GARIBALDI, Giuseppe

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Dall'incontro con Mazzini alle rivoluzioni americane

Generale e uomo politico italiano (Nizza 1807-Caprera 1882). Figlio di un capitano mercantile, fu avviato giovanissimo alla vita di mare. A 26 anni comandava già una nave propria quando a Taganrog, sul Mar Nero, si incontrò con un mazziniano che lo iniziò alla Giovine Italia. A Marsiglia (1834) conobbe Mazzini che lo incaricò di promuovere nella flotta militare un moto rivoluzionario. Fallito il tentativo, Garibaldi fuggì in Francia, inseguito da una condanna a morte, e si portò quindi nell'America Meridionale. Qui, scoppiata l'insurrezione repubblicana nella provincia del Rio Grande do Sul contro il governo imperiale brasiliano, Garibaldi vi partecipò combattendo valorosamente in mare e in terra, così come combatté successivamente per l'indipendenza dell'Uruguay contro l'Argentina. In America Garibaldi conobbe Anna Maria Ribeiro (Anita) che sposò nel 1842.

La I e la II guerra per l'indipendenza italiana

Scoppiata nel 1848 la I guerra per l'indipendenza italiana, Garibaldi accorse in patria, formò un corpo di volontari e batté gli Austriaci a Luino (15 agosto 1848) e a Morazzone (26 agosto), ma dovette poi sciogliere la sua formazione. La proclamazione della repubblica a Roma lo indusse a recarsi in quella città dove ebbe il comando di una parte dell'esercito. Diede la misura delle sue capacità il 30 aprile 1849, quando, grazie a una sua audace mossa, le esigue forze della Repubblica Romana respinsero il primo grande attacco dei Francesi assedianti. Questi rinnovarono l'assalto il 3 giugno e per un mese i difensori sostennero una strenua lotta. Il 1º luglio i Francesi entrarono in città e Garibaldi volle allora portare il suo aiuto a Venezia, ancora in armi contro l'Austria, ma le navi austriache intercettarono la navigazione di Garibaldi e lo costrinsero a cercare scampo nelle paludi di Comacchio, dove gli morì la moglie, stremata dalle fatiche. Scampato alla cattura, Garibaldi dovette ancora lasciare l'Italia. Riprese in America la vita del marinaio e compì numerosi, lunghi viaggi intercontinentali, fino a quando, nel 1854, poté tornare in Italia dove, abbandonata l'intransigenza repubblicana di Mazzini, assunse una posizione incline a collaborare con la monarchia nella lotta allo straniero, ciò che gli consentì nel 1859 di combattere a fianco dell'esercito regolare nella II guerra di indipendenza al comando dei Cacciatori delle Alpi. L'armistizio di Villafranca (1859) lo amareggiò e lo ferì soprattutto la cessione di Nizza alla Francia.

La spedizione dei Mille e la questione romana

Garibaldi represse il desiderio di starsene appartato e alle notizie della rivolta scoppiata a Palermo organizzò la leggendaria spedizione in Sicilia, detta poi “dei Mille”. I 1089 volontari partirono da Quarto, presso Genova, il 5 maggio 1860 per sbarcare a Marsala l'11 successivo. A Salemi, tre giorni dopo, Garibaldi assumeva la dittatura in nome di Vittorio Emanuele, proclamando così la fusione tra l'idea monarchica e quella unitaria. La vittoria di Calatafimi del 15 maggio aprì a Garibaldi la via di Palermo, dove egli giunse il 27. Dopo tre giorni di aspra lotta anche Palermo fu conquistata. La liberazione della Sicilia fu completata con la vittoria di Milazzo del 20 luglio e Garibaldi poté felicemente passare lo stretto di Messina con un esercito ormai numeroso e muovere dalla Calabria su Napoli che fu liberata il 7 settembre. Un tentativo borbonico di riscossa venne stroncato con la vittoria del Volturno (1-2 ottobre). Garibaldi rimise quindi la dittatura nelle mani del re e si ritirò nell'isola di Caprera da poco acquistata, fugando i dubbi di Cavour che aveva temuto una marcia su Roma e la proclamazione di una Repubblica.

Era tuttavia chiaro a tutti che il nuovo obiettivo di Garibaldi era la liberazione di Roma. Garibaldi tentò di ripetere contro lo Stato Pontificio la fortunata impresa dei Mille, scegliendo come base del movimento la Sicilia, ma intervenne la minaccia di un'azione di Napoleone III e il governo italiano dovette stroncare l'iniziativa garibaldina. Truppe regie affrontarono i garibaldini il 29 agosto 1862 sull'altopiano di Aspromonte, in Calabria. Nello scontro Garibaldi rimase ferito e venne fatto prigioniero. Portato a La Spezia, fu liberato poco dopo.

Allo scoppio della III guerra di indipendenza nel 1866, Garibaldi accorse da Caprera per mettersi a disposizione del governo che gli diede ancora il comando dei volontari, ca. 30.000 uomini. Con parte di questi, Garibaldi operò brillantemente nel Trentino, riportando a Bezzecca (21 luglio 1866) l'unica vittoria italiana di quella sfortunata guerra. Conclusasi la campagna, Garibaldi riprese il suo vecchio piano di liberare Roma con un'azione rivoluzionaria. Raccolse dei volontari e, non più seriamente ostacolato dal governo, entrò nello Stato Pontificio, vincendo i papalini a Monterotondo. Intanto era sbarcato a Civitavecchia un corpo francese che, insieme ai pontifici, attaccò i garibaldini a Mentana il 3 novembre 1867, sconfiggendoli grazie anche alla superiorità dell'armamento. Garibaldi ancora una volta fu fatto prigioniero e portato a La Spezia, quindi liberato.

Nel 1870, caduto Napoleone III, Garibaldi offrì i suoi servigi alla Repubblica francese, in guerra contro i Prussiani ed ebbe da quel governo il comando di un corpo di volontari che riportò la vittoria di Digione (21-23 gennaio 1871).

L'attività politica e di scrittore

Nell'ultimo decennio della sua vita Garibaldi, anche se in non buone condizioni fisiche, si dedicò attivamente alla vita politica in Parlamento e nel Consiglio Comunale di Roma. Risolto il problema dell'Unità e dell'indipendenza la sua attenzione si spostava sui temi della democrazia e della questione sociale. Su questi aspetti si sviluppava anche un'aspra polemica con Mazzini e con i suoi seguaci: li divideva la priorità da dare alla battaglia politica (costituente per Mazzini, suffragio universale per Garibaldi) e il giudizio sull'Internazionale dei lavoratori, cui Garibaldi era favorevole.

Proprio il suo dichiararsi internazionalista, anche se si trattava di un'adesione solo ideale e non senza contraddizioni, lo poneva al centro dell'attenzione del nascente movimento operaio organizzato: le società di mutuo soccorso, di miglioramento, di resistenza, lo invitavano ai loro banchetti e gli offrivano la presidenza delle loro associazioni.

Massone, repubblicano, anticlericale, fu però alieno, come dimostra la sua storia, dal fare di questi suoi principi una discriminante all'azione militare e politica. Antiasburgico e filofrancese, negli ultimi anni della sua vita si oppose, anche se senza successo, all'alleanza che si andava profilando con l'Austria e la Germania (la “Triplice”, 20 maggio 1882) che fu sancita pochi giorni prima della sua morte. Interessante anche la sua opera di scrittore.

Di lui ci restano i romanzi: Cantoni il volontario (1870), Clelia o il governo del monaco (1870), I Mille (1874). Importanti le sue Memorie, più volte edite. Compose versi e un Poema autobiografico (postumo, 1911).

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DBI

di Giuseppe Monsagrati

 Nacque a Nizza, allora capoluogo del dipartimento delle Alpi Marittime dell'Impero francese, il 4 luglio 1807. Era il terzo dei sei figli nati dal matrimonio di Domenico (1766-1841) e di Rosa Raimondi (1776-1852), commerciante marittimo lui, casalinga di solidi principî e di sincera devozione lei, entrambi di origine ligure, sposatisi nel 1794 a Nizza dove le famiglie si erano trapiantate rispettivamente dalle città di Chiavari e Loano (successive ricerche genealogiche accerteranno una lontana parentela degli avi paterni con la famiglia di Giuseppe Mazzini). A parte l'avviamento agli studi, fornitogli in modo abbastanza precario da tre istitutori privati - due dei quali ecclesiastici - che seppero comunque suscitare in lui qualche interesse per la storia antica, l'educazione che lo formò davvero fu quella marinara, la più adatta forse a un temperamento come il suo, naturalmente incline - tanto più in tempi di sensibilità romantica diffusa - ai viaggi e alle fantasticherie.

Quando il padre capì che non avrebbe potuto fare di lui il professionista che aveva sperato, lo fece tornare da Genova dove lo aveva inviato a proseguire gli studi. Iscritto il 12 nov. 1821 nel registro dei marinai, dopo avere appreso i rudimenti della navigazione il G. salpava, nel gennaio del 1824, per il suo primo viaggio: la nave era la "Costanza", il capitano Angelo Pesante (gli sarebbe rimasto a lungo amico), la destinazione Odessa, sul Mar Nero. Seguirono, al ritorno, giri commerciali di più corto respiro con la barca paterna, la "Santa Reparata", e, nella primavera del 1825, la discesa lungo il Tirreno fino a Fiumicino e di qui, risalendo il Tevere, l'approdo a Roma.

Negli studi dell'adolescenza lo aveva particolarmente colpito la storia romana. La vista della Città eterna e delle sue rovine amplificò, ridestandolo, il potere di suggestione che la storia repubblicana e imperiale aveva esercitato su di lui; ravvivata dalla contemplazione dal vero, la memoria delle austere virtù della romanità nelle poche settimane che durò il suo soggiorno gli si impresse nella mente con la forza di un modello di grandezza al quale, con il tempo e caricandolo di ulteriori significati, avrebbe continuato a guardare.

Successivamente, avviato ormai alla carriera di marinaio mercantile, il G. ebbe occasione di solcare in lungo e in largo, più e più volte, il Mediterraneo, sia sul legno paterno sia su quello di altri capitani; non di rado si imbatté nei pirati, e fu quello il suo primo contatto con la violenza fisica; una volta si spinse fino all'Atlantico, un'altra, di ritorno da Odessa, nel 1828, si fermò a Costantinopoli e vi restò quasi tre anni per motivi tuttora sconosciuti. È presumibile che nel corso di tutto questo girovagare gli capitasse a più riprese, nella frequentazione di ambienti tradizionalmente aperti come i porti, di discorrere della situazione dell'Italia e del Regno di Sardegna: se ciò avvenne, apparentemente non lasciò tracce in lui, sicché, per trovare nella sua vita un'esperienza altrettanto formativa di quella fatta in precedenza a Roma, il G. dovette attendere un altro viaggio in Oriente, e cioè quello che, iniziato il 22 marzo 1833 a Marsiglia, lo portò sulla nave "Clorinda" a Costantinopoli e poi a Taganrog, in Crimea.

Considerato a posteriori, si trattò di un vero viaggio iniziatico che ebbe due momenti distinti e però convergenti nell'effetto che produssero: la maturazione nel G. di una coscienza democratica non profondissima sotto il profilo teorico, ma già ricca di quegli ingredienti - l'umanitarismo, la solidarietà con i popoli in lotta per l'indipendenza, l'affermazione dei valori di libertà in tutti i campi, incluso quello religioso - che in seguito caratterizzeranno la sua figura di combattente e di uomo politico. Di tali principî il G. ebbe una incipiente consapevolezza attraverso l'incontro con il sansimonismo da un lato, con il mazzinianesimo dall'altro: il primo gli si materializzò con tutto il suo potenziale innovativo quando, a bordo della nave, conobbe i seguaci ed eredi del pensiero di C.-H. de Saint-Simon i quali, fatti oggetto di persecuzioni politiche in Francia, avevano scelto la Turchia come meta finale delle loro peregrinazioni; nelle conversazioni che durante la traversata il loro capo, E. Barrault, ebbe col G., questi fu in particolar modo colpito dall'esposizione di una dottrina che con la forza di una religione predicava l'avvento di forme di associazione universale da cui, grazie al vincolo di solidarietà che si sarebbe stabilito tra tutte le patrie, l'umanità sarebbe uscita affratellata. Quanto al mazzinianesimo e agli obiettivi repubblicani e unitari che avevano portato alla costituzione della Giovine Italia, l'apologia che il G. ne sentì fare a Taganrog da un cospiratore più tardi individuato dagli storici - ma qualche dubbio permane - nel suo futuro compagno d'esilio G.B. Cuneo, fu accolta da lui come una rivelazione, un programma ideale che, se attuato, avrebbe rappresentato l'applicazione su un piano nazionale e patriottico di quel concetto di missione della cui preminenza già lo avevano persuaso i sansimoniani. Si componeva così un quadro che agli occhi del G. avrebbe avuto il carattere di una morale più che di un'ideologia, con un potere di coercizione che nessuna dottrina politica, proprio perché frutto di una elaborazione astratta, avrebbe mai potuto avere.

Su queste vicende lo stesso G. sarebbe tornato molti anni più tardi compilando le proprie Memorie. Ne sarebbe scaturito, relativamente al suo apprendistato di cospiratore, un racconto sostanzialmente preciso nelle grandi linee, ma scheletrico e talora lacunoso quanto ai dettagli: sarebbero perciò rimasti in ombra alcuni importanti dati di fatto, quali, ad esempio, la data esatta del suo ingresso nella Giovine Italia e della conoscenza personale del Mazzini o la misura effettiva della sua adesione al mazzinianesimo. In proposito giova qui avvertire che, proprio perché scritte alla fine degli anni '50 e poi riprese in più momenti da più compilatori, le Memorie risentono del forte antagonismo che al tempo della Repubblica Romana del '49 aveva separato il G. dal Mazzini, e del suo successivo avvicinamento al Piemonte sabaudo; peraltro la scarsa affidabilità delle Memorie non è compensata dall'Epistolario che, almeno per gli anni che precedono l'esilio sudamericano, offre una documentazione assai povera e non fa mai menzione dell'incontro con il sansimonismo, il cui peso è evidenziato solo dalla versione dumasiana delle Memorie (il che legittima il sospetto di una sottolineatura eccessiva dell'influenza esercitata da un francese nella formazione del più grande eroe contemporaneo).

È certo, comunque, che l'impegno assunto dal G. affiliandosi alla Giovine Italia dopo il ritorno in patria avvenuto il 17 ag. 1833 - quando cioè in Piemonte erano state già eseguite le 12 sentenze capitali a carico di altri adepti provenienti dall'esercito - fu assai serio e assunse subito i caratteri dell'operatività, com'era nella sua natura di uomo concreto e perfino impulsivo. Alla fine del 1833 il suo arruolamento nella Marina sarda (dove, com'era tradizione, dovette prendere un nome di battaglia, che fu quello di Cleòmbroto) già rientrava in un piano che secondo il Mazzini avrebbe dovuto collegare alla progettata spedizione di Savoia l'insurrezione di Genova, dove era previsto che il G. fungesse da elemento di raccordo e donde poi la rivolta si sarebbe propagata a tutto il Regno. Il progetto, però, fallì sul nascere: il 2-3 febbr. 1834 la spedizione si dissolse nel nulla; di conseguenza Genova, che doveva insorgere il 4, restò tranquilla. Ma il G., temendo che il suo coinvolgimento fosse scoperto, credette bene di darsi alla latitanza e, lasciata la nave su cui era imbarcato, si tenne nascosto finché il 9 febbraio (ossia il giorno prima dell'arresto del fratello Felice) non poté prendere la via di Marsiglia. A giugno apprendeva da un giornale francese che il tribunale militare di Genova aveva emesso contro di lui una condanna "alla pena di morte ignominiosa" per la parte avuta nel complotto ordito contro lo Stato.

Di tutta questa vicenda, che in pratica precedette di un anno l'inizio del vero esilio, lo allarmò forse, più della conclusione giudiziaria, il pressappochismo di cui aveva dato prova il movimento democratico, dimostratosi incapace, pur nella solidità delle sue basi teoriche, di adeguare il proprio livello organizzativo alle ambizioni di presa violenta del potere. Va detto tuttavia che, se mai operò una riflessione del genere, nei fatti il G. la rimosse subito: confermò infatti la propria adesione alla Giovine Italia dove si fece chiamare Borel in memoria di una vittima della repressione piemontese, accolse più tardi i capisaldi ideologici della Giovine Europa e ne condivise pienamente lo spirito quando, dopo aver passato gli ultimi mesi del 1834 e i primi del '35 a navigare nel Mediterraneo e a curare i colerosi di Marsiglia, l'8 sett. 1835 salì, con la falsa identità di Joseph Pane, marinaio inglese, sulla nave francese "Nautonnier" diretta a Rio de Janeiro. Probabilmente la motivazione più forte della sua drastica decisione stava nella volontà di continuare a combattere il dispotismo, una volta normalizzatasi la situazione in Europa, là dove esso si manifestava senza incontrare resistenza.

Il viaggio in Sudamerica, dove, sparsa nei vari paesi, era già attiva da tempo una folta colonia ligure dedita ai traffici ma anche in parte permeata di ideali rivoluzionari, era stato preparato da tempo. Al suo arrivo a Rio sul finire del 1835 il G. trovò infatti ad attenderlo L. Rossetti e, con lui, altri adepti della Giovine Italia con i quali si premurò anzitutto di dare una struttura più compiuta alle congreghe mazziniane della zona. L'idea di sentirsi al sicuro e la constatazione del buon livello di sviluppo e di coesione della cospirazione italiana indussero in lui un tale entusiasmo da convincerlo della possibilità di contribuire al successo dell'ideale repubblicano sia inserendosi nelle vicende interne del Brasile, allora alle prese con la rivolta di stampo democratico e secessionista della provincia del Rio Grande do Sul, sia iniziando una guerra corsara che, colpendo i traffici marittimi dei paesi alleati con il governo imperiale (fra questi anche l'Austria e il Piemonte) avrebbe indirettamente favorito la causa italiana. Il punto di riferimento restava sempre il Mazzini, al quale all'inizio del 1836 il G. aveva espresso la "venerazione" sua e dei connazionali (Epistolario, I, p. 8) e chiesto le "lettere di marca" per le azioni di guerra che si apprestava a condurre con una imbarcazione di 20 tonnellate da poco acquistata, ribattezzata appunto "Mazzini" e adoperata inizialmente per una poco fortunata attività di commercio costiero avviata nel frattempo col Rossetti.

Il G. ricevette l'attesa autorizzazione non dal Mazzini, che non poteva emetterla, ma dai ribelli riograndensi. Prendendo il mare il 7 marzo 1837 con dodici uomini d'equipaggio, otto dei quali italiani, si apprestava ad affrontare situazioni e pericoli che aveva già conosciuto quando si era trovato alle prese con i pirati. Era stato allora che aveva cominciato a dar prova del coraggio e della freddezza con cui in avvenire sarebbe sceso in battaglia.

La prima fase della sua permanenza in Sudamerica, ponendolo di fronte a situazioni di alto rischio in condizioni, spesso, di inferiorità numerica, ebbe per lui un valore formativo enorme perché lo abituò al comando di elementi i più eterogenei, gli fece scoprire il grande vantaggio del fattore sorpresa e di una buona conoscenza dei luoghi, gli insegnò come ottenere i migliori risultati con i mezzi modesti di cui disponeva. Tra arrembaggi, agguati, sequestri di merci e scontri navali si venne costruendo la figura di un soldato-corsaro che, pur alieno da compiacimenti guerrieri, sotto il fuoco nemico si sentiva nel suo elemento naturale. "La guerra es la verdadera vida del hombre", annotò un giorno: non gli fecero cambiare idea né la pallottola che il 15 giugno 1837 gli penetrò nel collo mettendolo in pericolo di vita, né le torture che, preso prigioniero, gli inflissero nel gennaio del 1838, né la scomparsa di amici a lui cari, come L. Carniglia ed E. Mutru, periti in un naufragio il 14 luglio 1839, il secondo legato a lui sin dal moto genovese del '34. Accettata come un male necessario, la guerra poteva essere temperata nei suoi aspetti più crudeli dalla pietà cavalleresca verso il nemico sconfitto e dalle qualità umane dei combattenti: finché visse il G. si sforzò di praticare sempre questa regola e di insegnarla ai figli.

Sempre più invischiato nelle contorte e mutevoli vicende della ribellione riograndense e nell'allargamento della stessa al confinante Uruguay, alla ricerca di possibili alleati contro il governo imperiale brasiliano, il G. allentò un po' alla volta i legami con la patria lontana, diradando e poi sospendendo del tutto la corrispondenza con i compatrioti, compresi quelli emigrati come lui, coi quali però si vedeva quando occasionalmente capitava a Montevideo. Responsabilizzato dalla sua posizione di comandante della squadra navale riograndense (in realtà una flottiglia di barconi malsicuri) e dai compiti logistici e organizzativi pure assegnatigli, si concedeva poche pause di vita privata: in una di queste, nell'autunno del 1839 a Laguna, città della provincia di Santa Catarina che i ribelli avevano appena conquistato, conobbe Anita Ribeiro da Silva, una diciottenne già sposata da quattro anni, e ne fu subito attratto, tanto che in pratica fu come se la rapisse. Trovò in lei e nel suo temperamento e coraggio la compagna perfetta per il tipo di vita che conduceva. L'avrebbe sposata in chiesa a Montevideo tre anni dopo (26 marzo 1842), quando cioè il 16 sett. 1840 lei già gli aveva dato il primo figlio.

Intanto il conflitto riograndense si polverizzava in una miriade di scontri sanguinosi dall'esito incerto ma che nell'insieme preludevano al successo della controffensiva imperiale, resa più incisiva dalle discordie dei capi repubblicani. A quel punto il G., morto anche il Rossetti (24 nov. 1840) che fino ad allora era stato una delle menti della rivolta riograndense, si decise a lasciare il paese e a passare in Uruguay. La lunga marcia (150 giorni) iniziò nell'aprile 1841; con sé portava 900 capi di bestiame quale compenso dei servizi prestati, ma per i disagi del viaggio a Montevideo il 17 giugno 1841 non ne poté arrivare alcuno, e ciò riprecipitò il G. e la sua famiglia nella povertà, tanto che per un anno esercitò i più svariati mestieri, adattandosi anche a insegnare matematica privatamente. In compenso la presenza di una nutrita e vivace colonia italiana gli rinfrescò il ricordo della patria e lo riportò a una dimensione di militanza ravvivata dalla vicinanza di G.B. Cuneo, dall'amicizia di F. Anzani e, più tardi, dall'adesione ufficiale alla massoneria (16 ag. 1844) e ai suoi ideali di fratellanza universale, sottolineati in questa fase molto più del motivo anticlericale che invece avrebbe ispirato il G. della maturità.

Dilaniato dalla guerra civile esplosa subito dopo il raggiungimento dell'indipendenza dall'Argentina, l'Uruguay parve offrire un teatro più adatto a una ripresa dell'impegno politico da parte del G. e dei suoi connazionali dal momento che la contrapposizione interna tra progressisti e conservatori, l'appoggio fornito a questi ultimi dall'Argentina retta da una dittatura, il coinvolgimento di alcune potenze europee, furono tutti fattori in grado di polarizzare l'attenzione degli esuli repubblicani con chiarezza maggiore che in Brasile. Se l'azione del G. nel Rio Grande aveva avuto carattere prevalentemente individuale, a Montevideo la coesione che si stabilì con il gruppo degli italiani più politicizzati (e galvanizzati da un rilancio della Giovine Italia presto riverberatosi nella creazione di una congrega sudamericana), il rapporto con il Cuneo e con il giornale da lui diretto (un foglio mazziniano, L'Italiano), furono elementi decisivi per la svolta che si sarebbe avuta con la nascita della Legione italiana. D'altra parte anche il movimento democratico italiano si era da tempo accorto del G. e presto, per bocca del Mazzini, ne avrebbe presentato le gesta "come un noviziato alla guerra Italiana che lo richiamerà un giorno in Europa" (L'Apostolato popolare, 25 nov. 1842).

Inizialmente le cose sembrarono ricalcare l'esperienza brasiliana: il governo di Montevideo chiese al G. di comandare la squadra navale che, risalendo il fiume Paraná in un territorio controllato dal nemico, avrebbe dovuto portare rifornimenti alla provincia di Corrientes, pur essa ribellatasi a Buenos Aires; benché certo dell'alto livello di rischio dell'operazione, il G. accettò, armò tre navi e il 23 giugno 1842 prese il largo e, superate difficoltà d'ogni genere, il 29 giugno imboccò il Paraná. Presto però si trovò a essere inseguito da una numerosa flotta nemica che il 16 e 17 ag. 1842, in prossimità di Costa Brava, lo costrinse a uno scontro chiaramente impari, al termine del quale il G. ordinò ai suoi equipaggi di sbarcare e bruciare le navi.

Questa sconfitta, e un'altra di poco successiva patita dalle forze di terra uruguayane mentre il G. si trovava ancora a Corrientes, lasciarono il paese alla mercé dell'invasione argentina. All'inizio del 1843 Montevideo fu posta sotto assedio; il G., che nel frattempo era rientrato, fu incaricato di ricostituire una piccola flotta, ma il vero salto di qualità lo compì quando, ad aprile, decise di organizzare sull'esempio dei francesi un corpo di soli connazionali. Nacque così la Legione italiana, che arrivò a contare sino a 600 uomini e che, divisa in 8 compagnie, partecipò alla difesa inalberando una bandiera ove, su fondo nero, spiccava un vulcano in eruzione; il G. che ne assunse il comando col grado di colonnello continuò però a guidare anche le operazioni navali fatte in genere di sortite mediante le quali, sequestrando battelli nemici, ci si impadroniva del carico integrando in tal modo il rifornimento viveri della città assediata.

Questo tipo di guerra fece rispolverare contro il G. la vecchia accusa di pirateria. Era pura propaganda, perché a Montevideo egli si era ormai calato con entusiasmo e serietà professionale nei panni del militare che agisce alle dipendenze di un governo, corrisponde coi ministri e coi superiori diretti, riferisce sulle decisioni prese. Non era evidentemente il bottino a interessargli, ma il fatto di poter servire una causa, che chiamava la causa dell'umanità e che ai suoi occhi si incarnava in un potere politico e militare voluto dal popolo e formalmente riconosciuto anche all'estero. Durante l'assedio il G. fu il primo a sopportare privazioni e sofferenze, mentre la famiglia cresceva con la nascita di una figlia, Rosa, che sarebbe morta nel 1845 a due anni: a sorreggerlo fu appunto il legame che avvertiva con il popolo oppresso. Chi scorra il primo volume dell'Epistolario può constatare come nelle lettere e nei rapporti che quasi giornalmente il G. inviava alle autorità uruguayane egli si compiaccia dell'uso di formule di riguardo e della menzione del proprio grado: il formalismo sembra in lui la spia di un'aspirazione a mettere la propria professione al servizio di un potere legittimamente e democraticamente costituito. Ciò per quanto riguarda la sua anima cosmopolita. Quanto al problema nazionale, la Legione italiana fu dal G. subito intesa alla stregua di un'avanguardia combattente, il braccio armato di una direzione militare che, d'accordo con quella politica ma senza rinunziare alla propria autonomia, avrebbe presto conquistato sul campo, e non attraverso i maneggi della diplomazia, l'indipendenza. L'uomo che nell'immaginario popolare avrebbe un giorno preso i tratti del guerrigliero tutto impeto e coraggio era in realtà un soldato autentico: poteva anche acconciarsi nelle condizioni più difficili ai mezzi tipici della guerriglia, ma le aspirazioni e le prospettive erano quelle di un regolare nel quale però l'ideologia rivoluzionaria aveva sviluppato il senso della libertà come conquista collettiva e dovere morale comune.

Le alterne vicende dell'assedio e della parallela guerra di posizione, oltre a enfatizzare il ruolo delle potenze liberali europee, interessate a ripristinare la libertà dei commerci, accrebbero la fama del G. e prepararono la vera e propria esaltazione di cui sarebbe stato fatto oggetto dopo la vittoria di San Antonio del Salto (8 febbr. 1846), una località dell'interno verso la quale la Legione italiana e altre truppe uruguayane si erano portate da qualche mese per rendere libera la navigazione fluviale. Quel giorno il G. e la Legione sopportarono e alla fine respinsero l'assalto di una più numerosa colonna argentina; quindi si ricongiunsero al resto dell'esercito.

Il G. fu il primo a percepire, insieme con il significato strategico della battaglia, il valore morale di una vittoria che andava ben oltre i confini di un fatto d'armi locale. Galvanizzato, intensificò i contatti con i mazziniani di Montevideo; poco dopo, oltre ai tanti riconoscimenti tributatigli sul posto dai diplomatici stranieri che dunque cominciarono a far circolare il suo nome anche all'estero, ricevette dall'Italia, con la sottoscrizione di una spada d'onore lanciata da due mazziniani fiorentini ma subito estesa a tutta la penisola, il segnale che la democrazia italiana aveva visto in lui l'uomo che avrebbe realizzato un programma politico da tempo arenatosi nelle secche di una inconcludente cospirazione. Mentalmente il G. era ormai prossimo al ritorno: per metterlo in atto dovette prima disimpegnarsi poco per volta dal governo di Montevideo che il 22 giugno 1847 lo aveva nominato comandante in capo di tutte le forze armate. Il compito gli fu facilitato da alcune gelosie dei locali, dalla fine del blocco con cui Francia e Inghilterra avevano fino allora colpito l'Argentina e dalla stanchezza generale per la lunga guerra. Il 12 ott. 1847 il G. e l'Anzani trasmisero al nunzio pontificio in Brasile una lettera con cui mettevano a disposizione di Pio IX - del Pio IX liberale, minacciato dall'Austria - se stessi e la Legione: l'offerta fu lasciata cadere, ma la decisione era presa, sicché all'inizio del '48 Anita e i figli (si erano intanto aggiunti Teresa e Ricciotti) si imbarcarono per l'Italia; il marito, che aveva mandato in avanscoperta Giacomo Medici, la seguì il 15 aprile salendo con una settantina di legionari su un bastimento, il "Bifronte" - poi ribattezzato dal G. "Speranza" - acquistato grazie a una sottoscrizione della colonia italiana. Voleva andare in Toscana: invece sbarcò a Nizza il 21 giugno, accolto da una folla festante, dalla madre (il padre era morto nel 1841) e dai parenti. A quell'epoca la guerra tra Austria e Piemonte era in corso, la condanna a morte del 1834 era stata dimenticata e si era ancora in tempo per contribuire a un conflitto che il ritiro degli altri sovrani italiani e soprattutto del papa aveva reso di esito dubbio.

L'importanza degli anni sudamericani del G. non va sottovalutata. Al ritorno in patria egli portava con sé, oltre ai reumatismi che lo avrebbero tormentato per il resto dei suoi giorni e ad alcuni elementi esteriori già leggendari - celebre la camicia rossa di cui aveva da poco dotato la Legione utilizzando una partita di stoffa destinata in origine ai lavoranti dei mattatoi -, un'esperienza impareggiabile in fatto di tecnica militare e di abitudine al fuoco, conoscenza degli uomini e delle cose, maturazione interiore. Da allora lo accompagnò per sempre la fama di uomo disinteressato (aveva rifiutato il compenso in appezzamenti di terra che il governo uruguayano aveva offerto a lui e ai legionari), incorruttibile (non aveva ceduto ai tentativi argentini di averlo dalla loro parte), generoso di sé negli slanci e nel patriottismo. Non si esagera dicendo che il G. del '49 e poi dell'unificazione è già tutto in quello che a Montevideo cerca di salvare un popolo dal suo destino di sottomissione. Anche la sua insofferenza per gli eccessi dell'ideologia e per gli effetti rovinosi che ne derivano indirizzando gli animi verso la divisione nasce dalla considerazione delle lotte intestine che spesso ha visto infuriare in America Latina, talora anche all'interno della Legione. La lezione che ne ha tratto è quella della necessità, in presenza di momenti molto critici, di concentrare i poteri in una autorità che garantisca rapidità di decisione e unicità di direzione. Sono queste le linee di forza della sua concezione della dittatura militare.

Malgrado ne avesse tutte le intenzioni, il G. non poté mutare l'esito della guerra. La sua scelta di collaborare con l'esercito sardo, male accolta dai militari di professione e dallo stesso Carlo Alberto, piacque ancor meno ai democratici e al Mazzini che tuttavia ebbero la soddisfazione di vederlo a Milano assumere il comando dei 1500 volontari affidatigli dal governo provvisorio lombardo e da lui portati a combattere una guerra assai simile alla guerriglia, prima nel Bergamasco, poi, concluso l'armistizio, nel Varesotto, a ridosso del confine svizzero. Il suo rapporto con Torino non era chiaro; però, dopo le scorrerie, i suoi uomini si rifugiavano spesso in Piemonte dove venivano tollerati se non assistiti. Ma combattere da soli contro gli Austriaci contando unicamente sui reduci dal Sudamerica (del suo vecchio stato maggiore il G. aveva portato con sé alcuni fedelissimi, come l'Anzani, deceduto poco dopo il rimpatrio, Gaetano Sacchi, G. Medici) o sui pochi sbandati che gli si erano aggregati dopo l'armistizio (tra gli altri anche il Mazzini, che, inquadrato nella colonna Medici, si era rifugiato in Svizzera) era pressoché impossibile, e lo si vide a Morazzone il 26 ag. 1848, allorché, di fronte a un forte esercito austriaco, i volontari dovettero ritirarsi e poi disperdersi.

Veniva intanto prendendo corpo una prima, concreta presa di distanza del G. dal Mazzini, dai suoi metodi insurrezionali e dalle sue rigidezze di repubblicano. Sarebbe prematuro parlare per questo scorcio del '48 di un dissidio chiaramente esplicitato e motivato: ciò che si intravedeva nel G. di questi mesi era una latente inclinazione a cercare, ai fini di una politica di guerra, l'intesa con governi formalmente costituiti e con paesi dotati di una vera struttura militare, non certo di correre dietro a quelle che erano considerate le utopie di un teorico privo di contatti con la realtà. Un rilievo critico preciso lo si coglie in un passo della lettera che a inizio '49 il G. indirizzava al mazziniano F. Dall'Ongaro: "Con le armi solo libereremo l'Italia. Favorire a' parlatori, ai pensatori, agli argomentatori, e i militari uomini porli da banda o scarsamente afforzarli, trarrà ad effetti pessimi, se si avvera […] il senno medesimo, senza il braccio, divien ridicolo" (Epistolario, II, p. 69).

Su questa dialettica si imperniò non solo lo sviluppo del contrasto col Mazzini, ma la stessa partecipazione del G. e della sua Legione alla difesa della Repubblica Romana. Con le autorità repubblicane, col Triunvirato e col Mazzini in particolare il G., che era anche stato eletto all'Assemblea costituente in rappresentanza di Macerata e che fino all'arrivo della spedizione francese era rimasto con la Legione a Rieti, ostentò sin dall'inizio un'indipendenza che parve talvolta prendere i toni dell'arroganza, ma che era coscienza delle proprie capacità e timore di vederle vanificate da un'errata conduzione politica della vita della Repubblica: "io in cento combattimenti non conto una sola sconfitta", ammoniva il 1° aprile rivolto ai triunviri. Ben diverso era stato il linguaggio usato a suo tempo coi Piemontesi. L'organizzazione della resistenza e la sconfitta inflitta ai Francesi il 30 aprile, dopo un furioso combattimento all'arma bianca (che era quello da lui prediletto, perché espressione di coraggio e determinazione) rafforzarono la posizione del G., ma accentuarono anche la sua solitudine: da allora infatti egli propugnò e attuò una aggressiva strategia di attacco che tendeva a valorizzare la sua funzione a scapito sia della direttive della Commissione di guerra, nella quale spiccava C. Pisacane, sia del Triunvirato e delle mediazioni mazziniane, che il G. non comprese né approvò.

Il 30 aprile avrebbe voluto inseguire i Francesi e fu fermato; dopo le vittorie di Palestrina e Velletri di metà maggio avrebbe voluto entrare in territorio napoletano per portarvi la rivoluzione e fu fermato; negli ultimi giorni dell'assedio, mentre i suoi uomini cadevano a decine e la resistenza sul Gianicolo diventava disperata, avrebbe voluto portare l'esercito al Nord contro gli Austriaci e il Mazzini gli si oppose. All'inizio di giugno, manifestando una visione unilaterale del problema romano, aveva chiesto al Mazzini di essere designato "o dittatore illimitatissimo o milite semplice" (Epistolario, II, p. 172): nessuna delle due ipotesi si concretizzò, ma l'accanimento ostinato con cui il G. guidò gli ultimi giorni della difesa fece della fine della Repubblica una delle pagine più gloriose di tutto il Risorgimento e della sua esperienza personale; nella sua biografia e nella percezione che, d'ora in poi, ne avrà l'opinione pubblica epopea e mito si confonderanno, storia e leggenda andranno di pari passo, e il suo nome, assurto a simbolo di una universale speranza di riscatto sintetizzata nell'appellativo lafayettiano di "eroe dei due mondi", si imporrà anche per le caratteristiche umane del personaggio.

D'altronde la storia della sua tragica ritirata da Roma, la fuga verso il Nord passando per San Marino, la caccia datagli dagli Austriaci con la complicità di alcuni ecclesiastici (donde l'odio che il G. nutrirà d'ora in avanti per i religiosi e per il Papato), e infine la morte di Anita nelle valli di Comacchio (4 ag. 1849) e il passaggio avventuroso in Toscana e poi in Liguria erano tutti elementi da cui la dimensione popolare e il fascino romantico del G. non potevano che uscire amplificati; tanto più che, appena arrivato a Chiavari, era stato anche arrestato e detenuto per qualche giorno (ma le autorità sabaude lo trattarono con grande rispetto e lui fu ben lieto di darne loro atto).

Le forme polemiche che aveva preso la partecipazione del G. alla Repubblica Romana diedero il la tra i contemporanei ad alcuni rilievi critici, in parte offuscati all'epoca dal deflagrare del suo mito e dalla considerazione delle sue sofferenze umane. È ben noto il giudizio fortemente negativo pronunziato a suo carico dal Pisacane in più luoghi della sua opera di storico della rivoluzione e di teorico della guerra, dove si condannavano da un lato l'incipiente culto della personalità e le conseguenti suggestioni dittatoriali, dall'altro si bocciava una tecnica di combattimento rudimentale quanto dispersiva nel suo essere una riedizione neanche corretta della guerra per bande: "… nelle manovre di Garibaldi non vi è concetto strategico. Come tattico, esso ha l'abitudine di fare delle marce lunghissime senza scopo prefisso, e affatica perciò inutilmente le truppe; giunto in luogo forte, si arresta ed attende il nemico; quindi non ha il genio del partigiano, che deve essere continuamente o in ritirata o in offensiva" (C. Pisacane, Guerra combattuta in Italia…, Genova 1851, pp. 158 s.); e altrove: "Il suo bell'aspetto, il suo modo esclusivo di vestire, le sue abitudini l'avevano circondato di tale prestigio da far credere a lui stesso di avere la capacità di gran generale, mentre egli non avea che il genio del guerrigliero […] credeva di poter condurre un'armata di trentamila baionette nel modo stesso che si conducono trecento uomini" (Id., Scritti vari, ined. o rari, a cura di A. Romano, Milano 1964, II, p. 23). Insomma, per il Pisacane era bene ridimensionare questo G., "prodissimo di persona" (Id., Guerra combattuta…, cit., p. 285), ma di cui solo la stampa aveva fatto un generale.

Erano parole pesanti, di cui però la successiva storiografia militare, nel suo ampio apprezzamento del G. stratega, non avrebbe quasi tenuto conto. Senonché, evidenziandone il distacco dalle masse, la critica del Pisacane colpiva soprattutto la separatezza che il G. con il suo modo di intendere la guerra aveva stabilito tra livello militare e livello politico-sociale della lotta per l'unificazione, mirando a rendere il primo autonomo dal secondo. Vista sotto altra angolatura, era questa anche la preoccupazione del Mazzini, al quale però non sfuggivano il peso che il G. aveva acquistato sulla scena italiana e l'ascendente che aveva sul movimento democratico, soprattutto su quel "partito militare" della cui fedeltà la democrazia non poteva assolutamente fare a meno, pena l'azzeramento di tutti i suoi obiettivi rivoluzionari. Perciò, pur nel rifiuto di una soluzione come quella della dittatura che il G. aveva avanzato rifacendosi ai modelli della classicità più che a quelli sudamericani, non era opportuno esprimere un dissenso aperto nei confronti suoi e di quello che iniziava ad apparire il suo programma, e anzi si doveva fare il possibile per recuperare alla democrazia la sua piena collaborazione.

Almeno nell'immediato, non era a questo che il G. pensava. Ancora scosso dalla caduta delle illusioni e dalla morte della moglie, per giunta impossibilitato a risiedere in patria, come pure avrebbe voluto, vagò per qualche mese tra La Maddalena, Tunisi, Tangeri, in preda a "certa maledetta malinconia" (Epistolario, II, p. 205) che, sospingendolo ai ricordi di un passato più sereno, lo spronò forse a mettere mano alla prima stesura delle Memorie. In realtà gli premeva di più fuggire il presente e ripartire da zero, tanto che, durante una sosta a Liverpool del viaggio da lui intrapreso verso gli Stati Uniti d'America, si risolse a comprare alcuni manuali di marineria, convinto che presto avrebbe dovuto riprendere la navigazione mercantile. A New York, dove sbarcò il 30 luglio 1850, gli esuli italiani e soprattutto i mazziniani come F.E. Foresti avrebbero desiderato rilanciare col suo avallo la propaganda patriottica; il G. non fu d'accordo, e preferì immergersi nell'oscurità dei lavori anche umili, fabbricando candele con A. Meucci in una casa di Staten Island o tentando la fortuna con la lavorazione delle carni. Per avere il comando di una nave occorreva la cittadinanza americana: il G. ne fece richiesta, per placare la crescente inquietudine non meno che per sbarcare il lunario (i figli erano rimasti a Nizza, affidati alla nonna paterna, che sarebbe morta il 19 marzo 1852), ma se il 28 apr. 1851 poté salpare da New York fu solo perché un amico, F. Carpanetto, gli aveva detto che una nave lo attendeva a Callao, in Perù, che il G. raggiunse il 5 ottobre dopo un lungo giro per il Centroamerica. La nave, un veliero di 400 tonnellate, apparteneva a un armatore di Nizza, P. Denegri, che l'aveva adibita al commercio del guano verso l'Estremo Oriente; il G. ne prese il comando e il 12 apr. 1852 approdò a Canton, in Cina.

Circa il viaggio di ritorno alcuni tra i contemporanei e poi tra gli storici avanzarono il sospetto che il G. avesse trasportato un carico di schiavi cinesi da destinare alle piantagioni o ai giacimenti di guano. La cosa appare fantasiosa ed è assolutamente priva di riscontri; è certo invece che quando in Brasile aveva avuto a che fare con alcuni schiavi negri, il G. li aveva liberati in nome dei propri ideali umanitari. Non c'è alcun motivo per ritenere che diciassette anni dopo avesse cambiato idea.

Tra il Sud e il Nordamerica la vita errabonda del G. proseguì per tutto il 1853 consentendogli di constatare che anche nei paesi più lontani il ricordo delle sue gesta era vivo, la fiducia nel suo nome grandissima. La spinta più forte gli veniva dal sapere che in Italia Papato e Austriaci erano tuttora al loro posto. Apprezzava poi l'evoluzione della politica interna piemontese e il nuovo sovrano, e a New York trovava nel Foresti un altro ex mazziniano orientato nel suo stesso senso; inoltre tra i pochi legami da lui conservati con l'Italia c'era quello con Lorenzo Valerio, un esponente della Sinistra subalpina che gli aveva fatto avere un sussidio governativo per i figli. Proprio al fratello di questo, Giuseppe, console sardo negli U.S.A., il G. annunziava il 22 sett. 1853 il proposito da lui maturato: "rannodarsi intorno alla bandiera italiana del Piemonte qualunque sia stata la convinzione di sistema per il passato e francamente; non avendo altra meta che quella di riunir l'Italia a quel governo…" (Epistolario, III, p. 56). Imbarcatosi a Baltimora il 12 genn. 1854, un mese dopo era a Londra, dove conosceva il russo A. Herzen, suo grande ammiratore, e rivedeva il Mazzini al quale il 26 febbraio palesava per lettera la sua definitiva conversione al programma sabaudo, abbracciato, diceva, in nome di una esigenza di concretezza.

Fu, questo, un colpo durissimo per il mazzinianesimo che in pochi anni vide molti dei capi militari del '48 (G. Medici, E. Cosenz, N. Bixio, tra gli altri) seguire l'esempio del Garibaldi. Non mancò tra i repubblicani chi pronunziò la parola tradimento; il Mazzini, comunque, vedendo all'origine della svolta "più debolezza che cattiveria" (23 ott. 1856, in Scritti, LVII, p. 178), non disperava di poterlo riagganciare, ma a metà anni Cinquanta gli insuccessi a catena dei suoi conati insurrezionali non erano un gran mezzo di persuasione. Chi provò a convincere il G. a ripensarci - ad esempio il Cuneo - si sentì rispondere il 23 marzo 1857 che le sorti dell'Italia andavano affidate a un paese in chiara espansione e non a un singolo individuo; un'altra mazziniana, l'inglese Jessie M. White, venne da lui descritta come "una bravissima ragazza […] peccato che si sia gettata con quella famiglia [i mazziniani] tra cui vi sono molti illusi e molti birbanti" (a G. Medici, 30 maggio 1857, in Epistolario, III, p. 158). Per converso agli esponenti del partito filosabaudo, come il marchese G. Pallavicino, il G. inviava continue conferme della sua simpatia per casa Savoia, e perfino il Cavour, in quanto capo del governo torinese, era trattato con deferenza. Per il G. era essenzialmente una questione di buon senso: il realismo avrebbe dato i suoi frutti, l'ideologia no; e in quel momento essere realisti voleva dire dare il proprio imprimatur alla Società nazionale italiana: con la mediazione del Pallavicino e di D. Manin, il G. vi entrò il 5 luglio 1856; il 13 agosto il Foresti lo presentava per la prima volta al Cavour; in seguito fu G. La Farina, segretario della Società nazionale italiana, ad assicurare i collegamenti operativi tra il G. e gli ambienti politici torinesi.

È a partire da questa decisione di credere nella monarchia sabauda che alcuni, anche tra gli storici, svalutarono o demolirono il ruolo esercitato dal G. in politica. Da un lato si dava risalto al suo orizzonte ideologico vago se non confuso e alla fragilità della sua cultura politica; dall'altro si interpretava come esempio di grande ingenuità la sua decisione di farsi da parte quando le situazioni si ingarbugliavano e non riusciva più a dominarle (come accadrà a Napoli nel 1860). Tale lettura critica, in genere di matrice moderata ma spesso accolta anche dalla sinistra, è stata recisamente respinta in questi ultimi anni, quando è prevalsa l'opinione che la prova migliore della sua predisposizione a influire sugli avvenimenti stesse nella "sua capacità di calare l'ispirazione ideale o la visione generale nella situazione specifica e nelle concrete e particolari esigenze del momento" (Villari, pp. 262 s.), in forza di un pragmatismo da cui il G. ricavava, oltre alla tenacia, "l'intuito nell'individuare i problemi centrali emergenti nella società europea e italiana, la comprensione istintiva dei bisogni e delle aspirazioni che fermentavano in seno alle classi popolari, l'identificazione profonda con quel che era (o gli pareva) giusto, e il rigetto appassionato di quel che giusto non era" (Della Peruta, p. 8). Sul punto specifico della sua scelta di un asse preferenziale col Piemonte va però osservato che il G. promise il proprio sostegno incondizionato a una linea di cui Torino non aveva ancora definito i contenuti, a cominciare dallo stesso obiettivo dell'Unità nazionale: in effetti nel 1857 nessuno poteva sapere fin dove le aspirazioni sabaude coincidessero con quelle di un movimento come quello garibaldino, formatosi con l'innesto delle originarie istanze democratiche sul possibilismo in materia di costruzione e direzione del futuro Stato unitario. Sarebbe del tutto errato parlare in proposito di atteggiamento rinunciatario: anzi è molto probabile che il G. contasse di utilizzare il proprio prestigio per aggregare attorno a sé la democrazia italiana e spingere il re di Sardegna, del quale non si stancava di evocare la preminenza rispetto al governo e al Parlamento, a perseguire tramite la nazione armata la creazione di un'Italia unita, finalmente liberata dalla nefasta presenza del Papato e rispettata da tutti. Forse nel concepire tale disegno il G. sopravvalutò i propri mezzi; e comunque aveva di fronte il Cavour.

Si arrivò così alla vigilia della guerra del 1859. Nel frattempo un'importante novità si era verificata nella vita familiare del G. che, tornato in patria, tra il 1855 e il '56 aveva comprato, grazie alle 70.000 lire lasciategli in eredità dal fratello Felice, parte dell'isola di Caprera, a nord della Sardegna, con l'intenzione di costruirvi una casa e stabilirvisi definitivamente. Da allora Caprera assorbì molte delle energie sue e del figlio Menotti, e divenne il rifugio in cui sfogare l'antica passione per la vita rurale soddisfacendo anche il bisogno di appartarsi. Del resto rapidi collegamenti con Genova erano garantiti dai vapori della Rubattino, cui fu costretto a ricorrere dopo che gli era colato a picco il cutter "Emma", che aveva acquistato nel 1855 in Inghilterra, paese nel quale aveva non solo un numero crescente di ammiratori e amici, ma anche un solido punto di riferimento per la compattezza morale e materiale esibita nella recente guerra di Crimea. Caprera era, d'altra parte, anche la meta discreta di qualche spasimante, di solito straniera, come l'inglese Emma Roberts o la tedesca Speranza von Schwartz.

Sul finire del 1858 il G. cominciò ad allertare i commilitoni più fidati. Nei mesi precedenti i ripetuti colloqui segreti col Cavour avevano gettato le basi per l'organizzazione di un corpo di volontari che, posto ai suoi ordini, avrebbe svolto nell'imminente guerra con l'Austria compiti di supporto alle operazioni dei regolari ma, soprattutto, garantendo una presenza alla rivoluzione nazionale, avrebbe depurato le ambizioni del Piemonte sul Lombardo Veneto di quel senso dinastico che esse avevano avuto nel '48. Al Cavour in verità interessava anche un altro aspetto, rappresentato dal potere di attrazione che il G. avrebbe esercitato sui democratici disinnescandone la carica eversiva; e ciò parve puntualmente verificarsi allorché l'incarico di organizzare la divisione dei Cacciatori delle Alpi e il conferimento al G. delle funzioni e del grado di generale sardo (per disposizione ministeriale del 17 marzo e r.d. del 3 apr. 1859) provocarono l'afflusso immediato di 3600 volontari nel nuovo corpo, con conseguente inserimento di una pletora di ex mazziniani nello stato maggiore e nei vari livelli di comando. Al G. non sfuggì tuttavia una certa ostilità nei suoi confronti da parte dell'establishment militare piemontese, così come, iniziata la campagna, non poté non notare che rifornimenti, materiali e uomini gli venivano dati con parsimonia: ebbe allora il sospetto che lo si volesse mettere in difficoltà ma lo ricacciò indietro, ostentando per tutta la durata della guerra una disciplina e un rispetto delle gerarchie militari e politiche esemplari.

Impiegati sul margine settentrionale del teatro bellico, il G. e i suoi volontari fornirono il loro contributo di sangue e di valore con effetti trascinanti sul morale delle popolazioni lombarde. Man mano che egli affrontava i distaccamenti austriaci (a Varese il 23 maggio, a San Fermo il 27, a Tre Ponti in Valtellina il 15 giugno), diventava leggendario e varcava le frontiere il timore che il suo solo nome incuteva al nemico. Intanto il profilarsi del successo finale, mentre moltiplicava il suo entusiasmo nazionale e unitario, lo riconciliava apparentemente con i politici torinesi (al Cavour scriveva il 30 giugno di essere "devoto alla sua persona, ch'io ho imparato a identificare coll'Italia, idolo di tutta la mia vita") e lo predisponeva a una accettazione serena dell'armistizio di Villafranca, laddove la Sinistra repubblicana levava una inflessibile condanna.

La condizione psicologica da cui nel 1860 sarebbe scaturita la decisione di guidare la spedizione dei Mille si sarebbe formata in seguito, soprattutto nella percezione dei limiti imposti dalla diplomazia a un processo di unificazione ormai avviato e, soprattutto, nel pesante contrasto col Cavour. Di tali fattori il primo si determinò quando, offertogli da B. Ricasoli il comando dell'esercito toscano, il G. si dimise da quello sardo (1° ag. 1859) e passò agli ordini di M. Fanti, comandante supremo dell'esercito della Lega dell'Italia centrale, trovando in lui un risoluto avversario dell'idea di portare la rivoluzione nello Stato pontificio; di qui le dimissioni del 13 novembre, presentate dal G. dopo vari incontri con Vittorio Emanuele II, il solo con cui gli premesse di mantenere un rapporto franco ma riguardoso. Invece, nel contrasto col Cavour, provocato dall'amarezza per la cessione di Nizza alla Francia, vennero al pettine i nodi di una convergenza forse poco meditata e affiorarono rancori che non toccavano solo il primo ministro sardo ma tutta la sua politica di alleanze e, più di tutto, il legame con la Francia napoleonica, esaltata dal G. dopo Solferino ma subito dopo vista come il più potente ostacolo al completamento dell'Unità.

Ebbe così inizio col Cavour un serrato gioco a due in cui ognuno dei contendenti avrebbe dato all'altro qualche buon motivo per diffidare della propria correttezza e lealtà: il Cavour avrebbe cercato di bloccare il G. rappresentandolo come troppo sensibile alle pressioni mazziniane; il G. a sua volta avrebbe replicato trattando direttamente col re, presso il quale avrebbe messo in cattiva luce il Cavour e la centralità da lui assegnata al Parlamento. Ma intanto, vista cedere la città natale alla Francia con un voto di cui il G., da poco eletto proprio a Nizza, aveva invano cercato di ribaltare l'esito, cominciava a intravedersi un ritorno dell'iniziativa democratica e popolare: a favorirne il decollo era stato lo stesso G., prima lanciando, nell'autunno del 1859, la campagna per il milione di fucili (e qui si era appoggiato alla Società nazionale di cui da poco era diventato presidente), poi costituendo, una volta dimessosi dalla stessa, l'Associazione della Nazione armata, con chiaro indirizzo anticavouriano. A questo punto il Mazzini e gli altri capi della Sinistra più radicale - in particolare F. Crispi, R. Pilo e A. Bertani - non si lasciarono sfuggire l'occasione e diedero il via alla preparazione del moto siciliano.

All'inizio del 1860 un altro evento, di natura privata, aveva profondamente turbato il Garibaldi: conosciuta durante la recente campagna di Lombardia Giuseppina Raimondi, una diciottenne di nobile famiglia comasca, e subitaneamente infatuatosene, la sposava il 24 genn. 1860, non senza averla prima informata dell'esistenza di una figlia di pochi mesi, Anita, natagli da un amore ancillare con Battistina Ravello. La sua sincerità, che non si era estesa fino a parlare della relazione con la Schwartz, non fu ricambiata; ma la sera stessa del matrimonio un biglietto anonimo gli rivelava gli intensi trascorsi sentimentali della Raimondi e la sua perdurante relazione con un garibaldino bergamasco, Luigi Caroli. Appena appresa la notizia, il G. considerò sciolto il vincolo matrimoniale; per ottenerne l'annullamento dovette però aspettare fino al 14 genn. 1880: dodici giorni dopo sposava Francesca Armosino, bambinaia dei nipoti, legittimando i due figli, Manlio e Clelia, che nel frattempo aveva avuto da lei.

Queste erano le condizioni di spirito con cui il 4 maggio 1860 il G. partiva da Quarto. L'arma che usava ponendosi alla testa della spedizione dei Mille (e degli altri contingenti che via via lo avrebbero raggiunto) era quella della nazione che si rifà artefice dei propri destini contro tutti gli intrighi della diplomazia e delle corti; ma il motto inalberato all'atto dell'imbarco e proclamato di nuovo a Talamone a uso di quei repubblicani che lo avessero dimenticato era un inequivocabile "Italia e Vittorio Emanuele" che escludeva l'ormai inavvicinabile Cavour ma riportava in auge il tema - caro al G. - del potere che nei momenti più gravi va concentrato nelle mani di un solo uomo. Altri motivi, come quello della distribuzione delle terre alle plebi siciliane e della loro redenzione da secoli di miseria, per quanto presenti in alcuni dei provvedimenti presi dalla segreteria della dittatura che il G. aveva dichiarato di assumere per conto del re, affidandola a F. Crispi, mentre servirono a rinfoltire le file dell'esercito meridionale in vista del passaggio sul continente, non incisero in profondità sull'assetto economico e sociale del Sud né realizzarono il programma agrario tanto atteso. Di fronte a qualche episodio che, come quello di Bronte, denunziava - con un certo tasso di ambiguità - il grande malessere delle campagne isolane, la reazione del G. fu assai dura, a conferma della sua sostanziale chiusura verso il mondo contadino e in genere verso ogni impostazione che tendesse a contaminare il movente patriottico (il solo valido, per lui) con inflessioni di altra natura.

Certo, col suo andamento travolgente, punteggiato di momenti importanti (sbarco a Marsala l'11 maggio, assunzione della dittatura a Salemi il 14) e di successi militari (a Calatafimi il 15 maggio - determinante per il morale dei volontari e per il richiamo esercitato sulle bande siciliane -, a Palermo il 27-31 maggio, dopo la geniale diversione fatta eseguire a V. Orsini, a Milazzo il 20 luglio, decisivo per il controllo dell'isola), la spedizione dei Mille rappresentò per il G. il momento più alto della sua vita, come uomo e come militare, perché fu allora che colui che in precedenza era stato spesso visto come una pittoresca replica del guerrigliero sudamericano riuscì a imporre ai soldati borbonici la propria superiorità e al variegato panorama politico nazionale la propria visione del processo unitario come frutto dell'azione concreta di un'avanguardia combattente sostenuta alle spalle da una popolazione in piena sintonia con il sovrano. Le distinzioni ideologiche non avevano più senso: repubblica per il G. era il sistema di governo legittimato dal consenso della maggioranza, a prescindere dal fatto che alla sua testa ci fosse un re o un presidente.

Una impostazione del genere non piaceva al Mazzini ed era ancor meno gradita dal Cavour, il quale, pur dicendosi sicuro che il G. non pensasse "à favoriser ni Mazzini, ni la république" (Carteggio Cavour - Nigra, IV, Bologna 1929, pp. 70 s.), vedeva con apprensione, specialmente dopo che tra il 18 e il 19 agosto i garibaldini, attraversato lo stretto, ebbero iniziato la risalita verso Napoli, la prospettiva di un attacco frontale allo Stato pontificio che avrebbe messo a repentaglio l'alleanza con Napoleone III, dal 1849 tutore del potere temporale, e compromesso la posizione di Vittorio Emanuele II. Con una serie interminabile di manovre sotterranee il conte si diede da fare per riprendere il controllo della situazione e ricondurla nei limiti della "conquista regia", sventando ogni eventualità di riscossa democratica: sottoposto a un autentico bombardamento di consigli, suggerimenti e pressioni, il G., che il 7 settembre era entrato da trionfatore a Napoli dove aveva visto precipitarsi esponenti di tutte le linee (tra gli altri anche il Mazzini e C. Cattaneo), aveva in Vittorio Emanuele il suo vero, unico interlocutore e, memore degli incoraggiamenti venutigli da lui anche a dispetto del Cavour, vi si tenne fedele.

Il G. aveva fatto compiere all'unificazione un passo decisivo e di senso e segno ben diverso da quello con cui si era snodata la prima parte - quella franco-piemontese del '59 - del percorso del paese verso l'Unità. In seguito ciò gli sarebbe stato rinfacciato anche da qualche studioso come una forzatura: quel che è certo è che egli aveva portato a termine nel modo migliore possibile il suo compito sia sul piano militare sia su quello del primo coinvolgimento del Mezzogiorno nella vita nazionale. È senz'altro vero che il suo fu un atto di forza che per sua natura non poteva risolvere da solo il problema della piena integrazione sociale ed economica delle masse meridionali nel nuovo Stato. Ma il suo ruolo si era esaurito con i plebisciti: di tutto quello che venne dopo, e cioè degli errori di impostazione che la classe politica della Destra commise verso l'ex Regno, sperperando rapidamente il patrimonio di consensi che la spedizione garibaldina le aveva lasciato in eredità, del residuo di borbonismo che il Sud mantenne in vita come resistenza alla piena integrazione nel resto del paese, il G. non può essere considerato responsabile.

E questo è tanto vero che l'ultimo atto della seconda fase della vita del G. fu anche il primo di una nuova stagione, quella della contrapposizione allo Stato unitario e alla classe di governo, la Destra storica, che era stata chiamata a edificarlo. Il 18 apr. 1861 a palazzo Carignano, sede torinese del Parlamento, discutendosi sul futuro dell'Esercito meridionale i cui quadri avrebbe voluto fossero ammessi in quello regio, il G. si scagliò con inusitata violenza verbale contro il Cavour, "colui - disse - che mi ha reso straniero in Italia" (Sacerdote, p. 808). Al di là della rabbia, che si faticò a placare, il problema di fondo era quello dell'esercito popolare con cui il G. si proponeva di affiancare l'esercito dinastico, condizionandolo fino a renderlo inessenziale; più in là ancora si scorgeva in lui una concezione dello Stato che, postulandone la capacità di affrancarsi dalla sudditanza alla Francia napoleonica e di completarsi aggregando a se stesso le parti che mancavano, finiva per essere antitetica a quella cavouriana (anche se, paradossalmente, fu proprio l'azione del G. a essere penalizzata dalla scomparsa dello statista). "Roma e Venezia" divennero così le parole d'ordine d'un generale non di carriera assurto con le sue gesta antiche e recenti a una gloria immensa e già oggetto di un processo di beatificazione laica a opera di un popolo che in lui si riconosceva e attraverso lui si avviava a sviluppare una coscienza nazionale. Furono soprattutto le società operaie e i circoli massonici (presto il G. avrebbe accettato la nomina a gran maestro del Supremo Consiglio di Palermo, ma si sarebbe dimesso l'8 ag. 1864 per non entrare in conflitto con il Grande Oriente d'Italia, espressione di una massoneria più moderata) a dare impulso alla raccolta dei fondi che, affluendo copiosi a Caprera, avrebbero reso possibile la ripresa del patriottismo attivo.

L'insofferenza del G. per le istituzioni e per l'oligarchia che le governava lo riavvicinò al Mazzini. Benché divergessero sui tempi dell'iniziativa (per il G. la priorità era sciogliere con la forza la questione romana, per il Mazzini si doveva liberare prima il Veneto), entrambi pensavano che per il bene stesso del paese la democrazia dovesse essere in grado di muoversi autonomamente e in modo concorde, e dunque lavoravano a preparare il terreno a una mossa che era attesa anche all'estero, per esempio dagli Inglesi (prodighi di finanziamenti che speravano servissero a staccare l'Italia dalla Francia) o dalle nazionalità soggette all'Austria, che si ripromettevano di approfittare delle tensioni internazionali per conseguire finalmente l'indipendenza.

Tra i successori del Cavour alla presidenza del Consiglio Urbano Rattazzi sembrò subito il più adatto a gestire una poco chiara politica di compromesso con la Sinistra rivoluzionaria. Con lui al potere, nella primavera del 1862 il G. prima raccolse molti volontari in Lombardia, quindi, bloccato sul nascere il tentativo dagli arresti effettuati a Sarnico, all'inizio dell'estate raggiunse la Sicilia e col suo seguito di camicie rosse passò in Calabria, manifestando a più riprese il proposito di puntare all'abbattimento del potere temporale. Stavolta la reazione del governo fu anche più decisa: sull'Aspromonte la spedizione fu intercettata il 29 ag. 1862 dalle truppe regolari che aprirono il fuoco; il G., ferito al malleolo destro, fu arrestato e trasferito al forte di Varignano, presso La Spezia. Intanto montava l'indignazione dell'opinione pubblica, non solo di quella italiana, e prendevano corpo le voci sul comportamento ambiguo del governo e sulla responsabilità personale del re: appariva chiaro che al generale si era lasciata troppa libertà d'iniziativa prima, per intervenire tanto più duramente dopo, per giunta ricorrendo all'esercito che, tra tutte le istituzioni nazionali, era quella che il G. ammirava di più vedendo in esso un forte fattore di coesione tra i cittadini.

Rimesso in libertà il 22 ottobre, il G. portò a lungo su di sé, e anzi non le cancellò mai del tutto, le conseguenze morali e fisiche della ferita. La pallottola gli fu estratta solo il 23 nov. 1862, ma l'andatura rimase claudicante e i dolori alla gamba si aggiunsero ai reumatismi che da anni lo facevano soffrire impedendogli talvolta perfino di scrivere. Sul piano morale la pena non dovette essere più lieve, ma la reazione che ebbe fu assai composta e gli attirò nuove ondate di simpatia per le nobili parole con cui, in un momento così tragico, con i garibaldini perseguitati e condannati a lunghe pene detentive, aveva invocato la pacificazione nazionale. Per quanto appartata, nemmeno Caprera lo sottraeva alla premurosa attenzione dell'Europa, né lui si sentiva tanto disilluso da non poter coltivare altri piani, invocato com'era da ogni dove per quella veste di liberatore che il 1860 gli aveva cucito addosso e che nel 1863 gli faceva valutare seriamente l'ipotesi di accorrere in soccorso dei Polacchi insorti. Perfino dagli U.S.A. il presidente A. Lincoln gli proponeva di entrare col grado di maggiore generale nell'esercito impegnato a combattere la guerra per l'abolizione della schiavitù.

Il viaggio che nell'aprile del 1864 il G. compì a Londra su invito di alcuni amici inglesi ebbe dunque il sapore di una apoteosi: a decretargliela era una società, come quella britannica, che non era solita riscaldarsi troppo ma che, non fermandosi all'esteriorità, sapeva riconoscere e rispettare valori autentici quali la sincerità, il disinteresse personale, la fede nei propri ideali. Per gli Inglesi il G. rappresentava tutto ciò; per di più non era amato dal governo di Napoleone III, altro buon motivo per sentirlo vicino. Coccolato e vezzeggiato dall'alta società e dalle autorità municipali (ma poco gradito alla casa reale), nei pochi giorni di permanenza a Londra il G. volle però essere di tutti, dei circoli radicali locali come delle associazioni dell'emigrazione europea, delle società operaie come degli esuli repubblicani. L'incontro che più lo commosse fu quello che il 17 aprile ebbe col Mazzini nella dimora londinese di Herzen: fu una scena ad alto tasso di emotività e produsse non solo un brindisi di riconciliazione ma anche un vago patto di collaborazione per il futuro. Nei giorni successivi, tra feste e ricevimenti, il G. fu invitato in varie città del Nord: avrebbe voluto accettare ma il governo inglese, guidato da considerazioni di vario genere, gli mandò un medico che lo trovò in precarie condizioni di salute. In realtà stava benissimo, ma, capita l'antifona, il 22 aprile si affrettò a lasciare Londra. Nell'estate, mentre si trovava a Ischia, il divampare di altre polemiche sull'eventualità di un suo impiego nei fermenti nazionali d'oltre Adriatico lo convinse che era giunto il momento di rintanarsi a Caprera.

Lo richiamò in Italia la guerra del 1866. Incaricato dal governo di reclutare e guidare un corpo di volontari, il G. fu schierato con 38.000 uomini a ridosso del Trentino e fissò il quartier generale a Salò. Di lì prese le mosse una manovra d'attacco che avrebbe dovuto portarlo nel Tirolo ma che fu compromessa dalla sconfitta che l'esercito comandato da Alfonso Ferrero della Marmora subì a Custoza il 24 giugno: l'avanzata ci fu ugualmente, ma a prezzo del forte tributo di sangue versato per contendere al nemico le posizioni di Monte Suello, di Bagolino e del Caffaro (3 luglio), poi di Vezza d'Oglio (4 luglio). La strategia mirava a occupare le vallate prealpine del Trentino per poi puntare direttamente sul confine austriaco; non tutto andò bene, e il 21 luglio a Bezzecca fu combattuta una battaglia il cui esito poteva essere decisivo: quel giorno solo l'arrivo di un G. sofferente per una ferita e costretto a seguire le fasi dello scontro da una carrozza riuscì a trasformare una probabile sconfitta in una mezza vittoria. Trento era ormai vicina; senonché, prima la tregua concessa dai Prussiani agli Austriaci, poi l'armistizio cui fu giocoforza per l'Italia adeguarsi, impedirono che l'attacco finale avesse luogo. All'ordine di ritirarsi inviatogli il 9 agosto dallo stato maggiore il G. rispose con un laconico "obbedisco". Al di là dell'amarezza, si rafforzava in lui l'antico convincimento che le ragioni della politica fossero così forti da vanificare ogni sforzo, per quanto generoso.

Liberato il Veneto, ove il G. compì un viaggio memorabile nel febbraio del 1867, restava Roma, "il simbolo dell'italica unione" (Memorie, p. 10). Dal 1849 nessuna causa aveva appassionato il G. quanto quella della lotta al potere temporale della Chiesa, in nessuna altra conquista aveva visto la stessa "idea rigeneratrice d'un popolo" (ibid., p. 9). Un principio del genere lo aveva proclamato assistendo nel settembre del 1867 al Congresso internazionale della pace a Ginevra: un mese dopo cercò di metterlo in atto e, poco o nulla curandosi del fatto che alla testa del governo ci fosse lo stesso Rattazzi del 1862, decise di comandare i volontari che si accingevano a invadere lo Stato pontificio nella presunzione che una rivolta dei Romani potesse determinare una situazione non prevista dalla Convenzione di settembre che dal 1864 obbligava lo Stato italiano a impedire ogni aggressione dall'esterno a ciò che rimaneva del potere temporale.

Tutti i calcoli e le previsioni si rivelarono sbagliati. Come già era accaduto in passato, l'intera operazione fu preparata in un clima di doppiezza da parte delle autorità statali che, a tutti i livelli, da un lato ostentavano la meticolosa sorveglianza cui sottoponevano il generale, arrivando finanche a rinchiuderlo per breve tempo nel carcere di Alessandria e poi confinandolo sotto stretto controllo a Caprera, dall'altro nulla facevano per impedire l'avvicinamento dei volontari al confine pontificio e da ultimo, il 14 ottobre, si lasciavano sfuggire il G. che così, attraverso un avventuroso viaggio, si portava sul continente e prendeva il comando della spedizione, affidata fino ad allora al figlio Menotti. Ma il piano d'azione non funzionò, perché Roma non insorse e le truppe pontificie, resistendo più del previsto, diedero il tempo al corpo di spedizione francese di arrivare a Civitavecchia e di affrontare il 3 novembre i garibaldini a Mentana: il G., che qualche giorno prima aveva faticato moltissimo a prendere Monterotondo e ad aprirsi la via su Roma, dovette acconciarsi a subire una pesante sconfitta.

Fu una pagina assai dolorosa per il vecchio generale che di colpo si trovava oltre tutto a fare i conti con la realtà di un garibaldinismo eterogeneo, spesso demotivato - o motivato per altri obiettivi - e in qualche caso poco avvezzo alla disciplina, di uno Stato che complottava con la rivoluzione per poi abbandonarla a se stessa (Rattazzi si era dimesso pochi giorni dopo la sua fuga da Caprera), di una popolazione romana che assisteva passivamente alla repressione papalina. Lo spirito originario del volontarismo si era indubbiamente alterato, gli ufficiali non avevano la preparazione di un tempo e si preoccupavano più dei propri avanzamenti di grado che di addestrare gli uomini. Ma più di tutto aveva pesato l'equivoco di un'azione condotta da elementi in gran parte repubblicani allo scopo di dare la nuova capitale a uno Stato monarchico. Infine, a Mentana forse il G. si era sentito esattamente come lo avrebbe descritto uno dei suoi: "cupo, rauco, pallido, solo l'occhio acceso e fisso […] mai sì vecchio come in quel punto" (Ridley, p. 685), non più in possesso del suo magnetismo e di quella fortuna che da sempre considerava uno dei fattori in grado di determinare l'esito di una battaglia.

Quest'insieme di cose lo esacerbò moltissimo, ma la conclusione che ne trasse lo indirizzò verso un solo colpevole: il Mazzini, che, con i suoi seguaci che avevano preso parte al tentativo, aveva a suo dire sabotato l'impresa. Ritiratosi ancora a Caprera dopo una nuova, breve detenzione a La Spezia, un giorno del 1869 fu sentito accusare "questo mestatore di idealismo" e soggiungere che "se un'invasione mazziniana avvenisse armata mano, io volerei a combatterlo, dovessi esser certo di morire sul campo", perché, spiegò, "Mazzini costa più sangue all'Italia che non tutte le mie battaglie, compresa Mentana. Mazzini non è solo un matto, è un briccone ed un codardo" (Docc. dipl. ital., s. 1, vol. XI, p. 375). Umori poco meno aspri, nella forma ma non nella sostanza, distillava nella stesura definitiva delle Memorie, completate nel 1872 e tutte improntate all'esaltazione di una qualità - il coraggio fisico - che il Mazzini non poteva di certo vantare.

Altri e senza dubbio più convinti bersagli polemici del dopo-Mentana erano il potere temporale - quasi un'ossessione in un uomo che come il G. anelava ad avere una religione ma non una Chiesa - e Napoleone III. Quando entrambi caddero nel settembre 1870 il G. si trovava a Caprera, nella condizione di quasi recluso riservatagli da un governo timoroso di dare alla presa di Roma, coinvolgendolo, un'inflessione troppo radicale. Dall'immobilismo forzato lo riscosse l'appello lanciato dalla neonata Repubblica francese contro il pericolo di un'occupazione prussiana: il 7 ott. 1870 il G. era già a Marsiglia, a metter su una composita forza di volontari di vari paesi che, formata soprattutto di franchi tiratori e addestrata alle azioni di disturbo più che agli scontri campali, si accingeva a tentare di bloccare l'avanzata del nemico già penetrato in Alsazia. Dislocato tra Autun, Besançon e Digione, nella Francia centrorientale, l'esercito garibaldino - che fu detto dei Vosgi - si compose di circa 20.000 unità (10.000 delle quali operative) divise in 4 brigate, non godette di una grande assistenza logistica e operò in un quadro strategico assai sfilacciato, dovendo per giunta fare i conti con un inverno freddissimo e con una popolazione spesso ostile. Ciò malgrado, non mancò di mettere a segno qualche buon colpo di mano, punzecchiando qua e là i Tedeschi e difendendo vittoriosamente Digione (21-23 genn. 1871) in una battaglia che terminò col trofeo dell'unica bandiera sottratta al nemico in tutta la guerra.

L'armistizio, cui si giunse nei giorni successivi, mise la parola fine a un intervento che, se aveva rinsaldato il mito del G. presso la Sinistra transalpina, aveva d'altro canto destato - non senza qualche sua colpa personale - più di un risentimento nell'opinione pubblica cattolica e moderata, come si vide dalle reazioni ostili con cui il generale fu accolto dall'Assemblea nazionale riunita a Bordeaux: quel 13 febbr. 1871 al G., riuscito eletto in tre collegi, fu praticamente tolta la parola dai clamori dei deputati della Destra. Di qui "il suo sdegnoso ritrarsi, accompagnato dalla solidarietà di Louis Blanc e di Victor Hugo" (Garosci, p. 71); e fu questa l'ultima amarezza di un periodo che già gli aveva inflitto il dolore della scomparsa dell'ultima figlia, Rosa, datagli due anni prima dalla Armosino.

Nel ritrovato isolamento di Caprera il G. impiegò il proprio tempo tra i campi, ovvero riprendendo l'esercizio della scrittura. Aveva cominciato molti anni prima con le Memorie, cui era tornato dopo Mentana non tanto per celebrare se stesso e chi aveva combattuto al suo fianco quanto, forse, perché l'incedere degli anni lo aveva spinto a cercare nella rievocazione del passato gli impulsi che sentiva venir meno e di cui aveva ancora bisogno. L'edizione definitiva delle Memorie apparve a Firenze nel 1888, con alcuni cambiamenti notevoli rispetto alle quattro precedenti che "a partire dal 1859 […] erano state pubblicate 46 volte in 11 lingue" (Ridley, p. 724). Temperamento lirico, dotato di una sensibilità poetica riecheggiante lo stile foscoliano, facile verseggiatore in sonetti e odi celebrative o d'occasione, nel 1862 il G. aveva composto un Poema autobiografico dove aveva rievocato in endecasillabi sciolti gli episodi salienti della propria vita di combattente.

Nel 1867 decise di passare al romanzo, a ciò persuaso dal desiderio di giungere a un più vasto numero di lettori ma anche dall'esigenza - pienamente soddisfatta - di procurarsi un reddito con cui vivere una vecchiaia serena ma che poi gli sarebbe servito soprattutto per aiutare i due figli maggiori, Ricciotti e Menotti, a liberarsi dai debiti accumulati con alcuni investimenti commerciali sbagliati. Per primo uscì in edizione inglese Clelia, il governo dei preti (London 1870; poi Milano 1870), subito seguito da Cantoni il volontario (Milano 1870), da I Mille (ibid. 1874) e infine da Manlio, romanzo contemporaneo, concluso verso il 1879 e rimasto manoscritto fino all'edizione napoletana del 1982: avevano in comune l'ispirazione alla storia contemporanea e qualche professione di fede antibellicista, e costituivano per un verso l'elaborazione fantastica degli scritti autobiografici, per un altro la prosecuzione della battaglia politica sui fronti che più lo avevano impegnato ultimamente: quello anticlericale in Clelia e nel Cantoni, quello antimazziniano ne I Mille, che infatti provocò una risentita replica di M. Quadrio (Il libro dei Mille del generale G., Milano 1879).

Ebbero ovunque grande successo e numerose ristampe, le une e l'altro motivate dalla popolarità dell'autore, che vide così dilatata a dismisura la propria eccezionalità, perché una vita che poteva offrire un materiale narrativo così ricco era di per sé un romanzo e il suo protagonista un archetipo narrativo la cui fortuna si sarebbe inverata non solo nella ricca fioritura di una letteratura che fu detta "garibaldina" e che ebbe i suoi esponenti migliori in G.C. Abba, G. Bandi, A. Mario, ma anche nei rimandi al suo personaggio che l'immaginario nazionale avrebbe compiuto anche in seguito, fin quasi ai giorni nostri. Letterariamente, però, i romanzi non valevano molto, spesso erano sciatti e abborracciati, e per qualità stilistiche erano certo inferiori alle Memorie, dove la prosa ha un livello d'efficacia e d'intensità assai alto grazie a una scrittura del tutto personale che, proprio in quanto tale, non ricalca i canoni del feuilleton o del romanzo gotico né si rifà allo stile epico guerrazziano né punta sugli effetti graditi al pubblico anglosassone pensando al quale i romanzi erano stati scritti.

Intanto con la morte del Mazzini, nel marzo 1872, si era chiuso il lato personalistico - non quello più propriamente ideologico - dello scontro del G. con l'intransigentismo repubblicano. Durante il primo decennio unitario e poi in Francia nel 1870 aveva sperimentato e contribuito in qualche modo a determinare all'interno del movimento nazionale una piegatura sociale e politica diversa, un modo più spregiudicato di porsi rispetto a quello tradizionalmente patriottico. Quando, conversando con lo Herzen nel 1854, aveva rivendicato una migliore conoscenza delle masse rispetto al Mazzini, il G. aveva in effetti anticipato un tratto della propria personalità che si sarebbe materializzato più tardi, nel contatto con quelle schiere di giovani che, non tutti di origine borghese, accorrendo per unirsi a lui da ogni dove, gli avrebbero portato aspirazioni e bisogni e istanze non facili da soddisfare se non con una sensibilità più attenta al loro modo di pensare e alla loro cultura, e dunque rifuggendo da ogni condanna pregiudiziale.

Il G. socialista della vecchiaia, che aderisce pubblicamente all'Internazionale e spiega le sue scelte in due famose lettere del 1871 (una del 21 ottobre al mazziniano G. Petroni, l'altra del 14 novembre a G. Pallavicino) non è tanto il prodotto di un'elaborazione teorica quanto il compimento per via empirica di una coscienza sociale sbocciata in giovinezza nel contatto con gli ideali umanitari dei sansimonisti e dei massoni, ma anche del Mazzini, cui è più vicino di quanto all'epoca si ritenesse (tant'è che nel proclamarsi internazionalista precisa che chi predica l'abolizione della proprietà privata, del diritto ereditario, dell'autorità e della famiglia è un provocatore che vuole affossare il socialismo; nell'ottobre del 1872 scriverà addirittura che anche il Mazzini era un "Internazionale" perché "in tutta la sua vita non ha mai smentito il suo culto dell'umanità" [Ciampoli, p. 639]).

Nella sua visione, forse semplicistica ma atta a far presa sulle folle che ormai lo avevano elevato a simbolo vivente di un universalismo laico e della sua coscienza critica, da una parte c'era il bene, dall'altra il male, da una parte il parassitismo e la corruzione, dall'altra il lavoro e lo sfruttamento: per questo il G. si sentiva più vicino a M. Bakunin (che nel 1864 gli aveva fatto visita a Caprera) e alla disperata lotta dei Comunardi parigini che al rigore scientifico di un Marx, il quale peraltro non gli aveva risparmiato qualche sprezzante espressione di scherno; ed era anzitutto sul piano dell'umanitarismo che i pionieri del socialismo italiano - ad esempio C. Ceretti o E. Bignami -, gli crescevano a fianco, diffondendo attraverso giornali come La Plebe di Lodi o Il Gazzettino rosa di Milano le prime embrionali idee di riscatto e di giustizia sociale.

Più oltre il G. non andò, respingendo sempre le petizioni di principio classiste o collettiviste; tanto che egli, socialista per istinto più che per riflessione teorica, quando, poco prima di morire, volle rianimare la Sinistra italiana e condurla a impegnarsi sui problemi reali e non sulle discussioni, pose alla base della fondazione della Lega della democrazia, nata a Roma nell'aprile del 1879, un programma nel quale spiccavano riforme di grande pragmatismo a lui già care da tempo, quali in primo luogo il suffragio universale, l'istruzione elementare obbligatoria e gratuita ma laica, la soppressione delle corporazioni religiose, la tutela dei diritti civili e della libertà di coscienza. Tra l'altro la sua pluriennale battaglia in favore del suffragio universale si accompagnava spesso a una denigrazione del parlamentarismo e non era in contraddizione con la sua preferenza per una dittatura "temporaria" che, almeno nei momenti di crisi, garantisse al paese una per lui indispensabile unità di comando: "La democrazia - spiegava - è sempre debole in faccia al dispotismo per mancanza di concentramento di potere" (Ciampoli, p. 577). Non a caso a partire dagli anni Settanta aveva cercato un rapporto con il pubblico più immediato di quello che gli potessero garantire i circoli operai o la tribuna di un Parlamento in cui credeva sempre meno, anche dopo l'avvento della Sinistra al potere (fece un'eccezione al tempo del primo esecutivo di B. Cairoli, ma se ne pentì con il secondo, quando ci fu la crisi di Tunisi con la Francia): così prese a inviare ai giornali, in particolare alla Capitale di F. Dobelli lunghe lettere in forma quasi di manifesto in cui prendeva posizione sui più scottanti problemi sul tappeto richiamando i lettori alla necessità di non distrarsi e di non lasciare la politica alle sole istituzioni; e fu significativa la sistematicità con cui, dal 1875 in avanti, trattò la questione orientale battendo ancora il tasto del crollo auspicabile dei vecchi imperi sotto i colpi delle varie nazionalità slave.

Sempre in nome della concretezza, ma anche di un'idea di grandiosità che certamente si legava in lui al desiderio di organizzare per l'Italia una degna capitale caratterizzandola come sede del vivere civile, nel 1875 il G. si stabilì a Roma, dove era stato eletto, per presentare e sostenere i progetti per la deviazione del Tevere, la bonifica dell'Agro romano e la costruzione di un grande porto a Fiumicino (più tardi si sarebbe occupato anche del Po e del porto di Genova). Malgrado una permanenza di più di un anno a Roma, non se ne fece quasi nulla; ma il fervore e l'ostinazione con cui il G. patrocinò queste iniziative, presentandole come investimenti che avrebbero avuto il pregio di offrire opportunità di lavoro a masse di disoccupati, procurarono più di un imbarazzo al governo della Destra che, impossibilitato per motivi di bilancio a imboccare la via delle grandi opere pubbliche, pensò di riguadagnare popolarità offrendo al G. un "dono nazionale" di 100.000 lire annue. Nonostante le difficoltà economiche in cui versava per colpa dei figli, il G. rifiutò con sdegno, convinto - dichiarò - che un governo corruttore e affamatore avesse cercato di comprare la sua complicità a spese del contribuente. L'anno dopo, però, giunta la Sinistra al potere, ritenne che non fosse disdicevole accettare.

Da Caprera, dove era tornato e dove, costretto alla carrozzella e quasi paralizzato per l'artrite, viveva la sua malandata vecchiaia amorevolmente assistito dalla Armosino, si mosse nell'ottobre del 1880 per una rapida visita a Genova e per assistere a Milano all'inaugurazione del monumento ai caduti di Mentana. Il suo declino fisico era inarrestabile, e dunque fu con enorme sorpresa che nel marzo del 1882 lo si vide affrontare un viaggio da Caprera a Napoli e di qui a Palermo per prender parte alle manifestazioni per il VI centenario dei Vespri: folle di siciliani commossi lo salutarono, ma ciò non bastò a metterlo in condizione di presenziare, come avrebbe voluto, alla celebrazione ufficiale della ricorrenza.

Il 16 aprile tornava a Caprera, afflitto da una malattia bronchiale che lentamente ne logorava la fibra, fino al pomeriggio del 2 giugno 1882 quando, circondato dai parenti e da pochi amici, spirava.

Benché attesa, la notizia suscitò enorme impressione in tutto il mondo, e diffusa fu la sensazione che con lui era scomparso uno dei grandi protagonisti del secolo. Un anno prima di morire il G. aveva disposto per testamento che il suo cadavere fosse bruciato e che parte delle ceneri fosse interrata sotto un ginepro di Caprera: tuttavia la sua volontà non fu rispettata, a sinistra per un malinteso senso di rispetto per le sue spoglie, a destra per non offendere il sentimento religioso. Il funerale fu celebrato a Caprera l'8 giugno in presenza delle maggiori autorità civili e militari e di folte rappresentanze delle associazioni di combattenti e reduci. La bara fu tumulata nell'isola, che col tempo sarebbe divenuta di proprietà dello Stato, così come la casa, che sarebbe stata dichiarata monumento nazionale e che è tuttora meta di qualche pellegrinaggio.

Da allora infatti la figura del G. non si è più cancellata dal ricordo degli Italiani, risultando per le sue stesse caratteristiche umane di gran lunga la più viva tra quelle del Risorgimento. Proprio perché erano alla portata di tutti, il suo idealismo a volte ingenuo e le sue formule semplici non erano fatti per intendere la complessità dei processi di trasformazione in atto o per cogliere le ragioni economiche, strategiche, culturali e politiche che rendevano precario, tanto più in tempi di Realpolitik, l'equilibrio tra le potenze, ma al G. questo non interessava, proiettato com'era verso un futuro di pace e fratellanza che immaginava frutto possibile dell'accordo tra tutte le nazioni della terra. Gli premeva piuttosto usare il proprio potere di parola per dare voce allo smarrimento e alla paura degli umili di fronte ai mali che li tormentavano e alle scelte che ne ignoravano i bisogni; e questo fece, senza paternalismi di sorta e con una prosa sghemba ma efficace, perché nutrita di sincera passione civile e mai sospettabile di disonestà intellettuale o di malafede. Non si stancò mai di predicare coraggio e concordia, i due grandi requisiti morali appresi a quella autentica scuola di vita che era stato per lui il Sudamerica: pessimista sul ceto politico, da buon erede della filantropia settecentesca aveva una fede a tutta prova nell'uomo e nella possibilità che tutti avevano di elevarsi a dignità, guidati da quella "religione del vero" che egli, appellandosi alla ragione, contrapponeva alle religioni confessate. Scomparso Mazzini, la società italiana dovette anzitutto al suo magistero morale quel poco di sensibilità con cui si riuscì a temperare un sistema di sfruttamento generalizzato. Da lui, che lo aveva appreso dal costume civile inglese, venne infine un altro importante insegnamento, e cioè che la cosa pubblica non fosse un'esclusiva delle istituzioni e di chi vi presiedeva ma richiedesse a tutti un'attenzione vigile e partecipe.

Un altro notevole servigio da lui reso al paese fu quello di innescare un meccanismo di identificazione per il quale molti di coloro che altrimenti sarebbero rimasti al di fuori di un processo di unificazione dalle basi ristrette ne compresero il suo senso profondo, di costruzione dell'identità nazionale, a prescindere dalla piena conoscenza degli schemi politici e teorici che tale processo avevano preparato e che alla maggioranza degli Italiani erano apparsi astratti e perfino oscuri. Con l'esempio del suo disinteresse e con la disponibilità a mettersi in gioco il G. popolarizzò il Risorgimento e ne legittimò gli esiti, ne trasmise l'eredità alla gente comune, legandola, più che alle istituzioni, ai valori che le avevano edificate, primi tra tutti l'amore per la libertà e lo spirito di sacrificio. Appunto in virtù dell'estrema ampiezza e duttilità delle sue vedute, ogni generazione, tra quelle venute dopo di lui, ha avuto il suo Garibaldi: al G. socialista di fine Ottocento ha tenuto dietro quello, bellicoso e interventista, dei nazionalisti, il G., profeta della dittatura, dei fascisti e quello internazionalista dell'antifascismo, per finire con il G. anticlericale e di nuovo socialista e progressista del Fronte popolare. Pur cogliendo qualcuno degli aspetti della sua personalità, non tutte queste appropriazioni, oltre a contraddirsi spesso a vicenda, ci appaiono storicamente fondate: certo è che segno della ricchezza del suo mondo morale e della fecondità del suo paradigma è il fatto che a più riprese ci si sia ispirati a lui, trovando ogni volta nel pubblico cui tali messaggi erano destinati un riscontro sorprendentemente ampio. In un'epoca che ha continuato, pur nel XX secolo, a proporre situazioni di paesi in lotta per l'indipendenza, il nome del G. ha conservato quasi intatto l'originario potere di evocazione, provocando audaci ma talora plausibili accostamenti a personaggi venuti molto dopo di lui ma, come lui, dotati dello stesso carisma e fascino di liberatori: tipico in tal senso il caso di Ernesto "Che" Guevara.

Sul più solido terreno della storiografia, dopo la vasta gamma di modelli interpretativi offertaci dagli anni del post-Risorgimento, si è giunti con il 1982, anno del centenario, e grazie alle abbondanti fonti disponibili, a una riflessione complessiva i cui risultati costituiscono una soddisfacente messa a punto almeno sotto due profili: quello del G. combattente e del G. politico. Nell'un caso come nell'altro se ne è definito - complessivamente rivalutandolo o articolando meglio il giudizio - il contributo: il G. combattente è stato letto (da L. Ceva, C. Jean, G. Rochat) non come il guerrigliero coraggioso ma un po' incosciente di una certa tradizione ma come un vero stratega capace sempre di colmare con l'inventiva il divario tra le forze sue e quelle nemiche; e il G. politico è stato definitivamente liberato (a opera di F. Della Peruta, A. Galante Garrone, E. Morelli, A. Scirocco, R. Villari) da quella vernice di inettitudine e subalternità che troppo spesso lo aveva ricoperto in passato.

Con una coincidenza che non sorprende, il G. militare e quello politico si sono visti riconoscere la stessa virtù, e cioè la capacità di commisurare i mezzi ai fini e di guidare gli uomini al raggiungimento di un obiettivo realisticamente possibile senza sottostare alle suggestioni dell'utopia. Non è nemmeno mancata qualche revisione critica, soprattutto da parte cattolica: quasi sempre è stata inficiata da un antistorico e parallelo recupero delle tesi sanfedistiche.