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Re di Sardegna (Torino 1798-Oporto, Portogallo, 1849).
Figlio di Carlo Emanuele di Carignano e di Maria Cristina di Sassonia-Curlandia, ricevette a Parigi e poi a Ginevra un'educazione aperta e liberale e fu luogotenente dei dragoni nell'esercito napoleonico. Richiamato in Piemonte nel 1814 e riconosciuto erede al trono, insofferente all'atmosfera reazionaria della corte di Vittorio Emanuele I, si legò di amicizia ad alcuni giovani esponenti del liberalismo piemontese, tra cui Santorre di Santarosa e Carlo di San Marzano, i quali speravano nel suo aiuto per una concreta realizzazione dei loro ideali.
Scoppiato il moto liberale nel marzo 1821, Carlo Alberto, reggente per l'abdicazione del re Vittorio Emanuele I, concesse la Costituzione di Spagna; ma poi non osò opporsi alla volontà del nuovo sovrano Carlo Felice che da Modena gli ingiunse di abrogare la Costituzione. Ritiratosi a Firenze presso il suocero granduca di Toscana, una volta fallito il moto piemontese, Carlo Alberto vide minacciata dall'Austria la sua successione al trono: per dar prova del suo lealismo partecipò allora alla spedizione contro i liberali spagnoli, distinguendosi nella presa del Trocadero (1823).
Succeduto a Carlo Felice nel 1831, nei primi anni di regno attuò una politica risolutamente reazionaria: nel 1831 stipulò una convenzione militare con l'Austria, nel 1833-34 represse spietatamente il moto mazziniano e poi appoggiò finanziariamente i tentativi di restaurazione borbonica in Francia. Ma con una serie di riforme interne, specie a partire dal 1840, ispirate da una sorta di assolutismo illuminato (nuovo codice, abolizione delle dogane interne e della feudalità in Sardegna, appoggio alla cultura e alla scuola) potenziò il Piemonte a cui ormai si rivolgevano le simpatie delle correnti moderate.
Il 4 marzo 1848 Carlo Alberto, seguendo l'esempio dei Borbone di Napoli e di Pio IX, concesse lo Statuto e poco dopo (23 marzo) dichiarò guerra all'Austria, contro cui già Milano era insorta. La campagna militare, dopo le iniziali vittorie di Goito, Pastrengo e Peschiera, volse ben presto al peggio (sconfitta di Custoza del 25 luglio) e Carlo Alberto dovette firmare l'armistizio Salasco (9 agosto). Accusato di debolezza e di tradimento, volle riprendere le armi nonostante la grave impreparazione dell'esercito, ma fu subito sconfitto a Novara (23 marzo 1849).
Abdicò allora in favore del primogenito Vittorio Emanuele ed esulò in Portogallo, dove poco dopo si spense. La leale ripresa del conflitto, la rinuncia al trono e l'esilio riscattarono presso i contemporanei gli errori e le debolezze del passato e indussero taluni storici a esaltare la figura dell'infelice sovrano. Nella più recente storiografia prevale invece un più equilibrato giudizio e una più approfondita indagine sulle cause delle incertezze che caratterizzarono la politica di Carlo Alberto.
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DBI
di Giuseppe Talamo
Nato a Torino il 2 ott. 1798 da Carlo Emanuele, principe di
Carignano, e da Maria Cristina Albertina, principessa di Sassonia
Curlandia, venne tenuto a battesimo il giorno successivo da Carlo
Emanuele IV e dalla regina Maria Clotilde e gli furono imposti i
nomi di Carlo Emanuele, Vittorio, Maria, Clemente, Saverio, Alberto.
Carlo Emanuele e Maria Cristina Albertina si erano uniti in
matrimonio nel novembre del 1797. Il loro arrivo a Torino (20
novembre) - soprattutto per opera della sposa, non bella, ma vivace
e disinvolta, di un'eleganza originale che sfiorava talvolta la
bizzarria - aveva ravvivato l'ambiente stantio e tradizionale della
capitale sabauda. A palazzo Carignano, in un ininterrotto
susseguirsi di feste e trattenimenti, i due principi avevano accolto
la migliore società piemontese con grande larghezza, senza
nessuna preclusione politica, compresi gli ex giacobini, appena
liberati dall'amnistia sovrana. Del resto Carlo Emanuele, che aveva
combattuto con onore nelle campagne del 1793 e 1794 contro i
Francesi, era stato educato in Francia e non era rimasto
indifferente alle idee colà dominanti. Quanto a Maria
Cristina, non si era mai preoccupata di celare le sue simpatie per
la Francia rivoluzionaria.
Quando Carlo Emanuele IV fu costretto a rinunciare al trono dagli
occupanti francesi il 9 dic. 1798, i principi di Carignano
preferirono restare a Torino, aderendo al nuovo regime, ma le
alterne vicende militari e politiche e la volontà dei
Francesi li spinsero poco dopo a trasferirsi a Chaillot, presso
Parigi. Qui nel corso del 1800 nasceva Elisabetta (13 aprile) e
moriva il principe Carlo Emanuele (24 luglio). La scomparsa del
principe di Carignano venne acuendo, in Vittorio Emanuele I, re dal
1802, e nel fratello Carlo Felice, che era allora duca del Genevese,
i timori per l'educazione "diabolica" che C. A. avrebbe ricevuto
dalla madre "giacobina". Il sovrano sabaudo anzi, per ottenerne
dalla principessa vedova l'affidamento, ventilò anche una
minaccia (lett. a Carlo Felice del 24 luglio 1805, in Perrero, p.
27) di non sostenere i diritti di C. A. contro una pretesa avanzata
sui beni dei Carignano dal ramo cadetto, rappresentato da Giuseppe
Maria figlio di Eugenio di Carignano conte di Villafranca. La cosa
non ebbe seguito, e C. A. seguitò a condurre, in quegli
iniziali anni del secolo, una fanciullezza resa più incerta e
amara da notevoli difficoltà economiche. La principessa di
Carignano infatti, già invisa alle corti di Sardegna e di
Sassonia per le sue simpatie politiche, venne privata dei suoi beni
dai Francesi, e la sua situazione sarebbe stata assai critica se non
le fosse stato vicino il conte Alessandro di Saluzzo che, con
notevoli sacrifici finanziari (ipotecò i suoi beni e prese la
tutela dei minori, secondo la testimonianza del Costa, p. 11),
tentò ripetutamente di recuperare dal governo francese i beni
confiscati ai Carignano. I tentativi non ebbero esito favorevole, ma
il 22 febbr. 1810 un decreto imperiale - considerati l'incameramento
nel demanio francese dei beni dei Carignano, i servigi resi alla
Francia dal defunto principe Carlo Emanuele, e la precaria
condizione economica di C. A. - stabiliva di conferire a
quest'ultimo il titolo di conte, una rendita annua di centomila
franchi e "l'obligation d'avoir un hôtel situé dans
notre ville de Paris, et dont la valeur ne pourra étre
moindre de celle de deux années du revenu du dit majorat"
(Costa, p. 339). Questa "munificenza" di Napoleone I ebbe certamente
una motivazione politica, e qualsiasi altra interpretazione (come
quella di un "tendre sentiment du maître pour l'excentrique
princesse de Carignan", avanzata dal Costa, p. 12) sembra priva di
fondamento.
Nello stesso anno la principessa - si disse da taluno per evitare un
matrimonio impostole - sposò Julien Maximilien Thibaut conte
di Montléart, di ventitrè anni, ma "petit, boiteux,
assez laid, et à peine auditeur au conseil d'Etat". Questo
matrimonio peggiorò definitivamente i rapporti della
principessa di Carignano con la famiglia reale che, se
precedentemente l'aveva a stento sopportata, d'ora in avanti la
considererà uscita dalla famiglia e provvederà perfino
a far cancellare il suo nome dall'almanacco reale. C. A.
soffrì molto per il matrimonio della madre e la forzata
sottomissione al padrigno. Ebbe inizio allora quella introversione
che sarà un tratto caratteristico della sua
personalità. "Il n'aimait personne et personne ne l'aimait.
Ses songes étaient ses seuls amis. Il n'avait que sa
réverie pour confidente" (Costa, p. 15).
Finché rimase a Parigi, C. A. venne educato dall'abate
Liautard, poi frequentò saltuariamente il collegio S.
Stanislao. Ma nel marzo del 1812 la principessa di Carignano, forse
a causa della "mauvaise humeur impériale" (Costa, p. 16), si
trasferì da Parigi a Ginevra, e qui C. A. venne affidato al
pastore protestante Jean Pierre Vaucher che nel vecchio centro
cittadino (a rue de Saint-Léger, 22) aveva un "pensionnat",
dove, il giovane principe, nonostante la severità del
trattamento e la scarsezza di comodità, si ambientò
assai bene, tanto da serbarne sempre un buon ricordo.
Il periodo trascorso a Ginevra esercitò una indubbia
influenza sulla sua formazione: "la vita in un ambiente di borghesia
intellettuale, la familiarità e l'ammirazione per uomini di
quella borghesia davano a Carlo Alberto lo amore alla scienza e agli
studi, l'abitudine al lavoro, l'educazione dello spirito e del corpo
a piccoli sacrifici, a privazioni e a disagi" (Rodolico, I, p. 21).
Rousseau sarebbe stato ben presente in questo momento educativo di
C. A., per opera appunto del Vaucher, considerato un "devoto"
(Costa) o almeno "un ardente ammiratore del Rousseau" (Rodolico).
Questa influenza rousseauiana è stata giustamente
ridimensionata dal Ruffini, che ha rilevato: 1) che C. A. conobbe
direttamente assai più tardi le opere di Rousseau; 2) che
questo pensatore non era molto popolare a Ginevra nei primissimi
decenni dell'800, tanto che i testi fondamentali dell'insegnamento
accademico erano i trattati del Vernet, "così poco propenso
al Rousseau"; 3) che il Vaucher era un sociniano e la sua religione
era basata su di un razionalismo teologico, non semplicemente
filosofico.
La sconfitta di Napoleone a Lipsia (1619 ott. 1813) e l'avanzata
degli Austriaci verso occidente indussero la madre di C. A. a
lasciare con tutta la famiglia Ginevra e a trasferirsi in Francia.
Nel dicembre del 1813 C. A. tornò al collegio di S. Stanislao
e vi rimase fino al gennaio successivo, quando andò a Bourges
(che era la sede del reggimento dragoni al quale era stato
assegnato) presso il locale liceo-collegio militare. Ma gli
avvenimenti politico-militari incalzavano: Parigi venne occupata a
fine marzo l'imperatore abdicava il 6 aprile. E con la caduta di
Napoleone crollava "tutto un mondo di idee, di sentimenti, di
aspirazioni nella coscienza di giovani come C. A." (Rodolico, I, p.
24). Agli inizi di maggio con la madre lasciò Bourges, il 16
dello stesso mese fu ricevuto alle Tuileries da Luigi XVIII. Qualche
giorno più tardi C. A., con il consenso della madre,
partì per Torino, dove giunse il 26 maggio. Vittorio Emanuele
I avrebbe voluto in realtà presso di sé anche
Elisabetta (non la madre beninteso, che non avrebbe potuto neanche
accompagnare la figlia a Torino); ma questa restò in un primo
tempo a Parigi per assistervi la madre ammalata, e poi si
recò con la stessa alla corte di Dresda, in Sassonia.
Vittorio Emanuele I aveva voluto subito C. A. presso di sé
per provvedere alla sua educazione, per cancellare da essa le
influenze degli anni ginevrini e parigini. Fu scelto nel giugno 1814
come "governatore" del principe il quarantasettenne conte Filippo
Grimaldi del Poggetto, di provata fede monarchica, assai religioso e
molto severo, ma la scelta non si rivelò felice.
La prevalente preoccupazione di recuperare alla religione cattolica
il giovane principe fece sì che gli si mettesse accanto un
sacerdote che non lo abbandonava mai; la stessa severità del
Grimaldi finì con l'accentuare certi difetti di Carlo
Alberto. Giustamente si è parlato per questo periodo di "anni
perduti …anni d'irrequietezza, di malavoglia ed infingardaggine ed
anche di cattiveria" (Rodolico, I, p. 30). Le testimonianze
più disparate concordano in una valutazione negativa di C.
A., di cui vengono sottolineate costantemente la pigrizia, la scarsa
capacità di applicazione, la povertà di interessi.
Particolarmente preoccupata per la sua formazione religiosa era la
regina Maria Teresa alla quale C. A. appariva un "deista" se non un
"pirronista" (lett. del 13 febbr. 1816 e del 30 genn. 1817a Carlo
Felice, in Rodolico, II, p. 34), come appariva ignorante di cose
religiose allo stesso Vittorio Emanuele che ne scriveva al fratello
Carlo Felice (16 apr. 1817, in Ruffini, p. 3). D'altronde, C. A. era
anche in quegli anni praticante e osservante: come si possono
spiegare allora le opinioni pocoortodosse che esprimeva nelle
conversazioni private con la regina? Il Perrero ha ritenuto che si
atteggiasse a miscredente quando fingeva di confidarsi con Maria
Teresa. Con un giudizio più equilibrato e motivato il
Ruffini, pur nonescludendo che il fastidio per certo bigottismo
della corte sabauda e per il controllo continuamente esercitato su
di lui potesse indurre il principe, nei colloqui con la regina, ad
accentuare certe espressioni razionalistiche, ha dimostrato che C.
A. non era in quegli anni né un deista né uno
scettico, che il razionalismo che egli esponeva non era né il
deismo dei miscredenti né la religione naturale di cui
parlava Maria Teresa, ma quel particolare razionalismo teologico
ginevrino (socinianismo) che aveva un'indubbia connotazione
religiosa. Si può spiegare così anche come i rapporti
tra il Vaucher e C. A. siano restati ottimi (a C. A. il Vaucher -
che era sempre stato professore di botanica a Ginevra, prima di
occupare la cattedra di storia ecclesiastica - dedicò la
Histoire physiologique des plantes d'Europe, in 4 volumi, pubblicata
a Parigi nel 1841, l'anno della sua morte) anche quando, dopo
l'esilio fiorentino, la religiosità del giovane principe
raggiunse forme di autentica esaltazione.
Consapevole della vanità della sua opera presso C. A., e
della ostilità della regina, il Grimaldi diede le dimissioni,
accettate dopo qualche resistenza nel maggio 1816 dal sovrano che
nominò al suo posto il cavaliere Policarpo Cacherano
d'Osasco, ultrasettantenne. La sostituzione non giovò al
miglioramento dei rapporti tra C. A. e la regina, che
continuò a giudicare il giovane principe "nullement mauvais,
mais uniquement sensible au plaisir de se mocquer de tout le monde"
(lett. a Carlo Felice, 27 maggio 18 16, in Perrero, p. 101).
Il limite umanamente più grave di C. A. sarebbe consistito in
una mancanza di sensibilità, in una incapacità di
affetto che avrebbe prodotto nell'interlocutore una inevitabile
diffidenza, come accadrà - ricorda lo stesso Perrero -
all'Azeglio nel notissimo colloquio descritto nei Miei ricordi.Si
deve, a nostro avviso, parlare piuttosto della solitudine del
principe diciottenne, privo di affetti familiari, non impegnato
nella vita politica né in quella militare, tutto chiuso nella
sua immaginazione fantastica, "senza alcuna idea, alcun fatto,
alcuna persona, tra precettori e sacerdoti, che fossero stati in
grado di svegliare, d'infiammare la sensibilità di
quell'animo e la fantasia di quella mente" (Rodolico, I, p. 40).
Intanto si era già pensato, da più parti, ad un
matrimonio. La madre di C. A. aveva proposto, ma senza successo, una
principessa di Sassonia; pare che la stessa regina Maria Teresa
pensasse di fargli sposare una delle sue figlie (la voce, riportata
dal Costa, è nettamente smentita dal Perrero). Fatto sta che
verso la fine di quel 1816, agli inizi di novembre, C. A. chiese
formalmente a Vittorio Emanuele I e alla regina l'approvazione per
la richiesta dell'arciduchessa Maria Teresa, figlia di Ferdinando
III granduca di Toscana, nata a Vienna il 21 marzo 1801. Espletate
le formalità preliminari, C. A. partì il 17 marzo 1817
per Firenze per conoscere la futura sposa, vi giunse il 21 e il
giorno successivo fu ricevuto a corte, dove fece un'ottima
impressione. La corte granducale anzi anticipò i tempi,
pubblicizzando la notizia del fidanzamento prima del formale assenso
da parte di Vittorio Emanuele I. C. A. intanto proseguiva per Roma
-, dove si trattenne fino al 25 aprile e vide Carlo Felice -, e per
Napoli. Ritornato a Firenze il 21 maggio vi si fermò alcuni
giorni - nei quali avvenne il fidanzamento ufficiale - per recarsi
poi a Venezia, dove giunse il 28 maggio, e rientrare a Torino il 4
giugno. Di lì a pochi mesi, il 30 sett. 1817, erano celebrate
a Firenze, in S. Maria del Fiore, le nozze. Gli sposi lasciarono la
capitale toscana il 6 ottobre e si diressero verso Torino dove
fecero il loro ingresso solenne l'11 ottobre fra le festose
accoglienze della popolazione.
I pochissimi anni che separarono il matrimonio dai tragici
avvenimenti del '21 furono i più sereni per Carlo Alberto.
Per mezzo di Giacinto di Collegno, divenuto suo scudiero il 31 marzo
1816, si avvicinò a quel gruppo di giovani che avevano
costituito nel 1804 l'Accademia dei Concordi (Luigi Provana, Luigi
Ornato, Carlo Vidua, Cesare e Ferdinando Balbo) per difendere la
lingua e la tradizione italiana, e che perseguivano ancora tali
finalità, accostando all'Alfieri il Foscolo, il Petrarca e il
Machiavelli, non più contro il cosmopolitismo settecentesco
di ispirazione illuministica, ma contro il dilagare dell'influenza
asburgica nella penisola.
Furono questi giovani a proporre a C. A. come segretario il
letterato Alberto Nota, che riuscì a stabilire alcuni
contatti, peraltro abbastanza casuali e superficiali, tra il
principe e alcuni letterati di gran fama (Monti, Giordani) i quali
non risparmiarono lodi allo "astro sorgente". Probabilmente l'azione
del Nota sulla formazione di C. A. è stata sopravvalutata
dalla Avetta, ma ciò che ci sembra debba essere sottolineato
è che questi non inusuali giudizi adulatori da parte di
rappresentanti autorevoli ma disponibili del mondo della cultura
contribuirono a creare attorno a C. A. una aspettativa che
avrà poi esiti traumatici e drammatici sia per quel che gli
altri si aspettavano dal giovane principe sia per quel che C. A. si
aspettava da se stesso in vista della funzione che avrebbe dovuto
assolvere.
Si andarono così raccogliendo attorno al principe di
Carignano i fautori di un rinnovamento dello Stato sabaudo che
guardavano con simpatia alla Francia che in quegli anni effettuava
"la grande tentative d'expansion de la Charte" di cui ha parlato H.
Contamine. In quei mesi in Piemonte sembravano poter essere coronati
da successo alcuni tentativi di riforme di un certo respiro:
Prospero Balbo, nel settembre 1819, era stato incaricato di
preparare una riforma dell'amministrazione e della giustizia. Nel
luglio del 1820 però dovette rinunciare all'incarico. I primi
mesi dell'anno erano stati costellati, sull'intera scena europea, da
una serie di fatti inquietanti: la rivolta di Cadice (1º
gennaio), la concessione della costituzione del 1812 da parte di
Ferdinand VII (9 gennaio), l'uccisione del duca di Berry (9
febbraio). Nel diffuso malessere causato nel Regno sardo da questi
avvenimenti, nasceva il primogenito di C. A., Vittorio Emanuele (14
marzo). L'inizio dell'estate intanto confermava l'instabilità
politica di un altro Stato della penisola: il 2 luglio si
sollevavano alcuni reggimenti nel Napoletano e il 13 dello stesso
mese Ferdinando I concedeva la costituzione di Spagna.
Quale era il giudizio di C. A. su questo avvenimento? "…Le Royaume
de Naples et la Sicile ne nous font que trop voir - scrisse al
D'Auzers il 14 settembre del 1820 (lettera edita da Boyer) - les
excès auxquels l'irréligion, l'ambition et l'ignorance
réunies peuvent conduire les hommes; qui aurait pu croire que
les révolutionnaires de Naples ne s'entendissent pas
même entr'eux, qu'ils ne connussent pas les bases du nouveau
gouvernement qu'ils veulent donner à leur malheureuse patrie
et qu'au moment de se voir attaqués par une armée
autrichienne ils ne s'occupent que de leurs divisions et
peut-être même de massacres; ceux de la Sicile ne
rappèlent que trop les Vépres Siciliennes et les
horreurs de la révolution, il parait que les
révoltés se livrent à tous les genres
d'iniquités possibles, plusieurs villes ont
déjà été brulées, la plupart des
Seigneurs et des Grands propriétaires sont massacrés".
Ciò che C. A. condanna sono gli "eccessi" commessi dai
rivoluzionari, la loro incapacità politica - non sapevano
neanche quale governo costituire - e, soprattutto, il non aver
saputo far tacere i loro dissensi di fronte all'Austria, non il
regime costituzionale come tale. Il suo orientamento, pertanto, non
ci sembra sulla linea di "quel partito di destra che predominava in
Francia dopo il giugno 1820" (Rodolico, I, p. 93), ma piuttosto di
un regime temperato (come lo stesso C. A. scriverà più
tardi al De Sonnaz) secondo la Charte del 1814 cioè, e non la
costituzione spagnola del 1512. Lo stesso giudizio di L. Blanch,
inviato napoletano nell'agosto 1820 a Torino per riferire sugli
orientamenti del Regno sardo ("Il principe di Carignano passa per
liberale senza che di ciò abbia dato alcuna prova: è
amato dall'esercito e anch'esso odia gli Austriaci", in L. Blanch,
Scrittistorici, a c. di B. Croce, Bari 1945, II, p. 144), va letto
riflettendo che si tratta del giudizio di un inviato di un governo
costituzionale, e quindi esigente nel riconoscere la qualifica di
liberale. Significativo comunque che, anche a parere del Blanch, C.
A. passasse a Torino per liberale, opinione giustificata da coerenti
atteggiamenti del principe. Proprio nell'estate del 1820, infatti,
mentre Vittorio Emanuele I rifiutava i pressanti inviti dell'Austria
perché il Regno sardo partecipasse con forze proprie alla
campagna contro il governo costituzionale di Napoli, C. A. aveva
contatti con i federati lombardi (vide due volte il Pecchio)
nell'ipotesi di una guerra contro l'Austria, in qualche modo
avvalorata dallo stesso atteggiamento del sovrano.
Gli inizi del 1821 non furono tranquilli in Piemonte: le
dimostrazioni studentesche e gli scontri con la forza pubblica
dell'11 e del 12 gennaio acquistarono, in un'atmosfera già
preparata, una motivazione politica precisa, inizialmente
inesistente. Le voci di un imminente tentativo rivoluzionario, al
quale era associato il nome di C. A., divennero più numerose
e insistenti. Il giorno successivo alla partenza di Carlo Felice da
Torino, il 5 marzo, vennero effettuati i primi arresti, sulla base
di alcune lettere sequestrate che menzionavano anche il principe di
Carignano, al quale peraltro vennero fatte conoscere. Il 6 marzo ci
fu un primo colloquio tra C. A. e Santorre di Santarosa, Giacinto di
Collegno, Carlo di San Marzano, Moffa di Lisio: di tale colloquio -
e quindi dell'impegno assunto dal principe - abbiamo due
contrastanti testimonianze ne La rivoluzione piemontese di Santarosa
e nei Memoriali scritti da C. A. nel 1821 e nel 1839, che
rispettivamente affermano o negano il consenso di quest'ultimo
all'insurrezione.
Probabilmente C. A. che, in linea di massima, era (o credeva di
essere) d'accordo con i "ribelli", ritenne di poter essere il
mediatore tra il sovrano e l'elemento liberale. La convinzione di
poter assolvere a questa funzione mediatrice - in maniera autonoma,
a nostro avviso, e non "subordinata al previo volere del Re", come
ha ritenuto il Luzio - non era certo sorta allora, ma rifletteva la
generale attesa che da anni si era andata creando attorno alla
figura del principe e che finiva per condizionare la sua stessa
azione politica.
Il 7 marzo Vittorio Emanuele I partì per Moncalieri, dopo
aver avuto (secondo la testimonianza di Saluzzo) ampie assicurazioni
da C. A. sulla scoperta della trama rivoluzionaria e sulla rinuncia
a qualsiasi tentativo di forza. Secondo il Rodolico il Saluzzo
commise un errore di data: il colloquio sarebbe avvenuto non la sera
del 6 o la mattina presto del 7 - prima cioè della partenza
del re - la sera del 7, quando C. A., su consiglio anche del Balbo,
era riuscito a far rinviare il moto. Più verosimile ci sembra
la ricostruzione dell'Omodeo, secondo il quale "il Carignano, in
possesso del grave segreto, rassicura il re e lo fa allontanare da
Torino; poi, agendo sui congiurati, fa rimandare il moto: vuol porsi
nella posizione di mediatore e quasi di arbitro tra le due parti"
(p. 188). Un nuovo colloquio tra C. A. e i congiurati ebbe luogo l'8
marzo: in esso il principe assunse, anche secondo la testimonianza
del Santarosa, un atteggiamento più cauto; e infine un ultimo
incontro ci fu il giorno 9, quando C. A. mirava ormai soltanto a
saperne un po' di più sui progetti rivoluzionari e quindi
tutte le sue verbali adesioni alle tesi dei rivoluzionari erano
finalizzate a questo scopo. Intanto il pomeriggio del 10 marzo il
sovrano rientrò a Torino, allarmato dalle voci di
ammutinamenti di reparti militari a Pinerolo e ad Alessandria,
ch'egli però attribuiva alle dicerie che circolavano sulla
pretesa consegna di fortezze agli Austriaci. L'11 si riuniva il
Consiglio della Corona per affrontare il problema della
costituzione, mentre un gruppo di militari ammutinati, giunti presso
porta Nuova, chiedeva la costituzione di Spagna. In quella sede C.
A. (secondo quanto affermato da P. Balbo nel suo Diario) si
dichiarò favorevole alla concessione di una costituzione,
purché non fosse quella di Spagna. E tale parere stava per
prevalere anche perché di fronte a coloro che erano
favorevoli c'erano soltanto quattro persone che non aprirono bocca,
come scrisse la regina Maria Teresa alla moglie di Carlo Felice il
26 apr. 1821 (in Rodolico, I, p. 160), quando il conte di San
Marzano, reduce da Lubiana, confermò che mai le grandi
potenze avrebbero tollerato la concessione di una costituzione di
qualsiasi genere. A questo punto gli avvenimenti precipitarono:
mentre il re col principe di Carignano stava per partire per Asti
per raccogliervi le truppe fedeli, giunse la notizia che la
cittadella di Torino si era ribellata. Era il 12 marzo: la sera
Vittorio Emanuele I convocava i ministri per comunicare loro la
decisione di abdicare a favore di Carlo Felice; nell'attesa del
rientro di questo da Modena avrebbe tenuto la reggenza Carlo
Alberto. Per l'intera giornata del 13 il reggente fu sottoposto a
fortissime pressioni da parte dei costituzionali perché
concedesse la costituzione spagnola: qualsiasi altra concessione
sarebbe stata ritenuta del tutto insufficiente. Non mancarono
manifestazioni popolari dinnanzi al palazzo reale: in una situazione
di grande tensione tutte le autorità convocate da C. A. -
decurioni di Torino, ministri, generali - convennero sulla
opportunità di cedere per evitare una guerra civile. La sera
di quello stesso giorno il reggente concedeva la costituzione di
Spagna, salva l'approvazione di Carlo Felice, e due giorni
più tardi prestava il giuramento. Contemporaneamente, era
premuto anche dai federati lombardi perché dichiarasse la
guerra all'Austria. Ma se aveva dovuto cedere di fronte alla prima
richiesta e concedere la costituzione, C. A. era ben deciso a non
cedere di fronte alla seconda. Tentò anzi di servirsi del
diffuso sentimento antiaustriaco per raccogliere truppe al confine
con la Lombardia da utilizzare in realtà, per stroncare la
rivoluzione. I contrasti con la Giunta di governo e con il comitato
di Alessandria andavano aumentando, quando il 18 marzo giunse a
Torino Silvano Costa de Beauregard, scudiero di C. A., con un
proclama di Carlo Felice che dichiarava "nullo qualunque atto di
sovrana competenza che possa essere stato fatto o farsi ancora dopo
l'abdicazione" di Vittorio Emanuele I, non emanato da Carlo Felice o
dallo stesso "espressamente sanzionato". Di fronte all'evidente
sconfessione della reggenza, C. A. convocò il Consiglio dei
ministri a cui comunicò la sua decisione di dimettersi, ma
dovette rinunciarvi per il rifiuto dei ministri di assumere il
potere in una situazione che stava precipitando verso la guerra
civile il 19 e il 20 marzo, infatti, le pressioni su C. A. per
l'immediata dichiarazione di guerra all'Austria aumentarono ancora
di intensità. Il 21 marzo, dopo aver fatto allontanare da
Torino la moglie e il piccolo Vittorio Emanuele, il principe
lasciò di notte palazzo Carignano; si fermò la
giornata del 22 a Rondissone raggiunse il 23 San Germano dove il
generale Roberti, dopo avergli consegnato un messaggio di Carlo
Felice ("Puisque vous voulez un ordre de ma main, je vous donne
celui de vous rendre incessamment à Novare"), assunse il
comando delle truppe che avevano seguito il Carignano. A Novara
questi trovò l'ordine di Carlo Felice di recarsi subito in
Toscana: la speranza ch'egli aveva di poter rientrare con le truppe
a Torino per restaurarvi l'autorità sovrana (e impedire
l'intervento austriaco) era definitivamente svanita.
Si chiudeva così una pagina della vita di C. A. sulla quale
si aprirono subito, e durarono a lungo, più tenaci e violente
le polemiche. L'incertezza della sua condotta spiega le accuse di
tradimento che dalle due parti gli vennero rivolte. Sul problema,
nonostante la ricchezza della documentazione, non ci sembra
accettabile la soluzione del Rodolico che, riconosciuta la
responsabilità del Carignano per i contatti avuti con i
costituzionali ancora fino all'8 e al 9 marzo, conclude che il
principe non fu "nè un settario, nè un liberale,
nè un rivoluzionario; egli volle essere il soldato del re
sabaudo e della Patria italiana" (I, p. 208). Senza essere un
"rivoluzionario", C. A. aveva ampiamente partecipato alle speranze
di quanti intendevano rinnovare in senso costituzionale il Regno
sardo, accentuandone la politica "orientale" in senso antiaustriaco.
Queste sue tendenze erano state certo ingigantite da voci
interessate a presentarlo come "liberale" per dare prestigio e
autorità al movimento, ma egli ne ebbe consapevolezza e la
sua condotta sembrò confermare in larga misura tale fama.
D'altronde, data la struttura sociale del Regno, poche grandi
famiglie creavano l'opinione pubblica: "La veritable boussole de
l'opinion publique - scrisse il d'Auzers - est entre les mains d'une
centaine de familles, résidant six mois de l'année
à Turin et six autres dans leurs terres…" (Boyer, p. 30) e le
tendenze novatrici erano abbondantemente sparse nella giovane
nobiltà piemontese che costituiva appunto quelle "grandes
familles". Per la fama di "liberale" che lo circondava da tempo, per
i rischi che aveva corso, per gli stessi personali rapporti di
amicizia esistenti con alcuni autorevoli membri di questa inquieta
nobiltà piemontese, C. A. ritenne di poter controllare il
movimento, salvando al contempo le prerogative della monarchia e le
istanze essenziali dei costituzionali. L'irrigidimento di questi
ultimi sulla costituzione di Spagna e sulla richiesta immediata di
guerra all'Austria, da un lato, e l'abdicazione di Vittorio Emanuele
I, dall'altro, tolsero qualsiasi possibilità di successo al
suo tentativo, sul quale si addensarono da entrambe le parti le
accuse di tradimento e di mistificazione basate su atteggiamenti e
disposizioni ambigue e contraddittorie, dalla mancata denuncia dei
piani dei rivoluzionari alla preparazione della controrivoluzione,
al ritardo nella pubblicazione del proclama di Carlo Felice dal 18
al 21 marzo.
A Firenze C. A. giunse il 2 aprile, ancora deciso però a non
subire passivamente la volontà di Carlo Felice: pensava
infatti di recarsi presso Vittorio Emanuele I per giustificare la
propria condotta e per spingerlo a riprendere la corona. Convintosi,
anche per merito dell'amico C. Alfieri, della pericolosità
dell'iniziativa, stese il suo primo scritto sugli avvenimenti del
marzo piemontese che contribuì ad aumentare la generale
ostilità e l'isolamento che lo circondavano. La profonda
depressione che s'impadronì di lui lo spinse a progettare
viaggi in terre lontane, perfino a pensare di togliersi la vita.
Intanto in Piemonte, dopo la sconfitta delle truppe costituzionali
dell'8 apr. 1821 presso Novara, cominciavano la repressione e
l'epurazione, assai pesanti ma sempre inferiori a quanto desiderava
Carlo Felice "un po' per consapevole e saggia politica tendente ad
evitare che si facessero troppi martiri, un po' per le
solidarietà personali e di classe che pur esistevano tra il
più dei condannati e le famiglie nobiliari che fornivano i
quadri del governo restaurato" (Romeo, pp. 29 s.).
Convinto moralmente della colpevolezza di C. A. (nel novembre
dell'anno 1822 appariva De la Révolution piemontaise del
Santarosa che accusava il principe di aver dato la sua approvazione
al piano dei ribelli), Carlo Felice cercò in tutti i modi di
escluderlo dalla successione a favore del figlio Vittorio Emanuele,
dopo un inevitabile periodo di reggenza. Ma a tale piano erano
contrari non soltanto il conte de La Tour, che aveva sostituito nel
luglio 1822 il conte Della Valle alla segreteria degli Esteri, ma le
stesse grandi potenze: la Francia favorevole al riconoscimento dei
diritti di C. A. in funzione antiatistriaca, l'Inghilterra
preoccupata per la situazione europea (rivoluzione in Spagna e
rivoluzione in Grecia), le corti tedesche, lo stesso Metternich cui
bastava soltanto un impegno in senso conservatore di Carlo Alberto.
Da questa mutata atmosfera nacque il piano di Carlo Felice, maturato
nel congresso di Verona nel dicembre 1822, consistente nell'inviare
C. A. a combattere in Spagna i liberali per scavare un solco
definitivo tra il principe e i costituzionali Piemontesi, e nel
sottoporlo successivamente a un solenne giuramento di mantenere
intatte le leggi fondamentali del Regno sabaudo.
Fu lo stesso C. A. a sollecitare da Carlo Felice l'autorizzazione a
partire per la Spagna (febbraio 1823), giunta soltanto il 26 aprile.
Il 2 maggio, in compagnia del generale Faverges, del colonnello
Isasca, del conte di Robilant e del conte SilvanoCosta,
s'imbarcò per Marsiglia dove giunse il 7 maggio.
Proseguì poi per Baiona, Burgos, Madrid dove rimase dal 24
maggio al 2 giugno, Cordova, e finalmente Porto Santa Maria, in
attesa dell'attacco contro la penisola del Trocadero che costituiva
l'ultima difesa della baia di Cadice: il coraggio mostrato
nell'assalto alla fortezza (agosto 1823) gli fruttò la croce
di S. Luigi e soprattutto l'attesa "riabilitazione". Giunto a Parigi
il 3 dicembre, sottoscrisse verso la fine del mese, nell'ambasciata
di Sardegna, il giuramento deciso a Verona sul mantenimento delle
leggi fondamentali dello Stato sabaudo. Poco dopo moriva Vittorio
Emanuele I (10 genn. 1824), ma soltanto sul finire del mese C. A.
ebbe il permesso di rientrare in patria. Giunse a Torino il 7
febbraio, ma potè entrarvi solo dopo le 10 di sera, allo
scopo evidente di evitare manifestazioni pubbliche e festeggiamenti.
Da quella primavera ebbe inizio per il Carignano una sorta di esilio
in patria: se è vero, infatti, ch'egli aveva avuto il perdono
dal sovrano, è pur vero che fin dalla prima udienza (8
febbraio) - che il Costa definì "burrascosa", ma che certo
non fu cordiale -, i rapporti tra il sovrano e C. A. si mantennero
strettamente formali. Il sovrano lo nominò, è vero,
suo erede universale (5 marzo 1825), ma non volle mai concedergli il
titolo di Altezza reale, al quale aveva diritto la moglie quale
arciduchessa, per conservargli semplicemente quello di Altezza
serenissima. Per smentire le voci di possibili insidie ai diritti di
successione, dietro le quali si vedeva, più che Francesco IV
di Modena, lo stesso imperatore d'Austria, Torino e Vienna
organizzarono una visita di Francesco I a Genova nel maggio 1825.
A parte la tarda e un po' fantastica ricostruzione del Mettenich (C.
A. in ginocchio di fronte a Carlo Felice e all'imperatore ottiene
finalmente il completo perdono e il riconoscimento dei suoi diritti
di successione), l'episodio rientrava nella schermaglia diplomatica
tra Francia e Austria che aveva per oggetto il Regno sardo.
D'altronde l'estremo riserbo di C. A., la sua docilità di
fronte a Carlo Felice impensierivano non poco il Barante,
rappresentante francese a Torino, il quale si mostrava assai
pessimista nelle previsioni sul futuro sovrano. Eppure, scriveva
l'ambasciatore, "il n'est pas sans activité d'esprit … il a
de l'instruction. Sa conversation est d'un homme qui a lu et qui a
réfléchi". La sua sensibilità verso l'opinione
pubblica, la sua ricerca del consenso lo rendevano assai diverso da
Carlo Felice. Qualche giornale francese avrebbe dovuto pubblicare -
suggeriva il Barante, il cui consiglio non fece in tempo ad avere
seguito - un articolo cauto dove ci fossero elogi, speranze e
suggerimenti di riforme appena C. A. fosse salito al trono (Segre,
p. 476).Carlo Felice morì il 27 apr. 1831. Le attese per
l'ascesa al trono di C. A. erano varie e contraddittorie: a voci su
presunti complotti a favore del duca di Modena, che avrebbero potuto
contare sulla connivenza di alcune alte cariche dello Stato, si
alternavano voci su altrettanto presunti contatti tra il nuovo
sovrano ed elementi liberali. Ma la posizione immediatamente
assunta, coerentemente antiorleanista, fu di affiancamento
all'Austria in senso antifrancese.
Come scrisse lo stesso C. A. alcuni anni più tardi, "la
fermentation, l'inquiétude étaient
générales". Da parte dell'Austria vi era ad esempio
una persistente diffidenza. Pur ritenendo il nuovo re "pour le
moment très sincérement devoué à la
bonne cause", il Bombelles, nuovo ambasciatore austriaco a Torino
dopo il conte di Sennft, pensava che l'Impero non avrebbe più
potuto contare su un alleato fedele "par principe et par
prédilection… ce n'est que dans ses interêts que nous
avons à l'avenir à chercher la garantie de sa
fidelité" (dispaccio del 6 giugno 1831, in Rodolico, I, p.
455). Questa diffidenza non era per nulla giustificata: proprio sul
piano dei "principi" l'atteggiamento di C. A. non dava adito a dubbi
di sorta, come dimostrano ad abundantiam la sua totale adesione alla
politica di Carlo X e il suo incontenibile odio contro Luigi
Filippo, "scélérat", "lâche", "infâme",
come era definito in una nota lettera al d'Auzers del 22 ag. 1830
(in Rodolico, I, p. 449). Alla notizia dello scoppio della
rivoluzione di luglio, C, A. aveva addirittura chiesto a Carlo
Felice di poter andare a combattere a favore di Carlo X "pour
abattre Louis Philippe et l'infame gouvernement provenant de la
Révolution" ma l'autorizzazione del sovrano era arrivata
insieme con la notizia dell'abdicazione dell'ultimo Borbone (cfr. F.
Salata, p. 60). C. A. non aveva alcun dubbio che il successo della
monarchia orleanista avrebbe segnato per tutta l'Europa l'inizio di
un periodo di rivolgimenti e che la Francia di Luigi Filippo non
solo avrebbe aiutato direttamente o indirettamente i movimenti
liberali nell'intero continente, come le rivoluzioni belga (agosto
1830) e polacca (novembre 1830) sembravano confermare, ma avrebbe
anche ripreso ai danni degli Stati vicini una politica
espansionistica. Di qui la profonda convinzione della
necessità di abbattere l'usurpateur.
Il sovrano diede disposizioni alle autorità della Savoia e di
Nizza per facilitare l'ingresso dei legittimisti, diede loro dal suo
patrimonio privato la somma di 780.000 franchi - a quanto egli
stesso scrisse nel citato Diario - e li spinse ad iniziare la
progettata rivoluzione in Francia con grande energia perché
un ritardo avrebbe potuto compromettere la cosa. Nella delicata
situazione internazionale e italiana del 1831 non vennero ascoltati
da C. A. i suggerimenti del conte di Sales, ministro sardo a Parigi,
che dava una più realistica valutazione della monarchia
francese e cercava di trattenere il suo governo da una immediata
alleanza con l'Austria. Le trattative per una convenzione militare
tra i due paesi iniziate da Carlo Felice nel 1829, vennero
rapidamente portate a termine. Stipulata il 23 luglio 1831 (una
convenzione supplementare venne firmata il 27 marzo 1832, e quattro
articoli addizionali nel febbraio 1835), la convenzione prevedeva
non soltanto la difesa di entrambi gli Stati "contre toute
aggression et entreprise de la part de la France", ma anche
l'opposizione di quest'ultima all'ingresso nel Regno sardo di truppe
austriache chiamate dal sovrano a causa di una rivoluzione interna o
di tentativi di penetrazione da parte di fuoriusciti.
Il carattere "ideologico" della politica estera carloalbertina di
questi anni ci sembra indiscutibile, come è dimostrato anche
dagli aiuti forniti ai carlisti in Spagna contro Isabella, e a don
Miguel in Portogallo contro Maria da Gloria. Solaro della Margarita,
successo nel 1835 al La Tour, che pure diede più mordente
alla politica sabauda, fino ad allora quasi identificata con quella
asburgica, accentuò questo carattere "ideologico" rompendo i
rapporti diplomatici e poi anche quelli commerciali con Spagna e
Portogallo con conseguenze assai gravi per il commercio del regno.
Alla fine del decennio la tensione diminuì, ma bisogna
aspettare il 1842 per il riconoscimento di Maria di Portogallo e
addirittura il 1848 per il riconoscimento di Isabella II di Spagna,
nove anni dopo la fine della guerra civile (31 ag. 1839). Difesa del
legittimismo dovunque corresse pericolo, lotta contro la rivoluzione
dovunque si manifestasse e nonostante i suoi camuffamenti (come in
Francia): questi due motivi caratterizzano la politica estera sarda
nei primi due lustri del regno di Carlo Alberto. Questa
intransigenza causò un raffreddamento nel rapporti con
l'Inghilterra, completando quell'isolamento del Regno sardo dalle
potenze occidentali che non poteva non tradursi - quali che fossero
le aspirazioni autonomistiche di C. A. e dello stesso Solaro della
Margarita - in un più stretto legame con l'Austria.
L'ossessione antiliberale, così largamente presente
nell'animo di C. A., fu avvalorata da alcuni gravi avvenimenti che
si susseguirono nel Regno a partire dalla primavera del 1831, appena
salito al trono: prima i Cavalieri della libertà, che
aspiravano a una trasformazione dello Stato in senso costituzionale
e sui quali si stava già indagando negli ultimi mesi del
regno di Carlo Felice; due anni più tardi, nel 1831, la
mazziniana Giovine Italia, diffusasi anche nell'esercito, i cui
preparativi vennero scoperti per caso; tra gli ultimi di gennaio e i
primissimi di febbraio del 1834, la tentata invasione della Savoia e
il contemporaneo tentativo di Genova.
Ma ciò che soprattutto sconvolse l'animo del re fu il timore
di una infiltrazione mazziniana nell'esercito che, in uno Stato
assoluto come il Regno sardo, costituiva il primo e indispensabile
strumento del potere. Questo spiega l'adozione di misure non solo di
estremo rigore, ma talvolta di palese illegalità, come la
decisione di far giudicare anche i civili da tribunali militari, che
aveva suscitato forti perplessità e comunque una eco
sfavorevole nella magistratura. Al termine dei processi si ebbero 26
condanne a morte, di cui 12 eseguite (tra le quali quella di A.
Vochieri), alcune decine di condanne al carcere, oltre 200
all'esilio. Nel cinico uso di pressioni e di intimidazioni di ogni
genere (in questa atmosfera maturò il suicidio di J. Ruffini)
si segnalarono il conte B. Andreis di Cimella, presidente della
Commissione speciale creata il 5 maggio 1833 per collegare l'opera
dei vari tribunali militari, A. Tonduti de L'Escarène,
ministro dell'Interno dal luglio 1831 al posto di B. Falquet, il
generale M. G. Gaiateri di Genola, presidente del Tribunale militare
di Alessandria. Ma la responsabilità diretta dello stesso
sovrano, naturalmente per quanto riguarda non singoli episodi ma la
generale impostazione dei processi (il console di Toscana a Genova
parlò di "piena illegalità morale"), è
indubbia. Lo stesso Rodolico, che tende a scagionare il sovrano e i
giudici da qualsiasi accusa di illegalità ("osservanza
scrupolosa delle norme procedurali allora in vigore" e
"onestà intemerata dei giudici"), non può non
attribuire a C. A. "la responsabilità delle spietate condanne
del '33", anche se poi gli riconosce il merito di essersi fermato
dopo il novembre 1833 (II, pp. 156 s.).
Con il 1835 l'atmosfera accenna a mutare: L'Escarène lascia
il ministero dell'Interno, è allontanato T. Pacca capo della
polizia. Tranquillo della situazione interna, il sovrano riprese il
programma di svecchiamento dello Stato, timidamente iniziato appena
salito al trono abolendo alcune pensioni del tutto ingiustificate,
rinunciando alle riserve di caccia reali (tranne Racconigi),
abolendo alcune pene particolarmente crudeli, ma soprattutto creando
(19 ag. 1831) il Consiglio di Stato e suscitando diffuse speranze
circa una possibile trasformazione della struttura del Regno.
Il Consiglio era diviso in tre sezioni: Interno (quattro membri
ordinari e il presidente), Finanze (quattro membri ordinari e il
presidente), Giustizia (sei membri ordinari e il presidente). Ma,
come è stato più volte rilevato, la nuova istituzione
non assolse a compiti di rilievo, soprattutto perché
funzionò sempre a sezioni separate (la sezione più
attiva fu quella delle Finanze presieduta da P. Balbo) e non venne
mai convocato quel Consiglio compiuto che si sarebbe dovuto riunire
ogni anno con l'intervento di tutti i consiglieri.
La riforma dei codici fu il settore in cui si esplicò con
indubbi risultati l'attività riformatrice del re. C. A. fin
dal giugno 1831 aveva nominato una commissione presieduta dal
Barbaroux, articolata in quattro sottocommissioni, con l'incarico di
preparare i nuovi codici civili, penali, di commercio e di
procedura. Il sovrano intendeva dare al Regno una legislazione
più adeguata ai tempi, ma era fermamente deciso a rispettare
il più possibile gli istituti preesistenti là dove un
mutamento avrebbe potuto in qualche modo limitare il carattere
assoluto dello Stato e rivelarsi una concessione alle tendenze
liberaleggianti anche nella forma più moderata.
I prescritti pareri dei Senati di Piemonte, Genova e Savoia, del
Consiglio di conferenza e della Camera dei conti spesso divergenti
tra loro, resero l'iter di questa riforma assai lungo e macchinoso.
Il codice civile, giudicato di recente da N. Nada "una soluzione
intermedia fra il Codice napoleonico e la preesistente legislazione
sabauda" (p.134), fu promulgato il 20 giugno 1837.Se in taluni
settori specifici (diritto d'autore e proprietà delle acque)
esso accolse soluzioni veramente innovatrici, nella generale
impostazione, come è dimostrato dalle norme riguardanti il
matrimonio e dalla conservazione di fidecommessi e maggioraschi, non
prese "per norma" il codice napoleonico, nonostante quanto affermato
nella seduta inaugurale della commissione. L'azione del sovrano,
preoccupata soprattutto di riconoscere alla religione cattolica una
forte posizione di spicco, fu continua e decisa. Fu anzi il
Consiglio di Stato ad evitare affermazioni di principio che
sarebbero state fuori luogo, ed una proclamata "sottomissione del re
alle leggi della Chiesa" (Rodolico, II, pp. 241 s. e nota).
Anche alla stesura nel nuovo codice penale (promulgato il 26 ott.
1839)C. A. in qualche modo partecipò, insistendo sul concetto
di pena emendamento e quindi limitando il più possibile la
pena di morte, ma esigendo le pene più severe per gli autori
di sacrilegi e per i suicidi, privati dei diritti civili (i loro
testamenti perdevano qualsiasi valore giuridico) e delle onoranze
funebri. Nel 1842 vennero promulgati sia il codice di commercio,
dove le innovazioni trovarono minori resistenze, sia il codice di
procedura, preceduto da un editto del 1840 che apportava delle
modifiche nell'istruzione del processo e nella garanzia dei diritti
dell'accusato.
Legato con la riforma dei codici era il problema di una migliore
tenuta dei registri di stato civile, affidati fino alla Rivoluzione
francese al clero, al quale erano ritornati con la Restaurazione. Da
parte sarda non si intese affrontare la questione di principio -
autorità ecclesiastica o autorità civile - ma ci si
limitò a chiedere l'unificazione delle procedure per
migliorare tecnicamente il servizio. Si propose perciò,
nell'ottobre 1832, di lasciare i registri ai parroci, che avrebbero
dovuto attenersi ad una serie di norme comuni per le registrazioni,
dandone una copia all'autorità comunale. Roma accettò,
ma richiese un chiaro richiamo alle istruzioni dell'autorità
ecclesiastica che il governo di Torino non ritenne però di
poter accordare.
La volontà riformatrice di C. A. si era manifestata del
resto, fin dagli inizi del regno, anche nei rapporti con la Cliesa:
ne è testimonianza la Memoria inviata nel 1831 al pontefice
sulla riforma della disciplina, dei costumi e dell'istruzione del
clero nel Regno sardo. Lontanissimo da qualsiasi pretesa
giurisdizionalista, come da qualsiasi pur larvata forma di
separatismo, il re voleva poter contare su un clero migliore
moralmente e culturalmente perché attribuiva un grande valore
al suo appoggio per un ordinato andamento dello Stato. L'iniziativa
non poteva non incontrare serie difficoltà, e soltanto il
25sett. 1832 il pontefice creò due commissioni,
rispettivamente per il clero regolare e per il clero secolare. Ma le
proposte della prima suscitarono proteste e ostilità
vivissime, cosicché i conventi soppressi furono pochissimi, e
dall'indagine sul clero secolare non si ricavò nulla
perché non fu possibile dimostrare l'entità e la
consistenza degli inconvenienti lamentati.
Alla Sardegna C. A. dedicò cure particolari. Nell'isola si
era già recato nel 1829, redigendo una memoria (Voyage en
Sardaigne, 1829), frutto anche degli scambi di idee avuti con
Emanuele Pes di Villamarina, autore egli stesso di uno scritto sui
problemi dell'isola (Pensieri sulla Sardegna).L'idea centrale della
memoria carloalbertina era costituita dalla soppressione della
giurisdizione feudale. I feudi appartenenti a nobili di
nazionalità "estera" avrebbero dovuto essere riscattati in
contanti, gli altri con cartelle di rendita. Quanto alle terre
originariamente del demanio comunale, poi abusivamente occupate dai
feudatari, proponeva che venissero date in proprietà ai
contadini della comunità, che poi sarebbero stati agevolati
dallo Stato per pagare al proprietario il prezzo del riscatto.
Al problema sardo C. A. rivolse subito la sua attenzione una volta
salito al trono: il 16 luglio 1832 il Barbaroux presentava a un
consiglio di conferenza un editto, in sedici articoli, sulle riforme
da attuare in Sardegna. Ma la proposta di abolire la
feudalità "senza indennizzo" per i feudatari suscitò
una vasta opposizione che portò alla sospensione del
provvedimento. Il problema non fu però accantonato, come
dimostrò, tra l'altro, la decisione (aprile 1833) di affidare
i problemi dell'isola, trattati fino ad allora dal ministro
dell'Interno, al Villamarina. Finalmente il 21 maggio 1836 venne
emanato un editto che aboliva la giurisdizione feudale e sopprimeva
i servizi personali; per i pesi feudali le comunità avrebbero
dovuto dare una indennità ai feudatari (la relativa somma
sarebbe stata anticipata dallo Stato), commisurata alla rendita del
feudatario.
Gli effetti di questa riforma furono certamente lontani dalle
aspettative, sia perché, come è stato concordemente
osservato, gli amministrati venivano a sopportare l'intero peso
dell'operazione, sia perché spesso i nuovi proprietari furono
peggiori degli antichi, come era accaduto del resto nell'Italia
meridionale con l'applicazione della legge eversiva della
feudalità del 1806. Bisogna tuttavia riconoscere che venne
spezzato un immobilismo secolare, che si posero allora alcune delle
condizioni per un reale miglioramento della Sardegna, che si
iniziò quel processo di parificazione tra i Sardi e gli altri
cittadini del Regno che non avrebbe potuto avere inizio senza queste
premesse. Tanto più che alle misure contro la
feudalità si accompagnarono un sensibile miglioramento del
sistema stradale, delle comunicazioni marittime e del sistema
postale, un maggior impiego di capitali nelle industrie dell'isola,
una certa liberalizzazione del commercio.Queste misure antifeudali
rientravano, del resto, nella generale politica economica di C. A.
che, sia pure con cautela si avviava verso una riduzione dei dazi
doganali e una graduale abolizione dei vincoli protezionistici. Fin
dal 1834 venne ridotto ad un terzo il dazio sul grano - da 9 lire a
3 lire il quintale -; l'anno successivo fu consentita l'esportazione
della seta greggia, e poco dopo vennero ridotti i dazi di
importazione su alcuni prodotti di fondamentale interesse per varie
industrie - carbon fossile, metalli, tessuti - e, insieme, favorito
l'acquisto di nuove macchine industriali all'estero. Nonostante
questa nuova politica doganale, comportante minori entrate, il
bilancio del Regno fu, almeno dal 1835 costantemente in attivo e si
potè quindi spendere per migliorare la agricoltura (canali di
irrigazione) e per le comunicazioni via terra (strade e ferrovie) e
via mare (porti di Genova e di Savona). Nel riconoscere questi
aspetti positivi non si può però non ricordare, come
ha fatto R. Romeo, che su un bilancio oscillante dai 70 agli 84
milioni, la spesa media destinata ad opere pubbliche o, in genere,
all'incremento della vita economica del paese, con 2 milioni annui,
rappresentava il 2,4%-2,8% del totale, mentre quella per l'esercito
era di 30 milioni all'anno, con risultati, tra l'altro, non del
tutto soddisfacenti almeno per quanto riguardava il genio e i
servizi logistici.
L'indubbio sviluppo economico del Regno sardo sotto C. A. è
stato considerato di recente da N. Nada l'elemento portante di un
più vasto processo (pp. 187 ss.). "L'espansione economica
portava automaticamente con sé una conseguenza di grande
portata sociale: l'ascesa, il potenziamento della borghesia e,
possiamo aggiungere, il progressivo imborghesimento della
nobiltà, la quale prese a sua volta vivissima parte non solo
alla elaborazione della legislazione albertina, ma alle imprese
economiche che andavano allora sviluppandosi. In tal modo il
processo di svuotamento dall'interno delle strutture politiche e
sociali dell'antico Stato sabaudo andava facendosi sempre più
profondo; e lo sviluppo di questo processo rendeva a sua volta
sempre più evidente la necessità di uno svecchiamento
sempre più radicale di quelle strutture". Le riforme
carloalbertine, insomma, al di là della stessa volontà
o consapevolezza del sovrano, avrebbero preparato "in misura
notevole il trionfo della borghesia e l'avvento dello Stato
costituzionale".
In realtà, lo sviluppo economico del Regno sotto C. A., pur
indiscutibile e di rispettabili proporzioni, specie se si prende
come termine di confronto il regno di Carlo Felice o di Vittorio
Emanuele I, non avrebbe potuto produrre tali effetti in un quadro
politico molto carente che conservava - per fare soltanto degli
esempi - un sistema delle imposte con gravi sperequazioni (anche a
causa della mancanza di un moderno catasto), un'istruzione affidata
in massima parte al clero (particolarmente ai gesuiti), una classe
nobiliare con anacronistici privilegi, un esercito permeato di
ideali legittimisti. Solo quando muterà questo quadro
politico generale le riforme assumeranno un nuovo carattere.
Gli stessi motivi di frizione fra il sovrano e gli elementi
più conservatori (a proposito ad esempio della chiamata a
Torino dell'abate F. Aporti nel 1844, o della nomina di C. Alfieri a
capo del Magistrato della riforma al posto del dimissionario mons.
Pasio vescovo di Alessandria), o i contrasti con l'Austria (1843)per
il trattato di commercio fra il Regno sardo e il Canton Ticino o per
i progetti ferroviari sardi che miravano ad unire Genova alla
Svizzera senza entrare nel Lombardo-Veneto, acquistarono un nuovo e
preciso significato quando mutò il generale clima politico
della penisola dopo l'avvento di Pio IX. Pur avendo riformato la
legislazione, riordinate le opere pie e le finanze, protetto le
lettere, le arti e le scienze, C. A. - come scrisse C. Balbo (Della
storia d'Italia dalle origini fino ai nostri tempi. Sommario, a cura
di G. Talamo, Milano 1962, p. 524) - aveva agito "troppo lentamente,
insufficientemente, come se avesse a durar sempre il regno assoluto
o s'avessero secoli a far passi alla libertà. E quindi quando
venne questa, ed insieme l'occasione all'indipendenza, il suo Stato
ed egli stesso si trovarono apparecchiati all'una ed all'altra
pocopiù che se non si fosse fatto nulla e tutte le riforme
fatte da lui ebbero ed han bisogno d'esser riformate".
Su di un piano ben diverso si attestarono le riforme carloalbertine
del '47. A torto il Brofferio giudicava che "in nulla cangiavano
l'ordine politico" perché non concedevano la libertà
di stampa, conservavano gli arbitri della polizia, mantenevano in
vita il foro ecclesiastico. Non si può infatti negare valore
politico al provvedimento che decise il trasferimento della polizia
dal ministero della Guerra a quello dell'Interno, all'editto del 29
ott. 1847 che soppresse tutti i privilegi di foro tranne quello
ecclesiastico, alle Patenti del 30 ottobre che abolivano la censura
ecclesiastica, all'editto del 27 novembre che ammetteva il principio
della eleggibilità delle cariche amministrative.
Certo neanche queste riforme - nonostante uscissero dal quadro
politico tradizionale - soddisfecero l'elemento liberale che
chiedeva, come segno inequivocabile di una diversa politica,
l'espulsione dei gesuiti, l'amnistia per i condannati del 1821 e del
'31, la guardia civica, e, soprattutto, la costituzione. Di fronte a
tali richieste l'atteggiamento del Consiglio di conferenza
andò rapidamente modificandosi: il 7 genn. 1848 respinse ogni
richiesta, il 17 si chiese addirittura "si un tel acte [chiedere la
costituzione] pouvait se considérer comme contemplé
par le Code pénal", ma il 3 febbraio - dopo l'esempio di
Ferdinand II di Borbone - espresse parere favorevole alla
concessione di una costituzione. Dopo le analoghe prese di posizione
dei Consigli comunali di Torino (5 febbraio) e di Genova (7
febbraio), il re, che ai primissimi di febbraio sembrava deciso ad
abdicare, dopo un colloquio con il vescovo di Vercelli monsignor
d'Angennes si convinse della necessità di cedere. Il 7
febbraio a conclusione di una lunghissima seduta, il Consiglio di
conferenza decise per il giorno successivo la promulgazione di un
proclama reale con l'annunzio di una carta costituzionale. Il febbr.
1848, infatti, un proclama in quattordici articoli preannunciava le
basi del futuro statuto: la religione cattolica era definita unica
religione dello Stato con la tolleranza per gli altri culti; il
potere legislativo era esercitato dal re e da due Camere, una
elettiva e l'altra di nomina regia; era poi disposta una riduzione
del prezzo del sale. In tre riunioni svoltesi il 10, 17 e 24
febbraio, il Consiglio di conferenza esaminò i vari articoli
dello statuto: C. A. vi partecipò costantemente, mostrandosi
"fermo nel proposito d'impedire che il nuovo regime potesse in
qualsiasi modo essere di danno alla Chiesa" (Rodolico, III, p. 274).
L'arrivo della notizia della rivoluzione parigina e della caduta
della monarchia di Luigi Filippo fece accelerare i lavori, che si
conclusero nelle due sedute del 2 e del 4 marzo. Lo statuto fu
firmato lo stesso 4 e promulgato il seguente 5 marzo 1848: gli
ottantaquattro articoli che lo costituivano rappresentavano lo
sviluppo dei principi già enunciati nel proclama dell'8
febbraio. Alla emancipazione dei Valdesi (17 febbraio) seguiva il 25
marzo quella degli ebrei.
Dopo la concessione dello statuto il ministero Borelli si dimise, e
il 16 marzo veniva costituito un ministero presieduto da C. Balbo
(Affari Ecclesiastici, Grazia e Giustizia: Sclopis; Affari Esteri:
Pareto; Interno: Ricci; Finanze: Revel; Lavori Pubblici: Des
Ambrois; Istruzione Pubblica: Bon Compagni). Fu emanata una amnistia
politica, una legge sulla stampa che aboliva la censura preventiva,
una legge elettorale elaborata da una commissione presieduta dal
Balbo e composta dal Gallina, dallo Sclopis, dal Mariani, dal
Ferrari, dal Cavour, dal Sineo, dal Ricotti.
Il 19 marzo giungevano a Torino le prime notizie della insurrezione
milanese; fu convocato un Consiglio dei ministri che decise di
predisporre misure militari, ma di non entrare per il momento in
guerra. Certo C. A. non era contrario a muover guerra all'Austria,
ma non mancavano preoccupazioni internazionali e interne. Si temeva
che la Francia repubblicana iniziasse una politica espansionistica o
favorisse le correnti repubblicaneggianti della Liguria; tra le
grandi potenze, la Russia e la Prussia erano palesemente favorevoli
all'Austria, e la Gran Bretagna consigliava estrema prudenza.
All'interno del Regno poi era innegabile una certa concitazione
degli animi: l'autorità era scossa, bisognava stabilire un
nuovo tipo di rapporto fra lo Stato e i cittadini, e sostituire
uomini troppo compromessi con le vecchie istituzioni. Ma gli
avvenimenti milanesi incalzavano: il 23 marzo un nuovo Consiglio dei
ministri decideva l'entrata in guerra poche ore prima che il conte
E. Martini portasse a Torino la notizia della liberazione di Milano.
La sera dello stesso giorno il ministro degli Esteri Pareto
comunicava ai rappresentanti delle grandi potenze l'intervento delle
truppe sarde in Lombardia - come è detto nella nota di
Abercromby - per impedire che il movimento repubblicano si
estendesse dalla Lombardia all'intera penisola ed evitare "les
catastrophes qui pourraient avoir lieu, si une telle forme de
Gouvernement venait à être proclamée". Sulla
condotta della guerra da parte piemontese non mancarono le critiche
più violente, in particolare su C. A. che all'inizio delle
ostilità aveva assunto il comando supremo delle truppe.
Delle tre possibilità che a giudizio del Pieri si
presentavano all'esercito sardo ("operare dalla montagna attraverso
il Trentino sbarrando la via dell'Adige e collegandosi per Rovereto
e la Vallarsa con Vicenza e colla pianura veneta… varcare ed
eventualmente forzare il Mincio e l'Adige… mantenendo una testa di
ponte sulla destra dell'Adige… porsi a sud del Quadrilatero, colla
sinistra appoggiata al Po… la destra a cavaliere dell'Adige, al di
sopra di Legnago, in modo da comunicare con Vicenza e con Padova"),
C. A. non ne scelse nessuna, e ritenne invece necessaria la
conquista delle città fortificate ancora occupate dagli
Austriaci.
Colse significativi successi in aprile (Valeggio, 11; Pastrengo, 30)
e in maggio (Peschiera e Goito, 301, ma proprio alla fine di questo
mese il ricongiungimento delle truppe del Radetzky con quelle di
rinforzo del Nugent capovolgevano le sorti della campagna. Intanto a
Torino l'8 maggio aveva iniziato la sua attività il
Parlamento subalpino, che aveva subito affrontato il maggiore
problema politico, cioè la fusione della Lombardia e delle
quattro province venete al Regno sardo. Il compromesso adottato
(atti pubblici intestati a C. A., governo responsabile verso il
Parlamento ma impossibilitato a concludere trattati politici e
commerciali senza il voto favorevole della Consulta lombarda e della
Consulta delle province venete) finì per scontentare tutti.
Nulla comunque di quanto deciso venne attuato a causa degli
sfavorevoli avvenimenti militari (Custoza, 25 luglio). Il 4 agosto,
davanti a Milano, ci fu un nuovo scontro fra Austriaci e Piemontesi,
terminato anch'esso con un successo degli Imperiali. Il giorno
seguente C. A., tra manifestazioni ostili della popolazione,
lasciava Milano.
Sulla volontà di difendere la capitale della Lombardia da
parte di C. A. si è accesa una vivace polemica, originata
dalla convinzione che questi avesse già deciso prima del 4 di
evacuare Milano. Questa interpretazione, sostenuta soprattutto dallo
Spellanzon, si basava su un ordine di operazione del sovrano - ma
scritto dal generale Salasco - alla 1a divisione di trovarsi il 5
agosto a Pavia "ed il 6 riunirsi costà al rimanente
dell'armata". Ma il Pieri e C. Pischedda hanno dimostrato che molti
piemontesi usavano costà nel senso di qua (cioè per
indicare il luogo della persona che parla o scrive), e che quindi
quel costà indicava Milano e non, secondo una interpretazione
lessicale corretta ma qui impropria, Pavia. Esclusa la
volontà di essere sconfitto da parte di C. A., restano valide
però molte delle critiche che allora e successivamente
vennero mosse sia al sovrano, dotato, com'ha scritto il Pieri, di
"coraggio puramente passivo" ma non di capacità di comando,
sia al generale Bava, per "non aver saputo o voluto manovrare ai
fianchi dell'assalitore", sfruttando l'errore del Radetzky di aver
unito tutte le sue forze per un attacco frontale (Rodolico, III, pp.
437 s.). La difesa della città lombarda avrebbe inoltre
potuto esser organizzata molto meglio, sfruttando le caratteristiche
del terreno, "creando un campo trincerato a base di capisaldi
costituiti da numerose e robuste fattorie", come era stato fatto a
Verona dalle truppe austriache.
Dopo l'armistizio Salasco (9 agosto) e le dimissioni del ministero
Casati, il nuovo governo Sostegno-Pinelli venne violentemente
attaccato dai democratici che riuscirono, nel dicembre, a portare al
governo Gioberti (Interno: Sineo; Affari Ecclesiastici, Grazia e
Giustizia: Rattazzi; Agricoltura e Commercio: Buffa; Finanze: Ricci;
Istruzione: Cadorna; Lavori Pubblici: Tecchio; Guerra: De Sonnaz), a
sciogliere la Camera (30 dicembre) e a cogliere un successo
elettorale nel rinnovo di questa (15-22 genn. 1849). Ma le
dimissioni del Gioberti, sostituito dal generale Chiodo (21
febbraio) segnarono il prevalere di quanti volevano la ripresa delle
ostilità, alla quale oramai lo stesso C. A. inclinava. Il
sovrano questa volta non assunse il comando supremo (dato al
generale polacco Chrzanowsky). Dopo qualche successo iniziale le
truppe piemontesi furono battute a Novara (23 marzo). Per mezzo del
generale Fecia di Cossato il re chiese le condizioni per un
armistizio: il generale Hess rispose che gli Austriaci avrebbero
interrotto le ostilità e sospeso la "marcia su Torino"
soltanto se avessero potuto occupare la Lomellina e la piazza di
Alessandria. Il Cossato credette addirittura che si volesse in
ostaggio il duca di Savoia. C. A. decise allora di abdicare a favore
del figlio Vittorio Emanuele e qualche ora dopo, nella stessa notte
fra il 23 e il 24 marzo, con il nome di conte di Barge, partiva in
direzione di Vercelli, senza che si conoscesse la località
nella quale intendeva recarsi. Fermato poco dopo da truppe
austriache comandate dal generale Thurn - ma non riconosciuto, come
erroneamente scrissero il Cibrario e qualche studioso sulla sua scia
- poté proseguire il viaggio il 25 marzo. Alcuni rapidi
appunti autografi pubblicati dal Salata (pp. 446 s.) consentono di
seguire l'itinerario di C. A. giorno per giorno: passato il confine
con la Francia, il 26 era ad Antibes, il 29 a Tolosa, il 1º
aprile a Baiona, il 3 a Tolosa di Spagna, dove su richiesta del
governo piemontese confermò l'atto di abdicazione; il 15
aprile entrò in Portogallo e il 19 giunse ad Oporto, dove
andò ad abitare alla villa "Entre Quintas".
Quivi C. A. si chiuse nella più stretta solitudine,
minacciando di scegliersi una residenza molto più lontana se
dal Piemonte fossero continuate a giungergli ambascerie e visite di
vario genere. All'inizio dell'estate le sue condizioni di salute si
aggravarono rapidamente, e il 28 luglio 1849 sopravvenne la morte.
L'infelice fine del giovane sovrano - shakespeariana, come la
definì l'Omodeo - segnò l'inizio del mito che divenne
trasfigurazione poetica di un dramma individuale, e servì da
provvida copertura alle manchevolezze di un re ed ai limiti
aristocratici e antipopolari di una monarchia. Lo squilibrio -
così drammatico tra l'aspirazione a grandi cose cui si
credeva misticamente chiamato e la sua effettiva irrisolutezza (che
il Metternich, nelle sue Memorie, sintetizzò nella costante
opposizione tra l'ambition et la faiblesse)trovava ad Oporto la sua
soluzione. Non obbligato più a misurarsi con la
realtà, C.A. poteva tranquillamente, leggendo Plutarco,
aspettare la morte. "Je continue à faire une vie fort
solitaire [scrisse alla contessa di Robilant il 26 giugno,
nell'ultima lettera inviatale] et n'ayant point un grand
enthousiasme pour les événements modernes, j'ai pris
maintenant pour lecture les grands hommes de Plutarque" (in Salata,
p. 454).