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Uomo politico e giornalista italiano (Bologna 1878 - Roma 1967).
Collaboratore del Resto del Carlino e del Giornale d'Italia, fu nel
1910 tra i fondatori del movimento nazionalista e nel 1911 dell'Idea
nazionale, della quale alcuni anni dopo fu direttore. Deputato
nazionalista dal 1913, interventista e pluridecorato della prima
guerra mondiale; dopo la fusione dei nazionalisti col Partito
fascista ormai al potere, fu ministro delle Colonie, dell'Interno
(1924) e nuovamente delle Colonie (1926-1928). Senatore dal 1928, fu
successivamente presidente del Senato (1929-39), dell'Accademia
d'Italia (1938-43), dell'Istituto della Enciclopedia Italiana
(1938-43), cui è stato donato dagli eredi il suo archivio.
Dal 1931 al 1943 diresse la Nuova Antologia. Membro del Gran
Consiglio del fascismo dal 1923, aderì il 25 luglio 1943
all'ordine del giorno Grandi, per cui fu condannato a morte in
contumacia dal tribunale fascista di Verona. Dopo la liberazione,
condannato all'ergastolo dall'Alta Corte di Giustizia nel 1945, fu
amnistiato nel 1947. Frutto dei ricordi di giovinezza è il
suo Bologna carducciana (1961); pubblicato postumo: Italia di ieri
per la storia di domani (1967).
*
DBI
FEDERZONI, Luigi. - Nacque a Bologna il 27 sett- 1878, da Giovanni
ed Elisa Giovannini.
La famiglia, originaria del Ferrarese, si era trasferita prima a
Modena e successivamente a Bologna. Il padre, già allievo e
poi amico di Giosuè Carducci e amico di Alfredo Oriani, fu
professore di italiano al ginnasio e quindi libero docente alla
facoltà di lettere dell'università di Bologna e noto
studioso di Dante.
Ancora studente universitario alla facoltà di lettere, il F.
iniziò la propria attività letteraria e giornalistica,
scrivendo articoli di attualità e di critica, per i quali
usava - sembra per sottrarsi alle ire di G. Carducci - diversi
pseudonimi (Giulietto il Superesteta, Il piegatore di chifel) e in
particolare quello anagrammatico di Giulio de Frenzi, che mantenne
per molti anni. Dal 1897 collaborò al settimanale degli
universitari bolognesi, Il Tesoro, tra il 1898 e il 1899 alla
rivista umoristico-letteraria, Bologna che dorme, quindi ad altri
periodici come L'Italia che ride, Rivista ligure, Gazzetta
dell'Emilia. Ricordi della Bologna di quegli anni, ritratti del
professor Carducci e di A. Oriani, il F. li raccolse successivamente
nei saggi di Bologna carducciana (Roma 1961).
Alla fine del 1900, essendosi laureato nell'autunno di quell'anno,
discutendo col Carducci una tesi dal titolo Un commediografo
banchiere: Giovanni Giraud, il F. si recò a Roma con il
proposito di studiare storia dell'arte alla scuola di A. Venturi. Ma
fu preso ancor più dall'impegno giornalistico: dapprima
collaborò con articoli, soprattutto letterari ed artistici,
ai giornali Capitan Fracassa e Il Travaso, quindi divenne redattore
capo a Bologna del Resto del Carlino nel 1904 e, dal 1905 al 1913,
redattore del Giornale d'Italia, per il quale si trasferì
definitivamente nella capitale, continuando la collaborazione al
quotidiano bolognese. Intanto pubblicava i suoi scritti di critica
artistica con le note sull'arte contemporanea Il sandalo d'Apelle
(1905), e quelli letterari, con novelle umoristiche e romanzi
influenzati dal naturalismo francese, da D'Annunzio e, soprattutto,
da Oriani, al quale - "maestro di suprema arte e di sdegnosa
solitudine" - era dedicato il romanzo Il lucignolo dell'ideale
(1909). Nel 1906 si era anche dedicato al teatro, con tre commedie
rappresentate fra Roma e Bologna, seppure con poco successo.
Definito dallo scrittore romagnolo, insieme con M. Missiroli, G.
Bellonci, F. Dal Secolo e altri giovani che lo ascoltavano nelle
conversazioni al caffè S. Pietro, all'arena dei Sole o lungo
i portici di Bologna, "un mio scolaro da caffè", il F. si
impegnò notevolmente per l'Oriani, sia procurandogli una
collaborazione al Giornale d'Italia, sia recensendone gli scritti,
sia, dopo la morte, facendone conoscere l'opera letteraria e
politica (con E. Corradini, F. De Roberto, R. Simoni, B. Croce, A.
Gargiulo, U. Ojetti organizzò nel 1910 un comitato promotore
delle opere e con Corradini pubblicò l'antologia
Verità nazionale, Roma 1913; più avanti curò la
raccolta Gli eroi, gli eventi, le idee, Bologna 1928). Non si
trattò solo di una valorizzazione artistica dello scrittore,
ma di una rivendicazione politica al movimento nazionalista che
andava organizzandosi in quegli anni (e di cui il F. era tra gli
esponenti più significativi), come egli stesso espresse
chiaramente nella commemorazione tenuta a Faenza nel gennaio 1910.
L'influenza di Oriani fu assai vasta sul movimento nazionalista e in
particolare sul F., i cui scritti rispecchiavano in gran parte sia
la lettura che l'autore di Fino a Dogali e Lotta politica faceva
della storia d'Italia, in particolare in merito al ruolo che la
nazione avrebbe dovuto assumere nella gara espansionistica, sia la
critica e il disprezzo per la classe politica contemporanea, che non
era in grado di far riacquistare all'Italia dignità nazionale
e che era chiusa nelle proprie beghe quotidiane. Un precursore del
nazionalismo l'Oriani e, successivamente, "il maggior precursore del
Fascismo", tanto che - scriveva il F. nella prefazione a Fino a
Dogali, VII volume dell'Opera omnia curata da Mussolini (Bologna
1923) - le sue caratteristiche, vale a dire "la capacità
istintiva di porre i massimi problemi nazionali nella loro
prospettiva storica, la volontà travagliosa del rinnovamento
italiano, la sdegnosa scontentezza di tutto quanto fu caro al
costume dell'età democratica, la passione patriottica vissuta
con tragica intensità parvero trasfondersi dall'anima dello
scrittore romagnolo in quella del suo grande conterraneo che oggi
regge la Nazione" (p. XIII).
Il cammino del F. si configurò in quegli anni nel passaggio -
che fu del suo maestro Oriani, ma anche di altri. esponenti del
nazionalismo, a cominciare da Corradini - dalla letteratura alla
politica: proprio il Corradini lo rilevò, presentandolo
candidato alle elezioni del 1913. Per il F., abbandonata
l'esperienza letteraria, quella politica si concretizzò
dapprima nell'impegno giornalistico, quindi nell'attività
parlamentare e di dirigente politico. Come redattore del Giornale
d'Italia, si dedicò infatti ai problemi relativi alla
valorizzazione nazionale e all'esigenza espansionistica dell'Italia,
attraverso le inchieste, subito divenute famose, in difesa
dell'italianità del lago di Garda (1909) e della Dalmazia
(1910), e quindi nella campagna per la guerra di Libia, di cui fu
acceso sostenitore e per la quale fu inviato come corrispondente a
Tripoli e a Rodi. Al tempo stesso il F. prese attivamente parte alle
varie esperienze che sarebbero confluite nell'Associazione
nazionalista italiana (ANI), collaborando ai periodici IlCarroccio
(del cui programma fu tra i firmatari) e La Grande Italia, e,
soprattutto, impegnandosi nella preparazione del primo congresso
nazionalista, che si svolse a Firenze nel dicembre 1910, e del cui
comitato coordinatore fece parte con E. Corradini, V. Picardi, G.
Castellini.
Al congresso fiorentino (preceduto da vivaci polemiche, che videro
tra l'altro il F. battersi in duello con C. Treves, colpevole di
aver attaccato i nazionalisti in un articolo sull'Avanti!, 27 nov.
1910), il F. svolse la relazione sulla Politica delle alleanze, in
cui criticò duramente tutta la politica estera italiana dal
1896 al 1908: per il F., che non voleva mettere in discussione la
Triplice Alleanza ma la mancanza di metodi con cui era stata
gestita, il problema dei rapporti dell'Italia con gli altri paesi,
in primo luogo con l'Austria, si riduceva, in sintesi, a una
"formula semplicissima: essere forti". Al termine dell'assise da cui
fu fondata l'Associazione nazionalista italiana il F. venne eletto
membro del Consiglio centrale e della giunta esecutiva (con E.
Corradini, G. Gobbi, M. Maraviglia, L. Valli). Con E. Corradini, R.
Forges Davanzati, M. Mara viglia, F. Coppola, fondò nel marzo
1911 il settimanale L'Idea nazionale, del cui comitato direttivo
fece parte anche quando divenne quotidiano nel 1914 e di cui fu
direttore dal 1921 al 1922. Il F. era inoltre tra i dirigenti
dell'Associazione monarchica Re e patria, presieduta da O. Lepri.
Polemizzando con G. A. Borgese che, sulla Stampa del 18 giugno 1910,
aveva affermato di non capire cosa fosse il nazionalismo, il F.
definì il nuovo movimento politico non come semplice
patriottismo, ma come "patriottismo più qualche altra cosa",
il cui scopo era quello di suscitare una "coscienza nazionale
collettiva" e non "una riserva di forze per le occasioni
straordinarie": il problema delle terre irredente veniva in tale
senso considerato dal F. una "questione interna
dell'Austria-Ungheria" (IlGiornale d'Italia, 21 giugno 1910). Come
avrebbe affermato più avanti, in occasione della guerra di
Libia, il nazionalismo non intendeva affatto ripudiare il sentimento
irredentista, ma pretendeva che fosse disciplinato "in una rigorosa
e costante coordinazione con gli interessi generali
dell'italianità" (L'Idea nazionale, 1º giugno 1911).
Più che il problema dell'irredentismo, al F. premeva quello
del dominio e dell'espansione territoriale, in un'accezione che
vedeva il nazionalismo, come movimento di spinta egemonica verso
l'esterno, coniugato in maniera precisa con l'iniperialismo.
Nell'inchiesta promossa da P. Arcari su La coscienza nazionale in
Italia (Milano 1911) il F. affermò infatti come il problema
non fosse tanto "il dominio e la difesa della terra", ma piuttosto
"l'affermazione della gente", quindi "egemonia economica, espansione
coloniale, tendenza a estendere la propria particolare
civiltà a tutto il mondo": "La nuova generazione italiana, se
possederà la coscienza della sua missione storica, non
potrà essere che nazionalista e imperialista" (p. 82). Per
questo riteneva che la guerra di Libia avesse segnato il "fondamento
di un nuovo ciclo della storia d'Italia": all'interno essa aveva
significato "la rinascita del sentimento nazionale dopo un lungo
tempo di oscuramento e di dubbio", all'estero aveva riaffermato la
"potenza della nazione fuori dei suoi confini" (discorso
programmatico per le elezioni, Roma, 16 ott. 1913, in Presagi alla
nazione, p. 20).
A posteriori, nel libro di memorie Italia di ieri per la storia di
domani, il F., sottolineando come il nazionalismo fosse stato un
fenomeno nato dalle contraddizioni stesse dell'evoluzione nazionale
(quindi non di filiazione francese, essendo le sue matrici culturali
tutte italiane: Carducci, Oriani, D'Annunzio, Mosca, Pareto),
rivendicò la sua capacità di porre il problema
dell'inserimento dell'Italia in quella "gara" espansionistica aperta
tra le potenze già "quattro secoli innanzi e grazie agli
ideali del movimento nazionalista la nuova generazione aveva preso
"coscienza dei compiti che spettavano all'Italia nell'ambito delle
nazioni europee" e aveva affermato "una volontà" di potenza
che meglio rispondeva alle esigenze del momento" (P. 13). Ma il
nazionalismo non ebbe solo questo merito: esso, che non fu un
movimento "reazionario", fu "una forza politica di destra, operante
su un piano perfettamente costituzionale, per la salvaguardia
dell'ordine sociale e legale, e per il rinvigorimento dello spirito
patriottico del popolo italiano"; non utilizzò altri mezzi,
se non quelli elettorali (p. 15).
L'indirizzo antidemocratico e imperialista che caratterizzava il
gruppo dell'Ideanazionale provocòun dissidio con altri
dirigenti dell'ANI (S. Sighele, E. Rivalta, P. Arcari), che fu
definitivamente aggravato di fronte all'adesione alla politica
dell'estrema Destra data dall'Associazione attraverso lo stesso F.
(che si recò ad una riunione promossa dall'on. R. Gallenga
Stuart e dai parlamentari di destra), in occasione della lotta
contro il progetto governativo sul monopolio statale delle
assicurazioni. La frattura fra la corrente democratica e quella
conservatrice fu sancita dalla scissione avvenuta nel secondo
congresso dell'ANI, svoltosi a Roma nel dicembre 1912: il F.
nell'occasione firmò l'odg del gruppo dell'Ideanazionale,
contrapposto a quello del gruppo guidato da L. Valli (che con P.
Arcari si dimise dall'Associazione), in cui si ribadiva come il
nazionalismo dovesse opporsi alle "forze disgregatrici" e a "tutte
le tendenze internazionalistiche, sia sentimentali, sia
socialistiche, sia plutocratiche".
Il F. fu inoltre tra i firmatari di un odg di condanna della
massoneria, accusata di essere costantemente impegnata a "promuovere
e cementare i blocchi radicosocialisti" e di svolgere unazione
"essenzialmente disgregatrice nella vita naziohale". Un tema,
questo, sul quale tornò con violenta polemica nell'aprile
1913, quando sull'Idea nazionale aprìun'inchiesta sulla
presenza della massoneria nell'esercito, suscitata dalle dimissioni
del gen. G. Fara dall'Associazione, in cui sostenne l'assoluta
incompatibilità tra i due organismi, dovendo gli ufficiali
sottostare ad un'unica gerarchia (l'inchiesta proseguì con
articoli del F. e altri autori tra il maggio e il giugno e fu
pubblicata in volume nel 1924).
Nel marzo 1913 il Consiglio centrale dell'ANI approvò un odg
presentato dal F. con cui si permetteva ai gruppi locali di
appoggiare candidati dei partiti politici affini e si invitava a
prendere in considerazione la possibilità di presentare
candidati nazionalisti, come poi accadde nelle elezioni dell'ottobre
di quell'anno: a Roma le associazioni liberali presentarono infatti
tre candidati nazionalisti, D. Oliva, P. Foscari e L. Medici del
Vascello. Il Giornale d'Italia, che si schierò a favore dei
candidati radicali S. Borghese e L. Caetani, invitò Oliva,
suo redattore, a ritirare la candidatura. Oliva la ritirò, ma
si dimise dal quotidiano: nell'occasione anche il F. se ne
andò dal giornale e subentrò al posto di Oliva come
candidato nazionalista nel primo collegio della capitale.
Il F., per il quale l'ANI profuse tutto il proprio impegno e per la
cui campagna elettorale fu creato un comitato promotore presieduto
da Corradini, impostò il proprio programma elettorale nella
polemica contro la coalizione "bloccarda" e il sindaco di Roma E.
Nathan, accusato di governare la città per conto della
massoneria: presentandosi come "candidato del liberalismo", "del
patriottismo rinnovellato", "dell'Italia nuova, rivelatasi
improvvisamente sui campi gloriosi della Libia", chiedeva il voto
per affermare "insieme la sovranità dello Stato e la
libertà di tutte le credenze: la intangibilità della
Patria e della Famiglia, e insieme l'ascensione delle nuove classi
alla vita politica e sociale d'Italia" (Manifestodel candidato L.
Federzoni, in H. Ullrich, 1972, p. 112). Nella battaglia elettorale,
condotta contro il suo diretto antagonista, il socialista A.
Campanozzi e, soprattutto, contro il radicale Borghese, il F.
recuperò i consensi e i voti dell'elettorato cattolico, al
quale lo legava l'avversione a comuni nemici: gli anticlericali, i
massoni, i democratici, i socialisti, come puntualizzò nel
gennaio di quell'anno in un dibattito sui rapporti fra nazionalismo
e partito cattolico con F. Aquilanti, nel quale invitò i
cattolici a "superare gli ultimi scrupoli ed entrare francamente
nell'ambito nazionale" (L'Idea nazionale, 30 genn. 1913;
ildibattito, cui parteciparono anche F. Meda, F. Coppola ed E.
Martire, e che segnò un momento importante nel dialogo e
nell'unità d'azione politica tra nazionalisti e cattolici, fu
ripubblicato nel volumetto Nazionalisti e cattolici, Roma 1913). In
tal senso, nelle sue memorie il F. sottolineò come proprio al
movimento nazionalista spettasse il merito di aver svolto la
"funzione storica" di "accelerare l'entrata dei cattolici nella vita
politica italiana" (Italiadi ieri, p. 15).
Il primo scrutinio vide una netta vittoria del F., che raccolse
più di 1.800 voti contro i 300 previsti, e la clamorosa
esclusione dal ballottaggio del Borghese. Nel ballottaggio
F.-Campanozzi il primo - a favore del quale ora si schierarono
IlGiornale d'Italia, Roma e provincia, La Tribuna - vinsecon 4.321
voti, suscitando l'entusiasmo della stampa moderata e liberale,
mentre la soddisfazione dei cattolici (che in questa occasione
rinunciarono al non expedit, recandosi a votare apertamente per i
candidati nazionalisti F. e L. Medici del Vascello, anch'egli
eletto) fu espressa dal conte V. O. Gentiloni in un'intervista al
Giornale d'Italia (8 nov. 1913).
Nel suo primo discorso alla Camera dei deputati, l'11 dic. 1913, ad
Arturo Labriola che chiedeva perché i nazionalisti si fossero
seduti sui banchi di estrema destra, il F. rispose rivendicando in
tal senso le origini storiche del nazionalismo: "prima di tutto
perché affermiamo risolutamente l'antitesi del nostro
pensiero e dei nostri propositi in confronto di coloro che siedono
dalla parte opposta della Camera; e in secondo luogo perché,
qualunque sia la pochezza delle nostre forze, per la grandezza, per
la sincerità della nostra fede politica, sogniamo per lo meno
di richiamarci alla grande tradizione nazionale degli uomini, che su
questi banchi sedettero nei tempi classici del nostro Parlamento
nazionale" (in Presagi alla Nazione, pp. 53 s.).
Un'ulteriore definizione del movimento nazionalista avvenne al terzo
congresso dell'Associazione, svoltosi a Milano nel maggio 1914, che
vide l'uscita della componente liberale e l'emergere della figura di
A. Rocco. Fu in particolare con la relazione del F. e di M.
Maraviglia che venne posto il problema dell'autonomia del movimento
e della sua trasformazione in partito: il nazionalismo. "oltre ai
suoi massimi postulati morali", doveva avere "un programma di
politica positiva, necessariamente contingente, ed intervenire nella
lotta dei partiti, come partito esso stesso, con un'anima ed una
volontà propria". Occorreva quindi andare al di là
dell'intento di suscitare "nella coscienza popolare un'energia
nuova" e attuare invece un vero e proprio disegno politico: "fare
cioè una politica nazionalista" (in L'Idea nazionale, 14
maggio 1914).
La prima guerra mondiale divenne per i nazionalisti l'importante
occasione per attuare il proprio programma politico, in primo luogo
attraverso la propaganda per l'intervento a fianco dell'Intesa (in
proposito fu il F. a coniare la parola "pacefondai", in L'Idea
nazionale, 3 sett. 1914), quindi con la partecipazione diretta.
Volontario, il F. combatté come sottotenente di artiglieria e
come tenente bombardiere, guadagnandosi una medaglia d'argento sul
Carso e due croci di guerra al valore militare sul Piave. Nel maggio
1918 si sposò con Luisa Melotti Ferri.
Continuando a inviare dal fronte le proprie corrispondenze
all'organo nazionalista, il F. proseguì la battaglia politica
perché l'Italia si impegnasse fino in fondo nel conflitto,
sostenendo fermamente le rivendicazioni alpine e adriatiche. Nel
dicembre 1917partecipò alla costituzione del Fascio
parlamentare di difesa nazionale, fondato da M. Pantaleoni e G.
Preziosi, per la continuazione della guerra. Nell'aprile 1918 fece
parte della delegazione italiana al congresso di Roma dei popoli
oppressi dell'Impero austro-ungarico, dove i nazionalisti sostennero
la tesi della dissoluzione dell'Austria, senza però
rinunciare alle rivendicazioni italiane sulla Dalmazia. Dopo la fine
del conflitto, la mancata annessione di Fiume e la condotta del
governo Nitti sulla questione adriatica, quindi il trattato di
Rapallo, con la conclusione dell'avventura dannunziana, furono
motivi della lotta politica del F., che, anche nei discorsi alla
Camera, tra il 1919 e il 1921, denunciò la debolezza dello
Stato nella politica estera e in quella interna.
Rieletto deputato per la XXV., XXVI e XXVII legislatura, membro
della commissione permaiiente per l'Estero e le Colonie durante. la
XXV e la XXVI e dell'Interno durante la XXVII, nel marzo 1922 il F.
fu portato dal suo gruppo, insieme coi fascisti e coi liberali
nazionali, alla cagica di vicepresidente della Camera, acquistando
sempre più un peso di primo piano nella vita politica e
parlamentare italiana: la Destra liberale "si è identificata
col nazionalismo. Il suo capo non è più Salandra ma
Federzoni il quale domina anche il gruppo fascista", aveva
commentato infatti L. Albertini in una lettera a F. Ruffini dell'8
luglio 1921 (p. 1484).
La posizione politica del F. si era andata accostando a quella dei
fascisti, con i quali fu apertamente solidale - come lo
accusò G. Matteotti alla seduta della Camera del 22 nov. 1920
- in occasione dell'episodio di palazzo d'Accursio a Bologna, quando
affermò che il fascismo poteva essere lo strumento per
attuare uno Stato forte contro le tendenze "disgregatrici" e la
guerra civile minacciata dall'azione dei socialisti e per porre fine
alle "beghe settarie" e agli intrighi della politica italiana. Fu di
conseguenza tra i sostenitori della fusione tra il Partito nazionale
fascista (PNF) e l'ANI (e tra i membri della commissione mista che
tra il gennaio e il febbraio 1923 definì i rapporti tra i due
partiti e le modalità della fusione), di cui si iniziò
a discutere proprio con un suo articolo sull'Idea nazionale del 17
nov. 1921. Rispondendo a un'intervista di C. M. De Vecchi sul
medesimo giornale, in cui l'esponente fascista aveva sostenuto che
il fascismo aveva innestato "molte fronde nuove" sul pensiero
nazionalista, il F. riconobbe le "benemerenze del fascismo quale
rintuzzatore strenuo dell'assalto bolscevico in tanta parte
d'Italia", ma ribadì la forza del nazionalismo per la sua
"dottrina chiaroveggente e costruttrice" e per la sua "disciplina
rigorosamente selettiva": il partito fascista se doveva acquistare
la consistenza di un "partito politico" non avrebbe potuto farlo se
non "identificandosi col nazionalismo". Con la fusione tra i due
partiti - scrisse col senno di poi - si sperava di poter esplicare
nei confronti del fascismo "un'influenza moderatrice e educatrice"
(Italia di ieri, p. 87).
Per queste convinzioni e nell'ottica della necessità di
salvare il paese da quella che definiva una guerra civile, il F.
svolse un ruolo di primo piano nel periodo che precedette la marcia
su Roma, impegnandosi dapprima per una soluzione governativa
Salandra-Mussolini, quindi svolgendo un'opera di mediazione con lo
stesso Mussolini, purché fosse salva la prerogativa della
monarchia: la posizione del F. e dei nazionalisti, sostenuti dalla
propria milizia, i "Sempre pronti per la patria e per il re", fu
infatti quella di schierarsi con Vittorio Emanuele III, sia se
questi avesse chiamato Mussolini al governo, sia se avesse deciso di
firmare lo stato di assedio. Questo il F. annunciò al re la
notte tra il 27 e il 28 ottobre, quando si recò da lui tra un
incontro e l'altro del primo ministro L. Facta, il quale aveva
portato al sovrano le proprie dimissioni e prospettato la
necessità di firmare lo stato d'assedio, votato dal Consiglio
dei ministri. Nella notte stessa, il F. fu convocato al Viminale dal
ministro V. Russo per mettersi in contatto con Mussolini nella sede
del Popolo d'Italia a Milano e convincerlo a ritornare nella
capitale.
In merito le notizie sono discordanti: non è chiaro se il F.
abbia telefonato una o più volte e se abbia prospettato a
Mussolini la formazione di un governo Salandra o la minaccia del re
di abdicare, ovvero se il suo impegno fosse volto verso la soluzione
di un governo guidato da Mussolini o verso un'ipotesi diversa.
Scrivendo al direttore della Gazzetta del popolo il29 ott. 1928, per
rettificare quanto era stato scritto in un articolo commemorativo
della marcia su Roma, in cui si sosteneva che il F. nella sua
telefonata a Mussolini aveva affacciato l'ipotesi di un compromesso
con Salandra, lo stesso F. puntualizzò di avere in
quell'occasione informato il capo del fascismo che il decreto per lo
stato d'assedio "era stato annullato dal rifiuto della sanzione
sovrana" e che Mussolini gli aveva chiesto, date le
difficoltà delle comunicazioni telefoniche, di informarne il
suo quartier generale a Perugia, il che egli fece immediatamente,
comunicando con C. M. De Vecchi (Arch. centrale dello Stato, Segr.
part. del duce, Cart. ris., b. 5, fasc. 82/R, Sottof. 2). Versione
confermata in una lettera al Giornale d'Italia del 3 marzo 1956 e
nel suo libro di memorie, ma che contrasterebbe con la
possibilità che a quell'ora (le 5 del mattino del 28 ottobre)
il F. fosse a conoscenza del rifiuto sovrano di firmare le stato
d'assedio.
Quando Mussolini ebbe l'incarico dal re per formare il governo, dopo
il fallito tentativo di Salandra nel corso dello stesso giorno 28,
al F. venne affidato il dicastero delle Colonie: fu proprio la
"provenienza nazionalista" a indurlo ad accettare "un governo forte
ma rigorosamente costituzionale e legalitario" e ad impegnarsi per
"un'azione normalizzatrice" (Italia di ieri, p. 257). Tale fu
infatti il ruolo del F., importante anello di mediazione tra la
Corona e il governo fascista, che si esplicò particolarmente
al momento della crisi Matteotti, quando il 16giugno 1924 fu
nominato ministro dell'Interno, nonostante egli, con i ministri G.
Gentile, A. De Stefani e A. Oviglio, avesse messo a disposizione il
proprio portafoglio. Sembrò in quella fase - secondo le
testimonianze dei contemporanei, quali F. Turati e A. Kuliscioff, o
secondo gli avversari del F. interni al fascismo, come risulta da un
opuscolo circolato nel 1925, Il fascismo nella crisi attuale, s.l.
né d. - che il F. mirasse a succedere a Mussolini: ma nel
Consiglio dei ministri del 30 dic. 1924, quando i liberali G.
Sarrocchi e A. Casati avanzarono l'ipotesi delle dimissioni di
Mussolini, il F., "che Sarrocchi imprudentemente aveva designato
come possibile successore di Mussolini, si oppose vivacemente",
insieme coi ministri militari, A. Di Giorgio e P. Thaon di Revel (A.
Salandra, Memorie, p. 67).
L'azione "normalizzatrice" del F. fu volta in primo luogo contro il
dilagare delle violenze squadriste, per arginare le quali
impartì ai prefetti in diverse occasioni ordini tassativi di
intensificare la vigilanza nei loro confronti e di reprimere il
risorgere organizzativo, e, successivamente, dopo i gravi disordini
di Firenze dell'ottobre 1925, di procedere allo scioglimento
"immediato" di qualsiasi formazione squadrista. Nella direzione di
limitare l'azione e il potere dei gerarchi fascisti nella vita
locale andava anche l'estensione delle attribuzioni dei prefetti,
approvata dal Consiglio dei ministri nell'ottobre 1925 e divenuta
legge il 3 apr. 1926. In questa sua opera contro lo squadrismo e le
forme di rassismo all'interno del regime, il maggiore obbiettivo del
F. fu rappresentato da R. Farinacci, divenuto segretario del PNF nel
febbraio 1925, che, oltre ad adoperarsi nella ficostituzione delle
squadre in quella che fu detta "seconda ondata", contrastò
come possibile il F., per sorvegliare il quale fece tra l'altro
nominare sottosegretario all'Interno A. Teruzzi, in sostituzione di
D. Grandi, ritenuto troppo vicino al ministro.
Dopo il 3 genn. 1925 (un colpo di Stato "fatto principalmente contro
di me", scrisse, che rappresentò "una vittoria della frazione
intransigente", come dimostrava la successiva nomina di Farinacci;
Italia di ieri p. 99) si intensificò l'opera di repressione
nei confronti dell'opposizione al fascismo, anzitutto con l'ordine
ai prefetti, impartito dal F. lo stesso 3 gennaio, della "chiusura
di tutti i circoli e ritrovi sospetti dal punto di vista politico",
dello "scioglimento di tutte le organizzazioni che sotto qualsiasi
pretesto possano raccogliere elementi turbolenti o che comunque
tendano a sovvertire i poteri dello Stato", della "vigilanza dei
comunisti e sovversivi che dieno prova o sospetto di attività
criminosa", ammonendo al tempo stesso i medesimi prefetti - come
affermava in un telegramma dello stesso giorno - di
"inderogabilmente riservare alle autorità legittime" l'azione
di repressione e di prevenzione (Arch. centrale dello Stato, Min.
Interno, Gabinetto, Ufficiocifra, Telegrammi in partenza). L'azione
repressiva del regime, che vide il F. impegnato in prima persona, fu
volta quindi contro la libertà di stampa, sia con i decreti
fortemente restrittivi del luglio 1924, sia soprattutto con le norme
sulla stampa periodica, attraverso la legge del 31 dic. 1925; mentre
già nel corso di quell'anno il F. aveva impartito ai prefetti
varie direttive relative al sequestro di giornali contenenti
articoli concernenti scandali locali o che avessero a che fare con
la criminalità.
All'opera del F. come ministro dell'Interno furono dovute inoltre le
leggi relative all'istituzione del Governatorato di Roma e dell'Alto
commissariato di Napoli, alla creazione dell'Opera nazionale per la
protezione e assistenza della maternità e dell'infanzia e
dell'Opera nazionale balilla, all'istituzione del podestà e
della Consulta municipale, la nuova legge di pubblica sicurezza,
nonché varie leggi per la difesa e il miglioramento
dell'igiene pubblica.
I tre attentati compiuti contro Mussolini nel corso del 1926, che
contribuirono a rinvigorire l'azione repressiva del fascismo,
già inaspritasi a seguito della scoperta del complotto
Zaniboni nel novembre 1925, misero sempre più in
difficoltà lo stesso F., contro il quale andava aumentando
una campagna denigratoria fatta tanto di lettere anonime e di
minacce, quanto di polemiche esplicite nei confronti della sua
inefficienza. Questo nonostante che, per altro verso, la
sostituzione di Farinacci e la nomina di A. Turati alla segreteria
del PNF nel marzo 1926 avessero segnato una sua vittoria nei
confronti del fascismo intransigente e nonostante ancora che egli
fosse riuscito a far nominare capo della polizia A. Bocchini in
sostituzione di F. Crispo Moncada.
In una lettera inviata a Mussolini dopo l'attentato di Violet
Gibson, datata 16 aprile, il F. pose fermamente "il problema della
difesa" della vita dei capo del fascismo, dal momento che a suo
avviso fi regime non aveva "ancora raggiunto condizioni intrinseche,
non che di stabilità, di vitalità", e la sua sola
"garanzia di vita e di sviluppo" era rappresentata dallo stesso
Mussolini. Una convinzione del ruolo centrale e unico di Mussolini,
che il F. aveva espresso già precedentemente, in una lettera
del 26 maggio 1925 in cui, invitandolo a pensare seriamente alla
propria salute, aveva affermato: "A inutile illudersi: il Fascismo
ti offre in vari di noi, uomini del governo o del partito, dei buoni
pezzi diricambio per la macchina che tu devi regolare; ma nessun
altro macchinista!". Ora, con l'attentato della Gibson, il F.
rimetteva l'incarico di ministro dell'Intemo, nella convinzione di
aver compiuto il proprio "ciclo": "Eliminato Farinacci - scriveva il
16 apr. 1926 -, l'interesse massimo del Regime è ricomporre
totalmente nella politica interna l'unità e l'armonia. Trova
un "Cavallero" per il Viminale, e riprendi il portafogli
dell'Interno. Ciò metterebbe fine, una volta per sempre,
all'inevitabile trascinarsi delle chiacchiere provinciali contro il
Viminale, riconducendo la politica interna, attraverso l'opera di un
diretto esecutore, sotto l'autorità insostituibile e
indiscutibile del capo ... Pacifica il Fascismo! I tentativi
dissennati di questi giorni, risuscitando l'assurdo pretesto di
un'antitesi fra Fascismo intransigente e Viminale "normalizzatore",
sfruttanoun equivoco pericoloso per l'opera dei bravi camerati che
hai chiamati alla direzione del Partito ... Bisogna togliere
l'impressione che il Ministero dell'Interno abbia vinto il Partito"
(Arch. centrale dello Stato, Segr. part. del duce, Cart. ris., b. 5,
fasc. cit.).
Mussolini, che non accettò le dimissioni del F., le accolse
invece dopo l'attentato di Bologna del 28 ottobre, assumendo egli
stesso l'interim dell'Interno, nel corso dello stesso Consiglio dei
ministri del 5 novembre, in cui vennero approvati i provvedimenti
proposti dal F. relativi alla soppressione della stampa di
opposizione, allo scioglimento di tutti i partiti a eccezione di
quello fascista, all'istituzione del confino di polizia e
all'impossibilità di espatriare, che segnarono la definitiva
liquidazione dello Stato liberale. Pur indebolendo la posizione
della Destra del regime e il potere che rischiava di assumere il F.,
Mussolini non volle rinunciare alla copertura che egli gli forniva
nel rapporto con il re e con alcuni gruppi di senatori e lo
nominò nuovamente ministro delle Colonie. In quel periodo
inoltre il F. svolgeva un importante ruolo di mediazione tra governo
e S. Sede per l'avvio del processo di conciliazione, partecipando -
tra la primavera e l'estate del 1926 - a colloqui con l'avv. Fr.
Pacelli e il card. G. De Lai.
Riprendendo il proprio incarico, il F. inviava a Mussolini un
documento in cui faceva, con "scarso ottimismo", il punto della
situazione, soprattutto a causa della non piena consapevolezza del
ruolo svolto dal suo ministero: le colonie, invece, dovevano essere
considerate "strumento e base di una più vasta e molteplice
espansione dell'influenza dell'Italia nel mondo" e la politica
coloniale, pur conformata alle direttive della politica estera,
doveva fissare "la propria sfera di autonomia e di
responsabilità"; obiettivi che il F. vedeva lontani, data la
"cronica deficienza numerica e qualitativa del personale
dell'Amministrazione coloniale", e, come fece notare in successive
missive, data la ristrettezza del bilancio previsto, in merito al
quale discusse in più occasioni col ministro delle Finanze G.
Volpi (Ibid., Segr. part. del duce, Cart. ris., b. 23, fasc. 224/R,
sottof. 1).
L'attività del F. come ministro delle Colonie (della cui
difficoltà si era già avuto sentore precedentemente,
nel luglio 1923, quando a sua insaputa venne nominato governatore
della Cirenaica C. M. De Vecchi) si esplicò in due fasi, tese
entrambe, in linea con la propria formazione nazionalista,
all'affermazione di una politica espansionista e al rafforzamento
della "coscienza coloniale" degli Italiani, attraverso l'impulso
all'opera di studiosi e istituti. Nel primo periodo (ottobre
1922-giugno 1924), col F. vennero portate a conclusione una serie di
manovre militari in Tripolitania, con la riconquista di Misurata,
della Gefara e della Ghibla, e in Cirenaica, con la denuncia degli
accordi con la Senussia e l'occupazione di Agedabia. Nel secondo
periodo (novembre 1926-dicembre 1928) furono compiute operazioni
militari al fine del ricongiungimento territoriale delle due colonie
libiche e per l'occupazione della regione sirtica, mentre venne
ripresa l'attività repressiva contro la guerriglia senussita
nell'altipiano cirenaico. Le direttive della sua politica coloniale
prevedevano un radicale riordinamento amministrativo, la
ristrutturazione dei corpi coloniali, la valorizzazione delle
risorse naturali ed economiche, un processo di colonizzazione
razionale.
Nel corso della prima metà del 1927 il F. scrisse un diario
(tre quaderni dal 1º gennaio al 20 aprile) da cui emergono con
chiarezza i suoi disagi e la scarsa importanza che a suo avviso
veniva attribuita alla propria funzione, sia a causa di vere e
proprie scortesie, sia per l'inadeguatezza dei fondi concessi al
bilancio del ministero, sia per l'errata valutazione delle manovre
militari. Ma emerge anche un quadro del regimefascista a quella data
denso di contrasti e di insoddisfazioni: dagli sfoghi di Corradini,
per il quale "il sogno era più bello che non sia oggi la
realtà" (20 gennaio), a quelli di Gentile, secondo il quale
il regime non era "abbastanza arioso" (16 febbraio), di Bocchini,
"stanco, esasperato, sbandato, per la guerra sorda che gli fanno
quasi tutti i componenti del Direttorio del Partito" (3 marzo), di
Suardo sui conflitti in merito alla politica finanziaria tra Volpi
da una parte e Ciano, Giuriati e Belluzzo dall'altra (5 marzo), o
ancora agli attriti tra Badoglio e Cavallero. Emblematiche in tale
senso le "espansioni pessimistiche" manifestate dall'"amico
professore P. P." alla data 22 febbraio: "La solita roba: la
congiura di Balbo, la minaccia alla Monarchia, il colloquio
novissimo di S. M. col Duca d'Aosta, il marasma finanziario, la
crepa nel Fascismo fra ortodossi e repubblicaneggianti ecc. ecc. Lo
calmo.... Il fenomeno grave è unicamente questo, commentava
il F.: l'atmosfera di sospetti e di timori che si è andata
creando, e in cui anche i [fidi] e gli intelligenti finiscono per
perdere la testa, di quando in quando" (1927. Diario..., p. 106).
L'incarico del F. durò fino al dicembre 1928: il 22 novembre
era stato nominato senatore e il 30 aprile successivo divenne
presidente del Senato, carica che mantenne fino al 1939.
Nel dicembre 1928 era stata discussa la legge sull'ordinamento e le
attribuzioni del Gran Consiglio, con la quale, oltre ad inserire il
massimo organismo fascista tra gli organi costituzionali dello
Stato, veniva limitata la prerogativa della Corona sia per quanto
riguardava la scelta del capo del governo, sia mettendo un'ipoteca
sul meccanismo della successione al trono, e che per tali motivi
trovò l'opposizione degli elementi monarchici ed ex
nazionalisti, a cominciare dal F. (secondo il quale le legge fu
fatta contro l'erede al trono. il principe di Piemonte, notoriamente
"ostile" al fascismo: Italia di ieri, p. 225). Sembra che il re, in
proposito, più che intervenire personalmente, avesse fatto
agire proprio il F. al fine di ottenere modifiche al testo della
legge: questo spiegherebbe perché il 16 dicembre Mussolini
fece dimettere il F. da ministro (De Felice, 1968, p. 310) e
perché precedentemente, prima che la legge venisse in
discussione, avesse tentato di convincerlo, in una lettera del 23
agosto, ad assumere la carica di governatore di Roma,
promettendogli, come "prova della mia amicizia per te", di
continuare a far parte del Gran Consiglio (Arch. centrale dello
Stato, Segr. part. del duce, Cart. ris., b. 5, fasc. 82/R, sottof.
2; del Gran Consiglio il F. divenne membro permanente in
virtù del decreto in questione del 21 genn. 1929).
Nel secondo decennio del regime il F. - che nel 1932 venne insignito
del collare dell'Annunziata -, oltre che nella importante carica di
presidente del Senato, fu impegnato nell'attività e
nell'organizzazione culturale: in primo luogo come direttore, dal
1931, della Nuova Antologia, di cui era redattore capo A. Baldini;
quindi come presidente, dal marzo 1938, dell'Accademia d'Italia; dal
1935 era stato nominato presidente del Consiglio nazionale delle
accademie e socio dell'Accademia dei Lincei; tra il 1929 e il 1931
era stato presidente dell'Istituto di studi romani; dal 1937 fu
presidente dell'Istituto fascista dell'Africa italiana. Nel 1938
divenne presidente dell'Istituto della Enciclopedia Italiana. Il suo
impegno culturale si esplicò in varie altre forme, dalla
direzione della collana "Grandi italiani" della UTET alla presidenza
dei Comitato per l'edizione naz. di G. Carducci presso Zanichelli,
dalla prefazione di opere (Italia Roma e Papato nelle discussioni
parlamentari dal 1860 al 1871, a cura di B. Mussolini, Roma 1929;
Dal Regno all'Impero, ibid. 1937) alla cura di scritti e iniziative,
a numerosi discorsi e inaugurazioni ufficiali.
La sua posizione politica, nonostante questi incarichi ufficiali lo
portassero a compiere un'opera di primo piano di supporto culturale
al regime - sotto la sua presidenza, ad esempio, l'Accademia
d'Italia intensificò la propria attività a sostegno
della politica estera e interna del fascismo, mentre egli stesso
compi nell'estate del 1937 un viaggio di tipo propagandistico in
America Latina -, con il volgere del decennio si distaccò
sempre più dalle idealità e dalla realtà del
regime. Anzitutto proprio attraverso la sua esperienza di presidente
del Senato. nei confronti del quale andava constatando i reiterati
tentativi di Mussolini, a partire dal 1932-34, di distruggerne il
prestigio e giungere all'abolizione del sistema bicamerale, per
mezzo dei vari progetti di riforma istituzionale: il F. invece tese
sempre a ribadirne - come affermò all'inaugurazione della
XXIX legislatura, il 30 apr. 1934 - "la inesauribile
vitalità, meglio, la insostituibile funzione", in quanto
"emanazione diretta della monarchia". Uno degli ultimi episodi di
sopraffazione dell'autorità del Senato fu segnato dalla
nomina per acclamazione, ottenuta dai deputati fascisti con una
"tecnica perfetta di sperimentati gangsters", di Mussolini a primo
maresciallo dell'Impero (Italia di ieri, p. 175).
L'opposizione del F., che si era già manifestata in occasione
della guerra di Etiopia, cui, con personaggi come De Stefani e
Volpi, era contrario, anche se in un secondo momento cambiò
atteggiamento, si iniziò a definire maggiormente man mano che
maturava l'alleanza con la Germania. Secondo le sue memorie
già dal '37 cominciò a coagularsi un gruppo, formato
oltre che da lui dai quadrumviri Balbo, De Bono, De Vecchi e da De
Stefani e Grandi, favorevoli ad un ritorno al programma
costituzionale precedente al 1922. Contrario alle leggi razziali,
sulle quali si pronunciò negativamente, assieme a Balbo, De
Bono, De Stefani e Acerbo, al Gran Consiglio dell'ottobre 1938 (gli
scriveva in proposito A. De Stefani, l'8 ottobre: "ho molto
apprezzato ieri sera il tuo intervento contro i provvedimenti
razziali che ha così efficacemente rappresentato il nostro
pensiero ed ha servito, se non altro, a contenere i più
pericolosi sviluppi"), e, soprattutto, all'entrata in guerra
dell'Italia, il F. conquistò una posizione che lo fece
considerare tra i possibili successori di Mussolini: tra l'ottobre e
il dicembre del '42, secondo le testimonianze di A. Pirelli, P.
Calamandrei, E. Caviglia, circolarono insistentemente voci di
governi da lui presieduti o sotto la sua egida.
Dopo lo sbarco angloaniericano in Sicilia il 10 luglio 1943,
centrale fu di conseguenza la sua collaborazione con D. Grandi per
l'elaborazione di quell'ordine del giorno che nella seduta del Gran
Consiglio della notte tra il 24 e il 25 luglio avrebbe portato alla
caduta di Mussolini.
Quanto affermò Grandi, illustrando la propria mozione
(secondo il resoconto della riunione che lo stesso F. stese a casa
sua insieme con G. Bottai, G. Bastianini, A. Bignardi, la mattina
del 25), sintetizza la posizione del medesimo F. e l'evoluzione di
certi gruppi intellettuali di matrice reazionaria che avevano
appoggiato l'avvento del fascismo al potere, e che se ne erano
distaccati di fronte al degenerare della dittatura mussoliniana: "il
Fascismo dei secondo decennio - rilevò infatti Grandi - nulla
ha a che fare col Fascismo del primo decennio, così come
nulla ha a che fare il Mussolini del secondo decennio col Mussolini
che i fascisti della vigilia elessero loro Capo nel 1919, nel 1920,
nel 1921, e. che, quale Capo del Governo e Primo Ministro del Re,
portò l'Italia ad essere il Paese ammirato e invidiato da
tutti i visitatori e osservatori stranieri" (App. a Italia di ieri,
pp. 288 s.). In linea con queste convinzioni, nella seduta del Gran
Consiglio il F. dichiarò che con l'odg Grandi si metteva fine
all'"intollerabile equivoco delle masse travestite in camicia nera"
e a quel "falso mito della" "guerra fascista" che aveva accelerato
"il distacco fra il Paese e il Fascismo": perché questa era
stata la grave colpa del regime, l'aver spinto il paese alla guerra
e il non aver provveduto "alla preparazione spirituale e materiale
della Nazione", avendo con la politica del partito, "principalmente
negli ultimi otto o dieci anni", mirato soprattutto a "dividere gli
Italiani" (ibid., pp. 298 s.).
Dimessosi dalle cariche di direttore della Nuova Antologia e di
presidente dell'Accademia d'Italia subito dopo il 25 luglio, il F.
(rifugiatosi nell'ambasciata del Portogallo presso la S. Sede a
Roma) fu accusato di alto tradimento al processo di Verona e
condannato a morte in contumacia. Alla fine della guerra fu
processato assieme a Bottai, Rossoni e Acerbo, unico presente,
dall'Alta Corte di giustizia per il suo passato fascista e
condannato all'ergastolo nel maggio 1945 (fu amnistiato nel dicembre
1947). Latitante, dopo esser stato nascosto nel Pontificio Collegio
ucraino S. Giosafat a Roma, fuggì dall'Italia e tra il maggio
1946 e l'aprile 1948 visse sotto falso nome in America Latina.
Nell'aprile 1948 poté rientrare in Portogallo, dove
insegnò storia dell'umanesimo all'università di
Coimbra e nel 1949 letteratura italiana all'università di
Lisbona.
Tornò in Italia definitivamente, dopo un viaggio nell'estate
1948, nel 1951 e si ristabilì a Roma con la famiglia.
Impegnato nello studio della recente storia d'Italia (fece tra
l'altro parte del Comitato di divulgazione storica dell'Unione
monarchica italiana) e nella scrittura delle proprie memorie, il F.
mantenne in questi anni uno stretto rapporto di amicizia e di
collaborazione con Umberto di Savoia, sia durante la sua permanenza
in Portogallo, sia dopo il rientro in Italia: in particolare - come
dimostrano le minute dell'ampia corrispondenza conservata
nell'archivio personale - gli inviava informazioni e notizie
relative alla situazione politica italiana, ai vari partiti e
soprattutto al partito monarchico.
Il F. morì a Roma il 24 genn. 1967.