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      di Silvio de Majo
Joachim nacque il 25 marzo 1767 a Labastide-Fortunière
      (ora Labastide Murat) nel Quercy, sesto figlio di Pierre e di
      Jeanne Loubières, proprietari d'una locanda. Dopo gli studi
      nel Collegio reale di St-Michel, nel capoluogo regionale di
      Cahors, nell'estate 1785 i genitori lo inviarono nel seminario dei
      lazzaristi a Tolosa, dove rimase di malavoglia per circa un anno e
      mezzo, distinguendosi piuttosto per le letture profane, la
      passione per il gioco e le avventure galanti. Nel febbraio 1787 si
      arruolò nel 6° reggimento dei Cacciatori a cavallo
      delle Ardenne, di stanza a Carcassonne, dove poté mettere a
      frutto le doti naturali di cavallerizzo e il suo ardimento, anche
      se per allora solo a livello di addestramento, divenendo in poco
      tempo maresciallo d'alloggio. Nel 1789 si segnalò nel
      reggimento, passato nell'estremo Nord della Francia, come vicino
      alle idee rivoluzionarie; fu tra i protagonisti
      dell'insubordinazione nei confronti d'un ufficiale,
      cosicché fu prima arrestato, poi degradato e congedato.
      Tornato a casa, G. lavorò come garzone in una drogheria e
      contemporaneamente frequentò gli ambienti giacobini di
      Cahors; nel luglio 1790 fu designato a rappresentare il suo
      cantone (Montfaucon) alla grande adunanza di Parigi nel primo
      anniversario della presa della Bastiglia.
      
      Agli inizi del 1792, sempre su delega del Cantone e con l'appoggio
      del corregionale J.-B. Cavaignac, membro dell'Assemblea
      legislativa, entrò nella guardia costituzionale assegnata
      alla protezione di Luigi XVI dopo il suo tentativo di fuga.
      Accortosi però dell'orientamento realista di questo corpo,
      nel marzo, dopo solo tre settimane, rinunciò all'incarico e
      denunciò una congiura antirivoluzionaria del comandante.
      Grazie a questa dimostrazione di patriottismo G. poté
      rientrare nel vecchio reggimento e riprendere l'interrotta
      carriera militare: nell'aprile fu nominato brigadiere, in maggio
      maresciallo d'alloggio, poi sottotenente e quindi tenente.
      Nell'aprile 1793 il suo comandante, J.-F.-J.-B. d'Urre de Molans,
      promosso generale di brigata, lo nominò suo aiutante di
      campo e gli conferì i galloni di capitano.
      
      La carriera di G. fu evidentemente favorita dalla guerra che
      dall'aprile 1792 oppose la Francia alle potenze della prima
      coalizione, dato che il suo reggimento operò nella zona
      degli scontri. Dopo essersi difeso dall'accusa di appartenere a
      una famiglia nobile (i Murat d'Alvernia), nell'aprile 1793, poco
      dopo la promozione a capitano, fu inserito nel reggimento di
      irregolari a cavallo di J.-J. Landrieux, divenendone il comandante
      in seconda col grado di caposquadrone. Con i suoi trecento
      straccioni, a cui riuscì a dare disciplina e addestramento
      militare, si batté valorosamente a Pont-à-Marque e
      contribuì alla conquista di Lilla. Oltre che acceso
      giacobino, Landrieux era anche un avventuriero corrotto, che per
      denaro sottraeva alla ghigliottina i nemici della Rivoluzione; G.
      lo denunciò, facendolo arrestare, ma per gli attacchi
      dell'avversario e dei suoi amici, che riaprirono la questione
      delle sue origini nobili, per alcune settimane dovette alterare il
      proprio cognome, firmandosi Marat. Il 17 maggio 1794 "la lunga e
      confusa guerra di denuncie e controdenuncie" (Mazzucchelli, p. 25)
      portò all'arresto anche di G., che fu rinchiuso nel carcere
      di Amiens; la sua situazione si aggravò qualche mese dopo
      con il colpo di Stato del 9 termidoro (27 luglio), che segnava la
      fine della Repubblica giacobina e di Robespierre. Nella mutata
      situazione politica giocava in modo negativo il provvisorio cambio
      di cognome, che denotava un acceso giacobinismo, ma infine per
      l'interessamento di alcuni membri della Convenzione fu scarcerato
      e reintegrato nel grado.
      
      Nel 1795 alcuni episodi parigini nei quali fu coinvolto ne misero
      in luce il coraggio e la fedeltà al nuovo governo. Nel
      maggio, mentre si trovava nei pressi di Parigi, P. Barras lo
      chiamò a fronteggiare i sanculotti in rivolta, e il suo
      arrivo fulmineo fu decisivo per il salvataggio della Convenzione.
      All'inizio di ottobre coadiuvò Napoleone Bonaparte nella
      repressione della rivolta realista contro la costituzione
      dell'anno III, che dava grandi poteri al Direttorio; fece giungere
      in poco tempo alle Tuileries assediate alcuni cannoni, forse
      impiegati dal generale corso nella giornata del 13 vendemmiaio (5
      ottobre). Nel febbraio 1796, per effetto di questa azione e delle
      sue richieste, G. ebbe la nomina a colonnello e fu destinato
      all'esercito del Bonaparte per la campagna d'Italia, come aiutante
      di campo dello stato maggiore.
      
      Nella prima campagna napoleonica (marzo 1796 - aprile 1797)
      poté dimostrare le proprie notevoli doti - grande audacia,
      immediatezza nelle decisioni, oratoria accesa, ascendente sui
      soldati - e iniziò a concretare le proprie ambizioni di
      rapida ascesa ai massimi vertici militari. Diede un importante
      apporto a due delle quattro vittorie dell'aprile 1796 in Piemonte
      contro Austriaci e Piemontesi: a Dego e in particolar modo a
      Mondovì, dove prese il comando della cavalleria dopo la
      morte del comandante e la guidò vittoriosamente alla
      carica. Conquistò così la stima del Bonaparte, che
      lo promosse sul campo generale di brigata e dopo l'armistizio di
      Cherasco con il Piemonte (28 aprile) lo inviò a Parigi per
      la ratifica dell'accordo. Tornato in Italia circa un mese dopo,
      quando tutta la Lombardia, salvo Mantova, era conquistata, G. fu
      impiegato nelle operazioni come comandante delle avanguardie di
      cavalleria. Non è noto in quale misura partecipasse alle
      battaglie di questa fase della campagna: fu però
      sicuramente tra i protagonisti della vittoria contro gli
      Austro-Napoletani a Valeggio sul Mincio e Borghetto (30 maggio
      1796), nelle battaglie di Bassano del Grappa (8 settembre) e
      Rivoli (14-15 genn. 1797), in alcuni scontri nella zona di Gorizia
      (seconda metà di marzo), dove ebbe la meglio con furiose
      cariche di cavalleria.
      
      Dopo la firma dei preliminari di pace di Leoben (18 apr. 1797) fu
      a Milano col Bonaparte nel castello di Mombello, dove il generale
      teneva corte con tutta la famiglia; qui iniziò a
      corteggiare Carolina, sorella appena quindicenne del futuro
      imperatore. Nei mesi successivi svolse due importanti missioni
      politico-militari al comando di colonne dell'esercito. Fu prima in
      Valtellina, dove in maggio le popolazioni locali si erano
      ribellate al Cantone svizzero dei Grigioni, a cui erano sottoposte
      da secoli; grazie alla sua mediazione nell'ottobre la Valtellina
      fu inclusa nella Repubblica Cisalpina. Nel febbraio 1798
      partecipò alla spedizione francese contro lo Stato della
      Chiesa conquistando Castel Gandolfo e Albano.
      
      Tra il maggio 1798 e l'agosto 1799 G. prese parte alla spedizione
      in Egitto, ideata dal Bonaparte per sfidare il predominio
      coloniale dell'Inghilterra in Oriente. L'iniziativa non ebbe un
      esito felice, ma G. confermò le proprie capacità di
      comandante impavido e di stratega, all'inizio partecipando
      attivamente, pur senza un ruolo di comando, alla presa di
      Alessandria (2 luglio 1798), poi comandando una riserva di 2600
      uomini alle battaglie di Chebreis e delle Piramidi e alla presa
      del Cairo. Suoi interventi furono decisivi nelle vittorie di
      Kanqah e Salahieh. Nel settembre guidò con successo una
      spedizione contro i predoni del deserto a Dondah, e un mese dopo
      conquistò la cittadina costiera di Damanhur con un attacco
      alla baionetta che guidò personalmente. Nella successiva
      occupazione francese della Palestina e della Siria
      (febbraio-maggio 1799) G., al comando di 900 cavalieri, si
      distinse nella presa di Giaffa (7 marzo) e, in aprile, in altre
      azioni nella regione. Nel luglio, dopo il ritorno in Egitto, i
      Francesi dovettero affrontare un massiccio attacco turco ad
      Abukir, dove un anno prima H. Nelson aveva distrutto gran parte
      della loro flotta: G. ebbe un ruolo decisivo nella vittoria,
      riuscendo prima a piazzare le sue truppe, con alcuni cannoni, alle
      spalle del nemico che assediava la cittadina, provocandogli
      perdite considerevoli, e poi guidando una carica di 600 cavalli
      contro l'accampamento turco. Nel duello diretto col comandante
      nemico riportò una lieve ferita di pistola alla mascella.
      Per questo comportamento il Bonaparte lo promosse sul campo
      generale di divisione (25 luglio 1799) e lo incluse nel piccolo
      seguito che portò con sé dall'Egitto e che lo
      sostenne nella lotta contro il Direttorio sfociata nel colpo di
      Stato del 18 brumaio (9 novembre); G. comandò i granatieri
      che sciolsero l'Assemblea dei cinquecento, consentendo a Napoleone
      di proclamarsi primo console. Nominato comandante della
      neoistituita guardia dei consoli, all'inizio del 1800 entrò
      nella potente famiglia, sposando il 20 gennaio a Mortefontaine con
      rito civile Carolina Bonaparte (il rito religioso fu celebrato il
      7 genn. 1802).
      
      La sua ascesa ai massimi vertici militari si profilava ormai
      inarrestabile, anche se la sua ambizione non fu mai del tutto
      appagata. Nell'aprile 1800, in vista d'una seconda campagna
      d'Italia, fu nominato luogotenente generale e comandante della
      cavalleria di 6000 effettivi. Ancora una volta la sua
      partecipazione fu incisiva: il 27 maggio occupò Vercelli e
      il 29 Novara; il 2 giugno precedette di qualche ora il primo
      console a Milano; il 14 comandò la cavalleria nella
      battaglia di Marengo, vinta dai Francesi con forze assai inferiori
      proprio grazie al valore e agli assalti delle sue truppe. Dopo
      alcuni mesi di pausa, trascorsi tra la bella vita di Parigi e le
      esercitazioni militari, G. partecipò alla seconda fase
      della campagna (conclusa dalla pace di Lunéville del 9
      febbr. 1801), in appoggio all'armata comandata da G.-M.-A. Brune.
      A metà gennaio marciò contro i Napoletani nello
      Stato pontificio (Ancona) e in Toscana, arrivando a Foligno.
      Firmato un armistizio con Napoli (febbraio 1801), uscì
      dallo Stato pontificio, ponendo il proprio quartier generale a
      Firenze, nel palazzo Corsini, dove nel maggio lo raggiunse la
      moglie con il primo figlio Achille, nato nel gennaio.
      
      Nominato generale in capo delle armate francesi in Italia si
      recò in visita a Napoli, dove fu ricevuto con tutti gli
      onori da Ferdinando IV (agosto 1801); nello stesso periodo
      spostò il quartier generale a Milano, dove appoggiò
      la rinascita della Repubblica Cisalpina, divenuta poi nella
      Consulta di Lione (gennaio 1802) Repubblica Italiana, sotto la
      presidenza del Bonaparte. Fu questo un momento particolarmente
      felice per la famiglia di G., che accumulò fortune e
      acquistò palazzi e grandi tenute a Parigi e nella provincia
      francese. Dopo la nascita della seconda figlia Letizia (aprile
      1802), due brevi viaggi a Roma e Napoli (maggio) e quattro mesi
      trascorsi a Parigi, dal settembre 1802 all'agosto 1803 fu di nuovo
      a Milano, dove ebbe contrasti col vicepresidente della Repubblica
      Italiana, F. Melzi d'Eril, e altri repubblicani milanesi;
      tentò di causare una frattura tra la neonata Repubblica e
      la Francia, ma il Bonaparte gli impose di riconciliarsi: il Melzi
      fece quindi da padrino al suo terzo figlio, Luciano, nato il 16
      maggio 1803.
      
      Tornato in Francia, nell'ottobre venne eletto deputato del
      collegio elettorale del Lot, a cui apparteneva il suo paese
      natale. All'inizio del 1804 divenne governatore di Parigi,
      comandante della prima divisione e della guardia nazionale. Come
      governatore della capitale ebbe, suo malgrado, un ruolo di primo
      piano nella condanna a morte (marzo 1804) del duca L.-A.-H.
      d'Enghien, rapito in Germania per dare un ammonimento al
      risorgente partito borbonico. Intanto nel maggio Napoleone
      diveniva imperatore e G., come tutti i suoi fidi e parenti,
      poté accedere alle maggiori cariche militari, a titoli e ai
      cospicui appannaggi collegati: fu maresciallo, comandante della
      dodicesima coorte, grande ammiraglio, principe dell'Impero. Nel
      marzo 1805 gli nacque la quarta e ultima figlia, Elisa. 
    
Nell'autunno del 1805, all'esplodere d'un nuovo conflitto con
      Austria e Russia, G. svolse un'importante e rapida missione
      esplorativa in Germania (fine agosto - inizio settembre 1805) per
      studiare la configurazione dei territori e accertarsi della
      fedeltà del grande elettore di Baviera, Massimiliano.
      Comandò poi una forza di cavalleria, chiamata
      impropriamente Riserva, di ben 14.000 effettivi, e in molte fasi
      della guerra tutta l'avanguardia della Grande Armata, e anche
      corpi di artiglieria e fanteria. Nell'avanzata in Austria fu
      protagonista, facendo migliaia di prigionieri e precedendo
      Napoleone ovunque (anche a Vienna il 13 novembre); ma
      nell'inseguire il nemico fu talvolta incauto, attirandosi duri
      rimproveri dell'imperatore (anche quando concesse una tregua ai
      Russi in ritirata). Comunque il suo apporto fu decisivo nelle
      battaglie di Wertingen e Haslach (8 e 15 ottobre) e in quella
      finale di Austerlitz (2 dicembre), dove comandò l'intera
      ala sinistra dello schieramento francese. L'irruenza e la
      temerarietà delle cariche della sua cavalleria, sebbene
      frutto di sostanziale improvvisazione, furono sempre coronate da
      successo e gli procurarono fama di combattente in tutta Europa.
      
      Della guerra, conclusa con la frantumazione dell'esercito russo e
      l'occupazione del territorio austriaco da parte di Napoleone,
      beneficiarono anche i familiari: G., che avrebbe preferito
      divenire viceré del neocostituito Regno d'Italia, fu messo
      a capo (15 marzo 1806) del Granducato di Berg e Clèves, sul
      Reno, un nuovo Stato di notevole importanza strategica
      perché confinante col pericoloso nemico prussiano, e quindi
      avamposto dell'Impero napoleonico. G. lo governò per lo
      più da Parigi o dai campi di battaglia (vi fu solo nel
      marzo-aprile e nell'agosto-settembre del 1806); inizialmente
      intraprese l'occupazione di territori confinanti, che Napoleone
      riprovò perché poteva compromettere i non facili
      rapporti con la Prussia; dovette quindi ritirarsi. Quando
      però, nell'autunno del 1806, la guerra con la Prussia e la
      Russia fu inevitabile, G. vi ebbe ancora un ruolo importante, dal
      primo scontro di Schleiz alla battaglia decisiva di Jena (9 e 14
      ottobre). Diresse imponenti azioni della cavalleria e
      l'inseguimento senza tregua del nemico in ritirata, prese migliaia
      di prigionieri e occupò quasi senza resistenza molte
      città, entrando per primo a Berlino il 22 ottobre. 
    
Dopo la capitolazione della Prussia (7 novembre) rimaneva
      però ancora l'avversario russo, e la guerra passò in
      Polonia, dove la popolazione accolse i Francesi come liberatori.
      Particolarmente entusiastica, a fine novembre, fu l'accoglienza
      fatta a G. a Varsavia, che lo fece aspirare in segreto a divenire
      re d'una Polonia tornata libera. Nel febbraio 1807 egli fu ancora
      decisivo per le sorti francesi nella giornata di Eylau. Riprese le
      ostilità, dopo alcuni mesi, nel giugno, venne la vittoria
      di Betnen, dove ancora l'apporto della cavalleria fu decisivo,
      seguita dall'inseguimento del nemico fino a Tilsit. Se le
      trattative di pace non portarono a G. il trono di Polonia, ottenne
      però un cospicuo ingrandimento del suo Granducato (gennaio
      1808).
      
      Nel febbraio fu nominato luogotenente dell'imperatore in Spagna,
      col compito d'imporre pacificamente la volontà francese in
      una realtà resa problematica dalla debolezza del re Carlo
      IV e dallo strapotere del favorito Manuel de Godoy principe della
      Pace. G. era in Spagna da poche settimane quando il re fece
      arrestare il Godoy e abdicò suo malgrado a favore del
      figlio Ferdinando. Egli convinse allora padre e figlio a
      rimettersi all'arbitrato di Napoleone e li indusse a recarsi a
      Baiona (aprile); quando a Madrid scoppiò una sanguinosa
      rivolta popolare (2 maggio) G. "la represse con la spietata
      durezza di cui tramandò la memoria il Goya" (Scirocco): i
      morti spagnoli furono quasi 2000. Nello stesso giorno Napoleone,
      all'oscuro dei fatti madrileni, destinava al Regno spagnolo il
      fratello Giuseppe, sostituendolo a Napoli con G., che così
      ottenne finalmente un trono, anche se non quello spagnolo, come
      desiderava, anche a causa della repressione dell'insurrezione
      madrilena. Dopo una lunga malattia, e una vana resistenza passiva
      agli ordini imperiali, il 28 giugno G. lasciò Madrid.
      
      Il 15 luglio il trattato di Baiona lo designò formalmente
      re di Napoli (o, più esattamente, re delle Due Sicilie) col
      nome di Gioacchino-Napoleone, indicando come suo eventuale
      successore, prima dei figli, la moglie Carolina, dalla quale
      così veniva fatto discendere il suo titolo. A fine agosto
      partì per Napoli, dove giunse il 6 settembre ricevendo
      grandi accoglienze popolari; circa venti giorni dopo lo
      raggiunsero Carolina e il resto della famiglia. Prese subito
      provvedimenti per aumentare la sua popolarità e attenuare i
      contrasti interni: amnistie di disertori, soppressione di
      commissioni militari, grazia per condannati a morte, restituzione
      di beni ai parenti degli emigrati, libertà di pesca alle
      popolazioni della costa, pagamento delle pensioni militari. Molti
      di questi provvedimenti non piacquero a Napoleone, che li riteneva
      antifrancesi, così come non gli piacque il tentativo di
      togliere dal nuovo codice civile, che doveva entrare in vigore a
      Napoli il 1° genn. 1809, l'articolo sul divorzio.
    
Da allora i rapporti tra i due cognati furono tesi, condizionando
      l'opera di governo di G. e le vicende interne del Regno. In varie
      occasioni G. mirò a comportarsi in modo autonomo in
      politica interna ed estera, mentre Napoleone cercò di
      subordinare al proprio volere e agli interessi dell'Impero, e
      segnatamente della Francia, le decisioni del cognato, considerando
      il Regno di Napoli una colonia e il suo sovrano anzitutto un
      suddito francese, ingranaggio di un meccanismo che gli aveva
      consentito di accedere al trono e gli permetteva di conservarlo.
      Anche i tentativi di G. d'ingrandire i propri possedimenti, e in
      particolar modo di conquistare la Sicilia, non furono graditi da
      Napoleone che, a ragione, reputava insufficienti le forze del
      cognato. Difficili furono spesso anche i rapporti di G. con la
      moglie, della quale non sopportava le ingerenze nelle questioni
      politiche, anche se talvolta la sua mediazione presso il fratello
      gli fu utile e, secondo qualche autore, gli conservò il
      trono in momenti critici.
      
      G. compì un primo tentativo d'espansione poche settimane
      dopo l'arrivo a Napoli, ai primi dell'ottobre 1808, quando 2000
      uomini al comando del generale J.-M. Lamarque presero Capri,
      prevalendo in circa dieci giorni di combattimenti sulla
      guarnigione inglese. Il successivo momento di tensione militare,
      nel giugno 1809, fu dovuto all'attacco della flotta anglo-sicula
      nel golfo di Napoli. Per la sua consistenza la flotta tenne in
      ambasce per alcuni giorni G., Carolina e il governo, ma si risolse
      nella sola presa di Procida e Ischia e in incursioni in
      Basilicata, Puglia e soprattutto Calabria, da cui però le
      forze anglo-siciliane presto desistettero, anche per la notizia
      della vittoria di Napoleone a Wagram contro l'Austria. 
    
Rimaneva il problema del brigantaggio, che sopravviveva nelle
      province anche come residuo dell'opposizione popolare alla
      conquista francese, in corso dal 1806. G. attuò una
      politica di dura repressione: prima (1809) con la confisca dei
      beni degli emigrati delle province dove operavano le bande, con
      commissioni militari, compensi ai pentiti, taglie e arresti dei
      familiari; poi, dopo una ripresa del fenomeno (primavera 1810),
      dando pieni poteri al generale Ch.-A. Manhès, che
      attuò una repressione durissima e sistematica. Nell'estate
      del 1810 G. tentò la conquista della Sicilia, con scarso
      supporto da parte di Napoleone, che vi vedeva solo un mezzo per
      impegnare gli Inglesi e distoglierli da altri fronti. Lo sbarco,
      il 16-17 settembre, fu compiuto solo da un contingente di 2000
      soldati napoletani, perché il generale P. Grenier, ligio
      agli ordini dell'imperatore, si rifiutò di aggiungere le
      proprie forze. G. dovette quindi rinunciare, lasciando a Messina
      centinaia di morti e prigionieri.
      
      Prima della spedizione in Sicilia aveva cercato di riavvicinarsi a
      Napoleone durante due soggiorni a Parigi: dal dicembre 1809 al
      gennaio 1810, in occasione del divorzio dell'imperatore, e nel
      marzo-aprile 1810, in occasione della celebrazione del secondo
      matrimonio del Bonaparte con Maria Luisa d'Austria. Ma al
      riavvicinamento ostò l'opposizione di G. a quest'ultima,
      nipote di Maria Carolina e quindi possibile tramite d'un accordo
      per un ritorno dei Borbone sul trono di Napoli.
      
      Frattanto nel febbraio 1809 G. aveva costituito un nuovo governo
      con collaboratori per lo più napoletani (tra i quali F.
      Ricciardi alla Giustizia e G. Zurlo agli Interni). Valendosi della
      loro alacre attività e appoggiandone le intelligenti
      iniziative egli compì un vasto e organico tessuto di
      riforme. Da un lato realizzò le innovazioni auspicate e in
      qualche modo avviate dagli illuministi napoletani nel Settecento e
      dallo Zurlo tra 1799 e 1805; dall'altro adottò istituti e
      leggi rivoluzionari e napoleonici, che completavano la demolizione
      dell'antico regime e la ristrutturazione dello Stato. Il processo
      fu irreversibile, tanto che dopo il loro ritorno i Borbone
      confermarono pressoché tutte le riforme realizzate nel
      breve regno di G. e il nuovo assetto dell'amministrazione civile,
      finanziaria e giudiziaria. In molti casi egli e il governo
      realizzarono le riforme concepite da Giuseppe Bonaparte, che per
      la brevità del regno e le non facili condizioni in cui
      aveva operato erano rimaste al livello delle intenzioni. Se G. non
      attuò la costituzione concessa dal predecessore dopo la
      partenza da Napoli, applicò la legge sull'abolizione della
      feudalità emessa da Giuseppe nell'agosto 1806, che segnava
      la fine della giurisdizione baronale, dei diritti proibitivi e
      delle prestazioni personali, nonché la cessione d'una parte
      delle terre feudali dietro indennizzo, e la trasformazione
      dell'altra in proprietà di tipo borghese.
      
      Per risolvere il conseguente ampio contenzioso tra le
      Comunità e i baroni diede nuovo slancio alla Commissione
      feudale, creata nel novembre 1807 ma fin allora solo nominale, che
      lavorò con grande alacrità fino al suo scioglimento,
      nell'agosto 1810. Il governo iniziò anche a ripartire
      l'enorme patrimonio demaniale nato dalla legge del 1806 e dal
      massiccio incameramento dei beni ecclesiastici. In campo
      giudiziario furono riformati tribunali e magistrature, e resi
      operanti i nuovi codici francesi, che Giuseppe aveva già
      disposto di introdurre. Nel 1809 i vecchi giudici borbonici, per
      lo più coinvolti nelle persecuzioni del 1799 oppure
      impreparati e corrotti, furono sostituiti da "una magistratura
      colta, zelante, alacre" (Valente); nelle province furono creati
      tribunali civili e penali di prima istanza. Il 1° genn. 1809
      entrarono in funzione il codice civile (in una traduzione voluta
      da G., diversa da quella fatta fare dal predecessore) e un nuovo
      codice di commercio; nel 1812 un nuovo codice penale e uno di
      procedura criminale.
      
      Nella pubblica amministrazione il governo realizzò e
      sostenne la nuova organizzazione centrale e periferica disegnata
      da Giuseppe Bonaparte. Il ministero dell'Interno svolse un ruolo
      di primaria importanza, anche per i costanti contatti con gli
      organi periferici attraverso le intendenze. Fittissimi, in
      particolare, i rapporti con i Consigli provinciali e distrettuali,
      espressione della nuova borghesia agraria, spesso colta e vivace;
      convocati per la prima volta, informarono governo e sovrano sullo
      stato delle province e avanzarono proposte. Nei Comuni un decreto
      del 1808 precisò le mansioni dei decurioni e sindaci, pure
      istituiti da Giuseppe, e nell'amministrazione locale ordine,
      correttezza e chiarezza nei bilanci iniziarono a subentrare alla
      confusione e commistione con il potere giudiziario.
      
      Anche in campo fiscale e finanziario vi furono cambiamenti
      profondi. Per estinguere il debito pubblico, enorme in epoca
      borbonica e cresciuto nel breve regno di Giuseppe, G. - seguendo
      un piano dello Zurlo - ridusse l'interesse dal 5 al 3% e
      operò una massiccia vendita dei beni degli enti
      ecclesiastici soppressi. Il 1° marzo 1813 fu raggiunto il
      pareggio del bilancio. G. accrebbe l'innovativa tassa fondiaria
      istituita dal cognato, ma ridusse la patente su industria e
      commercio per favorirne la crescita e, per meglio applicare
      l'imposta fondiaria, il 26 ag. 1809 istituì un nuovo
      catasto (completato al termine del suo regno). Nel 1810 fu
      istituita l'imposta personale, che esentava gli indigenti, e si
      ebbe un nuovo ordine nelle compravendite immobiliari con
      l'istituzione della tassa di registro e della conservatoria delle
      ipoteche.
      
      Quanto alle opere pubbliche furono realizzate o iniziate strade in
      quasi tutte le province, costruiti ponti, effettuati numerosi
      lavori di arginatura e bonifica idraulica (Fondi, Castel Volturno,
      Vallo di Diano, Manfredonia), istituiti ospedali e cimiteri
      extraurbani, illuminate le maggiori città. In questo ebbero
      un ruolo centrale il corpo degli ingegneri di ponti e strade,
      istituito tra 1808 e 1809, e l'Amministrazione generale delle
      acque e foreste, che ebbe proprie guardie in tutto il paese. A
      Napoli furono create, ampliate o migliorate piazze e strade,
      bonificato il litorale di Coroglio, costruito il ponte della
      Sanità (intitolato a Napoleone). Nell'edilizia vanno
      ricordati il grande porticato del foro Gioacchino (poi piazza del
      Plebiscito), l'osservatorio astronomico e l'orto botanico.
      
      G. promosse particolarmente le misure per favorire l'agricoltura e
      le manifatture. Nel 1809 fu approvata la legge organica sulle
      dogane e sui dazi che, estesa coraggiosamente anche al commercio
      con la Francia, destò le ire di Napoleone. In seguito
      furono soppresse le dogane interne e fu molto ridotto il diritto
      di cabotaggio; le manifatture furono incoraggiate con le
      esposizioni annuali di Napoli (a partire dal 1809), con inviti a
      imprenditori e tecnici stranieri, promuovendo la coltivazione del
      cotone e l'allevamento delle pecore da lana dette merinos.
      Notevole fu lo sforzo di conoscenza delle condizioni economiche
      del paese, anche con rilevazioni statistiche su molti aspetti
      della produzione e del mercato. Per incoraggiare il commercio,
      duramente colpito dal blocco continentale, G. sperò che
      Napoleone consentisse i traffici con paesi neutrali, ma accordi
      con gli Stati Uniti d'America (1809-10) non furono ratificati
      dall'imperatore.
      
      Col Bonaparte lo scontro politico divenne frequente, anche
      perché l'aspirazione all'autonomia di G. era incoraggiata
      da A. Maghella, ministro di Polizia dal 1810, che progettava
      un'Italia unita sotto un unico re: un progetto in armonia con la
      sua ambizione, e che si riaffaccerà in modo pressante pochi
      anni dopo. Nel 1811, durante un lungo soggiorno a Parigi
      (aprile-maggio) in occasione della nascita del re di Roma, i due
      cognati si riavvicinarono: è probabile che l'imperatore,
      credendo già inevitabile una guerra contro la Russia,
      ritenesse importante l'avere con sé un comandante del
      valore di Gioacchino. Tuttavia, appena rientrato a Napoli, questi
      lo sfidò di nuovo con un decreto che imponeva agli
      stranieri con impieghi civili nel Regno di chiedere la
      cittadinanza. La reazione dei francesi fu immediata: molti
      preferirono dimettersi dalle cariche, e G. dovette accettare
      un'ordinanza di Napoleone che dava ai cittadini francesi la
      cittadinanza del Regno di Napoli, e revocare il decreto appena un
      mese dopo l'emissione. 
    
Alla fine dell'aprile 1812 lasciò Napoli per partecipare
      alla campagna di Russia. A maggio gli fu dato il comando d'una
      cavalleria anche più numerosa di quella delle campagne del
      1805-07 (ben 40.000 cavalli); ancora una volta la sua
      temerarietà diede ottimi risultati, ma commise un grave
      errore d'impostazione facendo avanzare le sue forze in colonna,
      ciò che rese difficile la trasmissione degli ordini e
      rallentò il cammino. I continui, estemporanei attacchi
      della cavalleria cosacca (con successive veloci ritirate)
      logorarono questo importante corpo della Grande Armata. Come
      sempre spettò a G. di avanzare per primo e pungolare o
      inseguire il nemico; a fine luglio la sua cavalleria
      conseguì una importante vittoria a Ostrovno, a metà
      agosto entrò in Smolensk, fu tra i principali protagonisti
      della vittoria incompleta sulla Moscova a Borodino (inizio
      settembre), e il 14 settembre entrò per primo in una Mosca
      in fiamme e abbandonata dagli abitanti. Fu in prima fila anche
      nella disastrosa ritirata nell'inverno russo, ma ormai il suo
      ruolo attivo era esaurito ed egli era preoccupato per i problemi
      che potevano subentrare a Napoli. Così non gradì il
      comando generale conferitogli da Napoleone quando si
      affrettò a raggiungere Parigi (dicembre), e poche settimane
      dopo affidò a sua volta il comando al principe Eugenio
      Beauharnais.
      
      Tornato a Napoli (febbraio 1813), G. intensificò le
      trattative segrete con l'Austria iniziate da suoi emissari nel
      dicembre precedente, volte ad assicurargli il trono napoletano
      anche nel caso d'un crollo della potenza napoleonica. Importanti
      furono in tal senso l'invio a Vienna di G. Spinelli, principe di
      Cariati (aprile), e nuovi contatti con il partito italiano che
      progettava l'unificazione della penisola. A fine aprile
      avviò anche trattative segrete con il comandante inglese in
      Sicilia, lord W. Bentinck, che però non gli assicurò
      la conservazione del trono, come faceva l'Austria, limitandosi a
      promettere un equivalente. Nonostante queste trattative e i non
      buoni rapporti epistolari con Napoleone, pieno di rancore per il
      suo comportamento alla fine della campagna di Russia e subodorante
      gli accordi segreti, G. non riuscì a fare una chiara scelta
      di campo, e rispose alla chiamata del cognato per la nuova guerra
      contro Austria, Prussia e Russia (oltre alla Svezia di
      Bernadotte). Ancora una volta assunse il comando della riserva
      della cavalleria, nonché di tutta l'ala destra dell'Armata.
      Il 26 e 27 agosto nella battaglia di Dresda contribuì alla
      vittoria con le solite veementi cariche. Tuttavia durante la
      guerra riprese le trattative segrete con l'Austria; il Metternich
      promise di lasciarlo sul trono di Napoli se avesse abbandonato
      Napoleone, ma G. esitò a passare al nemico prima di una
      battaglia. Se il tradimento politico era quasi compiuto, quello
      militare, pur ipotizzato da alcuni storici, non pare avvenisse, e
      G. s'impegnò con la consueta energia in alcuni scontri
      precedenti alla disastrosa battaglia di Lipsia, dove il suo ruolo
      fu secondario perché vi predominò lo scontro delle
      fanterie e delle artiglierie.
      
      Dopo la sconfitta (18 ottobre), temendo per la situazione del
      Regno, chiese con insistenza e ottenne dal cognato di tornare
      subito a Napoli, promettendo anche di appoggiare con un forte
      esercito il principe Eugenio sul fronte italiano. A Napoli,
      tuttavia, dimostrò subito una nuova autonomia da Napoleone:
      uscì dal blocco continentale (novembre); avviò le
      sue truppe verso Roma, Ancona e la Toscana (occupate nel
      dicembre), accoltovi con sospetto dalle forze francesi, che non
      sapevano se avrebbero dovuto combatterlo; all'inizio del 1814
      stipulò un accordo pubblico con l'Austria (Convenzione di
      Napoli dell'11 gennaio), impegnandosi a entrare in guerra contro
      la Francia in cambio del mantenimento del trono e di futuri
      ingrandimenti territoriali nei domini pontifici; infine il 26
      gennaio stipulò un armistizio con l'Inghilterra, reso
      pubblico il 3 febbraio.
      
      Frattanto aveva raggiunto le sue truppe (fine gennaio) a Roma e
      poi ad Ancona, col proposito appena celato di unificare sotto di
      sé l'Italia fino al Po. Tuttavia non osò arrivare
      subito allo scontro con gli Italo-Francesi del principe Eugenio:
      sia perché temeva che l'Austria, a seguito d'un intervento
      diplomatico inglese, non rispettasse l'accordo, sia perché
      restio a combattere i connazionali, sia infine perché
      incerto sugli esiti della guerra sugli altri fronti e quindi sulla
      fine di Napoleone. Attaccò decisamente solo ad aprile, dopo
      la notizia della capitolazione di Parigi, attirandosi le critiche
      delle potenze vincitrici, in particolare della Russia. 
    
L'abdicazione di Napoleone, che mise fine alla guerra in Italia,
      obbligò G. a ritirarsi nel Regno e a restituire gran parte
      dei territori occupati: Lazio e Umbria al papa, Toscana all'antico
      granduca. A Napoli G. passò mesi di grande incertezza,
      mentre i Borbone reinsediati a Parigi e Madrid reclamavano la
      restaurazione del congiunto Ferdinando IV a Napoli. Ebbe comunque
      un po' di respiro perché nei primi mesi del congresso di
      Vienna (iniziato nel settembre 1814) il problema napoletano, su
      iniziativa austriaca, fu rimandato. Tuttavia all'inizio del 1815
      le richieste francesi divennero pressanti e in G. si fece strada
      la consapevolezza che solo un ritorno al potere di Napoleone in
      Francia (della cui eventualità era stato messo al corrente
      in trattative segrete con l'Elba nel febbraio) poteva conservargli
      il trono. Pertanto a metà marzo, avuta notizia del successo
      dell'iniziativa napoleonica, contro il parere contrario della
      moglie decise di muoversi contro gli Austriaci. La sua però
      voleva essere un'iniziativa autonoma, tendente a liberare la
      penisola italiana dal dominio austriaco, non un semplice appoggio
      alla guerra del cognato. Perciò il 30 marzo, pochi giorni
      dopo l'inizio delle ostilità, emanò da Rimini un
      proclama in cui inneggiava alla libertà e all'indipendenza
      dell'Italia e prometteva una costituzione; ma il proclama,
      considerato in seguito il punto di partenza del Risorgimento
      italiano, non ebbe sul momento molte adesioni. 
    
L'iniziativa militare di G., il cui esercito era poco numeroso e
      poco motivato, non ebbe successo: dopo scontri perdenti e una
      precipitosa ritirata, il 3 maggio arrivò la sconfitta
      decisiva a Tolentino. Riuscì comunque a raggiungere
      precipitosamente il Regno: il 17 maggio era a Napoli e il 19,
      lasciati la moglie e i figli, fuggì via mare senza
      un'organizzazione adeguata, pochi giorni prima dell'arrivo delle
      truppe austriache. Per sfuggire alla flotta inglese dovette
      sbarcare a Ischia e poté raggiungere la Francia (Cannes) il
      25, solo perché raccolto da una nave munita di
      salvacondotto inglese per il trasporto di ufficiali francesi.
      Napoleone però si rifiutò di accoglierlo nel suo
      esercito, imputandogli oltre ai tradimenti precedenti l'imperizia
      e la precipitazione nella recente campagna d'Italia, che avrebbe
      dovuto tenere impegnate per più tempo le truppe austriache.
      
    
Dopo Waterloo (18 giugno) G. si rifiutò di abdicare, come
      gli chiedevano Inglesi e Austriaci in cambio d'un rifugio sicuro;
      frattanto montava la reazione filoborbonica, ed egli dovette quasi
      vivere alla macchia nella Francia meridionale. Alla fine di agosto
      riuscì a imbarcarsi con pochissimi compagni per la Corsica,
      dove riunì alcune centinaia di bonapartisti e patrioti con
      i quali il 28 settembre, respinte le offerte di Metternich di
      ricongiungersi alla famiglia e ritirarsi a vita privata,
      s'imbarcò su sei grosse barche per un estremo tentativo di
      riconquista del Regno di Napoli. Si trattava di un progetto di ben
      difficile realizzazione, divenuto praticamente impossibile quando
      le altre imbarcazioni abbandonarono, per tradimento o per le
      condizioni del mare, quella in cui era Gioacchino. Questi,
      sbarcato a Pizzo Calabro il 7 ottobre con solo una trentina di
      uomini, fu attaccato e catturato da gendarmi e contadini.
      
      Condannato a morte da una commissione militare nominata da
      Ferdinando IV, fu fucilato il 13 ott. 1815 nel castello di Pizzo.