletive del 27 giugno 1875, contrapposto al solo
      Brunetti, il M. vinse con uno scarto di 20 voti, ma l’elezione fu
      nuovamente annullata per un vizio formale e i comizi riconvocati per
      il 30 genn. 1876. Con soli 16 voti di scarto, questa volta il M.
      entrò alla Camera. Nelle elezioni generali del 9 novembre
      (XIII legislatura), privo di solidi avversari, ricevette quasi il
      90% dei suffragi.
      
      Il M. si inserì subito nel nuovo clima politico tenendosi
      assai sul vago quanto a programmi. Dopo Porta Pia, in un opuscolo
      intitolato Roma, la libertà ed i partiti (Milano 1870) aveva
      dichiarato di non vedere alternativa all’ordine monarchico, di
      essere contrario a una eccessiva ingerenza dello Stato e favorevole
      alle autonomie («il sistema d’accentramento praticato in
      Francia è il pessimo de’ sistemi»), nonché
      convinto che in Italia fortunatamente non vi fosse una questione
      sociale («È un paese principalmente agricolo, e le
      popolazioni rurali intendono poco in questa questione», ibid.,
      pp. 8 s.), mentre auspicava che sorgesse un bipartitismo
      all’inglese, basato sul confronto tra progressisti e conservatori,
      collocandosi lui tra i primi. Indirizzandosi agli elettori di Pescia
      nel 1874 si dichiarò strenuo paladino degli interessi locali
      ed estraneo a schieramenti di partito; avrebbe votato le leggi
      ritenute buone, respinte le altre, senza volersi legare a partiti di
      sorta. Nel 1876 ribadì di non credere affatto alla
      distinzione tra Destra e Sinistra ritenendo indiscutibile «la
      necessità della trasformazione dei partiti, la
      necessità della costituzione di un partito forte, potente,
      compatto, logico nei suoi intendimenti, sicuro nelle sue
      aspirazioni» (discorso, cit. in Conti, p. 340).
      
      Coerentemente con le sue dichiarazioni, alla Camera il M. mantenne
      una certa indipendenza di giudizio, votando a volte contro la
      maggioranza. Per esempio votò contro l’abolizione della legge
      sul macinato e nel 1878 contribuì a far cadere il ministero
      Cairoli. L’apoliticità, il moderatismo sociale, il
      radicamento notabilare in un collegio d’orientamento
      liberalconservatore ben disposto verso la Chiesa, una inclinazione
      governativa a base laica e democratico-risorgimentale di stampo
      massonico: questi gli stabili ingredienti del profilo politico del
      M., che nel corso degli anni non gli risparmiarono critiche e
      contrasti. Benché alle elezioni del 1880 (XIV legislatura)
      prevalesse sugli avversari per soli tre voti, egli aveva ormai
      conquistato definitivamente il collegio, che da allora lo
      riconfermò con indiscusso sostegno in tutte le elezioni
      seguenti fino alla XXIV legislatura (1913-19), comprese quelle
      svoltesi fra il 1882 e il 1890, quando il collegio di Pescia, in
      seguito all’introduzione dello scrutinio di lista, venne incluso
      nella più ampia circoscrizione elettorale di Lucca
      (legislature XV-XVII).
      
      Con la risistemazione dei gruppi politici seguita alla morte di A.
      Depretis il 29 luglio 1887, il M. fu tra quei deputati del
      Centrosinistra che non si legarono a F. Crispi e videro in G.
      Zanardelli un nuovo leader. Fu infatti tra i sottoscrittori delle
      quote di 500 lire «per la difesa ed incremento del partito
      liberale» proposte da Zanardelli nel 1890-92. In quegli anni
      il M. si dedicava ai problemi dell’istruzione e degli ordinamenti
      scolastici. Relatore alla Camera del bilancio del ministero della
      Pubblica Istruzione nel 1883, dal 27 apr. 1884 al 31 genn. 1885 fu
      segretario generale del medesimo ministero (retto da M. Coppino);
      nel 1892-93 fu poi chiamato a ricoprire la carica di ministro della
      Pubblica Istruzione nel primo governo Giolitti.
      
      Come altri in quel ministero, egli non poteva dirsi
      «giolittiano». Ha scritto G. Manacorda che il M.
      «aveva verso il presidente subalpino la sufficienza del
      brillante letterato toscano, e quando se ne presentava l’occasione
      non era da meno di Brin nel fargli la fronda» (Dalla crisi
      alla crescita. Crisi economica e lotta politica in Italia 1892-1896,
      Roma 1993, p. 23). Adottò o mise allo studio provvedimenti
      significativi. Preparò con C.F. Ferraris un progetto di
      complessiva riforma delle università, l’ennesimo dei tanti
      progetti intesi a razionalizzare la distribuzione degli atenei ed
      eliminare le università minori, da tempo criticate per la
      loro scarsa vitalità. Rovesciando l’impostazione del suo
      predecessore G. Baccelli, che contava sull’autonomia finanziaria
      degli atenei e sul sostegno degli enti locali, il M. si proponeva di
      abolire la distinzione tra università complete – dotate delle
      quattro facoltà e di almeno alcune delle scuole universitarie
      annesse – e incomplete, o minori, con la soppressione di quelle di
      Messina, Modena, Parma, Siena, Sassari e Macerata e il completamento
      delle restanti. Le resistenze fortissime dei centri minori e la
      breve vita del ministero non consentirono di presentare il progetto,
      che fu poi pubblicato in un volume denso di dati statistici (F.
      Martini - C.F. Ferraris, Ordinamento generale dell’istruzione
      superiore. Studi e proposte, Milano 1895). Il M. ebbe invece
      successo nel porre fine all’infelice esperimento che aveva
      militarizzato cinque convitti nazionali, affermando che «non
      c’è un’educazione civile ed un’educazione militare;
      c’è un’educazione nazionale; il resto è nulla»
      (Camera dei deputati, 15 giugno 1893). Nel campo dell’istruzione
      elementare presentò un disegno di legge – che non fu
      approvato – volto ad abolire la distinzione, sancita dalla legge
      Casati e ormai superata, delle patenti magistrali tra inferiori, che
      abilitavano a insegnare nelle prime due classi elementari e nelle
      scuole rurali, e superiori, valide per l’intero ciclo. Inoltre
      rafforzò il ruolo degli ispettori scolastici e riformò
      l’amministrazione centrale del ministero portando a nove il numero
      delle divisioni, una delle quali competente per le scuole normali e
      magistrali, delle quali modificò i programmi, ritenendoli
      carenti di contenuti specificamente pedagogici e troppo carichi di
      materie umanistiche.
      
      Lo guidava un coerente disegno di pedagogia nazionale più
      volte manifestato negli interventi parlamentari. Convinto che fosse
      necessario instillare nei fanciulli fin dai primi anni l’amor di
      patria e la religione del dovere, il M. vedeva nella scuola il
      fondamento di una religione civile che solo con grande convinzione e
      impegno di risorse avrebbe potuto affrontare la questione sociale e
      così soppiantare la funzione svolta tradizionalmente dalla
      Chiesa.
      
      Il M. era iscritto alla loggia Propaganda massonica di Roma,
      rivestendo il grado di maestro dal 23 nov. 1883. Più volte
      manifestata, la sua visione si fece ancor più convinta e
      polemica di fronte al crescendo delle tensioni sociali, che
      accentuavano la sua sfiducia nelle «moltitudini» e nella
      loro emancipazione politica e finivano con l’incrinare la sua stessa
      fiducia nelle virtù dell’insegnamento laico.
      
      Nel 1894 scriveva a Carducci in toni da «convertito»,
      giacché «le rivoluzioni politiche, le quali non
      accompagnino un rinnovamento religioso, perdono di vista l’origine
      loro e i primi intenti e finiscono a scatenare ogni cattivo istinto
      delle plebi»; «noi, borghesia volteriana, siam noi che
      abbiamo fatto i miscredenti, intanto che il Papa custodiva i male
      credenti», e ora «ritorneremo fuori a parlare di Dio,
      che ieri abbian negato?» (cfr. Lettere 1860-1928, Milano 1934,
      pp. 291 s.). Lo ripeté nel 1897, quando venne in discussione
      la proposta di reintrodurre l’insegnamento religioso nelle scuole
      come antidoto al conflitto sociale: la borghesia, abbandonato il
      volterrianismo per timore delle plebi che ella stessa aveva
      sollevato, spera che «un Pater noster recitato nella scuola
      elementare possa ostacolare il progresso incessante dello spirito
      umano» (Camera dei deputati, 4 luglio 1897).
      
      Nelle tormentate vicende di fine secolo il M. si fece mediatore fra
      i vari gruppi politici. Interlocutore del governo e dello
      schieramento radicale all’epoca delle leggi
      «antianarchiche» di Crispi, presentò insieme con
      L. Lucchini un controprogetto che ebbe l’effetto di temperare le
      disposizioni governative. Fu quindi l’uomo del collegamento tra A.
      Starrabba di Rudinì e Zanardelli, posizione che il 21 nov.
      1897 gli valse la nomina a governatore dell’Eritrea (ma,
      formalmente, «Commissario civile straordinario»).
      Com’egli ebbe a ricordare, la nomina dipese «dal caso, dalla
      fortuna, dalle circostanze» (ibid., 29 dic. 1903, p. 397) e
      l’accettò sapendola temporanea e non tale da impedirgli i
      rapporti con il collegio e con Montecitorio, e per di più ben
      retribuita (secondo D. Farini si diceva che egli avesse allora
      «bisogni pecuniari urgentissimi»: Diario di fine secolo,
      II, p. 1181). Un tempo molto scettico sulle imprese coloniali, il 30
      giugno 1887 il M. era stato tra i pochi che avevano votato contro
      gli stanziamenti per l’Africa. Ma nel 1891, costituita una
      commissione d’inchiesta per la Colonia Eritrea, ne era stato
      nominato vicepresidente; nacquero così, in seguito a un suo
      viaggio di due mesi, Nell’Affrica italiana. Impressioni e ricordi
      (Milano 1891), letterariamente apprezzato da Croce, e
      successivamente, dagli studi preparatori e dai discorsi
      parlamentari, Cose affricane: da Saati ad Abba Carima (discorsi e
      scritti), ibid. 1896.
      
      A un anno da Adua, dopo che il 26 ott. 1896 la pace di Addis Abeba
      aveva salvato la colonia lasciando impregiudicata la sua natura e la
      sua estensione, e mentre si alternavano idee di abbandono, progetti
      di riscosse militari e piani intermedi di
      «raccoglimento», la nomina del M. esprimeva il passaggio
      dall’amministrazione militare a quella civile e la scelta di un
      moderato che sul futuro della colonia si era espresso cautamente,
      comunque a favore del «fatto compiuto» e contrario alla
      liquidazione. Sarebbe stato suo compito fissare tra Eritrea e
      Etiopia confini «giusti e ben determinati», dare alla
      colonia uno «stabile assetto», assicurare «una
      gestione strettamente regolare e corretta» e ridurre le spese
      (la lettera di istruzioni è in Aquarone, pp. 157-160). In
      altre parole, barcamenarsi, e soprattutto allontanare la colonia
      dall’agenda politica romana, far sì che non si tornasse
      più a parlarne per il suo costo, per le imprese militari o
      per la corruzione che già aveva originato l’inchiesta del
      1891.
      
      Egli aveva l’ampia autonomia operativa garantitagli dalla peculiare
      natura del governo coloniale italiano, che era sottratto sia al
      controllo parlamentare sia alle regole degli ordinamenti
      metropolitani e all’ombra del quale erano fioriti arbitrii, facili
      carriere e peculati d’ogni sorta. Arrivato sul posto, il M. si
      propose dunque di «fare qualcosa di molto serio, ma nulla di
      brillante» (Lettere…, 3 dic. 1897, p. 320). E così fece
      nel suo governo coloniale, che si prolungò fino al 1907.
      
      Sul posto, il M. si mosse con personale correttezza, con «buon
      senso» e intuito. Si inventò divise, pennacchi e
      insegne dorate per dare il senso della superiore autorità con
      cui amministrava e dirimeva controversie locali e conflitti. Alla
      sua amministrazione vanno peraltro ascritti più solidi
      esperimenti di coltivazioni coloniali e di messa a coltura di nuove
      aree, la creazione di un Istituto agronomico coloniale e,
      nell’autunno del 1905, la convocazione all’Asmara di un congresso
      coloniale che ebbe indubbia rilevanza. Non mancarono sforzi per la
      conoscenza della società locale, anche a fine di controllo
      sociale e di contrasto del cosiddetto «brigantaggio»
      nelle forme repressive già familiari in patria e che una
      cultura profondamente razzista rendeva ancor più crude.
      
      Del suo governatorato rimase un buon ricordo, e nonostante la sua
      politica di «raccoglimento» il M. fu gradito anche
      all’opinione colonialista. Benché il suo operato fosse
      caratterizzato da un costante conflitto con le autorità
      militari, sia nella colonia – dove faticò ad affermare la
      supremazia del potere civile, sancita, ma con scarsi effetti
      pratici, dall’approvazione dell’ordinamento organico nel 1900 e poi
      dalla legge sull’ordinamento della Colonia Eritrea del 24 maggio
      1903 – sia in patria, dove si premeva per una politica di rinforzo
      dei contingenti militari, egli evitò che si arrivasse a un
      pronto accordo sulle frontiere che abbandonasse l’altipiano eritreo,
      com’era nei disegni iniziali. E dunque lasciò impregiudicate
      le possibilità di espansione nella regione, secondo i
      desideri del re e dei circoli coloniali e nel 1906 a Londra si
      giunse a un accordo tripartito sull’Etiopia fra Gran Bretagna,
      Francia e Italia.
      
      Deluso dell’inanità di molti suoi sforzi, e lamentando lo
      scarso sostegno della metropoli, la mancanza di interesse e di
      risorse, la difficoltà dei rapporti con l’amministrazione
      italiana – anche dopo che fu costituito un Ufficio coloniale presso
      il ministero degli Affari esteri –, dichiarandosi nauseato,
      amareggiato e scoraggiato, prospettò più volte le
      dimissioni e si assentò dalla colonia per periodi sempre
      più lunghi. Le sue vacanze in patria, usualmente estese da
      giugno a settembre, finirono con il prolungarsi oltre misura – una
      durò dal marzo 1904 all’aprile 1905 – e gli furono più
      volte anche autorevolmente rimproverate.
      
      Gli anni africani non lo tennero dunque lontano dalla vita sociale e
      politica italiana. La sua residenza romana di palazzo Simonetti a
      via della Pilotta era centro di relazioni letterarie, politiche e
      mondane in cui rifulgevano, oltre che la sua cultura e
      affabilità, le doti della moglie Giacinta Marescotti, donna
      di notevole levatura intellettuale, militante femminista, una delle
      prime tessere romane del Partito socialista italiano (PSI), che
      insieme con la sorella Teresa, moglie di Ignazio
      Boncompagni-Ludovisi principe di Venosa, animava un salotto
      frequentato da un mélange politico-artistico di respiro
      nazionale e cosmopolita, tipico della Roma «bizantina»,
      che andava da G. Fortunato a G. Primoli, da S. Sonnino a Matilde
      Serao a G. D’Annunzio. Ad arricchire il reticolo delle conoscenze e
      delle frequentazioni contribuì poi la figlia Teresa, detta
      Tita, andata in sposa a Gaetano Benzoni, di illustre famiglia
      lombarda.
      
      Al suo ritorno dall’Eritrea il M. riprese il suo seggio alla Camera
      riconoscendosi nel «partito democratico parlamentare»
      che alla morte di Zanardelli ne raccolse i seguaci e che si
      costituì in Sinistra democratica, gruppo parlamentare al
      quale il M. aderì formalmente nel 1909 e di cui fu tra gli
      esponenti maggiori. In quella fase la formazione di «blocchi
      popolari» nelle elezioni amministrative e la clamorosa
      vittoria di E. Nathan a Roma suscitarono una ventata di
      anticlericalismo e aspre contrapposizioni con i cattolici. Nel
      febbraio 1908 una mozione presentata alla Camera da L. Bissolati a
      favore dell’abolizione dell’insegnamento religioso nelle scuole
      elementari impegnò tutti i maggiori leader in un dibattito,
      l’ultimo del genere, sui rapporti tra Stato e Chiesa, fra
      società civile e società religiosa. Il M., che
      già in varie occasioni si era pronunciato sull’argomento –
      per esempio con una serie di articoli apparsi ne Il Risveglio
      educativo di Milano – intervenne a sostegno della mozione
      pronunciando forti parole a difesa della laicità dello Stato,
      insistendo sulla distinzione tra una naturale religiosità
      popolare e gli interessi conservatori della Chiesa e ribadendo la
      sua critica a quanti confidavano nella Chiesa per il mantenimento
      dell’ordine sociale. Il dibattito ebbe larga eco e parve fare del M.
      l’esponente di un’alleanza tra Rudinì e l’Estrema. In
      quest’occasione la Sinistra mosse contro di lui, per screditarlo,
      una campagna di stampa per alcune speculazioni finanziarie e
      borsistiche di diversi anni prima.
      
      Alle elezioni politiche del 1909 la candidatura del M. si
      trovò insidiata dalla mobilitazione dei socialisti da un lato
      e dalla presentazione di un candidato cattolico dall’altro. Ma il
      suo radicamento nel collegio di Lucca e il disciplinato sostegno
      della massoneria gli permisero di prevalere sugli avversari.
      
      Nell’aprile del 1910, si recò in missione in Argentina in
      qualità di ambasciatore straordinario.
      
      In Parlamento assunse posizioni sempre più critiche sia verso
      Giolitti (1906-09), sia verso il successivo governo Sonnino
      (1909-10), che non riuscì ad averlo ministro e a ottenere
      così l’appoggio della Sinistra democratica. Il M. rimase da
      allora critico verso Giolitti e il giolittismo, alle cui aperture
      sociali e alle cui alleanze ondivaghe opponeva un liberalismo
      democratico di stampo risorgimentale, fermo a una chiara distinzione
      tra conservatori e progressisti, tra «quelli che hanno paura
      dell’avvenire e quelli che non l’hanno» (Camera dei deputati,
      7 apr. 1911).
      
      Condivise l’entusiasmo per l’impresa libica, sentita come il
      riscatto di Adua, come «rinascimento morale e politico»,
      come avverarsi delle «leggi della storia» e garanzia
      dell’avvenire italiano (Lettere…, 14 nov. 1911, pp. 456 s.). Membro
      della commissione parlamentare per l’esame del disegno di legge
      sull’estensione del suffragio, dichiarò di esser stato
      favorevole fin dal 1881 al suffragio universale (non al semplice
      allargamento) e di sostenere il voto alle donne (di cui la moglie
      era fervente paladina), benché poi si astenesse sulla
      proposta presentata da R. Mirabelli in tal senso. Non contrario al
      suffragio universale, favorevole all’impresa libica e di sentimenti
      filofrancesi, il M. aveva motivo di avvicinarsi a Giolitti. Ma
      quando alcuni esponenti della Sinistra democratica entrarono nel IV
      gabinetto Giolitti, il M. se ne dissociò, pur non aderendo
      alla nuova sinistra dei «giovani turchi». Aderì
      invece al Partito democratico costituzionale italiano, sotto la cui
      bandiera conobbe un nuovo successo elettorale nel 1913 (XXIV
      legislatura), quando nel collegio di Pescia i cattolici non si
      presentarono e la candidatura socialista era più debole.
      Poiché in quell’occasione furono denunciati casi di
      corruzione elettorale in vari collegi della provincia, il M., pur
      sottolineando che essi non riguardavano il suo, dette le dimissioni
      da presidente del Consiglio provinciale di Lucca.
      
      Anche per il M. la prima guerra mondiale rappresentò un
      tornante decisivo che gli fece trovare una determinazione inconsueta
      e un’enfasi patriottica fino ad allora sconosciuta. Si fece subito
      sostenitore dell’intervento a fianco dell’amata Francia e contro
      l’odiatissimo Impero asburgico, la cui sopravvivenza riteneva
      esiziale per l’Italia. Proruppe allora tutto il suo antigiolittismo
      e si legò strettamente ad A. Salandra, che, alla morte di A.
      Paternò Castello di San Giuliano (ottobre 1914), non ritenne
      opportuno affidargli il dicastero degli Esteri per non dare al suo
      ministero una impronta troppo interventista e gli affidò
      invece quello delle Colonie in entrambi i suoi governi (marzo -
      novembre 1914 e novembre 1914 - giugno 1916). Il M. profuse tutte le
      sue energie nella causa della guerra. Finita l’esperienza
      ministeriale, nel 1917 partecipò al tentativo di unire
      sinistra democratica e destra liberale in un «fascio
      interventista». Dopo Caporetto aderì al Fascio
      parlamentare di difesa nazionale, costruito al fine di scongiurare
      l’ipotesi di una pace separata, e sostenne poi la politica delle
      nazionalità nell’ex Impero asburgico.
      
      Dal luglio del 1914 e fino al febbraio del 1919 tenne un diario non
      destinato alle stampe e pubblicato mezzo secolo più tardi
      (Diario 1914-1918, a cura di G. De Rosa, Milano 1966). Oltre che una
      messe di notizie sull’andamento della politica di quegli anni, vi si
      trovano la commozione con cui il M. seguì le vicende belliche
      e l’amarezza per la scarsa partecipazione popolare alla guerra,
      segno – secondo lui – di quella carenza di educazione patriottica e
      civile su cui tante volte aveva insistito.
      
      Finita la guerra, il M. tornò attivissimo nel campo
      dell’organizzazione culturale: nel 1919 figura tra i fondatori di
      un’associazione dedicata alla distribuzione libraria, la
      Società anonima librerie italiane riunite, presieduta da E.
      Bemporad e sostenuta dalla Banca commerciale italiana. Presiedette
      l’Associazione Leonardo, ente morale dedicato alla diffusione della
      cultura italiana, ed elaborò il progetto di una Enciclopedia
      nazionale in 24 volumi; progetto poi ripreso da G. Gentile e
      realizzato con il sostegno di G. Treccani.
      
      I profondi cambiamenti politici del dopoguerra e le
      difficoltà dei liberali di adattarsi al nuovo sistema
      elettorale di tipo proporzionale colpirono anche il M., che alle
      elezioni del 1919 si presentò in una lista di democratici e
      fu sconfitto.
      
      Dopo l’ascesa al potere di B. Mussolini, quando nell’agosto 1923
      venne in discussione al Senato la legge Acerbo, il M., che il 1°
      marzo aveva ottenuto la nomina a senatore, dopo avere criticato
      aspramente la riforma elettorale del 1919, pur senza esprimere un
      parere sulla riforma, dichiarò di votarla
      «perché Mussolini la vuole: e questa vi parrà
      una politica troppo semplice, ma io la credo la politica del senso
      comune […]. Io la voterò in segno di riconoscenza per quanto
      egli fece, in segno di fiducia in ciò ch’egli
      farà» (discorso, 5 ag. 1923: cit. in Conti, p. 350).
      Come Salandra, anche il M. era «affascinato e
      preoccupato» dal fascismo. Già nel 1922, commentando
      privatamente il discorso mussoliniano del bivacco, che lo aveva
      «irritato», scriveva il 4 dic. 1922 a Salandra che nella
      sostanza Mussolini gli pareva «uomo di buon senso, di vigore e
      di fermezza» (Gifuni). Così tramontava
      nell’ultraottantenne M. l’elogio del buon senso.
      
      I suoi ultimi anni furono connotati dall’adesione acritica verso il
      fascismo. Nel 1925 aderì al «Manifesto degli
      intellettuali del fascismo» steso da Gentile e il 29 luglio
      1927 fu nominato ministro di Stato.
      
      Negli ultimi decenni, pur occupato nell’attività politica, il
      M. non aveva tralasciato la produzione letteraria. Dopo che nel 1894
      si era cimentato anche in un dramma teatrale, La vipera (Milano
      1895), si era dedicato soprattutto a studi di recupero
      risorgimentale e a pubblicazioni memorialistiche. L’edizione delle
      lettere di F.D. Guerrazzi, da lui già avviata con un primo
      volume apparso a Torino nel 1890, fu ripresa in Due dell’Estrema: il
      Guerrazzi e il Brofferio. Carteggi inediti, 1859-1866 (Firenze
      1920). Dedicò grande attenzione alla figura di G. Giusti.
      Dopo aver pubblicato quattro saggi su di lui (in Simpatie. Studi e
      ricordi, ibid. 1900; 2ª ed. molto accresciuta, ibid. 1909), il
      M. ne curò l’Epistolario in tre volumi (ibid. 1904; poi
      divenuti quattro e, dopo la morte del M., completato con un quinto),
      nonché le Memorie inedite, 1845-49 (Milano 1890), poi
      confluite in Tutti gli scritti editi e inediti (Firenze 1924).
      
      Il M. pubblicò inoltre capitoli di memorie e bozzetti storici
      apparsi prevalentemente ne L’Illustrazione italiana tra il 1909 e il
      1921 e raccolti nei due volumi destinati a larga fortuna di
      Confessioni e ricordi, I, Firenze granducale (ibid. 1922), e II,
      1859-1892 (Milano 1928; ora, da ultimo, a cura di M. Vannini,
      Firenze 1990). Oltre a vari interventi, prefazioni e traduzioni dal
      francese (La certosa di Parma di Stendhal, Milano-Verona 1930; Il
      paradiso delle signore di É. Zola, Roma 1883), curò
      alcune apprezzate antologie destinate alla scuola, tra cui: Prose
      italiane moderne… (Firenze 1894), e Prosa viva di ogni secolo della
      letteratura italiana… (ibid. 1896).
      
      Il M. morì a Monsummano il 24 apr. 1928.
      
      Il figlio Alessandro Martini Marescotti, che era stato a lungo
      accanto al padre nell’attività politica, ne curò la
      successione. Commemorandolo in Senato, L. Federzoni disse: «il
      Fascismo china reverente tutti i neri gagliardetti dinanzi alla
      tomba di uno dei suoi più preclari e fervidi militanti»
      (Atti parlamentari, Senato del Regno, Discussioni, seduta del 3
      maggio 1928). L’appropriazione del M. da parte del fascismo e
      l’individuazione in lui di uno dei tanti «precursori»
      riguardò anche il periodo africano e culminò nella
      pubblicazione a Firenze, nel 1942-43, dei 4 volumi dell’opera Il
      diario eritreo, con una Nota introduttiva di R. Astuto di Lucchesi,
      governatore d’Etiopia.
      
      Fonti e Bibl.: Alla morte del M., per disposizione delle
      autorità archivistiche, le carte di argomento politico furono
      versate all’Arch. di Stato del Regno, oggi Arch. centr. dello Stato,
      dove sono conservate, per una consistenza di 22 buste, riguardanti
      in prevalenza la politica coloniale. Per disposizione testamentaria
      del M. stesso il suo carteggio fu invece destinato alla Biblioteca
      nazionale di Firenze, dove costituisce il Fondo Ferdinando Martini,
      con circa 11.000 lettere scritte al M. fra il 1861 e il 1926.
      Importanti nuclei di lettere del M. sono in altri fondi della
      medesima Biblioteca. La sua biblioteca, ricca di oltre 15.000 volumi
      e 12.000 opuscoli di argomento artistico-letterario e teatrale, fu
      acquistata già nel 1928 dalla Cassa di Risparmio di Pistoia
      ed è andata ad arricchire la Biblioteca Forteguerriana di
      quella città, insieme con altri nuclei minori del suo
      archivio. I principali scritti del M. sono citati nel testo
      generalmente nella prima delle numerose edizioni. Per una loro
      sistemazione si veda: M. Vannini, Storia e fortuna delle edizioni
      martiniane, in Farestoria. Riv. semestrale dell’Ist. stor.
      provinciale della Resistenza di Pistoia, X (1991), 17, numero
      monografico (comprende anche saggi di S. Romagnoli, M. Martelli,
      M.A. Balducci, N. Labanca, G. Del Bono, F. Tempesti, A. Greco, F.
      Savi, S. Lucarelli, A. Triulzi). Con l’eccezione di F. Conti, F. M.:
      un notabile e il suo collegio, in L’Italia dei democratici. Sinistra
      risorgimentale, massoneria e associazionismo fra Otto e Novecento,
      Milano 2000, pp. 326-350, non esistono studi critici sulla figura
      politica del Martini. Atti parlamentari, Camera dei deputati,
      legislature XII-XXIV, ad indices; Senato del Regno, legislature
      XXV-XVI, ad indices; D. Farini, Diario di fine secolo, I-II, a cura
      di E. Morelli, Roma 1961-62, ad indices; G. Gifuni, Salandra
      inedito, Milano 1973, pp. 169s.; M. Belardinelli, Un esperimento
      liberal-conservatore: i governi Di Rudinì (1896-1898), Roma
      1976, ad ind.; H. Ullrich, La classe politica nella crisi di
      partecipazione dell’Italia giolittiana, 1909-1913, Roma 1979, ad
      ind.; A. Scornajenghi, La Sinistra mancata. Dal gruppo zanardelliano
      al Partito democratico costituzionale italiano (1904-1913), Roma
      2004, ad indicem. Cenni sulla questione scolastica in F. Chabod,
      Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari 1962,
      pp. 280-282; F. Cordova, Massoneria e politica in Italia. 1892-1908,
      Roma-Bari 1985, ad ind.; E. De Fort, La scuola elementare
      dall’Unità alla caduta del fascismo, Bologna 1996, ad
      indicem. Sulla questione universitaria: M. Moretti, La questione
      delle piccole università dai dibattiti di fine secolo al
      1914, in Le università minori in Italia nel XIX secolo, a
      cura di M. Da Passano, Sassari 1993, ad indicem. Della vasta
      letteratura coloniale si vedano almeno: A. Aquarone, Dopo Adua:
      politica e amministrazione coloniale, Roma 1989, ad ind.; I. Rosoni,
      La Colonia Eritrea. La prima amministrazione coloniale italiana
      (1880-1912), Macerata 2006, ad indicem. R. Romanelli.