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Musicista (Roncole, Busseto, 10 ottobre 1813 - Milano 27 gennaio
1901). Massimo operista italiano dell'Ottocento, tra i più
celebrati di tutti i tempi, V. musicò 28 opere, alle quali
vanno aggiunti cinque rimaneggiamenti. In esse la magistrale
padronanza dei mezzi tecnici e drammatici è messa al servizio
dell'espressione di accese passioni romantiche. Tra i suoi
capolavori: Rigoletto (1851), Il Trovatore (1853), La Traviata
(1853), in cui V., ormai ricco e affermato, non ebbe paura di
affrontare temi anticonvenzionali o addirittura scabrosi, con
insuperabile talento drammatico e grande capacità di
introspezione psicologica. Sebbene colpite dalla censura e
inizialmente accolte negativamente dal pubblico, le tre opere
raggiunsero presto grandissima popolarità; le parallele
vicende politiche del Risorgimento che avrebbero portato
all'unità d'Italia aumentarono inoltre il prestigio di V.
come musicista nazionale.
Vita e opere
Di umili origini, fu iniziato allo studio della musica
dall'organista P. Baistrocchi e perfezionò in seguito la sua
istruzione grazie all'aiuto dell'industriale (e futuro suocero) A.
Barezzi. Cominciò a comporre musica ancora giovanissimo; il
primo lavoro d'impegno che poté far eseguire in pubblico fu
una sinfonia d'apertura, che fu premessa, invece di quella di G.
Rossini, a una rappresentazione del Barbiere di Siviglia al teatro
di Busseto (1828). Altre pagine di quegli anni (fino al 1832 circa)
sono i numerosi pezzi sacri scritti per studio o anche per le chiese
locali, le marce e altri pezzi varî per la banda del paese, e
composizioni vocali-orchestrali, tra le quali una sorta di cantata:
I delirî di Saul.
Recatosi (1832) a Milano, per studî presso quel conservatorio,
non venne ammesso, essendo state giudicate troppo scarse le sue
attitudini musicali. Fu invece accettato come allievo da V. Lavigna,
maestro concertatore alla Scala e compositore (che V.
ricorderà come "contrappuntista fortissimo"), e con lui
continuò i suoi studî fino al 1835, integrandoli con
una personale lettura dei classici e con l'esercizio direttoriale in
concerti. Un dott. A. Piazza gli propose un libretto d'opera Oberto
conte di S. Bonifacio, che V. accettò e cominciò a
musicare.
Intanto sposava (1836) Margherita Barezzi (che morirà nel
1840), figlia del suo mecenate. Nel 1837 nasceva la figlia Virginia
(che morì poco più d'un anno dopo) e nel 1838 il
secondogenito Icilio Romano (anch'esso morto ad un anno e due mesi).
Nel 1838 pubblicò le sei Romanze; l'anno dopo a Milano
conobbe l'impresario B. Merelli e la cantante Giuseppina Strepponi.
Nel nov. del 1839 andava in scena, alla Scala, l'Oberto, il cui
esito, se non straordinario, certo soddisfacente, determinò
Merelli a commissionare a V. tre opere. La prima di queste fu di
genere buffo Il finto Stanislao ovvero Un giorno di regno, su
libretto di F. Romani, che fu accolta negativamente. La crisi
seguita all'insuccesso fu superata grazie all'aiuto di Merelli, che
fornì a V. il libretto di T. Solera per il Nabucco,
rappresentato con esito trionfale alla Scala nel 1842 (interprete,
nel ruolo di Abigaille, G. Strepponi).
Dal 1842, l'anno del Nabucco, al 1851, l'anno del Rigoletto, V.
scrisse e mise in scena (curò sempre di persona
l'allestimento dei lavori) tredici opere: I Lombardi alla prima
crociata (libr. di Solera; Milano 1843; esito ottimo), Ernani (libr.
F. M. Piave; Venezia 1844; esito buono e poi entusiastico), I due
Foscari (libr. Piave; Roma 1844; esito contrastato e poi trionfale),
Giovanna d'Arco (libr. Solera; Milano 1845; esito mediocre), Alzira
(libr. S. Cammarano; Napoli 1845; esito tiepido), Attila (libr.
Solera; Venezia 1846; esito clamoroso), Macbeth (libr. Piave;
Firenze 1847; esito favorevole), I Masnadieri (libr. A. Maffei;
Londra 1847; esito ottimo), Jérusalem (rifacimento A. Royer e
G. Vaez dei Lombardi; Parigi 1847; esito freddo), Il Corsaro (libr.
Piave; Trieste 1848; esito sfavorevole), La Battaglia di Legnano
(libr. Cammarano; Roma 1849; esito trionfale), Luisa Miller (libr.
Cammarano; Napoli 1849; esito buono), Stiffelio (libr. Piave;
Trieste 1850; esito cattivo).
Consolidata la propria fama a livello internazionale, nel 1848 V.
scelse come dimora stabile la villa di Sant'Agata, presso Busseto,
dove avrebbe composto le sue opere maggiori, accanto alla propria
compagna, G. Strepponi, sposata nel 1859 dopo dieci anni di
convivenza. Dal 1851 al 1862 altre sette opere (otto, se si conti
anche l'Aroldo): Rigoletto (libr. Piave; Venezia 1851; esito
entusiastico), Il Trovatore (libr. Cammarano; Roma 1853; esito
entusiastico), La Traviata (libr. Piave; Venezia 1853; esito
disastroso dapprima, trionfale alla ripresa un anno dopo), I Vespri
Siciliani (libr., in francese, E. Scribe e G. Duveyrier; Parigi
1855; esito soddisfacente), Simon Boccanegra (libr. Piave; Venezia
1857; esito cattivo), Aroldo (rifacim. dello Stiffelio; Rimini 1857;
esito incerto), Un ballo in maschera (libr. A. Somma; Napoli 1859;
esito entusiastico), La forza del destino (libr. Piave; Pietroburgo
1862; esito ottimo).
Nello stesso periodo V. ebbe modo di impegnarsi politicamente a
favore della causa nazionale, impegno che gli valse l'invito da
parte di Cavour a porre la propria candidatura a deputato del
Parlamento italiano, candidatura che, dopo qualche titubanza, V.
accettò, venendo eletto nel 1861 come esponente dell'area
liberal-moderata. Compose anche in quel tempo, per commissione, un
Inno delle Nazioni, ove inserì temi della Marsigliese, del
God save the Queen e dell'Inno di Mameli, inno applaudito a Londra
nel maggio 1862. Dal 1863 al 1871 (anno dell'Aida) scrisse una sola
opera nuova, che fu il Don Carlos (libr. J. Méry e C. Du
Locle; Parigi 1867; esito buono).
Contemporaneamente V. veniva elaborando, alla luce delle nuove
esperienze musicali maturate in Francia e in Germania, una sempre
più potente ricchezza di linguaggio. Rivide e
rielaborò alcune sue opere; il Macbeth (1864-65, nuova rappr.
Parigi 1865; esito buono), la Forza del destino (1868-69, nuova
rappr. Milano 1869; esito ottimo). Nel 1870 accettò
l'incarico di una nuova opera, commissionatagli dal chedivè
d'Egitto per celebrare l'apertura del canale di Suez, su soggetto
propostogli da Du Locle: fu l'Aida (stesura del libretto: A.
Ghislanzoni), ed ebbe il suo trionfo al Cairo (1871).
Seguì la composizione della Messa di Requiem, in memoria di
A. Manzoni (prima esecuz. Milano 1874), del Quartetto per archi
(1875), del Pater noster e dell'Ave Maria sui versi erroneamente
attribuiti a Dante (1880). Inoltre, rielaborò il Boccanegra
(libr. riveduto da A. Boito; nuova rappr. Milano 1881; esito
felicissimo) e il Don Carlos (nuova rappr. Milano 1884; esito
entusiastico), e svolse un'intensa attività direttoriale in
Italia e all'estero.
Nel 1874 entrava in Senato.
Dal 1880 al 1886 lavorò alla stesura dell'Otello, su testo di
A. Boito, rappr. alla Scala nel 1887 con esito trionfale. Due anni
dopo iniziò l'elaborazione dell'ultima sua opera, il Falstaff
(libr. di Boito), rappresentata a Milano (1893) con esito trionfale.
Quanto, di tale entusiasmo, spettasse proprio all'opera è
difficile dire, ma è certo che il Falstaff non ebbe, fino
alla sua rinascita nel 1921, una popolarità paragonabile a
quella goduta da altre opere verdiane. Le ultime composizioni
verdiane sono i Pezzi Sacri (Te Deum, Laudi alla Vergine, Stabat)
eseguiti a Parigi (1898). Uno degli ultimi atti di V. fu la
fondazione della "Casa di riposo per i musicisti", a Milano, nella
cui cappella volle essere sepolto.
Dal giovanile Oberto al conclusivo Falstaff l'opera verdiana
attraversa oltre mezzo secolo di storia italiana, che va dai primi
fermenti risorgimentali all'Unità con i suoi primi problemi e
le sue contraddizioni. Per lungo tempo così la figura di V.
fu riduttivamente vista solo come quella di una sorta di "padre
della Patria", di nume tutelare del melodramma italiano nel momento
forse più delicato ed eroico della storia d'Italia. Soltanto
in tempi relativamente recenti, ovvero soprattutto dopo il
cinquantenario della morte, le interpretazioni spesso contrastanti
dell'opera verdiana (da alcuni ritenuta talora volgare e regressiva
e persino accusata di wagnerismo negli esiti più tardi, da
altri considerata invece coronamento della grande fioritura
melodrammatica sette-ottocententesca) hanno raggiunto una sintesi
critica più equilibrata grazie a studî approfonditi (da
M. Mila a F. Walker, J. Budden) favorendo una riscoperta della
cosiddetta produzione giovanile ("gli anni di galera"). La migliore
conoscenza dell'opera e della figura del compositore ha così
permesso di attenuare la contrapposizione tra una visione
"progressiva" (le opere migliori dopo il Don Carlo) e una
"regressiva" o decadente, che vedrebbe il miglior V. esemplificato
nelle opere della cosiddetta Trilogia popolare. In tal senso la
fondazione dell'Istituto di studi verdiani di Parma (1959) e l'avvio
di una edizione critica delle opere (1977) hanno avuto un
determinante ruolo di stimolo a una più equanime valutazione
della sua musica.
Da sempre più caro allo spettatore che ad alcuni settori
della critica, V. non fu compositore intellettuale, ma nemmeno
naïf. Certo non fu teorico, preferendo affidare le proprie idee
estetiche piuttosto alle opere musicali che ai libelli. Saldo era in
lui il legame col passato, rappresentato in primis dalla tradizione
vocale italiana (Rossini, Bellini e Donizetti), ma anche dal
glorioso barocco (G. Carissimi e B. Marcello) e dal "mito"
Palestrina. È invece evidente una certa diffidenza verso la
musica puramente strumentale (quartetto e sinfonia) considerata
piuttosto tipica della tradizione storica tedesca, a dispetto dei
fondamentali contributi di D. Scarlatti e A. Corelli, musicisti per
i quali V. dimostrò particolare interesse. Stretto fu in V.
poi il legame con il romanticismo lombardo (Manzoni), ma anche
francese (l'Hernani di V. Hugo), nonché con il teatro europeo
(da Shakespeare a Schiller e Byron).
Musicalmente attratto da certi aspetti del teatro di Meyerbeer,
piuttosto legati alla priorità ideativa e drammaturgica del
compositore che non a effetti puramente spettacolari da
grand-opéra, V. non nascose tuttavia la sua ammirazione per i
classici viennesi (W. A. Mozart, F. J. Haydn, L. van Beethoven).
Discussi i rapporti di V. con Wagner; se al maestro tedesco V.
tributò riconoscimenti solo postumi, influenze wagneriane
nell'ultimo V. (Aida e soprattutto Otello e Falstaff) sono
ravvisabili semmai solo nel senso di una riflessione autocritica,
ulteriore stimolo a quel rinnovamento sempre ricercato nel corso
della sua pluridecennale carriera.
V. durante tutto l'arco della vita produttiva fu infatti non solo
compositore, ma ancor prima e contemporaneamente uomo di teatro. Fu
insomma un drammaturgo in musica. Se infatti la tradizione
librettistica del suo tempo presentava una drammaturgia spesso
pretestuosa, con V. si attuò una sorta di "dittatura" e
supervisione (anche registica) del compositore sulla messinscena e
sulla stesura letteraria. Nonostante certi condizionamenti esterni
(il cast vocale, la censura, il pubblico), V. ricercò
spasmodicamente, all'interno di soggetti sempre nuovi e stimolanti
(talora persino quasi rivoluzionarî come Rigoletto e
Traviata), la giusta parola scenica, il più adeguato rapporto
tra parola e musica, entrambe al servizio della situazione
drammatica. Così anche l'eventuale ricorso a strutture
formali consuete (come la cabaletta) riceve nuova ragion d'essere
dal contesto drammatico.
L'opera verdiana è sempre attraversata dalla ricerca di una
solida unità drammatica, che si esplica nella stretta
relazione tra la parte e il tutto, tra l'elemento singolo e
l'insieme. Una unità che è più d'azione che
temporale o spaziale, ma che investe in sé anche la
dimensione visiva e musicale. Se insomma non è dato parlare
nel grande arco produttivo verdiano di unità stilistica,
è piuttosto nella unità morale, ovvero nella
unità della coscienza e nella forte coerenza interiore che
può ricercarsi l'elemento comune a opere così diverse.
V. non fu dunque solo quel musicista nazionale testimone musicale
del Risorgimento, peraltro presagito da Mazzini nella sua Filosofia
della musica, ma un creatore di caratteri reali in una variegata
galleria di sentimenti e atteggiamenti psicologici. Suo scopo
è quello di "inventare il vero" secondo modi che non hanno
però nulla a che vedere col verismo musicale. Sempre,
infatti, il dramma nasce piuttosto dalle situazioni e
dall'interagire dei suoi personaggi.
Certo V. rispecchia drammaturgicamente modelli comportamentali della
sua epoca, ma soprattutto coglie la contraddizione, talora tragica,
tra l'anelito alla felicità dell'individuo e le leggi, le
istituzioni o i doveri sociali che lo opprimono. E lo coglie con una
partecipazione velata di pessimismo.
Tutto in V. è funzionale al racconto drammatico, sia nella
produzione più osservante delle forme cosiddette chiuse, sia
in quella più tarda che tenta il felice superamento
dell'antica logica strutturale. A tale scopo V. focalizza e
finalizza delle aree tonali, non disdegna orchestrazioni o ritmi
popolari, cori omofoni o il ricorso a strumenti solistici per
determinati effetti coloristici, purché funzionali alla
situazione drammatica. Appaiono sovente in V. temi cardine ovvero
temi di reminiscenza e soprattutto sottolineature di regioni tonali
in concomitanza con momenti drammaturgici. Ma la musica presuppone
sempre il palcoscenico, il gesto teatrale, il movimento scenico, e
ne è al contempo determinata.