www.sapere.it
Biografia
Poeta italiano (Valdicastello 1835-Bologna 1907). Figlio di un medico condotto, trascorse l'infanzia a Bolgheri, in Maremma. Dopo la crisi dei moti rivoluzionari del 1848 e il ritorno del granduca sul trono di Toscana, il padre, carbonaro e mazziniano, fu costretto ad abbandonare la Maremma e a trasferirsi a Firenze, dove il giovane Giosuè frequentò le scuole dei padri scolopi. Dal 1853 al 1856 Carducci fu alla Scuola Superiore di Pisa, dove si laureò con una dissertazione sulla poesia cavalleresca, e, poco dopo, ottenne il posto di insegnante di retorica alla scuola secondaria di San Miniato al Tedesco. Nelle discussioni con i maestri fiorentini e in polemica col dominante romanticismo degli epigoni manzoniani si precisavano intanto le posizioni teoriche di Carducci. Le letture di Orazio, Virgilio, Ovidio e, fra i moderni, di Alfieri, Foscolo e Leopardi approfondirono in lui quel culto per le tradizioni e gli ideali classici che lo indusse a fondare, con altri giovani letterati, la società degli "Amici pedanti".
Una dolorosa parentesi aprirono, a breve distanza l'una dall'altra, la morte del fratello Dante (1857), suicida, e del padre (1858). Poco dopo (1859) Carducci sposava Elvira Menicucci, dalla quale ebbe quattro figli.
Nominato professore di greco e latino al liceo di Pistoia, nel 1860 Carducci fu chiamato dal ministro Mamiani alla cattedra di eloquenza dell'Università di Bologna. L'inserimento nell'ambiente universitario lo mise in contatto con una cultura più viva e moderna: approfondì i poeti stranieri (Hugo, Goethe, Heine, Platen, Shelley) e arricchì la sua preparazione politica con la lettura di Mazzini e degli scrittori francesi democratici e radicali (Quinet, Michelet, Blanc), mentre si accostò alle idee repubblicane e giacobine.
Una svolta nella vita di Carducci fu segnata dagli avvenimenti degli anni 1870-71: morte della madre e del figlioletto Dante (1870), inizio della relazione (1871) con Carolina Cristofori Piva (la Lidia o Lina della sua poesia). Seguì un'involuzione negli ideali politici di Carducci: pervenuto all'apice della sua fama, il giacobino divenne il vate dei benpensanti; il cantore degli eroi repubblicani e democratici sorti dal popolo s'inchinò (1878) al fascino – l'"eterno femminino" – della regina Margherita e divenne il celebratore dei fasti di Casa Savoia e il cantore dell'Italia guerriera.
Nel 1890 venne nominato senatore e fiancheggiò l'azione del governo di Crispi.
Nel 1904 lasciò l'incarico d'insegnamento e nel 1906 ottenne il premio Nobel.
Morì il 16 febbraio del 1907.
La poetica e le opere
L'evoluzione della poesia di Carducci coincise quasi sempre con l'arco delle sue esperienze umane e culturali. Ai versi di Juvenilia (1850-60), improntati a un intransigente classicismo, e a quelli di Levia Gravia (1861-71), dove è già una maggiore consapevolezza artistica, seguì la fase "giambica", culminata con la violenta reazione del poeta alle delusioni politiche degli anni 1867-72 e rispecchiata in Giambi ed Epodi (1867-79), di cui era un'anticipazione l'Inno a Satana (1863), un componimento in cui Satana è celebrato come la personificazione del libero pensiero. Poi la polemica giacobina si placava, mentre affioravano i temi della più matura ispirazione carducciana: l'evocazione del paesaggio maremmano, la virile malinconia, l'accorata nostalgia della passata grandezza.
Così Carducci approdava ai momenti maggiori della sua lirica: le Rime nuove (1861-87) e le Odi barbare (1877-89) sono universalmente considerate le raccolte poetiche della piena maturità (vedi metro barbaro). Nella prima delle due raccolte sono svolti alcuni dei temi fondamentali della lirica carducciana, come il canto delle memorie autobiografiche (e nascono così le grandi poesie dedicate al figlio morto e ai ricordi maremmani) e il vagheggiamento delle grandi memorie storiche (e in questa direzione è notevole soprattutto il ciclo dedicato all'esaltazione della civiltà italiana nell'età dei Comuni).
Nell'altra raccolta, le Odi barbare, nuovi temi si accostano a quelli ricordati, come il mito della romanità, il senso religioso di una misteriosa presenza superiore (Canto di marzo, La madre) e infine i versi in cui a una realtà precisa e solare si affianca il mistero e l'imponderabile che a questa realtà è sempre congiunto (Mors, Nevicata, Alla stazione in una mattina d'autunno). In questi capolavori Carducci, avversario dei facili sentimentalismi del secondo romanticismo in nome di una concezione sana e concreta della vita, si ricollega al primo romanticismo, la cui aspirazione realistica egli solleva in una sfera epica. C'è anzi un momento decadentistico in Carducci, la cui esigenza di perfezione formale e la cui esotica nostalgia dell'Ellade sono state paragonate a identici atteggiamenti dei poeti parnassiani francesi.
Ma già nelle ultime Odi barbare e poi nelle Rime e ritmi (1898) si esauriva la migliore ispirazione carducciana e prevalevano l'evocazione erudita, il paesaggio oleografico, l'eloquenza deteriore.
Prosatore nervoso e colorito (Confessioni e battaglie, 1882-84), infaticabile studioso di molta parte della tradizione letteraria italiana, Carducci ha lasciato scritti critici e contributi eruditi importanti su Petrarca, Poliziano, Parini, Leopardi, ma anche su scrittori minori.
Al gusto del critico educato alla scuola di Sainte-Beuve – quindi ostile a De Sanctis e allo storicismo napoletano – egli ha saputo unire lo scrupolo del filologo, rivelatosi anche in molte edizioni di classici.
Si deve infine ricordare che, accanto alla sua attività di poeta e di studioso, Carducci fu insegnante di valore, tanto che alla sua scuola si sono formati uomini come G. Pascoli, S. Ferrari e, più tardi, A. Panzini e M. Valgimigli.
*
www.treccani.it
DBI
di Mario Scotti
Nacque a Valdicastello, frazione di Pietrasanta nella Versilia
lucchese, primogenito del dottor Michele e di Ildegonda Celli, il 27
luglio 1835 alle undici di sera. Gli furono imposti i nomi di
Giosuè (che avrebbe poi preferito nella forma Giosue),
Alessandro, Giuseppe: il primo perché il padre vi scorgeva un
simbolo augurale, gli altri due in onore rispettivamente dell'avo
materno e di quello paterno.
Nel 1836 il padre si trasferì con la famiglia da
Valdicastello a Seravezza, poi al Fornetto presso il ponte di
Stazzema, donde nel 1838 passò a Bolgheri nella Maremma
pisana, avendovi ottenuto la condotta, e dove rimase fino al '48.
Lasciava così questo ramo dei Carducci la Versilia, residenza
della famiglia da oltre due secoli: la loro origine era fiorentina e
fra gli antenati vantavano quel Francesco, penultimo gonfaloniere
della Repubblica, "a cui i Medici fecero tagliar la testa su lo
scalone del palazzo del Bargello, perché era il capo degli
arrabbiati" (Ep., X, pp. 65 s.). La terra natia, per la tenera
età in cui ne venne allontanato, lasciò solo qualche
frammentaria immagine nella memoria del C., che in un capitolo
dell'Intermezzo di rime la salutò come terra del non
corrisposto amore, dalle cui donne (versiliese era la nonna paterna,
Lucia Galleni, nonna Lucia di Davanti San Guido) aveva appreso la
"maschia dolcezza" del suo "tosco accento". Al contrario, quel
tratto della Maremma degradante da Castagneto e Bolgheri al Tirreno
fu non solo, per un decennio, l'ambiente congeniale alla sua
fanciullezza impetuosa e ribelle, ma anche un costante mito
sentimentale e fantastico dell'uomo e del poeta. L'immagine di
quegli anni, attediati dal carattere dispotico e iroso del padre,
ricchi di letture e di sogni più che di esperienze concrete,
è affidata a molte pagine autobiografiche, dalla famosa
apertura del saggio del 1873 A proposito di alcuni giudizi su A.
Manzoni, alla lettera del 14 genn. 1877 ad A. De Gubernatis, cui
vanno aggiunti i tanti squarci di confessioni e di ricordi che si
incontrano nelle prose, perfino in quelle di carattere critico ed
erudito, e più nell'epistolario.
La prima istruzione non fu né sistematica né regolare:
studiò sotto la guida del padre e, per un breve periodo, di
un prete, don Giuseppe Millanta, cui avrebbe alluso senza simpatia
nelle Rimembranze di scuola. Pure da questo insegnamento gli
derivò la buona conoscenza del latino: a dieci anni traduceva
ad apertura di libro le Metamorfosi e sapeva scandirne i versi.
Più che con le sue lezioni, il padre gli giovò con la
"librerietta" che aveva adunato, "più che passabile per un
medico di maremma", ove accanto ai principali classici figuravano
opere storiche (Rollin, Thiers, Sismondi) e si venivano aggiungendo
i contemporanei Niccolini, Giusti, Guerrazzi. Il posto d'onore era
del Manzoni.
Se i Doveri degli uomini del Pellico, la Morale cattolica e una Vita
di s. Giuseppe Calasanzio rappresentarono la disciplina con cui il
romantico padre tentava di smorzare i classici ardori e le
monellerie del figlio, il C. ricercò i poemi e le storie con
inesausta curiosità e vi si immerse con vero rapimento.
Qualche incontro prematuro fu un episodio che non turbò
quella foga: si getta sull'Inferno dantesco e non ne intende nulla;
il Canzoniere del Petrarca gli sembra essere "un libretto
d'aritmetica". Il fervore gli trabocca in desiderio di partecipare
ad altri le sue scoperte: nel 1845-46 a Castagneto (dove era stato
inviato per curarsi le febbri maremmane) va in giro per le botteghe,
leggendo agli artigiani le poesie del Giusti. Presto egli stesso
tenta la poesia: "nel '47, coi bagliori della primavera del
risorgimento, cominciai a far versi anch'io". Delle composizioni di
quell'anno ci restano i titoli: In morte d'una civetta,La presa del
castello di Bolgheri, Bruto che uccide Cesare,Il 10 agosto; metri
adoperati: l'ottava, la terzina e, per uno di questi poemetti, tutti
i versi che fino allora era riuscito a padroneggiare. Lo studio e
l'incipiente passione letteraria assorbivano solo una parte della
sua giornata: molto tempo trascorreva nella vita libera dei campi
coi fratelli, coi compagni, coi butteri (amava condurre sull'alba
all'abbeveratoio i cavalli) e più in solitudine.
La primavera del 1848 segnò bruscamente la fine di questa
più o meno spensierata fanciullezza. Il 21 e il 23 maggio,
nel cuore della notte, la casa dove i Carducci vivevano a Bolgheri
fu fatta bersaglio di fucilate: un avvertimento al dottor Michele
che sobillava i contadini con le sue idee rivoluzionarie. Da
Bolgheri la famiglia dovette passare a Castagneto; da qui,
restaurato il governo granducale nell'aprile del '49, a Laiatico,
nel Volterrano, e poco dopo a Firenze. Così il C. dalla
libertà maremmana (negli ultimi tempi aveva partecipato ai
tumulti rivoluzionari, dando mano con altri ragazzi ad innalzare
l'albero della libertà e ad abbattere lo stemma dei signori
del luogo, i della Gherardesca) passava alla disciplina degli
scolopi, entrando il 15 maggio nelle scuole di S. Giovannino.
Ammesso, dato il buon livello della sua preparazione, ad
"umanità", fu alunno modello. A "retorica" ebbe come
insegnante il padre G. Barsottini, manzoniano romantico pratiano, ma
anche buon intenditore dei classici latini. Da lui mutuò
l'amore per Orazio e per Fantoni, un poeta quest'ultimo che non poca
parte avrebbe avuto nel suo noviziato artistico. Con alcuni compagni
- Nencioni, Gargani, Lanzillotti - fondò l'Accademia dei
Filomusi, di cui fu presidente e alla cui attività
contribuì con due discorsi, Su lo stato attuale della
letteratura italiana e Dell'Italia, letti rispettivamente in un
giorno del maggio e del settembre 1852.Già in queste prime
acerbe prese di posizione di fronte alle tendenze della cultura e
del costume contemporanei si delineano motivi e spiriti di
successive analisi e polemiche, e insieme si rivelano la forza e il
limite del suo ingegno, il significato e il carattere della sua
presenza storica.
Negli anni di S. Giovannino passa soltanto qualche vacanza presso i
familiari, che si erano trasferiti a Celle, ai piedi del monte
Amiata, avendovi il padre ottenuta la condotta nell'aprile del '51.
Ma anche a Celle ormai non tralascia più gli studi: con
Ercole Scaramucci. un colto gentiluomo che morirà giovane di
lì a poco, legge e rilegge Alfieri, Niccolini, Pellico,
Monti, Metastasio.
Incoraggiato dal Barsottini e dallo stesso rettore, il canonico
Ranieri Sbragia, il C. concorre alla Scuola normale superiore di
Pisa. Vi entra nel novembre del '53 e dopo tre anni ne esce laureato
in filosofia e in filologia con inoltre il diploma di magistero.
Al Chiarini e al Donati raccontò in tono tra divertito e
canzonatorio gli esami finali (Ep., I, pp. 173-175 e ss.): al di
sotto dello scanzonato spirito goliardico si avverte una sostanziale
dissonanza dal mondo e dagli ideali dei suoi maestri, altra volta
giudicati severamente senza mezzi termini. Non si trattava solo
della reazione di una mentalità volteriana al cattolicesimo
formalistico e bigotto imperante nella Normale, ma anche della
insoddisfazione di fronte all'angustia della cultura toscana
contemporanea che si rifletteva nelle aule universitarie. La sua
attività negli anni pisani è fervida ma non sempre
obbedisce a libere scelte, perché fin dalla giovinezza egli
fu condizionato dalle necessità economiche. Gliene
derivò il senso di ulteriore importanza del lavoro e una
serietà ignota a molti scrittori, ma anche la mancanza della
gioiosa disinvoltura di chi attende a un'opera, fedele soltanto allo
stimolo di intime occasioni. Lo aiutò liberalmente agli
esordi Pietro Thouar, che seppe intravederne, sotto la scorza rude,
la forza del carattere. Tradusse in prosa e commentò alcune
odi oraziane, lavorò ad un'Antologia latina, compilò
l'Arpadel popolo ossia Scelta di poesie religiose, morali e
patriottiche cavate dai nostri autori e accomodate all'intelligenza
del popolo, venendo a collaborare in tal modo, sotto il profilo
letterario, al programma pedagogico del Thouar e del Lambruschini.
Ininterrotta è la produzione poetica, che sembra piuttosto la
testimonianza di un lungo tirocinio alla ricerca dello stile, che
l'espressione, sia pure approssimativa ed incerta, di un
temperamento lirica, già configurato. Con senso di
consapevolezza critica il C. relegò alla sfera privata buona
parte dei suoi primi versi, nei quali, dacché sono stati
accolti nel primo volume dell'edizione nazionale, si è
cercato il documento di una vigilia poetica e, alla luce dei
successivi sviluppi, vi si sono individuati motivi e forme destinati
a non esaurirsi appunto nel giro della loro stagione.
Nel 1856, col Chiarini, il Gargani, il Targioni-Tozzetti, il C. si
unì a costituire un'avanguardia letteraria, che nel nome -
"Amici pedanti" - e nel programma procedette baldanzosamente
à rebours, proponendosi la lotta a favore del classicismo e
della disciplina contro ogni arcadia sentimentale e ogni faciloneria
formale gabbate per modernità e per arte.
Il primo intervento polemico del gruppo contro il romanticismo e la
moda straniera, ritenuti causa di corruzione e di decadenza,
trovò pretesto nella comparsa di un innocuo libretto di
versi, Fiori e spine, del livornese Braccio Bracci. Estensore del
pamphlet intitolato Diceria su i poeti odiernissimi (ribattezzato
dagli avversari, con facile calembour, "su-diceria") fu G. T.
Gargani, intransigente classicista strocchiano, condiscepolo del C.
fin dai banchi delle Scuole Pie. Alle molte e sgarbate reazioni dei
giornalucoli letterari di Firenze legati alla consorteria di P.
Fanfani (ma va pure ricordato che su alcuni particolari ebbero a
muovere critiche e a mostrare risentimento A. D'Ancona e F.
Martini), gli "Amici" risposero con una Giunta alla derrata, ove
intervenne fra gli altri il C., assalendo i poeti moderni in quattro
sonettesse e provando loro "storicamente e con l'autorità di
Botta, Rosmini, Gioberti, Giordani, Goethe, Byron" che erano "prima
immorali, poi anti-italiani, in ultimo meschinissimi". Guardata a
distanza tutta questa polemica appare chiusa in un cerchio angusto,
non certo per l'ambiente ristretto in cui si svolse ma per la
mancanza di profondi e originali motivi. Se mai, essa può
essere significativa come documento di un gusto poetico in
formazione, che si viene determinando proprio nell'opporsi e
distinguersi da una moda corrente, di una personalità morale
istintivamente avversa all'arbitrio dell'individuale e del
soggettivo, che giunge a fare sue posizioni del Gioberti e del
Rosmini non perché abbia un suo realismo gnoseologico o una
sua ontologia da difendere contro l'idealismo germanico, ma
perché crede di avere individuato in quella scuola - ed
è segno di un forte limite - la causa lontana del capriccio e
dell'arbitrio letterario, riflesso di una degenerazione più
profonda.
Per l'anno scolastico 1856-57, con altri due colleghi della Normale,
P. Luperini e F. Cristiani, il C. ottenne una cattedra nel ginnasio
di San Miniato al Tedesco.
"Io insegnavo retorica (quarta e quinta), cioè facevo
tradurre e spiegare a due ragazzi più Virgilio e Orazio,
più Tacito e Dante che potessero; e buttavo fuor di finestra
gli Inni Sacri del Manzoni": così egli stesso in un passo
dello scritto del 1883, Le "Risorse" di San Miniato al Tedesco e la
prima edizione delle mie Rime, che di quell'annata dei cari inganni
offre l'evocazione commossa e ridente. Per certe parole e certi
atteggiamenti che apparvero blasfemi ai timorati e pericolosi in un
educatore, per quella leggenda - come egli ebbe a scrivere - di
"feroce misocristismo", che le sue smargiasserie antimanzoniane gli
avevano creato intorno, gli fu intentato un processo, che sarebbe
potuto riuscirgli pericoloso: "Per fortuna - osservava anni dopo -
che nel '57 anche c'era in Toscana, pur all'ombra della cappamagna
di Santo Stefano, del buon senso parecchio e della onestà".
Ma nella cattedra non fu confermato, né riuscì a
ottenere l'insegnamento del greco ad Arezzo per l'anno scolastico
'57-'58.
Il 23 luglio 1857 per i tipi del Ristori d'Arezzo usciva il
volumetto delle Rime di San Miniato, che recava la dedica alla
memoria di G. Leopardi e di P. Giordani. Tali nomi posti in fronte
ai suoi versi non erano segno di immodestia, ma di spirito polemico:
volevano significare la fedeltà a un severo ideale d'arte e
reagire a certi giudizi di ispirazione spiritualistica e romantica,
contro i quali aveva già più volte reagito,
proclamando, per esempio, il Giordani grandissimo come uomo,
scrittore e filosofo.
Nella prefazione, che non fu pubblicata, fra molte cose ovvie in
stile goffamente pretenzioso, veniva affermato - ed è il
motivo più interessante che vi si poteva cogliere - il
carattere di protesta di questa poesia, che, sdegnosa di allinearsi
alle altre voci della poesia contemporanea, si chiudeva nel culto
delle memorie e della gloriosa tradizione italiana. L'indomani
dell'uscita del libro, il poeta, scrivendo all'amico Chiarini,
proclamava la sua ferma fede negli ideali classici, il suo odio per
il secoletto cristianeggiante, l'indifferenza a ogni plauso che
celasse l'invito a convertirsi alla buona filosofia.
Le Rime non passarono sotto silenzio. Lodate, pur fra riserve, dal
Guerrazzi, dal Tommaseo, dal Mamiani, furono annunziate e recensite
da molte riviste toscane e anche da qualcuna non toscana. A Firenze,
il cui giornalismo letterario anche in questo caso dette prova di
spirito provinciale, si scatenò una polemica, nella quale si
lasciò trascinare lo stesso C., il cui intervento, anzi che
chiudere, accese di nuova vivacità il battibecco. Ma non
negli interventi pubblici, dominati dalla reazione alle ironie e ai
sarcasmi di cui era fatto oggetto, bensì in qualche lettera
privata il poeta parla del suo lavoro con distacco critico,
mostrandosi consapevole dei difetti del suo stile e disposto ad
accogliere ogni suggerimento che non nascesse da prevenzione
immotivata.
A richiamarlo bruscamente dalla letteratura alla vita è la
morte del fratello Dante, che lascerà nel suo animo, col
rimpianto, forse l'ombra di un dubbio. Si uccise con un ferro
chirurgico del padre, o fu involontariamente ucciso dal padre al
culmine di un alterco, la disgraziata sera del 4 novembre 1857 a
Santa Maria a Monte? Il ricordo del fratello sarebbe diventato una
delle presenze continue nel tema funerario che corre la sua poesia.
Alla morte del padre, nel 1858, il C. prese con sé il
fratello minore e la madre, dalla quale non si sarebbe separato
neppure sposandosi. Del resto la giovane Elvira Menicucci (Firenze
1835-Bologna 1915), alla quale era promesso e che fece sua moglie il
7 marzo dell'anno successivo, era figlia di primo letto di un sarto
fiorentino, che in seconde nozze aveva sposato una sorella di
Ildegonda Celli, la madre del C.: si trattava quindi di persone non
estranee tra di loro.
Comincia così, anche sotto lo stimolo delle cresciute
necessità economiche ma più per il progressivo
determinarsi dei suoi interessi di artista e di studioso, un periodo
di più intenso lavoro, che a poco a poco finisce per
assorbire tutta la vita del C., la cui storia si viene identificando
con la storia della sua opera e non perché quest'opera
trascenda del tutto la biografia dell'uomo, ma perché questa
biografia si assomma e si esalta in essa. Nell'autunno del '57 entra
in rapporto con l'editore Barbera, per il quale allestirà
un'intera sezione della "Diamante", l'elegante collezione di
classici in piccolo formato: in soli tre anni, dal '58 al '60,
usciranno da lui curati nel testo e corredati di ampie e dotte
introduzioni storico-critiche i volumi dedicati alle Poesie liriche
del Monti, La secchia rapita del Tassoni, le Satire e poesie minori
dell'Alfieri, le Poesie del Giusti, Del principe e delle lettere e
altre prose dell'Alfieri, le Poesie di Lorenzo de' Medici, le Satire
odi e lettere di Salvator Rosa, cui negli anni successivi si
sarebbero aggiunti quelli delle Rime di Messer Cino da Pistoia e
d'altri del secolo XIV (1862), il Lucrezio volgarizzato dal
Marchetti (1864), le Versioni poetiche del Monti (1869), le Poesie
di Gabriele Rossetti (1879).
L'esperienza erudita e filologica, che si veniva accumulando in
questo lavoro come nelle più ampie e impegnative ricerche sui
codici del Rinascimento e dell'antica lirica volgare, gli affinava
anche il senso storico della lingua e gli chiariva, di contro a
certi indirizzi formalistici e retorici, :il significato e la
funzione della filologia. Il pregio maggiore del Tommaseo,
individuava lucidamente nel 1857, è di essere stato "uno di
quei rarissimi in Italia i quali riportarono la filologia e la
critica da questione vilissima di rettorica a questione di morale di
storia di filosofia" (Ep., I, p. 266). Inoltre nei testi antichi
bisognerà distinguere quanto è "tesoro o magazzino o
serbatoio di lingua" da ciò che è arte (Ep., II, p.
197): gli stupendi trecentisti sono venuti a uggia proprio per la
mancanza di questa distinzione e perché su di essi si
è esercitato il virtuosismo dei linguaioli e non l'utile
esegesi dello storico. La fecondità di questa impostazione,
che richiamava la filologia al suo ufficio di scienza storica, si
potrà vedere dai risultati probi e concreti delle sue esegesi
e delle sue analisi, ermeneutiche e non retoriche le une,
stilistiche e non formalistiche le altre. Ma già agli esordi
è chiaramente formulata questa impostazione, che non è
solo il tracciato su cui condurre le sue ricerche, ma anche il
fondamento delle sue polemiche contro certi indirizzi della cultura
contemporanea.
Nel programma de IlPoliziano, annunziando che nella rivista si
sarebbe discorso di filologia, e non solo greco-latina ma anche
italiana, aggiungeva: "quella filologia intendiamo ch'è una
cosa sola colla critica, e nello studio delle parole studia altra
cosa dalle parole soltanto" (Opere, V, p. 262). Questo programma
è del settembre 1858; il primo numero della rivista -
complessivamente ne uscirono solo sei numeri - reca la data del
gennaio successivo.
Nello scritto Diun migliore avviamento delle lettere italiane
moderne al proprio fine, pubblicato nei fascicoli 1 e 2, il C.
esponeva, fondandosi su un'articolata analisi storica, i propositi
della nuova rivista, inquadrando la posizione sua e del gruppo di
cui si faceva interprete fra le correnti della letteratura italiana
dell'Ottocento, e presentandola come correttivo e armonica sintesi
della unilateralità di ciascuna tendenza. Si delineava
chiaramente in queste pagine, fra spunti e suggestioni di altri
critici contemporanei, il programma culturale cui si sarebbe
attenuto nella sua attività di studioso e di maestro, e che
più tardi avrebbe compendiato nell'invito "innoviamo
rinnovando".
Ma nel 1859 il suo pensiero non era, e non poteva essere, assorbito
soltanto in questioni letterarie. Gli avvenimenti politici e
militari accendono la sua fantasia e la sua passione: li celebra in
una serie di poesie - InSanta Croce, Gli Austriaci in Piemonte, A
Giuseppe Garibaldi, Montebello, Palestro, Magenta, Modena e Bologna,
Per le stragi di Perugia -chepiù tardi, nella disposizione
definitiva della opera poetica, saranno riunite nel VI libro degli
Juvenilia.Ma, nonostante la schiettezza del sentire, egli non
riuscì a legare, come alla loro naturale espressione poetica,
nessuno di quegli avvenimenti e di quei personaggi ai suoi versi, in
cui stride, senza comporsi in armonia, il contrasto fra
letterarietà e realismo espressivo, tessere culturali e grido
del sentimento non trasceso. Il 27 aprile, giorno in cui la Toscana
si dichiarò annessa al Piemonte, per le vie di Firenze fu
distribuita la sua canzone A Vittorio Emanuele:si trattava di una
stampa abusiva, anonima e con la falsa data di Torino. Qualche mese
dopo, su invito di V. Salvagnoli, ministro dei Culti in Toscana,
avrebbe celebrato questa importante tappa del processo di
unificazione nazionale nelle agili strofette del Plebiscito (il cui
titolo primitivo fu L'Annessione);e nel canto Alla croce di Savoia
avrebbe versificato - a suo stesso dire - la storia dei due
principi, popolano e monarchico, "congiunti nel fine di unire la
patria" e "rappresentato il primo nella Toscana gloriosa a buon
diritto della civiltà dei Comuni, il secondo nel Piemonte che
ha ogni sua forza nella monarchia" (Ep., II, p. 21). Le giornate di
Goito e di San Martino gli apparivano "prosecuzione delle battaglie
di Legnano e di Gavinana" (ibid.). La fine improvvisa della guerra,
sancita a Villafranca, spegne in lui ogni entusiasmo; e la delusione
gli detta giudizi ingiusti: la rivoluzione del '59 non è che
uno "scatto politico operato dalla Francia" e la campagna bellica,
cominciata e sostenuta dai Francesi discesi all'affranchissement
d'Italie, "non è poi cosa che faccia molto onore al paese"
(Ep., II, p. 37). L'arbitrio e il sopruso di certi funzionari
piemontesi a Firenze gli suscitano il timore che queste forme di
spicciolo malgoverno possano ridestare il municipalismo in animi
semplici, portati a giudicare più dalla concretezza dei fatti
che dalla generalità delle idee. La sua fede monarchica,
infatti, non era espressione di una scelta in armonia con una
particolare concezione dello Stato, meno che mai simpatia per il
legittimismo della Restaurazione, che aveva ispirato la letteratura
degli anni trenta: nasceva essa dalla lotta contro lo spirito
municipale e dal convincimento che il progresso vero del popolo
fosse nella direzione unitaria, verso cui si muoveva con
possibilità di successo solo la monarchia piemontese. Ma ogni
attesa di condizioni favorevoli al successo, ogni adattamento
realistico alle circostanze gli sarebbero apparsi un tradimento. A
inasprirlo ancor più è la condanna a non potere,
legato dai doveri familiari, partecipare di persona alla guerra.
L'anno scolastico 1859-60 lo vede professore prima di greco e poi
d'italiano e latino nel liceo Forteguerri di Pistoia, cittadina che
gli rimarrà cara per le persone conosciutevi, fra cui la
poetessa, inglese di nascita, Louisa Grace Bartolini, al cui volume
di versi pubblicato postumo avrebbe premesso un suo scritto.
Nell'estate del '60, mentre cerca di ottenere il trasferimento a
Firenze, onde continuare le ricerche sul Poliziano e sugli antichi
poeti volgari che conduceva sui codici della Riccardiana, il
ministro T. Mamiani con atto di felice lungimiranza offre a lui
appena venticinquenne, e quasi del tutto sconosciuto fuori di
Toscana la cattedra di eloquenza nell'università di Bologna,
dopo che Giovanni Prati ne aveva declinato l'invito.
L'incarico era molto onorifico, ma non comportava, almeno per
allora, una pesante responsabilità didattica, dato che la
facoltà filologica bolognese non contava in quel momento
nessun iscritto: i primi corsi del C. furono frequentati soltanto da
qualche uditore. Ma molto serio fu fin dall'inizio l'impegno da lui
posto nell'insegnamento, che non considerò mai
un'attività secondaria rispetto agli studi e alle ricerche e
da essi separabile. Il 22 novembre lesse, di fronte alle
autorità e a una folla di curiosi, che, stando al suo
resoconto semiserio, si sbracciò ad applaudire pur senza
intendere molto, la sua prolusione: un rimpasto di cose già
dette nell'articolo apparso nei primi due fascicoli del Poliziano.
Vi esaminava lo svolgimento della nostra letteratura in relazione ai
progressi delle istituzioni civili, secondo un metodo tipico della
storiografia romantica, e in relazione ad alcuni fattori dal cui
incontro sarebbe derivata la sua particolare configurazione, secondo
uno schema meccanicistico che gli derivava dal Taine e che avrebbe
reso famoso applicandolo più tardi nei Discorsi sullo
svolgimento della letteratura nazionale elaborati fra il '68 e il
'71.La città di Bologna lo impressiona favorevolmente fin dal
primo incontro, perché "seria e senza lusso, perciò
gentile veramente"; lamenta soltanto una certa indifferenza alla
vita letteraria e la mancanza di un centro di incontri e di
informazioni culturali che somigli, sia pure su scala ridotta, al
gabinetto Vieusseux di Firenze; inoltre l'università gli
appare inferma, spopolata com'è dalle piccole
università dei vecchi ducati e delle Marche.
Un motivo di più profondo disagio traspare dalle lettere dei
primi anni bolognesi: il fastidio per la sua condizione di
"letterato con la recognizione superiore", di venditore di
"scampoli" e d'"oro falso", di sottomesso a un giogo che gli vieta
di levare il capo libero verso il sole.
Quando la critica riterrà di avere scoperto nella formula
"poeta-professore" la chiave per l'intelligenza della poesia
carducciana nelle sue opacità e nei suoi limiti, non
avrà che irrigidito in un giudizio schematico un motivo
psicologico ed esistenziale che è antefatto di quella poesia.
Ma non solo la condizione di professore, con gli obblighi culturali
che implicava, è sentita dal C. come un ostacolo alla poesia.
Su di lui agivano anche suggestioni mazziniane, che lo portavano a
considerare gli anni in cui si trovava a vivere come di transizione
fra l'arte individualistica ormai defunta e l'arte sociale, che non
riusciva ancora a profilarsi nella vecchia e pusillanime
società europea: "Dopo gli ultimi grandi poeti, prefiche
della vecchia filosofia, della vecchia aristocrazia, del vecchio
individualismo, Goethe, Byron, Leopardi, non più poesia fino
all'età nuova, di fede, di popolo, di libertà
sociale". A queste convinzioni altre se ne aggiungeranno più
tardi di ascendenza vichiana e idealistica (ma attinte per via
indiretta) convergenti nell'idea della morte dell'arte, che A. C. De
Meis, suo collega nell'università di Bologna, bandiva come
conclusione implicita nella dialettica hegeliana. In questi
pensieri, come nella constatazione di una necessità storica,
sembrava giustificarsi e placarsi la coscienza tormentosa di un
personale limite, che nei momenti neri diveniva senso di fallimento.
In realtà la vita dei primi anni bolognesi, raccolta nella
lettura e nello studio, gli permette di ampliare e raffinare la sua
cultura, sia attraverso lo scavo sistematico dei più antichi
secoli della letteratura italiana, sia attraverso l'attenzione alle
letterature straniere, in primo luogo a quella francese, che avrebbe
improntato e non lievemente la sua opera di poeta e di critico.
Accanto a letture quasi impostegli dalla specializzazione - Ozanam,
Fauriel, Villemain, Sainte-Beuve, Taine - si colloca il vivo
interesse per ideologi, storici, politici - Voltaire, Michelet,
Thierry, Guizot, Renan, Proudhon -; fra i poeti lo affascinano Heine
e Hugo, cui pagherà ampio tributo di ammirazione e di
imitazione.
Guardando più tardi al quinquennio '61-'65, nello squarcio
autobiografico Raccoglimenti premesso alle Rime del '71, il "bagno
freddo di filologia" e il "lenzuolo funerario dell'erudizione" gli
appariranno la via attraverso cui era sfuggito al pericolo di
impersonare "in Toscana il poeta laureato della opinione pubblica
divenuta poi unitaria", proseguendo in una rimeria politica astratta
e convenzionale. Le letture, le ricerche, le riflessioni di questo
periodo continuano ad essere dominate da due interessi distinti, la
letteratura antica e il mondo contemporaneo: pertanto gli studi sul
Medioevo e sul Rinascimento, su cui si concentrò a lungo
quasi esclusivamente, gli apparivano ora un'incombenza faticosa, ora
un rifugio da più inquietanti problemi, come un'evasione dal
vivo del tempi e di se stesso, cui reagiva tuffandosi di nuovo nella
poesia politica e nelle polemiche letterarie, cercandovi un contatto
più rude e più sanguigno con la vita. Ma lo stacco fra
i due interessi si andò colmando a mano a mano che il
pensiero di un valore e di un significato che trascendessero i
momenti del passato si venne affermando sul pensiero che quei
momenti esaurissero in sé ogni valore e ogni significato,
restando estranei alle esigenze e agli impegni della sua cultura
militante. Allora Medioevo e Rinascimento gli apparvero non
più e non solo due campi di ricerca erudita, ma due momenti
di una dialettica ancora viva: i diritti sanciti dalla Rivoluzione
francese, conquista fondamentale a suo avviso della storia moderna,
gli svelavano i loro incunabuli nella civiltà umanistica, che
segnava la fine del Medioevo feudale e teocratico con tutti gli
abusi civili e le aberrazioni religiose. La cultura della
Restaurazione, rinnegando i principi dell'Ottantanove,
implicitamente respingeva quel processo di affrancamento iniziato
alcuni secoli prima da quei dotti italiani che ai loro contemporanei
erano apparsi chiusi in una innocente mania. Le idee di un certo
Ottocento antiromantico e laicista investivano e ravvivavano le
indagini erudite del C., trasformandole in visione storica, se non
profonda e ricca di articolazione, piena di suggestione artistica e
di pathos morale.
La linea del molto lavoro condotto nel decennio '60-'70 va dalla
ricostruzione erudita al quadro storico, sia pure senza la
progressione decisa di un pensiero che apra nuove prospettive sul
passato perché ha conquistato nuove verità teoriche:
dalla memoria sul Savonarola e s. Caterina de' Ricci (1861),
all'edizione del Poliziano volgare, il frutto maggiore del suo
impegno filologico, giovanile (1863), alla raccolta dei canti
carnascialeschi (1864), alle indagini su s. Francesco, Brunetto
Latini, Guido Cavalcanti, Matteo Frescobaldi, ai due ampi e
fondamentali studi sulle rime e sulla fortuna di Dante, fino ai
discorsi Dello svolgimento della letteratura nazionale (1868-71),
che proprio nel maggiore impegno di interpretazione - quasi in
alternativa alla prospettiva desanctisiana, ma pure su quella, come
mostrò il Croce, in non pochi tratti modellata - rivelano
più chiaramente le caratteristiche e i limiti del critico.
Intanto, sotto suggestioni culturali ma più sotto lo stimolo
degli avvenimenti politici contemporanei e del dissidio di fronte
alla condotta governativa, a suo avviso rinunciataria nei confronti
delle questioni ancora sospese del Risorgimento (ed Aspromonte ne fu
per lui un vergognoso segno), il C. abbandonò la sua
giovanile adesione al programma di unità nazionale e di
progresso democratico che aveva identificato tout-court con la
monarchia piemontese, orientandosi verso forme sempre più
radicali di giacobinismo e di populismo, manifestando, quasi a sfida
e a rivalsa di una delusione, simpatie repubblicane. Questa svolta
ebbe il suo riflesso nell'attività poetica, che dal 1862 si
venne aprendo con maggiore insistenza alla tematica sociale e
politica.
La prima, in effetti, non trovò esiti convincenti di poesia e
fu destinata ad esaurirsi senza articolato sviluppo: Per raccolta in
morte di ricca e bella signora, Il Carnevale, La plebe (incompiuta)
mostrano come la denunzia delle disuguaglianze e delle ingiustizie,
la contrapposizione di lusso e miseria, il ritratto della vita
disumana del proletariato restino su un piano di trita
convenzionalità letteraria, di cui è spia il
linguaggio che procede tra magniloquenza vittorughiana e calchi
manzoniani fino all'involontaria caricatura. Il C. non fu un poeta
socialista: non sentì la lotta di classe come momento
dialettico della storia, né fece suo il principio della
fratellanza di tutti gli uomini nell'amore. Il tema politico,
invece, rappresentò una delle costanti della sua poesia:
varie furono le sue matrici passionali e culturali, le sue
articolazioni, le sue finalità polemiche, come varia fu la
sua realizzazione sul piano estetico. Il suo culmine sarebbe dato
dalla poesia giambica, che avrebbe il suo incipit e il suo explicit
nel '67 e nel '79: ma in realtà non si tratta di una fase
della poesia carducciana che nasca e si esaurisca in un determinato
arco di tempo, perché i prodromi risalgono al noviziato
letterario e testimonianze se ne possono cogliere fin nell'estrema
attività del poeta. Del resto il diagramma che collocava,
dopo un periodo di iniziale sperimentalismo aperto in varie
direzioni tematiche e stilistiche, la poesia impegnata nella
polemica politica e di costume, alla quale sarebbe succeduta la
stagione del classicismo ellenizzante con la serenità dei
suoi miti, non rispecchiava la cronologia dei singoli componimenti
ma quella artificiosa delle raccolte definitive. Su tale equivoco si
basava lo schema di sviluppo dell'arte carducciana, che, nella sua
fase matura, sarebbe partita da una poesia di impegno sociale,
polemicamente simboleggiata nelle Grazie petroliere, per approdare a
una poesia lavorata come una tazza - greca: in realtà si
tratta soltanto del prevalere in un certo periodo dell'una o
dell'altra tendenza, che si scontrano, si fondono, si avvicendano -
talora nell'interno di uno stesso componimento - in una dialettica
umana ed artistica che accompagna quasi tutta l'attività del
poeta ed in sostanza è priva di vera storia.
La più aspra e lunga polemica politica del C. riguarda Roma
capitale. Prima ancora dell'episodio di Aspromonte comincia il suo
risentimento contro moderati e neoguelfi, di cui è
testimonianza il giudizio sdegnoso contro le tesi che il d'Azeglio,
"il marchesino romanziere", aveva sostenuto nel suo libro del '59 La
politique et le droit chrétien au point de vue de la question
italienne.Edi fronte alle dimostrazioni toscane dei primi del '62,
sobillate dal Ricasoli, allo spettacolo della "sozza e laida e
brutta plebaglia" scesa in piazza al grido di "viva il Papa!" pensa
alla enormità di questo grido "dopo Alfieri, Giordani e
Leopardi" e si convince che a Roma non ci si andrà se non con
la rivoluzione, "la quale rompa colla scure del boia la falsa
cattedra di San Pietro" (Ep., III, p. 34).
La passionalità certamente gli impediva di comprendere la
cautela dei politici e i disegni a lungo termine: le sue prese di
posizione, i suoi sarcasmi, le sue scomuniche interpreteranno il
pensiero e lo stato d'animo della Sinistra garibaldina e
repubblicana, ma la loro genesi, se trova consonanza e stimolo
nell'atteggiamento di un partito, in realtà affonda le radici
nel laicismo anticristiano e di questa ideologia si alimenta. Non si
tratta, dunque, di un pensiero scelto a giustificare la presa di
posizione ostile nei confronti del dominio temporale, bensì
di convinzioni preesistenti all'occasionalità della polemica
e in essa confluite ad allargare a contrasto ideale, a scontro di
opposte concezioni della vita, quel contingente conflitto di potere.
La convenzione di settembre, anche se procrastinava sine die
ilcompimento dell'unità italiana con Roma capitale, apparve
al C. positiva almeno perché immergeva il governo nella
più stimolante "atmosfera democratica" di Firenze: ma egli
non risparmiò il sarcasmo alla turba delle tante eccellenze,
piovute a profanare con la loro nullità una città
sacra per gloriose memorie (e non fu la sua unica frecciata contro i
rappresentanti del regime parlamentare). A rinfocolare il suo
spirito anticlericale e accendere il più violento estro
giambico venne il 1867 con Villa Glori e Mentana. L'arioso e festivo
saluto Agli amici della Valle tiberina (nell'agosto del '67 era
stato ospite dei Corazzini a Pieve Santo Stefano) era corso come dal
presagio dell'imminente crollo del potere temporale; ma quel piglio
esultante, che si manifestava anche nella fantasia beffarda della
chiusa, si sarebbe presto mutato nell'amarezza e nell'ira, che
costituiscono il registro dei tre famosi epodi antipapali Per
Eduardo Corazzini, Per Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, In morte
di Giovanni Cairoli.
Pio IX vi era bollato "Polifemo cristiano", "chierico sanguinoso e
imbelle re", "pontefice fosco del mistero", cui il poeta
contrapponeva se stesso, investito di una nuova missione
sacerdotale, quella in favore della verità e del progresso
civile, riproponendo così in chiave vittorughiana il mito
della sacralità della poesia, caro al Foscolo e al Mazzini.
La violenza verbale non nascondepiù lo sfogo impotente,
perché le parole non sono più sentite come espressione
di un risentimento individuale ma come veicolo di una
coralità di pensieri e propositi: "Savi, guerrier, poeti ed
operai / Tutti ci diam la mano"; e al senso triste della
prevaricazione e della violenza, che offende la dignità e la
libertà dei popoli, si viene opponendo la fede in
un'inesorabile giustizia storica: "Nemesi al suo ferreo registro /
Guarda con muto orrore".
La fine del dominio temporale non avrebbe spento "il dispetto e
l'ira e il sogghigno" del poeta contro il governo italiano, che,
ottenuta Roma più con un abile machiavellismo che con una
ferma lotta a viso aperto, vi si trasferiva quasi alla chetichella,
timoroso di provocare oltre la suscettibilità clericale
(Canto dell'Italia che va in Campidoglio), e insediatovisi si
intricava in giochi di combinazioni parlamentari e in una politica
accomodante e meschina. Anche qui il poeta si faceva interprete
della intransigenza radicale, che avrebbe voluto un più
deciso ghibellinismo, e laicismo, ignorando l'opportunità,
avvertita da certi settori liberali, di non approfondire fratture
ideologiche nella nazione recentemente costituita.
La polemica contro Pio IX e i vari governi - Rattazzi, Ricasoli,
Menabrea, Lanza - sotto cui fu affrontata e risolta la complessa
questione romana svela più compiutamente il suo sottofondo
ideologico se vista in controluce all'atteggiamento che il C. ebbe
nel confronti della politica e della cultura francesi. Egli
avversò Napoleone III, garante del potere temporale, e tutta
la pubblicistica legittimista e reazionaria, avvertendo un profondo
stacco tra la Francia del Secondo Impero e quella dell'Illuminismo e
della Rivoluzione. La cultura francese che sentiva congeniale era
quella di contestazione e di opposizione. I giambi Per il LXXVIII
anniversario della proclamazione della repubblica francese (1870) e
Versaglia (1871) hanno la loro genesi negli avvenimenti della guerra
franco-prussiana e nel timore che l'incipiente Terza Repubblica,
lacerata dallo scontro tra Comune e Assemblea nazionale, non sapesse
liberarsi da nostalgie reazionarie e borboniche. Il Secondo Impero,
nato da un colpo di Stato, era finito con la vergognosa giornata di
Sedan; la Prima Repubblica, proclamata all'indomani della vittoria
di Valmy, aveva il suo fondamento sul sangue fraterno sparso per il
trionfo di principi più giusti. A questo tributo richiesto
dalla dura necessità della storia contrapponeva il poeta
l'assolutismo regio con le sue vergogne e le sue nefandezze,
l'ipocrita unione di trono ed altare, cui avevano posto fine Kant e
Robespierre, decapitando l'uno Iddio l'altro il re. Di un simile
modo d'intendere il frutto del terrore e del criticismo (quanto
è detto di Kant è un calco dalla Germania di Heine) si
è discussa piuttosto la forzatura che la centralità
nella visione storica del C., fondamento e insieme proiezione del
suo laicismo.
Il laicismo non fu o non fu soltanto un carattere del mondo etico
del C. e del suo impegno civile, o un motivo di occasionale
riflessione, ma una costante della sua attività letteraria,
un elemento di coesione del suo mondo artistico ed umano. Per questa
ragione l'inno A Satana, composto di getto in una notte del
settembre 1863 e recitato giorni dopo in un simposio di amici,
potrà pure ritenersi di scarso o nessun valore sul piano
estetico e su quello concettuale, ma dovrà collocarsi in un
posto significativo nella storia dei primordi e, sia pure, dei
precedenti della poesia carducciana, come il primo e in un certo
senso fondamentale manifesto della sua formazione ideologica, la
summa confusa e approssimativa di principî, approfonditi e
meglio coordinati in seguito, ma non mai respinti.
L'esame comparativo delle fonti (Heine, Elementargeister zur
Geschichte der Religion und Philosophie;Quinet, Ahasvérus e
Le christianisme et la Rétolution française;Proudhon,
De la justice dans la Révolution et dans l'Eglise;e,
più importante per puntuali vicinanze, La Sorcière di
Michelet, ove tra l'altro è detto che il tempio di Satana
poggia su tre pilastri eterni: la Ragione, il Diritto, la Natura)
potrebbe indurre a restringere di molto o a negare
l'originalità concettuale dell'inno, che d'altra parte non
è certo un modello di compattezza logica o di organica
dialettica. Né la validità potrebbe rivendicarsi sul
piano dei valori espressivi: la facilità ovvia del
linguaggio, la monotonia della linea melodica nella sua esteriore
cantabilità sono difetti sostanziali, di cui si rese conto lo
stesso poeta e non solo a distanza di tempo. Ma nella storia della
poesia carducciana questa pagina non era un episodio destinato ad
esaurirsi in se stesso, perché dava al poeta, insieme al
fastidio di una certa trivialità non evitata e di una
popolarità basata su un fondamentale equivoco, la
consapevolezza che l'arte potesse farsi strumento delle sue
convinzioni di uomo e di studioso, saldando in un organico impegno i
suoi vari interessi e le sue varie tendenze: di qui quel tono
sicuro, quella giovanile spavalderia nello sciorinare gli articoli
del credo appena conquistato, e non importa se attraverso uno scavo
originale o investendo della propria esperienza e della propria
passione pensieri altrui. Ed era naturale che volgendo lo sguardo
sul cammino fin allora percorso gli si svelasse una coerenza
inalterata negli spiriti e negli intenti della sua opera, e potesse
contrapporre il verso degli esordi "il secoletto vil che
cristianeggia" alla censura di oscillazioni, e mutamenti rispetto
alle. posizioni di una volta. L'assommare nella figura dell'angelo
ribelle "tutto ciò che di nobile e bello e grande hanno
scomunicato i preti con la formola Vade retro Satana" (Ep., III, p.
378) non rappresentava una ripresa fuori stagione del vecchio
titanismo romantico, che si sarebbe poi reincarnato in forme e
spiriti decadenti: era il proporre in un emblema dall'indubbio
significato provocatorio una concezione della storia moderna come
processo di recupero del naturalismo ellenico e di rifiuto del
cristianesimo come religione di mortificazione e di rinunzia, e come
instrumentum regni della Chiesa di Roma. Accompagnando con una
lettera l'invio dei versi al Atchelet, il C. li presentava come
segno che anche nella vecchia Italia vi fossero spiriti giovani,
aborrenti "dalla tetra schiavitù del cattolicismo" (Ep., IV,
pp. 274-275); e nelle Polemiche sataniche, difendendo l'inno dagli
attacchi che gli erano stati mossi, sottolineava la pars construens
sottesa e affiancata al momento eversivo: "A me pareva, e pare, di
aver inneggiato da principio la natura nel senso cosmico; mi pareva,
e mi pare, di aver proseguito inneggiando la incarnazione più
bella ed estetica della natura nell'umanesimo divino della Grecia;
mi pareva, e mi pare, di aver finalmente cantato la natura sempre e
l'umanità ribelli necessariamente nei tempi cristiani
all'oppressura del principio di autorità dogmatico congiunto
al feudale e dinastico".
L'editioprinceps è del 1865: recava sul frontespizio lo
pseudonimo di Enotrio Romano, adoperato qui dal poeta per la prima
volta; fu ripubblicato (oltre varie stampe abusive) nel 1869 da Il
Popolo di Bologna in occasione dell'apertura del concilio vaticano,
riaccendendo le non mai sopite polemiche, che non furono solo di
cattolici e clericali. Significativo il giudizio negativo di Q.
Filopanti, mazziniano e deista, che vi scorgeva "un'orgia
intellettuale" antidemocratica nella forma, che per la sua dotta
tessitura non sarebbe mai stata intesa dal popolo, e più
nella sostanza, "poiché si tradisce, non si giova il popolo
divinizzando il principio del male". Questo contrasto, al di
là della incidenza delle censure e della ragionevolezza delle
risposte, rivela la frattura fra un laicismo che ha la sua base in
un più o meno aperto e consapevole materialismo, e un
laicismo spiritualista, permeato di un senso ancora trascendente
dell'assoluto. Da quest'ultimo il C. fu sostanzialmente lontano. Lo
mostra anche la polemica che nel 1866 condusse nell'interno della
massoneria contro la corrente di rito scozzese, ove a suo avviso i
canoni teocratici prevalevano sullo spirito di libertà,
eguaglianza, fratellanza: la lotta lo vide soccombente,
perché il gran maestro L. Frapolli lo estromise dalla loggia
Felsinea assieme ai fratelli G. Ceneri, F. Magni, C. De Meis, F.
Fiorentino e altri.
Le prese di posizione pubbliche, i legami che venne stringendo con
uomini e circoli radicali e democratici, le idee estremiste e
rivoluzionarie che in certi periodi si compiacque di ostentare, lo
portarono nei rapporti con le autorità governative a momenti
di tensione e di scontro, da cui uscì quasi sempre indenne.
Nel 1864, per avere preso parte a un comizio guerrazziano, è
accusato di essere repubblicano e di avere parlato violentemente
contro il re: il ministero dell'Istruzione raccoglie l'insinuazione
di alcuni giornali e minaccia di destituirlo dall'insegnamento,
finché a suo favore non interviene lo stesso ministro, M.
Amari, che del suo ingegno faceva gran conto. Più burrascosa
la vicenda dell'autunno '67, i mesi caldi dell'arresto di Garibaldi
e degli sfortunati tentativi di Villa Glori e Mentana, quando
l'Italia di Menabrea più sembrava agli occhi del poeta
tradire gli ideali della generazione del '48 ed egli, acceso di
spiriti giacobini, cercava più concreto impegno di lotta
politica. La sua poesia giambica, la collaborazione alla
attività dell'Unione democratica del cui direttivo era
membro, la lotta contro la candidatura del Minghetti gli valsero il
trasferimento, chiara rivalsa e punizione, dalla cattedra di
italiano di Bologna a quella di latino nell'università di
Napoli. Del provvedimento del ministro Broglio egli contestò
la legittimità e la serietà: non si poteva spostare un
docente da una disciplina ad un'altra, né un dispositivo
burocratico avrebbe avuto la virtù taumaturgica di creare in
un tratto una specializzazione scientifica. Tale reazione ebbe come
conseguenza l'abrogazione del provvedimento anche se il C. fu
costretto a dimettersi dall'Unione democratica.
Dopo pochi mesi ebbe un nuovo scontro col ministero, che questa
volta nominò una commissione d'inchiesta formata dagli
onorevoli Spaventa, Brioschi e Messedaglia: risultato, la
sospensione dall'insegnamento e dallo stipendio per due mesi e
mezzo, inflitta a lui e ai suoi colleghi G. Ceneri e P. Piazza.
Motivo della indagine e della punizione era stato il discorso
commemorativo della Repubblica romana, pronunziato il 9 febbr. 1868
in una riunione conviviale, e l'indirizzo al Mazzini da lui e dagli
amici sottoscritto in quella circostanza e pubblicato due giorni
dopo dal bolognese Amico delpopolo. Che il discorso e l'indirizzo
volessero esprimere l'aspirazione a un ritorno di quella Repubblica
egli negò, ma dichiarando allo stesso tempo di non essere
pentito del gesto, perché la Repubblica romana del '49 voleva
dire "decadenza del potere temporale legalmente deliberata e
proclamata dai rappresentanti legali del popolo" e inoltre
"resistenza magnanima, onorata, solenne, alla prepotenza straniera".
L'impegno politico di questi anni si concluse con la sua candidatura
alle elezioni amministrative dell'estate del '69: eletto il 25
luglio nella lista del Comitato "Galvani", nel Consiglio comunale
condusse alcune battaglie a favore dell'istruzione laicista, come
quella per l'abolizione dell'insegnamento di storia sacra.
La vita familiare nel primo decennio bolognese trascorse per lo
più serena, senza scosse. Alla prima figlia Beatrice, nata a
Firenze sul finire del '59, era seguita nel 1863 Laura, cui si
sarebbe aggiunta nel '72 Libertà, la Tittì di Davanti
San Guido.Le figlie si formarono ognuna una sua famiglia; Beatrice
sposando nel 1880 Carlo Bevilacqua, professore di matematica nei
licei; Laura nel 1887 Giulio Gnaccarini, impiegato nelle ferrovie
(aiutò il suocero a riordinare le carte e la biblioteca, e a
sbrigare la corrispondenza); Libertà nel 1889 Francesco Masi,
professore di meccanica alla scuola di applicazione degli ingegneri.
Triste il destino dei maschi: il primo, Francesco, vide la luce il
21 marzo del '75 e morì immediatamente dopo, senza aprire
profonde lacerazioni nell'animo del padre (o almeno di esse non
è traccia nei suoi scritti); il secondo, Dante, visse poco
più di tre anni (21 giugno 1867-9 nov. 1870), lasciando nella
casa un vuoto pari alla gioia portatavi con la sua vitalità
erompente. Questa memoria dolorosa sarebbe stata accolta nella
malinconica serenità della poesia, sia fissandosi in un
contrasto emblematico luce-oscurità, gelo-calore, sui moduli
di un elegiaco greco (Pianto antico), sia congiungendosi ad un altro
ricordo di morte (Funere mersit acerbo), sia placandosi in una
visione onirica di bellezza e di sole (Sogno d'estate). Agli inizi
del 1870 era morta la madre: due lutti chiudevano così un
periodo di vita raccolto nell'insegnamento e negli studi, la cui
storia è principalmente storia di una formazione
intellettuale e si identifica con l'opera che si veniva realizzando.
Nel 1868 uscivano a Pistoia, stampati dalla tipografia Nicolai e
Quarteroni, i Levia Gravia di Enotrio Romano (il volume era diviso
in quattro libri e comprendeva settantasei componimenti, dei quali
nell'ordinamento definitivo di tutte le poesie solo sedici sarebbero
stati assegnati all'omonima sezione, mentre tre sarebbero passati
alle Rime Nuove e i rimanenti, cioè la maggior parte, agli
Juvenilia).Nel '71 dall'editore Barbera di Firenze furono
pubblicate, questa volta non più sotto pseudonimo, le Poesie,
divise in tre parti - Decennalia, Levia Gravia, Juvenilia:la prima,
in due libri, comprendeva liriche di ispirazione politica composte
fra il '60 e il '70 (in seguito il libro primo sarebbe confluito
quasi tutto in Levia Gravia, il secondo nei Giambi ed Epodi);la
seconda, in quattro libri, corrispondeva solo parzialmente alla
raccolta del '68; la terza, in tre libri, di questa precedente
raccolta era una sezione con in più qualche altra poesia
già apparsa nelle Rime di San Miniato.
Questo continuo spostamento nell'ordine interno di ciascuna silloge
poetica da edizione a edizione e il trasferimento di poesie dall'una
all'altra silloge rivelano una ricerca puntigliosa e inquieta di
organicità strutturale, stimolata sia dalla consapevolezza
che la propria attività creativa si muoveva su alcune linee
fondamentali, sia dall'ossequio a un canone di armonia e di
equilibrio: l'aggruppamento cronologico sarebbe stato in fondo il
più corrivo all'elemento spontaneo e occasionale dell'arte,
che era bandito dal suo codice estetico. A tale vicenda si
aggiungeva la continua e varia revisione dei testi, specie di quelli
giovanili, sicché una storia della sua poesia che voglia
scandirne il processo stilistico dovrà individuare le
direttrici e i momenti delle successive elaborazioni.
Il maggior successo incontrato dal volume delle Poesie rispetto ai
Levia Gravia, il fervore di attività poetica, che si articola
nel '71 alternativamente nei momenti della più concitata vena
giambica (Per Vincenzo Caldesi, Feste ed oblii, Io triumphe, A certi
censori, ecc.) e nei momenti in cui nell'eleganza del verso si
compone il dolore individuale, il rimpianto di quel che il tempo
rapisce di fronte all'immobile volto della natura (Maggiolata,
Pianto antico, Rimembranze di scuola e inoltre certe traduzioni da
Heine e Platen), non gli cancellano dall'animo il senso tormentoso
di una sconfitta in rapporto all'ideale alto e severo che ha
dell'arte: "io non sono altro che un povero sciagurato, mi arrampico
su per il monte dietro certi bagliori che probabilmente son meteore
e fuochi fatui; mi sento rotolare dietro gli anni della
gioventù; m'insanguino le mani negli spini; e il mio verso ha
del gemito e del sospiro affannato di chi affatica e forte dispera"
(Ep., VII, p. 23). Non si tratta della rêverie di un'ora
sghemba, ma di un motivo che affiora spesso nelle confessioni del
poeta ed è il segno di quella scissione romantica fra reale e
ideale, di quella ricerca di armonia e di unità spirituale
avvertite perdute dall'uomo moderno e proiettate nel naturalismo
della civiltà precristiana di Grecia e di Roma. è
questa un'altra fonte di oscillazioni e di dissidio tra l'esigenza
di una poesia impegnata nelle lotte politiche e civili e quella di
una poesia pura obbediente soltanto alle leggi della bellezza.
Intorno al '70 egli venne traducendo la scelta a favore della
disciplina stilistica, che era stata per lui fin dai primordi uno
dei punti di frizione nei confronti della scuola romantica, in
poetica della forma, polemicamente volta contro l'immagine da lui
stesso accreditata del poeta barricadiero: "Enotrio Romano non
è che artista; non vate, non precursore, non bardo e per
nessuna cosa al mondo poeta civile" (Ep., VI, p. 58). E proclamava
suo ideale artistico la lirica greco-latina, che già avevano
tentato di condurre ai modi italici i poeti del Seicento e del
Settecento e che egli avrebbe reso meglio di un Fantoni o di un
Cerretti, avendo temprato il suo stile alla lezione di Dante e del
Petrarca.
Ma l'accentuazione polemica della scoperta di una nuova zona di
poesia realizzante le attese radicate nel suo spirito fin dalla
giovinezza, che ora gli apparivano deviate da circostanze in
definitiva esterne verso la diatriba contro certi modi d'essere
della società contemporanea, non può assumersi a segno
di contrapposizione di due irrelati mondi artistici ed umani.
L'obliarsi nella visione serena dell'Ellade non rappresentava lo
stacco dalla poesia giambica, non solo per l'alternarsi già
notato dei due momenti in uno stesso arco cronologico, ma anche per
la carica polemica implicita in quella particolare celebrazione
dell'antichità, che s'innalzava sulla coscienza di una
frattura aperta dal cristianesimo nell'anima moderna e di una
decadenza fatale del senso eroico della vita. Il mito neoclassico di
una Grecia apollinea, la cui fisionomia spirituale si sarebbe
esaltata nella statuaria fidiaca e prassitelica, veniva ripreso, ma
non in un semplice gioco letterario, perché nuovi pensieri e
nuove condizioni storiche caratterizzavano questo revival culturale
e poetico. Al senso di una infelicità propria della coscienza
moderna (ma privo di quelle risonanze interiori che aveva avuto in
spiriti tormentati dal demone metafisico) si aggiungeva quello del
peso di frustrazioni stratificate nel corso di una secolare
schiavitù religiosa e politica, quindi l'immaginaria Ellade
serena si presentava ancora e più come rifugio ideale, mito
particolare nel più vasto mito romantico dell'evasione. Ma
non solo. La vitalità, che poteva irridere e flagellare il
mondo ma non rifiutarlo, la fede in un progresso che fosse anche
recupero delle fondamentali conquiste del passato, portavano il C. a
credere realizzabile un ritorno, nello spirito laico della cultura
contemporanea e nello slancio scientifico di cui gli appariva frutto
la civiltà industriale, al naturalismo antico, a una
religiosità tutta terrestre dell'uomo e delle sue opere.
Questo messaggio caratterizzava il fondo del suo classicismo, che
però non sempre era penetrato da un simile impegno
ideologico: non di rado, infatti, la sua poesia puntava al gioco
d'intarsio, al cammeo lavorato con eleganza preziosa. Ma anche in
questo caso l'esclusione voluta del momento sentimentale non
significava certo la conquista di un superiore distacco
dell'artefice di fronte all'opera: ed è proprio il desiderio
sofferto di serenità e armonia che diversifica la sua poesia
sia da un classicismo di tipo goethiano sia dalla distaccata
freddezza parnassiana e la rende qualcosa di altro che un
artificioso fiore di serra. Del resto egli non possedeva l'alto dono
di immergere nella luce ferma del mito la realtà presente, di
essere istintivamente classico, cioè moderno e antico allo
stesso tempo senza coscienza di divario; né sullo sfondo dei
suoi fantasmi di bellezza serena si profila l'aristocratico scenario
che aveva avvolto la poesia tra la fine del Settecento e gli inizi
del nuovo secolo, quando tutte le arti, e fin gli arredamenti e le
acconciature, in quel clima di fasto imperiale, erano improntati a
un unico gusto. Ora nel mondo borghese del secondo Ottocento certe
evocazioni antiche avrebbero avuto un sapore di archeologia
letteraria, ove non fossero state percorse da una nostalgia che il
sogno avvertiva come sogno, sicché potevano coesistere, senza
stridenti disarmonie, plastiche raffigurazioni di ninfe e nervose
figure di donna, come quella della chiesa lombarda che sembra uscire
da un quadro di Boldini (Era un giorno di festa).
Quasi a stabilire corrispondenze fra la vita e l'arte si suol porre
la nuova e più felice stagione della poesia carducciana sotto
il segno dell'amore per Lina o Lidia, come fu chiamata nei versi e
nelle lettere del poeta la signora Carolina Cristofori Piva.
Mantovana di nascita e milanese di educazione, ma costretta a
trasferirsi da una città all'altra per seguire il marito che
era colonnello dell'esercito, ella aveva già tre figli e
contava ventisei anni nel 1871, quando per civetteria e
vanità, coperte dalla scaltra intelligenza e dalla buona
cultura, entrò nella vita del Carducci. Ne nacque una
passione tormentosa ed esaltante, nelle cui maglie anche la donna fu
presa, benché a tratti e non al punto di sacrificarvi altri
amori. Di qui i contrasti e le recriminazioni, che occupano non poco
spazio nelle lettere del poeta (le sole che ci siano giunte), a cui
la gelosia spesso dettava pagine crudeli, a volta veri urli di belva
ferita, a volte stillanti sarcasmo contro la donna per le sue
indifferenze e i suoi tradimenti, o contro chi gli apparisse reo di
goderne i favori, Bonghi, Panzacchi, Verga per esempio. Certe ore
ostili esasperavano l'acre gusto di distruggere quanto di bello e di
nobile pur v'era in questo amore, finché l'ira cedeva alla
malinconia, lo scatto aggressivo al bisogno di comprensione e di
tenerezza.
Ma non solo perché specchio e documento della vicenda
biografica questa sezione dell'epistolario carducciano ha un suo
interesse e un suo fascino: che anzi proprio nei momenti più
legati all'urgenza della passione rivela le sue opacità e i
suoi scadimenti. Lina sapeva esaltare e magari esasperare i sensi e
i pensieri dell'uomo, ma anche stimolarne il desiderio, represso in
una lunga solitudine, di più sereni abbandoni, di
confessioni, di colloqui, che lo aiutassero a vedere più
chiaro nella propria anima e nella propria vita. La storia di questo
rapporto era già in nuce nelle convergenze e nelle divergenze
di carattere dei due protagonisti, che nella loro apparente
sicurezza dissimulavano una fragilità interiore: da un lato
un uomo rude, schietto, incapace delle disinvolture e dei sofismi
che si affinano nella consuetudine col mondo, in fondo scontento di
sé e della parte che si vedeva costretto a rappresentare,
reso più solo da lutti recenti e dalla incomprensione di
persone vicine, estranee ai suoi crucci segreti; dall'altro una
donna dalla sensibilità e sensualità esasperate forse
dalla malattia latente che l'avrebbe condotta ancor giovane alla
tomba (morì a Bologna nel 1881), con un gusto aristocratico
dell'arte e non senza ambizioni o velleità letterarie, che
reagiva a una mediocre esistenza borghese, trascinata nel tedio di
cittadine di provincia tra le angustie familiari e il peso di molte
maternità, cercando più intense esperienze e finendo
per collezionare amanti celebri.
Lina scrisse per la prima volta al C. nel luglio del '71; i due si
incontrarono poi nell'aprile successivo. La seconda delle Primavere
elleniche, la dorica, fu la raffinata e artificiosa dichiarazione
d'amore; la terza, la alessandrina, fu ispirata dalla visita che di
lì a poco il poeta fece con l'amante all'antico cimitero
milanese di San Gregorio fuori Porta Orientale, presso l'antico
lazzaretto. Gli incontri con Lina, a Milano a Modena a Rovigo a
Civitavecchia, le gite con lei nel parco di Monza, sull'Adda, alle
grotte di Catullo, al castello di Miramare interrompevano le lunghe
separazioni che acuivano il desiderio fino allo spasimo. A questi
giorni con il loro cumulo di sensazioni e il loro groviglio di
sentimenti, che la lontananza poi decantava, alle cose viste, ai
luoghi scoperti e, d'altro canto, all'attenzione nuova rivolta alla
propria vita intima e al cerchio delle esperienze quotidiane si lega
la genesi occasionale di alcune fra le più suggestive
"barbare" - Su l'Adda, In una chiesa gotica, Fantasia, Ruit hora,
Alla stazione in una mattina d'autunno, Sirmione - e di alcuni
squarci epistolari che ad esse vanno affiancati, o per l'autonomo
fascino che realizzano, o perché di quelle liriche sono il
preannunzio e dei loro motivi un'altra diversa formulazione. In Lina
al C. pareva di scorgere la incarnazione del suo ideale ellenico e
pagano della vita, di quell'armonia che il mondo presente avrebbe
potuto riconquistare solo superando, nella riscoperta unità
della natura, il dualismo fra spirito e materia, radicato nella
coscienza dai lunghi secoli del predominio cristiano. Il quale,
inoltre, avrebbe distrutto il senso plastico della bellezza per
un'arte di astrazioni e di simboli, sostituendo alle divinità
elleniche, che la statuaria aveva fissato nella loro
naturalità splendente, il concetto di un assoluto infinito e
quindi, secondo un punto di vista proprio degli antichi,
indeterminato e imperfetto. Così disposando le istanze del
gusto neoclassico, secondo cui anche la fantasia del poeta non
può creare che dando vita a valori plastici (era il senso
più vero dell'ostracismo foscoliano al verso che "suona" e
"non crea"), egli conduceva questo articolo del suo credo estetico
al centro ideologico che animava la sua attività e non solo
di poeta. Ne derivava non un'apertura di nuove prospettive, un modo
più sottile di intendere il rapporto fra determinate forme
d'arte e le loro matrici ideologiche, ma la riduzione astratta e
schematica della molteplicità di legami e condizionamenti fra
ordini diversi di fenomeni a scontro di opposte concezioni
religiose, con la conseguenza di trascorrere dalla identificazione
di diversi modi d'essere artistici e dei loro diversi fondamenti
ideologici, che già si incontrava presso critici e filosofi
romantici, alla condanna pregiudiziale di uno di essi, perché
estraneo al canone neoclassico e al suo sottinteso naturalismo,
mentre il senso di una duttile intelligenza storica si dissolveva in
una spiegazione deterministica e perfino razzistica: "il
cristianesimo è una religione semitica, cioè ebrea; e
i semiti, gli ebrei, non intendono, anzi odiano il bello plastico.
Ci mancava anche questo, che a noi, greco-latini, nobile razza
ariana, dovesse esser infusa una religione semitica, a noi figli del
sole, adoratori del sole e del cielo. Cotesto innesto contro natura
ci ha guastati, ci ha fatti falsi, tristi, pusillanimi, indolenti"
(Ep., IX, p. 108). La presenza in una poesia, che pure voleva
conformarsi a una poetica ora diversa da quella giambica, di questo
momento anticristiano, quanto aspramente polemico e oratorio
altrettanto debole nella sua struttura concettuale, finiva per
essere spia dell'insicuro, possesso della perseguita serenità
antica.
Dal '63 al '76, anni intercorsi tra l'inno A Satana e l'ode Alle
fonti del Clitumno, vi fu un affinamento stilistico ma non un
effettivo svolgimento di pensiero nel Carducci. L'ode, infatti,
ripropone, sia pure in diversa chiave psicologica e artistica, la
stessa contrapposizione dell'inno fra paganesimo e cristianesimo,
rivelando ancora una volta il carattere polemicamente emblematico di
quel particolare mito del mondo classico, che nel '76 era ormai
culturalmente arretrato: già da quattro anni, infatti, era
stata pubblicata La nascita della tragedia di F. Nietzsche, quando
il C. salutava l'anima umana "serena de l'Ilisso in riva", "intera
edritta ai lidi almi del Tebro". Anche sul piano della vita
interiore del poeta siamo di fronte al segno piuttosto di
unalacerazione e di un dissidio che di un possesso: lo stato di
grazia di un momento ("Sento l'ellenica vita / Tranquilla ne le vene
fluirmi") non significava la conquista di una splendida atarassia,
non solo per l'affiorare di turbamenti profondi ("E sempre corsi e
mai non giunsi il fine") che potrebbero ritenersi legati alla breve
scia di un sentimento occasionale, ma anche per la consapevolezza di
una barriera che ci separa dalla felicità antica ("Ahi, da
che tramontò la vostra etate / Vola il dolor su le terrene
culle"). Ma nel complesso di ragioni che impedivano al C. di
realizzarsi compiutamente come poeta del risorto naturalismo
ellenico, o, per usare una celebre definizione, come ultimo omerida,
emerge il suo modo di sentire la storia che avvolgeva certe istanze
dell'Ottocento storicista e romantico in una risentita passione
morale e in un ineliminabile velo di malinconia.
Non gli era estraneo il pensiero vichiano, anche se attinto
indirettamente e non penetrato nella sua complessa e difficile
articolazione; ma, al di là di questa ascendenza, al di
là dell'esercizio continuo nelle ricerche storiche,
affrontate e promosse con un senso quasi religioso delle antiche
memorie patrie, egli fu poeta della storia perché
avvertì la realtà tutta come un perenne fluire e
perdersi di immagini, di affetti, di ideali, su cui si leva la
poesia: "muor Giove e l'inno del poeta resta". E se, facendo sua
l'idea goethiana di "classico", celebrò il perdurare nel
cambiamento, l'immutabilità dell'anima umana nel rinnovarsi
delle generazioni ("ciò che fu torna e tornerà nei
secoli"), pure questo gioioso senso di un flusso perenne, in cui
l'uomo muore come individuo per vivere come umanità, non
rappresentò un approdo definitivo per il suo spirito. Anzi
una simile visione, se in alcuni momenti sembrò placare le
sue inquietudini, in altri le acuì tormentosamente. Nello
scorrere del tempo ("Pone l'ardente Clio sul monte dei secoli il
piede"), nello splendore della luce ("allor che il sole / Ne la
serenità di maggio splende") la terra gli appare un cimitero
infinito (Ballata dolorosa, Presso l'urna di P. B. Shelley):la
bellezza e la verità sono solo nel passato e nella morte.
Per l'illusione di ancorare a un avvenimento esterno le svolte
fondamentali della vita, il poeta credette e amò credere che
il suo rinnovamento artistico fosse legato all'incontro con Lina. In
realtà questo incontro e la genesi di una poesia o aperta con
più insistenza a motivi intimi o impegnata a realizzare un
ideale di bellezza pura, che la parola considerava come pietra da
incidere con paziente bulino, coincisero cronologicamente, e tra di
essi, sul piano psicologico, esistette un legame non solo fortuito.
Ma la vena di poesia che accoglieva le memorie e gli affetti
dell'uomo e il suo amore per un'arte dal classico decoro non nasceva
certo a partire dal 1872: la sua origine si confonde con i prodromi
dell'itinerario poetico carducciano. ètuttavia vero che quei
temi e quel gusto, in apparenza soffocati dal momento giambico,
venissero ora ripresi e condotti a più maturi esiti, anche
sotto lo stimolo di nuove suggestioni culturali (Platen,
Hölderlin, Goethe, Gautier, Baudelaire, Leconte de Lisle), come
la poesia giambica aveva operato rispetto a un'altra tendenza
affiorante nella poesia giovanile fra il dipanarsi del vario
sperimentalismo letterario, onde il suo valore di positivo acquisto,
contro cui non significava molto la confessione di sfiducia del
poeta allorché acquistava consapevolezza di procedere verso
una rinnovata fase della sua arte. Dalle Primavere elleniche del '72
prevalgono nella produzione lirica del C. una più vigile
sensibilità per i valori espressivi, un più frequente
ripiegarsi su motivi intimi, uno spegnere i toni alti per un
discorso più ricco di sfumature e di vibrazioni, uno schivare
le intemperanze oratorie, le sonorità esteriori, il realismo
forzato. Tuttavia anche nella sua stagione più feconda questa
poesia si realizza a momenti e bisogna sceverarla dalle molte scorie
che l'accompagnano. E ciò non per la pretesa di raccogliere
insieme frammenti di purezza lirica, infrangendo la architettura e
la dialettica di questa poesia, ma per indicarne il carattere
composito, la mescolanza di richiami eterogenei, l'alternarsi
più frequente che nell'opera di altri poeti di tratti di
indiscutibile fascino e cedimenti, sordità, giri prosastici,
soluzioni facilmente prevedibili. Ma più che una forzatura
sarebbe un vero e proprio errore, accostando i risultati di questa
poesia ad altre esperienze della contemporanea poesia europea o
peggio filtrandoli attraverso esperienze successive, concludere che
sul piano storico ci troviamo di fronte a un revirement culturale ed
artistico, a una inintelligenza delle nuove forme verso cui muoveva
la lirica del secondo Ottocento. Il che rinnoverebbe su un
più complesso sfondo europeo e nella prospettiva di poetiche
seriori l'accusa già mossa dal Thovez che nella scelta
linguistica, metrica, tematica il C. avrebbe operato a ritroso
rispetto al Leopardi, determinando un ristagno nel corso progressivo
dell'arte (ove l'errore, come fu notato, era nell'idea stessa di
progresso da un'esperienza poetica all'altra); e ancora condurrebbe
a respingere nell'ambito di impostazioni puramente retoriche quella
che era la struttura - narrativa, sentimentale, didascalica,
oratoria - di una poesia diversa nel suo impianto da quelle
esperienze d'avanguardia che negavano ogni struttura, ma, in
realtà sostituendole con altre più sottili e ritenute
meno eterogenee alla purezza lirica perseguita.
Nel 1873 per i tipi del Galeati di Imola videro luce le Nuove poesie
di Enotrio Romano, che raccoglievano quarantasei componimenti, di
cui nell'ordinamento definitivo di tutte le Poesie, uno sarebbe
passato agli Juvenilia, uno ai Levia Gravia, dieci ai Giambi ed
Epodi e trentadue alle Rime nuove.
Il volume, diversamente dalle raccolte definitive, dà
l'immagine dell'attività poetica carducciana nel suo
svolgersi su tre direttive non senza reciproci rapporti e talora
compenetrazioni: da un lato essa è dominata ancora
dall'impegno politico, che si traduce per lo più in invettive
e sarcasmi (vi sono, ad esempio, compresi gli epodi dedicati alla
Francia); dall'altro dalla scoperta del mondo ellenico come rifugio
sereno per lo spirito umano e insieme mito polemico contro il
romanticismo e il cristianesimo; infine dal motivo autobiografico,
che o è semplice spunto lavorato con orpelli letterari e pago
d'esaurirsi in eleganze più o meno manierate (caso limite la
capziosa suggestione baudelairiana di Vendette della luna), o
affonda le radici in un risentimento vitale, mette a nudo i
contrasti e gli amori di un animo elementare, la sua
terrestrità, la sua paura del pensiero che nega l'azione e
dell'oscurità che nega il sole (e nascono allora gli spazi e
i silenzi, in cui tra le reliquie di civiltà remote germoglia
un fanciullesco ed esclusivo desiderio di gloria - Avanti! avanti!
-; il freddo sgomento dell'improvvisa rivelazione della morte nel
dilagare della luce di giugno - Rimembranze di scuola -;la muta
solitudine dell'orto, ove la figura del melograno si staglia in uno
splendore disperato - Pianto antico -;la nostalgia di una vita
contadina rude e schietta, che si assomma nell'immagine della bionda
Maria di Idillio maremmano, rilevata attraverso un lavorio
stilistico, che rinverdiva classiche eleganze pariniane e foscoliane
in un colorito tra di Signorini e di Fattori). Le Nuove poesie
ebbero una seconda edizione per i tipi dello Zanichelli di Bologna:
vi erano premessi i giudizi di tre critici tedeschi, lo Hillebrand,
il Pichler e il von Thaler; mutamento di rilievo, rispetto alla
stampa del '73, era nella disposizione delle poesie non più
cronologica ma per affinità tematica (nel primo libro quelle
di ispirazione giambica, nei tre successivi quelle che sarebbero poi
passate nelle Rime nuove, nel quinto le traduzioni da Goethe,
Platen, Heine).
La più intensa attività poetica di questi anni non
significò per il C. un allentamento del serrato lavoro di
critico e di storico delle nostre lettere (più volte ebbe a
dichiarare la priorità di questo impegno e, di contro a
perduranti dubbi sulla sua poesia, la sicurezza che qui venisse
imprimendo una traccia non superficiale); né gli orizzonti di
un'arte serena come quella delle Grazie foscoliane, a cui veniva
conformando il suo lavoro, e in cui cercava oblio, valevano ad
allontanarlo dalle molte polemiche politiche e letterarie, talora
angustamente personali, nelle quali amò cacciarsi, facendo
spreco di virtuosismo dottrinario e stilistico, spesso
sproporzionato alla statura degli avversari e ai motivi del
contrasto. Importanti per il chiarimento dei presupposti e del
significato della sua arte sono le polemiche contro i detrattori e i
fraintenditori di essa, raccolte poi nelle Confessioni e battaglie.
Tra queste celebre quella contro il Guerzoni e lo Zendrini (Critica
e arte, 1874), che certo nella parte contenziosa sente l'usura del
tempo e svela stento nell'ironia e pose gladiatorie nell'invettiva,
laddove vivace e incisiva riesce in quella tipologia di critici,
attraverso la cui canzonatoria erosione viene delineando un'idea
severa degli studi, ricca di suggestione poetica e di pathos civile:
"Entrate nelle biblioteche e negli archivi di Italia, tanto frugati
dagli stranieri; e sentirete alla prova come anche quella aria e
quella solitudine, per chi gli frequenti co'l desiderio puro del
conoscere, con l'amore del nome della patria, con la conscienza
dell'immanente vita del genere umano, siano sane e piene di visioni
da quanto l'aria e l'orror sacro delle vecchie foreste…". L'amore
per l'erudizione e lo spirito risorgimentale si fondevano in questo
invito, che fu lo stimolo animatore della scuola del metodo storico.
Le lunghe ricerche documentarie non furono solo la base della sua
critica, ma anche uno dei caposaldi del suo magistero, che seppe
trascinare tante giovani energie a un lavoro mostrato non più
arido e mortificante. Ma quando questo suo ideale si traduceva in
canone di valutazione d'indirizzi e metodi disformi, allora si
irrigidiva in pregiudizio e mostrava l'intima confusione di
erudizione e storia: "Il De Sanctis è tutto metafisica e
nulla storia: il Settembrini è pieno di lacune, di
prevenzioni, di errori di fatto, e, come storico, meschinissimo"
(Ep., VII, p. 54). Naturalmente non solo su questo punto era il suo
divario dal De Sanctis e dalla scuola napoletana, da cui riluttava
in primo luogo la sua stessa forma mentis preclusa alla
sistematicità della filosofia se non proprio ad essa ostile,
poi la sua maggiore attenzione al momento letterario, tecnico, e in
conseguenza una più spregiudicata duttilità
ideologica, infine il suo costante impegno di scrittore che anche la
pagina critica pretendeva lavorata con intento d'arte.
Queste divergenze sono state variamente sottolineate per
caratterizzare, attraverso il confronto, due opere diversamente
significative: l'una critica e storica, l'altra erudita ed
artistica; l'una fondata su una salda concezione dell'arte, l'altra
priva della base filosofica indispensabile alla critica, quindi
valida piuttosto per la ricchezza e varietà della dottrina e
per la suggestione di non pochi tratti, meritevoli di figurare
accanto alle più celebri liriche di tema storico delle Rime
nuove e delle Odi barbare, da cui non differirebbero che per il
metro. Una tale rigida contrapposizione, fissata dal Croce, si
è venuta arricchendo di nuovi spunti, che l'hanno resa
più articolata e meno categorica. L'importanza
dell'attenzione carducciana ai valori stilistici e la preminenza nel
De Sanctis dell'ispirazione etico-civile (distinzione messa in luce
per la prima volta dal Petrini) non solo caratterizzavano due
personalità e due tradizioni diverse, quella tosco-emiliana
che il classicismo accoglieva come culto umanistico della bella
forma, e quella meridionale, dalla fine del Seicento impegnata nella
ricerca dei fondamenti della critica al di là o contro le
tradizionali istituzioni retoriche, ma anche si offrivano come due
esperienze non da contrapporre ma da integrare idealmente. La
divergenza di fondo non impedì al C. di far suoi spunti e
giudizi dell'avversato critico, come ad esempio nel discorso del '75
Ai parentali di Giovanni Boccacci e più ancora nelle pagine
dedicate al certaldese nei discorsi Dello svolgimento della
letteratura nazionale;e forse anche la lettura della Storia del De
Sanctis gli destò una maggiore attenzione, pur fra ironie e
impazienze, per il concetto di forma: ma si trattava in questo caso
di un rapporto di superficie, perché egli, sostanzialmente
estraneo ai presupposti idealistici del pensiero desanctisiano, non
colse, e non poteva, il significato vero di tale concetto e la sua
novità rispetto alla secolare tradizione grammaticale e
retorica.
Alla tradizione sembrò ritornare con più rigida
disciplina, dopo una fase di impetuoso e generoso contenutismo che
lo aveva spinto a sopravvalutare nella poesia il momento ideologico
e passionale. Non si trattava ormai di una ripresa di formalismo
umanistico, perché l'interesse per il fatto espressivo e le
sue intrinseche leggi di eleganza e di decoro nasceva da una
apertura a certe tendenze del gusto contemporaneo, in particolare a
quelle poetiche che in Francia reagivano all'immediatezza e alla
spontaneità romantiche attraverso il culto del lavoro
artistico impassibile e distaccato. Anche questo mito, come il
rinnovato sogno neoclassico di un'armonia ellenica, svelava al suo
fondo una concezione naturalistica dell'uomo e del mondo, che era il
significato ideologico sotteso pur nel professato disimpegno
dell'attività artistica; così, nell'ambito
dell'attività critica, l'attenzione per, la forma, se non
assorbiva come implicito il discorso su ogni altro valore e
significato, perché essa non era sintesi e totalità
come la "forma" desanctisiana, certo non lo escludeva esaurendo nel
suo giro ogni interesse. Quindi l'importanza data al momento tecnico
non era il segno di una critica da rhétoricien condotta con
finalità grammaticali e retoriche, perché le categorie
grammaticali e retoriche erano assunte come mezzo di intelligenza
storica. Del resto l'interesse del critico si appuntava con ostinata
finezza al particolare, ma poi risaliva al quadro d'insieme,
all'ambiente, ai tempi, alle condizioni di una data esperienza
artistica. Nell'uno e nell'altro momento spesso obliava le sue
scelte letterarie e morali, non per tiepidezza di eclettico ma per
disponibilità ad ogni serio impegno artistico al di là
dei motivi di consonanza o dissonanza col suo modo di sentire e di
pensare (e in questo atteggiamento affine ancora al Giordani, non
certo al De Sanctis), e non per indifferenza erudita ma per il gusto
della pura evocazione storica, del grande affresco, per il desiderio
di ricreare, quasi rivivendolo calato in esso, un momento del
passato senza lo stimolo della denunzia implacabile delle sue
interne aporie o del raffronto continuo con le proprie convinzioni
(e qui, più che ad altri, affine al Sainte-Beuve, anche se
non elegantemente scettico come il francese, né dotato delle
sue capacità di scavo psicologico e del suo interesse sottile
per la fenomenologia religiosa).
Da queste attitudini, affinate attraverso l'ininterrotto esercizio e
animate da quello stesso soffio di poesia che dava vita a tutto un
filone della sua lirica, da Poeti di parte bianca a Sui campi di
Marengo, Faida di Comune, Il Comune rustico, Il Parlamento,
nascevano i suoi saggi storico-critici più suggestivi, la cui
importanza particolare andrà valutata nel contributo da essi
recato alla storia dei singoli temi, ma il cui significato unitario
si può riassumere nell'attenzione nuova rivolta alle forme
della nostra tradizione letteraria e nel disegno di quadri vari e
mossi di certi ambienti su cui si profila e si caratterizza
l'individualità di un poeta. Tra i saggi che meglio danno il
segno delle sue doti sono quelli giovanili Delle poesie toscane di
messer Angelo Poliziano (1863) e Delle rime di Dante (1865);quello
occasionato dalle celebrazioni centenarie del '75 La gioventù
di Ludovico Ariosto e la poesia latina in Ferrara;i due volumi
Parinimaggiore e Parini minore, che abbracciano studi di oltre un
ventennio a partire dal 1881, di cui il più importante
è la Storia del Giorno del 1892, e che nell'insieme offrono
il ritratto del poeta e della cultura lombarda nell'età
dell'illuminismo, ricostruita nei suoi rappresentanti e nelle sue
istituzioni, con un gusto e un metodo che hanno ricordato il
Sainte-Beuve di Chateaubriand et son groupe littéraire.La
personalità e l'opera del Parini sonopresentate non nello
splendido isolamento di un'altezza morale e artistica non raggiunta
dalla poesia del tempo, ma in una fitta trama di rapporti
storico-culturali in primo luogo con l'Arcadia, rivalutata di contro
alla condanna romantica per la sua lezione di classicismo e di
eleganza letteraria; così IlGiorno è esaminato nella
sua struttura tematica, linguistica, metrica, considerata in
sé e nei suoi legami con la tradizione, attraverso una fine
analisi delle forme nel loro svolgimento, di cui un bell'esempio
sono le pagine sulla storia del verso sciolto. A questi saggi vanno
affiancate le ricerche volte a illustrare l'evoluzione di un gusto,
di un genere, di un metro, quali, per citare le più note,
Musica e poesia nel mondo elegante italiano del secolo XIV (1870),
La lirica classica nella seconda metà del secolo XVIII
(prefazione al volumetto della "Diamante" pubblicato nel 1871,
comprendente una raccolta di poeti settecenteschi), Dello
svolgimento dell'ode in Italia (1902).
Questo lavoro di analisi e di ricostruzione storica non esauriva
l'impegno del C., che non era solo quello di una spregiudicata e
disinteressata intelligenza del passato. Del resto certe categorie
storiche, quali egli le andava configurando, assommavano il
carattere polemico di tutta la sua opera e non solo critica: si
pensi alla sua idea del Rinascimento come netta contrapposizione al
Medioevo e in rapporto di continuità con la storia moderna,
che finiva per intrecciarsi con i motivi di rifiuto della scuola
romantica, nella quale idea il suo laicismo trovava giustificazione
e avallo nella misura in cui si faceva canone di interpretazione
storica. Più inquieto e tormentoso, proprio per la vis
polemica e per l'urgenza degli indirizzi che egli stesso perseguiva
nella sua opera di poeta, il rapporto con la letteratura
contemporanea o di cui avvertiva contemporanea l'influenza: le
preclusioni, le oscillazioni, l'alternarsi del rifiuto preconcetto e
della pacata disponibilità rivelano la loro ragione ove li si
riporti a un itinerario non solo critico.
è il caso del suo antimanzonismo. che non può ridursi
ad un unico movente e la cui storia si identifica con lo svolgimento
- non certo ricco di interna dialettica - della sua cultura e della
sua arte. Di questa sua avversione egli stesso raccontò
scherzosamente la lontana genesi autobiografica in apertura del
saggio del '73 A proposito di alcuni giudizi su Alessandro Manzoni,
serrata polemica col Ferrari e col Rovani, cioè con le
esagerazioni e le forzature di un culto apologetico, in cui l'Italia
intellettuale e morale si riconosceva. Nell'avversione giovanile era
stata operante anche la volontà di rompere con l'angusto
ambiente fiorentino, che si esaltava in quel culto, sia che nel nome
del Manzoni vantasse il suo preteso primato linguistico, sia che in
quel modello cercasse la giustificazione di una letteratura sciatta
ed edificante. Il successivo radicalismo giacobino ispirò un
più netto rifiuto dell'opera manzoniana, nei cui spiriti
animatori gli sembrava che si fondessero cattolicesimo, romanticismo
e restaurazione. Sul divario ideologico, che si rafforzava anche di
una diffidenza umana (orgogliosissimo cristiano il Manzoni e falsa
la sua ostentata umiltà, leggiamo in una lettera a Lidia), si
innestava la polemica letteraria, che non nasceva solo da un gusto
esclusivo nella sua forte individualità, ma anche dalla
volontà di espansione di un indirizzo che si scopriva erede
di quella tradizione indigena osteggiata e rifiutata dalla scuola
manzoniana. Pertanto il linguaggio sliricizzato dei Promessi sposi
non rappresentava una conquista né nella storia della
letteratura italiana dell'Ottocento né in quella dell'arte
del Manzoni, per chi dello stile riproponeva l'immagine nobile e
dotta del classicismo (e letterario e consapevolmente provocatorio
poteva dirsi anche nell'irto realismo linguistico della sua lirica
giambica), né il romanzo appariva un genere di piena
validità estetica a chi lo riteneva una forma decaduta della
poesia epica e nella sua fortuna e sviluppo scorgeva i segni di un
invilimento dei tempi, onde la naturale inferiorità del
Manzoni rispetto a Dante e ad Ariosto. Ma non sempre il C. filtrava
il suo giudizio critico attraverso le maglie della sua ideologia e
della sua poetica: nascevano quindi anche pagine manzoniane ricche
di considerazioni stilistiche e libere da preconcetti, come quelle
Dell'inno la Risurrezione in A. Manzoni e in s. Paolino d'Aquileia
(1884), su cui poteva fondarsi per rifiutare non a torto l'illazione
che le parole, pronunziate nel 1891, scoprendosi a Lecco il
monumento al Manzoni, rappresentassero una palinodia, anche se il
dichiarare leggenda il suo antimanzonismo concedeva troppo alla
circostanza celebrativa. Ancora in questo tardo intervento il
pregiudizio nei confronti del genere "romanzo" frenava l'adesione ai
Promessi sposi, cui pure si riconosceva il merito di avere compiuto
una "gran vendetta su 'l dispotismo straniero e su 'l sacerdozio
servile e ateo", giustificando così la validità
etico-politica dell'opera, i cui spiriti, prima decisamente
avversati, venivano ora ricondotti non senza forzatura al laicismo
dominante nello scorcio del secolo la cultura italiana.
Anche il Leopardi fu per il C. qualcosa di più e di diverso
di un poeta su cui concentrare lo sforzo di una pacata intelligenza
critica. Del resto il vero e proprio interessamento dello studioso
fu stimolato dalla circostanza occasionale del centenario: prima di
tale data, infatti, non si incontrano nei suoi scritti che sparsi
cenni, per lo più polemici, dettati dalla stessa urgenza
delle sue convinzioni morali e letterarie, che fatalmente venivano a
scontrarsi non con l'opera leopardiana, avvertita ormai chiusa nella
sua classica bellezza, ma con gli indirizzi perseguiti dai mediocri
ripetitori degli spiriti e delle forme di quell'opera. Il serrato
esame della debole tessitura del Consalvo (Jaufré Rudel,
1881)assommava questa reazione nei confronti del deteriore
leopardismo che aveva fatto scuola. Associato al nome del Giordani,
il nome del grande recanatese era apparso in fronte alle Rime di San
Miniato come segno di una scelta ideologica, prima e più
ancora che di una fedeltà artistica. Ma quando il tumultuoso
mondo di pensieri e di affetti della giovinezza si venne componendo
in quell'ideale ellenico, che nel mito letterario esprimeva una
visione laicista e naturalista del mondo, proprio allora più
che le affinità col messaggio leopardiano acquistarono
risalto le differenze. Di fronte al vitalismo prorompente che finiva
per farsi celebratore del progresso industriale e che sarebbe stato
conquistato dall'idea di una politica di espansione e di dominio, la
dura conquista di una verità senza illusioni e la ricerca di
un nuovo fondamento, non più metafisico, alla convivenza
umana non potevano apparire che una umbratile rinunzia.
L'eredità del Leopardi veniva affiancata a quella del
Manzoni: "E chi piagnucola o bestemmia rachiticamente e chi biascica
paternostri vada a farsi benedire o maledire, come più gli
piace. Via via il romanticismo così degl'inni sacri e di
Adelchi, come di Nerina e di Silvia o della Ginestra"; "Oggi
è il naturalismo che pervade tutto, oggi è l'umanesimo
che deve trionfare, oggi è l'ellenismo che ha da risorgere"
(Ep., IX, pp. 257-258).E a questi motivi si aggiungeva, sul piano
formale, l'ostilità, all'innovazione metrica della stanza
sciolta, che se nel Leopardi si giustificava per l'alta
qualità del dettato lirico, finiva per essere segno di
decadimento negli imitatori, come ogni rinunzia a più severa
disciplina artistica: "Leopardus autem genuit Aleardum Aleardus
autem universa pecora in conspectu domini" (Ep., XI, p. 28).
Nel 1898, a parte minori interventi d'occasione, il C. compose i due
saggi Le tre canzoni patriottiche di Giacomo Leopardi e Deglispiriti
e delle forme nella poesia di Giacomo Leopardi, che, pur importanti
per più di un risultato (la distinzione dei "grandi idilli" e
la felice caratterizzazione del loro tono poetico, l'ascendenza
tassesca e guariniana della canzone libera, il valore capitale della
Ginestra non solo per il linguaggio "più determinato e
ardito" rispetto agli altri canti ma anche per il pensiero, in cui
poteva scorgersi un accostamento al socialismo), non mostravano
certo la centralità che l'opera del Leopardi aveva avuto per
il De Sanctis, anche come affinamento della nozione di poesia e
quindi strumento di più sottile penetrazione critica e
storica. E contro il De Sanctis, accusato di un insicuro possesso
dei "documenti storici tecnici e artistici, onde bisogna dominare la
serie delle idee e lo svolgimento delle forme" rivalutava le canzoni
All'Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, opponendo la
sua giovanile commozione di fronte a quella che gli era apparsa
"lirica grande" alle riserve di un gusto sofisticato e nevrotico. Un
contributo fondamentale dette poi agli studi leopardiani,
richiamando l'attenzione sulle inedite carte napoletane (discorso al
Senato del 9 apr. 1897)e presiedendo la commissione deputata al loro
studio e alla loro pubblicazione: tra il '98 e il '900 vide luce lo
Zibaldone, allora intitolato meno leopardianamente Pensieri di varia
filosofia e bella letteratura.Ildiscorso Allo scoprimento del busto
di Giacomo Leopardi nella grande aula del Comune di Recanati il XXIX
giugno MDCCCXCVIII ha, come il discorso manzoniano di Lecco e
più ancora di quello, una certa aria di ufficialità
solenne, che toglie naturalezza al pensiero e dissolve l'attitudine
individualizzante nel generico della mitografia.
In genere le orazioni del C. (di cui le più famose sono:
Presso la tomba di Francesco Petrarca, 1874; Ai parentali di
Giovanni Boccacci, 1875; Per la morte di Giuseppe Garibaldi, 1882;
Per l'inaugurazione di un monumento a Virgilio in Pietole, 1884; Lo
Studio di Bologna, 1888; La libertà perpetua di San Marino,
1894)colpirono i contemporanei proprio per le loro virtù
più esterne e caduche: la loro sapiente orchestrazione, l'uso
sorvegliatissimo del climax, l'onda verbale e immaginifica che si
innalza e precipita per tornare a spianarsi in distese tranquille,
la dottrina esibita o dissimulata con signorile misura restano
spesso scompagnati dal rigore razionale che cerca la lucida
persuasione e non l'ammirato consenso. I giornali del tempo ci danno
la misura della popolarità che il poeta andava acquistando e
del successo di queste sue pubbliche comparse; ma il resoconto
più vivace si legge spesso nelle pagine del suo epistolario:
si direbbe che le calorose accoglienze gli accendessero l'estro
allegro (e nasceva, ad esempio, il ritratto canzonatorio
dell'Aleardi suo cooratore alle celebrazioni petrarchesche del '74).
Dagli anni dell'isolamento sdegnoso e polemico, il C. andava
passando alla fase della stima e del consenso non più di una
ristretta cerchia di scolari e di amici, ma della Italia colta, che
si veniva riconoscendo nella sua parola di artista e nella sua
lezione di studioso. Questo processo si basava sì sulla
fermezza e sulla serietà con cui aveva sempre atteso alla sua
opera, ma fu anche favorito dal nuovo rapporto che si venne
instaurando fra lui e il potere costituito. Ciò
significò anche il progressivo ammorbidimento delle posizioni
giacobine e degli spiriti rivoluzionari che avevano acceso di baleni
violenti la sua poesia, e potette apparire a giudizi più
intransigenti un disimpegno e una incoerenza. Nel 1876 aveva
accettato la candidatura alle elezioni parlamentari nel collegio di
Lugo, convinto che la parte democratica dovesse impegnarsi nel
confronto e conquistarsi il suo posto nella rappresentanza
nazionale: risultato eletto, si vide escluso dal sorteggio, non
potendo sedere alla Camera più di un numero stabilito di
professori universitari.
L'esclusione non dovette dispiacergli, dati i timori più
volte espressi che le incombenze di deputato avessero a distrarlo
dagli studi e, peggio, a dissestare il suo magro bilancio domestico.
Ma al fondo di questi motivi vi era la delusione che l'impatto con
la realtà gli aveva procurato: "Questa politica vista da
più vicino mi fa un senso di noia feroce e tempestosa".
L'amarezza e lo scetticismo conseguivano alla mancanza di
concretezza e di un preciso contenuto che caratterizzasse le sue
scelte politiche al di là di un nobile ma generico programma
ideale. La vittoria delle sinistre gli dà l'entusiasmo
momentaneo del trionfo su uomini a lungo e profondamente avversati
("I Lanza, gli Spaventa, i Visconti Venosta, i Guerra, i Finzi, i
Massari, i Bonghi, o abbattuti o feriti a morte"); ma, mentre saluta
con gioia la fine di un malcostume politico, pur teme l'insorgere
fra gli uomini nuovi del vizio antico ("il paese e lo stato non sono
più un'accomandita di faccendieri… pur che non si faccia una
nuova consorteria di sinistra"); e conclude, quasi a sottolineare il
suo distacco: "Non è la parte mia, non è il mio ideale
che trionfa" (Ep., X, p. 264). La sua fede basata sul temperamento
più che sul pensiero, la sua incapacità di comprendere
i tempi lunghi e i compromessi di cui l'azione politica non di rado
abbisogna lo portano da un lato a chiudersi in un sogno di grandezza
e di eroicità proiettato nel mito di Roma, dall'altro al
disprezzo e al sarcasmo contro i programmi concreti di
strutturazione strativa ed economica del giovane Stato, contro la
saggezza operosa, che gli appaiono politica grigia, senza lo
splendore di una grande idea, risultato di giochi parlamentari
tessuti da meschine camarille. Le crisi ministeriali succedutesi
nella primavera del 1881, ad esempio, gli destano un malumore
profondo, che si sfogherà nelle ingiuste contumelie contro
Depretis e Sella: "Che importa a me se l'irto spettral vinattier di
Stradella / mesce in Montecitorio celie allobroghe e ambagi? / e se
il lungi operoso tessitor di Biella s'impiglia, / ragno attirante in
vano, dentro le reti sue?". Di fronte al mortificante spettacolo
dell'oggi si apre la visione luminosa di Roma, mondo di affetti e di
memorie, simbolo di risorgenti speranze. In essa, come sul piano del
naturalismo estetico era avvenuto per l'immagine dell'Ellade serena,
confluivano un bisogno di armonia e di pienezza vitale da attuare e
la nostalgia consapevole di un'invalicabile lontananza. Sul piano
dell'arte poche figurazioni imprigionano quel mito intellettuale e
morale nella parola evocatrice libera dal peso di allotrie esigenze:
in alcuni momenti la raffigurazione delle rovine (Dinanzi alle Terme
di Caracalla)ha il senso della magnificenza che spira dalle
incisioni del Piranesi, corsa da una venatura di malinconia
romantica. Ma la purezza lirica facilmente si intorbida nelle
giunture oratorie e nelle impennate tonali, che rompono la felice
medietas dell'ode: "Febbre, io qui t'invoco, / nume presente",
"Febbre, m'ascolta. Gli uommi novelli quinci respingi e lor picciole
cose"; così certe interrogazioni incrinano di scatti
inquisitoriali il dipanarsi di più contenuto dettato,
sovrapponendo alla commozione lirica l'urgenza della polemica
intellettuale: "Chi l'ombre indusse del piangente salcio / su' rivi
sacri?" (Alle fonti del Clitumno); "Chi le farfalle cerca sotto
l'arco di Tito?" (Roma). Al di là del suo valore estetico
(che si realizza con una filigrana più pura proprio nei
momenti della pensosità nostalgica, in cui si effonde il
senso di una preclusione e di una disarmonia), il mito di Roma come
si articolò nella poesia carducciana ebbe una sua non lieve
incidenza sulla mentalità e sul costume dell'Italia tra la
fine dell'Ottocento e i primi decenni del nuovo secolo. Ma
può questa efficacia nel proporre un mito o nel fissare nella
parola definitiva un'esigenza diffusa disgiungersi dalla suggestione
e dal fascino di quella poesia? La distinzione che il ripensamento
critico è venuto operando nella complessità di motivi
e forme della poesia del C. non è essa stessa che un aspetto
della vita di quella poesia nella storia, su cui esercitò
presa per la forza sentimentale e la passione ideologica, o per il
valore oratorio prevalente sui momenti di più distaccata
contemplazione, o per questi stessi momenti che pure certe
idealità e certi pensieri sommovevano, finché proprio
per questo messaggio cadde in oblio e fu avversata, fino a
più recenti riprese in chiave e in prospettive nuove. Se il
mito di Roma che questa poesia celebrava fu accolto dal sorgente
nazionalismo come espressione precorritrice delle sue
idealità e dei suoi propositi, se l'oratoria fascista vi
scorse un'affinità col suo programma di imperialismo,
ciò riguarda la storia del nazionalismo e del fascismo ed
è solo in linea mediata un capitolo della fortuna, non
separabile da forzature e fraintendimenti, del poeta. Onde la
necessità di distinguere, caratterizzando le diverse matrici
storico-culturali a cui era riconducibile il vagheggiamento
carducciano della romanità, ancora pervaso di spiriti
risorgimentali, ulteriore simbolo della sua polemica laicista, ormai
volta contro la politica italiana incapace di creare sul piano
civile un equivalente della universalità della Chiesa. In
questo mito si assommavano il messaggio mazziniano, spogliato della
sua messianica sacralità; il pensiero degli storici tedeschi
che, offrendo una più articolata e suggestiva immagine della
romanità repubblicana e imperiale, ne additavano anche le
conquiste imperiture; il desiderio di certa intellettualità
europea, di cui era portavoce cattivante il Renan, che la capitale
del cattolicesimo divenisse capitale della scienza e del libero
pensiero; l'apostolato laicista di varie correnti risorgimentali,
che qualche anno più tardi sarebbe stato fatto suo dalla
rinnovata massoneria, contrapponentesi alla missione apostolica del
sacerdozio ecclesiastico; infine, elemento non trascurabile nella
risentita e passionale anima del Carducci, il senso di una
frustrazione storica accumulata nel corso del Risorgimento, dal
dissolversi dello spirito del '48 e dal crollo della Repubblica
romana, ai giorni neri di Aspromonte e di Mentana, alla vergogna di
Lissa, al compimento dell'unità quasi per dono straniero,
agli anni immediatamente postunitari caratterizzati dall'affarismo
cinico, dal gioco delle consorterie parlamentari, dallo scarso peso
della presenza dell'Italia nel consesso dei popoli. Una
eticità schietta pervadeva questa idea come si veniva
configurando nella sua poesia: la missione della terza Roma avrebbe
dovuto essere di civiltà nel nome della giustizia e del
diritto, di verità nel nome della scienza e della ragione, il
suo trionfo sulla barbarie religiosa e chiesastica, come proclamava
l'alcaica che di Roma celebrava, non senza artificiosità
retorica, l'annuale della fondazione. Ideale quindi lontano dai miti
oscuri del sangue, dalla crudeltà della guerra per la guerra,
che il decadentismo avrebbe rivestito di una morbosa funeraria
bellezza. Tuttavia, se la generazione che fece suoi questi miti e li
tradusse nella barbarie dell'imperialismo, pur consapevole delle
diverse scaturigini ideologiche e dei limiti tutti letterari
dell'opera carducciana (e un valore emblematico assumeva questo
divario come era fissato nettamente dal D'Annunzio nell'equivoca
esaltazione Diun maestro avverso, più sincera
dell'irrefrenabile magniloquenza agiografica del saluto ad Enotrio
che avvia a chiudere Maia), potette in quest'opera scorgere una
esperienza affine e precorritrice, non si può dire che solo
prevaricasse: accampava in primo piano, e sia pure in una
prospettiva distorta, il fondo oscuro di represse speranze, il sogno
di potenza irriso dalla pochezza dell'oggi, il malcontento di una
borghesia intellettuale rivoltata contro la volgarità e
l'egoismo della propria classe e insieme timorosa dello spettro del
socialismo, insomma le attese e le delusioni a cui il poeta aveva
dato forma smagliante nel mito letterario della renovatio imperii.
L'accostamento alla monarchia fu l'esito di una evoluzione naturale
nel C., dato il mutarsi della realtà storica italiana. Di
fronte al pericolo di un revanscismo clericale e di una crescente
presa sulle masse del pensiero socialista, la monarchia gli apparve
garante dello spirito laico del Risorgimento e di un progresso
sociale non sovversivo e rivoluzionario. La forma istituzionale
dello Stato, sancita dal compimento dell'unità nazionale, era
in fondo conciliabile con un programma anche di avanzato radicalismo
e con la libertà richiesta dalla dialettica politica, che
egli in fondo limitava alla lotta dei partiti borghesi. Questo
approdo non rappresentava una involuzione e un tradimento rispetto
al giacobinismo rivoluzionario di una volta: se mai della polemica
intemperanza degli anni giambici rivelava il limite ideologico, che
era nella matrice storico sociale del pensiero animatore.
Certo, nella esteriorità della vicenda giocarono un ruolo di
indubbio peso uomini di governo quali Cairoli e Crispi, che presero
a blandirlo pur nel rispetto della sua professione repubblicana; o
l'abile mediazione della regina Margherita, che seppe far breccia su
un animo semplice, anche toccandone discretamente la corda della
vanità artistica (e il poeta l'avrebbe salutata nel '78 con
la raffinata arcadicheria di un'ode, che apparve debolezza
imperdonabile nel sarcastico irrisore della Consulta araldica, ma di
cui anche il severo mazziniano A. Saffi lodò la cavalleresca
cortesia). L'incontro con i giovani sovrani a Bologna, raccontato
nelle suggestive pagine di Eterno femminino regale (1882), fu il
riconoscimento ufficiale che ormai anche lui non poteva disgiungere
la casa Savoia e l'unità nazionale. Col passare degli anni
l'ideale repubblicano gli venne rivelando sempre più la sua
inattualità storica e fu a poco a poco confinato fra i sogni
irrealizzati del Risorgimento.
Così il C., nonostante la fiera indipendenza del carattere
(di cui, ad es., fu prova l'atteggiamento che assunse a favore di
Oberdan e dell'irredentismo, con la conseguenza di provvedimenti
disciplinari e penali istruiti a suo carico), venne sempre
più aderendo al processo di trasformazione della vecchia
Sinistra operato dal Crispi, che salutava "novello Procida" nell'ode
del 1895 (Alla figlia di Francesco Crispi), proprio quando
più violenta era scatenata la tempesta dell'opposizione
contro il vecchio statista, la cui politica sarebbe stata travolta
di lì a poco dalla sconfitta di Adua; e sempre più
venne impersonando l'ufficio di vate nazionale dell'Italia
umbertina, avversato, e in qualche momento anche aspramente, dai
giovani radicali e democratici (nel marzo del '91 gli fu inscenata
una dimostrazione ostile nella sua aula universitaria), ma onorato
in molti modi fino alla nomina a senatore per decreto regio nel
dicembre 1890. Sugli atteggiamenti politici, sulle pubbliche prese
di posizione ideologiche del C. non poca influenza ebbe, a partire
dal 1886, la sua attiva partecipazione alla massoneria, rinnovata e
potenziata dalla opera di A. Lemmi, che fu legato al poeta da
amicizia oltre che da affinità di pensieri.
Nel 1877 era apparso, stampato dallo Zanichelli di Bologna, il
volumetto delle Odi barbare, che raccoglieva quattordici liriche in
metro neoclassico o barbaro; seguirono, sempre per lo stesso
editore, nel 1882 le Nuove Odi barbare (in numero di venti, di cui
tre traduzioni - una da Platen e due da Klopstock -, seguite dalla
versione in latino e in tedesco di quattro odi) e nel 1889 le Terze
Odi barbare (altre venti): queste tre raccolte furono fuse insieme
nelle Odi barbare del 1893, divise in due libri, e così
strutturate passarono nell'omonima sezione delle definitive Poesie.
La forma metrica innovava antichi tentativi risalenti a L. B.
Alberti e L. Dati, che si moltiplicarono dopo che il cinquecentista
C. Tolomei ne trattò nelle Regolette de la nuova poesia
toscana.Il C. ricorda fra i precedenti, di cui aveva studiato i
modi, il Tolomei appunto e il Chiabrera, il Ceroni, l'Astori, il
Rolli, il Fantoni ("Io non conosco altro che questi saggi; e questi
saggi, insieme con alcune odi tedesche, messi a raffronto delle odi
di Orazio e di alcuni frammenti greci, furono il campo de' miei
tentativi, anzi il punto di mossa", Ep., XI, p. 139). Riconosciuta
l'impossibilità di stabilire un sistema prosodico nella
lingua italiana, e rifiutando il sistema, seguito dai lirici
tedeschi e inglesi, di fare coincidere le sillabe toniche del verso
moderno con le arsi di quello greco-latino, il C. preferì
cercare una corrispondenza fra il ritmo di singoli versi o
combinazioni di versi italiani e l'andamento del verso classico come
suonava a una lettura grammaticale: barbaro, cioè straniero,
sarebbe ipoteticamente risuonato questo andamento metrico agli
antichi, nonostante il modellarsi sulla loro lirica. Una questione
tecnica, rimasta per secoli nel chiuso ambito dello specialismo,
diveniva così un tema di vivaci discussioni nella cultura
letteraria italiana, di cui è documento l'ampio e minuto
saggio di G. Chiarini, premesso alla seconda edizione del 1878 delle
Odibarbare (I critici italiani e le prime Odi barbare).Il
significato polemico di questa scelta tecnica era affermato
decisamente in limine alla prima raccolta nella saffica
Preludio:l'abbandono della snervata forma della lirica tradizionale,
"Odio l'usata poesia", cui veniva contrapposta la strofe "vigile,
balzante / co'l plauso e'l piede ritmico ne' cori", non
rappresentava l'apertura verso schemi meno rigidi ove il discorso
poetico potesse distendersi in più libera piena, bensì
una nuova e più ardua conquista, di cui era simbolo la
plastica immagine della ninfa inutilmente torcentesi fra le braccia
del suo silvano amatore. Tuttavia una simile scelta, al di là
e contro la direzione programmatica volta a più severa
restaurazione classicista, finiva per porsi sulla linea storica di
quel rinnovamento metrico inteso come conquista di strutture meno
vincolanti, che sarebbe culminato nel novecentesco verso libero e
quindi in una decisa rottura con le forme tradizionali. Anche questa
fase dell'attività poetica carducciana è ideale e non
cronologica, perché la lirica barbara si alternò con
quella conforme agli schemi chiusi da un rigido sistema di rime,
propri della versificazione romanza; anzi successiva a non poche
barbare e allo stesso Preludio del '75 è il saluto Alla Rima,
occasionato come reazione alle accuse mosse a questo strumento di
disciplina e di bellezza artistica da D. Gnoli (nell'articolo La
rima e la poesia italiana, apparso sulla Nuova Antologia nel
dicembre 1876), e condotto sulla scia di Sainte-Beuve in agili e
rimatissime strofette ronsardiane e chiabreresche. L'odicina Alla
Rima sarebbe stata collocata in fronte alla raccolta delle Rime
nuove edita nel 1887, che sistemava le Nuove poesie in una
disposizione diversa, con l'aggiunta di componimenti tratti da
precedenti raccolte e di altri o inediti o sparsamente pubblicati,
come i dodici sonetti del Ça ira, che già avevano
visto luce nel 1883 per i tipi del Sommaruga, dedicati a celebrare
gli avvenimenti del settembre 1792, "il momento più epico
della storia moderna" che sanciva le conquiste della Rivoluzione
francese, e come altre famose liriche fra le più suggestive e
intense del C. (Era un giorno di festa, Davanti San Guido, La
leggenda di Teodorico, Il Comune rustico, Faida di Comune, Ninna
nanna di Carlo V)fino all'Intermezzo, che sulla polemica contro la
poesia tardoromantica e la professione della sua poetica, dal
momento giambico trascorsa a vagheggiare l'imperturbabile
classicità ellenica, innestava memorie del paesaggio natio e
della fanciullezza, di affetti domestici lacerati dalla morte, con
un felice alternarsi di toni, dall'ironia alla pensosità
malinconica, dallo scherzo alla virile tristezza, che il chiaroscuro
e il contrasto heiniano mostravano ormai divenuto strumento di una
originale e nervosa discorsività lirica.
La poesia barbara, non diversamente dall'altra produzione
carducciana, da un lato propone i miti sentimentali e fantastici
della Grecia e di Roma come naturalismo ed eroicità di cui
è possibile la ripresa in una imminente era di scienza e di
progresso civile, filtrando dunque quei miti in una ideologia
inquieta di fermenti polemici, dall'altro celebra in quei miti un
bene perduto, verso cui si protende il desiderio e che solo il sogno
rinnova, sul grigio padule della realtà moderna. La storia
è o processo di recupero o successione di irrecuperabili
valori; ma sempre la pervade un senso di immanente giustizia, che il
poeta potrà ipostatizzare nella pagana Nemesi, celebrandone
il tragico corso nel destino dei Napoleonidi (Per la morte di
Napoleone Eugenio)o di Massimiliano d'Asburgo (Miramar).Accanto a
queste e ad altre odi che tendono alla rappresentazione solenne e
commossa, ove la poesia si realizza, quando si realizza, su un
impianto strutturale letterariamente costruito, fra mosse oratorie
ed insistenze non raramente di dubbio gusto (Alle fonti del
Clitumno, Alla Aurora, Sirmione, Roma, ecc.), non pochi
componimenti, in apparenza minori perché conclusi nel giro di
un breve sentimento, o di un pensiero, o di una immagine che sorrida
alla fantasia destando un incresparsi di memorie liete o struggenti,
rivelano in maniera più netta la finezza e la novità
di un linguaggio poetico nel complesso gravato di tanta oratoria
inerte.
Si pensi all'essenzialità di liriche quali Ave, Nevicata,
Nella piazza di San Petronio, evitando però l'insidia di
spostarle verso i più sottili esiti di certo gusto dominante
nel nostro secolo. Ma anche dove più composito è
l'intreccio dei motivi e il linguaggio tradisce, nelle sue
disuguaglianze e nelle sue inerzie, l'altemarsi dell'impegno alla
poesia e di più facili soluzioni letterarie, o del distaccato
evocare e della ricerca di un'efficacia etico-politica; anche dove
l'indecisione fra epos ed elegia impedisce da un lato alla visione
di accamparsi serena senza il contrappunto di una sensibilità
risentita, o alla vena di intime effusioni di consegnarsi senza il
velo di una presunta oggettività narrativa (e qui forse
è il segno di un presagio di poesia nuova, che non acquista
però coscienza critica) si avverte una autenticità di
ricerca, uno sperimentare che non ha la disinvolta eleganza,
né raggiunge i risultati più facili e sicuri di ogni
eclettismo estetico ed umano.
In Rime e ritmi (Bologna 1899), l'ultima raccolta, alla quale
seguì il silenzio della poesia negli anni del malinconico
tramonto dell'uomo, si possono distinguere da una parte le grandi
odi celebrative (Piemonte, Bicocca di San Giacomo, Cadore, Alla
città di Ferrara, La chiesa di Polenta), di cui la critica, a
partire dal Thovez, è venuta mostrando la stanca tessitura
storico-erudita, o la ripresa senza l'antico nerbo di certa polemica
giambica, o il carattere decorativo che accoglieva antichi temi e
movenze sotto una patina di maniera; dall'altra momenti di fresco
impressionismo, immagini che fissano limpidamente un pensiero o uno
stato d'animo, nostalgie d'amore e di spazi luminosi, profili di
persone e di paesaggi colti col senso realistico e lirico di certi
epigrammi goethiani o da Antologia palatina (Nel chiostro del Santo,
Mezzogiorno alpino, L'ostessa di Gaby, Presso una certosa).Dietro
questa poesia, in cui vibra talora il presagio del distacco e
dell'ombra, il biografo cercherà la traccia delle esperienze
umane che l'hanno occasionata: i viaggi, i nuovi incontri, gli amori
e le amicizie femminili (Annie Vivanti, la contessa Silvia
Pasolini), i soggiorni estivi sulle Alpi prolungati sempre
più per un bisogno di solitudine e di pace.
Un velo di tristezza avvolse gli ultimi anni del poeta, la cui
attività fu rallentata e resa difficile dalla precoce
decadenza fisica. La morte gli andava aprendo vuoti intorno (il
collega Gandino, l'allievo prediletto Ferrari); anche le
consacrazioni e i giubilei erano segno di smobilitazione e di
congedo. Nel 1904 lasciò l'insegnamento; nel 1906 fu
insignito del premio Nobel per la letteratura (la sera del 10
dicembre andò a dargliene comunicazione ufficiale nella sua
casa il barone De Bildt, ambasciatore di Svezia a Roma). Si spense
nella notte fra il 15 e il 16 febbr. 1907 a Bologna; fu seppellito
nella certosa.