da
Gramsci
le sue idee nel nostro tempo
Editrice l'Unità, Roma 1987
Senso comune e filosofia
Quello del «senso comune» è uno dei grandi temi
che Gramsci, fin dall'inizio dei Quaderni del carcere (febbraio
1929), si propose di scrutare e mettere a fuoco in tutte le sue
attinenze e nella sua rilevanza politica. Non a caso esso attraversa
gran parte della sua meditazione carceraria. L'odierno esteso uso
del termine, almeno in Italia, nel linguaggio politico, si
può dire che è stato largamente influenzato dalla
diffusione postuma del pensiero di Gramsci.
L'espressione «senso comune» è di origine
filosofica (come ognuno può riscontrare consultando un
qualsiasi Dizionario di filosofia, o una storia della filosofia
moderna). Il confronto con la tradizione filosofica rimane una
costante essenziale delle osservazioni di Gramsci in proposito, ma
non allo scopo di proseguirla, bensì di trasformarla
profondamente immettendo la nozione di «senso
comune» nel discorso politico, appunto; cioè
costituendola in categoria della scienza politica, interpretativa
della realtà sociale e in pari tempo operativa.
Gramsci osserva che famosi filosofi (per esempio Immanuel Kant o
Benedetto Croce) si sforzano di far apparire le loro filosofie in
accordo col cosiddetto «senso comune» (o anche
«buon senso»), inteso come atteggiamento di opinione
(«opinione media») degli uomini, spontaneo e naturale.
La prima mossa di Gramsci è di denaturalizzare quella
nozione (che gli appare rozzamente naturalistica perfino in un
idealista come Giovanni Gentile), cioè di storicizzarla
radicalmente. La seconda mossa di Gramsci è di relativizzarla
non solo diacronicamente, lungo il corso storico delle
società umane (quel che ieri era «senso comune»
oggi non lo è più e viceversa) ma anche
sincronicamente, rispetto alle diverse stratificazioni (classi e
gruppi sociali) di una medesima società: nella quale
può coesistere e anche confliggere una pluralità di
«sensi comuni».
La formulazione più matura di ciò si trova espressa
nel Quaderno 24 (1934): «Ogni strato sociale ha il suo 'senso
comune' e il suo 'buon senso', che sono in fondo la concezione della
vita e dell'uomo più diffusa. Ogni corrente filosofica lascia
una sedimentazione di 'senso comune': è questo il documento
della sua effettualità storica. Il senso comune non è
qualcosa di irrigidito e di immobile, ma si trasforma continuamente,
arricchendosi di nozioni scientifiche e di opinioni filosofiche
entrate nel costume. Il 'senso comune' è il folclore della
filosofia e sta sempre di mezzo tra il folclore vero e proprio
(cioè come è comunemente inteso) e la filosofia, la
scienza, l'economia degli scienziati».
In tale concezione si innesta quella che possiamo chiamare la terza
mossa di Gramsci, per la quale la nozione di «senso
comune» si fa operativa nella pratica. Gramsci prende spunto
da una osservazione di Marx, in un luogo del Capitale (su cui
aveva già richiamato l'attenzione il Croce), ove viene
affacciata l'idea che un determinato progresso scientifico (nella
fattispecie: della critica dell'economia politica, in ordine alla
teoria del valore) è storicamente possibile allorché
«il concetto di uguaglianza umana possegga già la
solidità di un pregiudizio popolare». Gramsci
generalizza questo modo di vedere proiettandolo nella sua
rappresentazione dell'azione politica e rivoluzionaria. Una nuova
concezione può aver resultati incisivi se riesce ad agire
anche nella sfera del senso comune, «modificare l'opinione
media di una certa società», addirittura produrre
«nuovi luoghi comuni».
In rapporto a ciò è da vedere anche l'ardita
problematica svolta da Gramsci intorno alla nozione di
«conformismo». «Esistono molti 'conformismi',
molte lotte per nuovi conformismi [...]». (Quaderno 15, 1933),
nel quadro strategico complesso «del rinnovamento
intellettuale e morale» (che non può essere
«simultaneo in tutti gli strati sociali»). Tutte
questioni da riportarsi ai grandi parametri gramsciani relativi
al tema «spontaneità e direzione», all'interno
del discorso sulla «egemonia».
Cesare Luporini
filosofo
*
da
Dominique Grisoni, Robert Maggiori
Guida a Gramsci
BUR, Milano 1975
SENSO COMUNE
«Il senso comune è ...la "filosofia dei non filosofi"
cioè la concezione del mondo assorbita acriticamente dai vari
ambienti sociali e culturali in cui si sviluppa
l'individualità morale dell'uomo medio» (MS, EI p. 119,
ER p. 139). In prima istanza, per Gramsci il senso comune si
contrappone alla filosofia, cioè a quell'ordine intellettuale
che costituisce una «unità» e una
«coerenza» nella coscienza individuale, perché
non si fonda su una riflessione critica, su una problematizzazione.
Il senso comune è caratterizzato dunque, immediatamente, da
una adesione totale e illimitata a una concezione del mondo
elaborata estrinsecamente, che si manifesta in un atteggiamento
cieco e in una obbedienza irrazionale a principi e precetti
indimostrabili e «non-scientifici». Si muove nell'ambito
delle fedi e delle credenze, è quasi una religione.
Ma, più esattamente, che cos'è questa «filosofia
dei non filosofi», che differisce anche radicalmente dalla
filosofia? Il non filosofo, che del resto è un filosofo che
si ignora (cfr. filosofo), è un individuo che non è
stato educato, che non ha e non può ancora avere una chiara
coscienza della realtà. Tuttavia egli lavora, cioè
«agisce sul mondo» e lo trasforma. Ogni azione pratica,
ogni trasformazione del reale passa necessariamente attraverso una
conoscenza, anche empirica, del mondo e-sterno, che si radica nel
rapporto attivo fra la conoscenza e il reale. Il senso comune
contiene elementi positivi che si fondano su una conoscenza parziale
della realtà (parziale nel senso che non è
concettualizzabile né teorizzabile) ma che costituisce
comunque una conoscenza.
È dunque una «filosofia», ma una filosofia senza
metodo, senza unità dialettica fra teoria e pratica, una
sorta di mosaico «disgregato, incoerente, inconseguente,
conforme alla posizione sociale e culturale delle moltitudini di cui
esso è la filosofia» (MS, EI p. 119, ER p. 139). Il
senso comune, che costituisce una sorta di fede, è un
aggregato composito di elementi eterogenei mutuati dall'esperienza
individuale e da una concezione del mondo mal assimilata. Spesso
viene definito «realistico» perché si richiama al
«prodotto immediato della sensazione grezza» (MS, EI p.
120, ER p. 140), alla reazione «istintiva» o
«intuitiva» che non è risultato di un'analisi
concreta e ragionata, ma di una «impressione generale»
spontanea.
Tuttavia, come Gramsci indica, il senso comune si fonda, si elabora
e si costituisce su un terreno ideologico estraneo all'insieme delle
conoscenze da cui deriva. Non è dunque
«innocente» o neutrale, ma ha una precisa funzione:
assume una filosofia prodotta da uno strato di intellettuali legati
alla classe dominante, la fa propria meccanicamente, l'adatta ai
propri bisogni immediati e la innalza a norma di vita, a principio
morale, a «ordine del mondo». Ha dunque la funzione di
verità assoluta perché sembra sorta direttamente dalla
massa, dal «buon senso» popolare. Riferirsi a questa
coscienza ideale o buona coscienza, custode popolare della saggezza
e delle «verità eterne» equivale a riferirsi
indirettamente alla concezione del mondo della classe dominante di
cui il senso comune è il riflesso alterato.
Non solo: nel senso comune, secondo Gramsci, «si può
trovare ciò che si vuole». L'analisi della sua
composizione, oltre all'aspetto disomogeneo che testimonia i diversi
elementi che ha preso a prestito dalla «realtà»
presente, rivela anche una serie di strati culturali sovrapposti che
sono sopravvivenze arcaiche di elementi del passato conservati e
integrati, fra i quali si rendono evidenti «elementi
religiosi», residui di superstizioni di origine scientifica
ecc. Ma ciò che è soprattutto interessante rilevare in
questa composizione è che il senso comune è una
realtà anch'essa evolutiva e un prodotto storico. Da un lato,
non è immutabile e permanente, ma si trasforma e quindi non
c'è più un senso comune, ma più d'uno. Esso si
trasforma, cioè un senso comune si sostituisce a un altro o,
in altri termini, aderisce fedelmente alle modificazioni della
struttura sociale e accoglie la concezione del mondo della nuova
classe che, di volta in volta, è diventata dirigente e ha
sostituito quella che deteneva precedentemente il potere. Ma il
senso comune resiste all'«intrusione» di una nuova
filosofia, e la sostituzione non è né immediata
né totale e, per un certo periodo, il nuovo senso comune
coesiste con l'antico. Di qui, la pluralità, la
disparità le cui cause, oltre che di ordine storico, sono
anche di ordine formale e sono funzione del gruppo sociale nel quale
si radica il senso comune: c'è un senso comune contadino, un
senso comune operaio ecc.
Quando dice che «il senso comune è il folklore della
filosofia», Gramsci non solo allude alle sue
«innumerevoli forme», alla sua pseudo-razionalità
e alla sua struttura stratificata (sovrapposizione di elementi
mutuati da filosofie del passato) ma lo oppone a un'altra
realtà alla quale spesso lo si vuole assimilare: il
«buon senso». Il buon senso è infatti un
atteggiamento della coscienza, un «superamento delle passioni
bestiali ed elementari, ... in una concezione della necessità
che dà al proprio operare una direzione consapevole»
(MS, EI p. 7, ER p. 8), è il «nucleo sano» del
senso comune, l'elemento originale che non è stato inficiato
da apporti culturali successivi di filosofie straniere, un nucleo
che è opportuno sviluppare per renderlo unitario e coerente.
Il senso comune, questo «concetto equivoco, contraddittorio,
multiforme», deve essere superato; tale superamento è
uno degli scopi della filosofia della prassi. Esso si oppone alla
presa di coscienza delle masse e le sottopone al dominio
intellettuale della classe dominante la quale, in forza di
prodigiose inversioni, è riuscita a far diventare la sua
filosofia «senso comune», a fondare la sua concezione
del mondo come «filosofia del popolo», a fare in modo
che gli schiavi si credano liberi perché il padrone è
diventato interno a loro stessi, è diventato la loro
coscienza morale, la loro coscienza politica.