EINAUDI, Luigi

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Economista e uomo politico italiano (Carrù 1874-Roma 1961).

Conclusi gli studi universitari a Torino, a soli 28 anni ebbe la cattedra di scienza delle finanze alla stessa Università di Torino; passò poi all'Università Bocconi di Milano dove diresse anche l'Istituto di Politica Economica e Finanziaria. Socio di numerose accademie scientifiche italiane e straniere, tra cui quella dei Lincei, collaboratore de La Stampa dal 1896 al 1900, del Corriere della Sera dal 1900, che poi abbandonò (1925) quando il giornale divenne sostenitore del fascismo, direttore de La Riforma Sociale dal 1908 al 1935 (anno in cui la rivista dovette cessare la pubblicazione per le critiche al corporativismo), nel 1936 fondò e diresse la Rivista di Storia Economica. Senatore dal 1919, si batté sempre per eliminare ogni tipo di interventismo statale nell'economia e ogni forma di monopolio. Costretto a rifugiarsi in Svizzera dopo l'8 settembre 1943, tornò in patria l'anno successivo.

Nel gennaio 1945 fu nominato governatore della Banca d'Italia e nel settembre dello stesso anno membro della Consulta Nazionale. Deputato alla Costituente nel 1946, vice presidente del Consiglio e ministro del Bilancio nel quarto gabinetto De Gasperi (1947), ebbe il merito di stabilizzare il valore della lira promovendo una rigida restrizione del credito. Nel maggio 1948 fu eletto presidente della Repubblica. Alla scadenza del mandato rientrò in Senato.

Esordì col volume La rendita mineraria (1900), tema fino ad allora trascurato, eccellendo in seguito soprattutto nelle indagini di economia agraria e monetaria e di storia delle dottrine e dei fatti economici. Nel campo della finanza teorica, a parte i Principi di scienza delle finanze (1932), in cui è raccolto il fondamento della sua dottrina, sono da citare in particolare: Studi sugli effetti delle imposte (1902), Intorno al concetto di reddito imponibile e di un sistema d'imposte sul reddito consumato (1912), La terra e l'imposta (1924), Contributo alla ricerca dell'ottima imposta (1929).

Fra le altre opere di carattere politico meritano soprattutto menzione Il buongoverno (1954) e la raccolta Prediche inutili (1956-59).

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di Riccardo Faucci

Nacque a Carrù (Cuneo) il 24 marzo 1874, da Lorenzo, ricevitore delle imposte di quel Comune, e da Placida Fracchia. Nel 1888, morto prematuramente Lorenzo, la vedova si trasferi con i quattro figli (Luigi, Costanzo, Annetta e Maria) a Dogliani, paese della sua famiglia, che vantava una antica origine, avendo un antenato combattuto come capitano sotto Emanuele Filiberto. Lo zio Francesco Fracchia, avvocato e notaio in Dogliani, cultore di storia locale e agricoltore, esercitò una profonda influenza sul nipote, che fin dagli anni dell'adolescenza si avvicinò con intima partecipazione a quel mondo rurale che doveva dettargli alcune delle sue pagine storiche ed economiche più ispirate. Dopo aver frequentato il reale collegio delle Scuole pie di Savona entrò al convitto nazionale "Umberto I" di Torino, seguendo gli studi al liceo "Cavour", dove mieté numerosi successi. Nel 1891 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, ricca di insigni personalità (lo storico del diritto Cesare Nani, il filosofo del diritto Giuseppe Carie, il processual-civilista Luigi Mattirolo), fra le quali emergeva l'economista Salvatore Cognetti De Martiis, che nel 1893 fondò il Laboratorio di economia politica di cui l'E. fece parte "dal primo giorno della sua fondazione", cosi come è scritto in un suo curriculum.

Fedele a un metodo rigorosamente induttivo che non mancò di influenzare la produzione scientifica del giovane E., Cognetti raccolse nel Laboratorio una ricca documentazione statistica sia nazionale sia internazionale, e promosse m quella sede ricerche di economia industriale, di economia del lavoro e di economia agraria su cui si formarono non pochi economisti della successiva generazione, da Pasquale Jannaccone ad Antonio Graziadei, da Camillo Supino a Luigi Albertini, oltre naturalmente all'E., che in quella sede effettuò ricerche, poi pubblicate, sulla distribuzione della proprietà a Dogliani, sull'esportazione dei principali prodotti agricoli dall'Italia e sulla crisi agraria inglese (argomento, quest'ultimo, della sua tesi di laurea).

Come moltissimi suoi coetanei l'E. si avvicinò con simpatia al nascente movimento socialista, fin da quando - diciannovenne - scrisse una lettera a Filippo Turati, direttore della Critica sociale, elogiando la funzione dei circoli studenteschi socialisti "come strumenti di selezione per trarre i migliori giovani dalla neghittosità e dall'apatia a cui gli ordinamenti scolastici e la vacua vita universitaria predispongono gli studenti" (cfr. Critica sociale, III [1893], 13, pp. 1965). Per un decennio fu collaboratore della rivista, con articoli che caldeggiavano una più convinta adesione del partito socialista al liberismo economico e che valorizzavano, contrapponendole a quelle di Marx, le idee di socialisti non marxisti come Henry George. Negli stessi anni scrisse anche sul Devenir social di G. Sorel e sulla Revue socialiste di B. Malon. Ma gia nei primi anni del secolo, una volta divenuto stabile collaboratore del Corriere della sera, l'E. cessò di scrivere su periodici di sinistra.

Laureatosi nel 1895, l'E. entrò alla Cassa di risparmio di Torino, da dove si dimise prestissimo per intraprendere l'insegnamento nella scuola secondaria. Insegnò dapprima alla r. scuola di commercio annessa al R. Istituto internazionale italiano di Torino, dipendente dal ministero dell'Agricoltura. Fra le sue allieve vi era Ida Pellegrini, figlia di un nobiluomo veronese trasferitosi a Torino per affari. I due si fidanzarono, e nel dicembre 1903 si sposarono. Altre scuole in cui l'E. insegnò in quegli anni furono il r. istituto tecnico "G. Sommeiller" di Torino e il "F. A. Bonelli" di Cuneo. Nel 1898 consegui la libera docenza in economia politica all'università torinese, tenendovi un corso libero. L'anno dopo giunse primo ex aequo con P. Jannaccone al concorso per la cattedra di economia politica bandito dall'università di Cagliari, dove fu peraltro chiamato il più anziano Jannaccone. Finalmente, nel 1902 vinse il concorso di scienza delle finanze bandito dall'università di Pisa, ottenendo però immediatamente la chiamata a Torino, presso la facoltà di giurisprudenza, dalla quale non si muoverà più. Nel medesimo 1902, infatti, rifiutò per motivi personali e per un certo timore di fronte a un passo che gli sembrava troppo grande, l'appetitosa offerta della cattedra di economia politica di Ginevra, lasciata scoperta da Maffeo Pantaleoni e proposta all'E. da Vilfredo Pareto.

Al momento di salire sulla cattedra torinese il ventottenne E. aveva prodotto già una messe notevolissima di studi di economia applicata, di finanza e di storia economica. Il più noto ancor oggi è Un principe mercante (Torino 1900), efficace analisi della penetrazione nei mercati dell'America latina da parte di un industriale tessile lombardo, Enrico Dell'Acqua, che agli occhi dell'E. sembrava aprire una nuova pagina dell'emigrazione italiana: non più di manodopera non qualificata, ma di capacità imprenditoriali e di capitali. In La rendita mineraria (ibid. 1899) è invece da notare la sensibilità storica con cui l'E. studiò l'evoluzione del regime minerario inglese, con evidenti suggestioni tratte da Achille Loria, le cui teorie sulla "terra libera" erano allora di moda. Gli Studi sugli effetti delle imposte (ibid. 1902), incentrati sui problemi della tassazione delle aree urbane, vanno ricordati in quanto vi si sostiene l'opportunità di tassare gli incrementi di valore delle aree fabbricabili, tesi che l'E. più maturo respingerà come iniqua e antieconomica.

Gli anni a cavallo del secolo videro altresi l'E. affermarsi come giornalista. Fin dal 1897 gli venne rilasciata la tessera di "redattore e collaboratore" della Stampa, diretta da Luigi Roux. Qui pubblicò i famosi reportages sugli scioperi degli operai tessili del Biellese (settembre-ottobre 1897), che mostrano un E. attentissimo osservatore del passaggio dal lavoro a domicilio alla manifattura, con conseguente introduzione della "disciplina ferrea della fabbrica", ma anche con la conseguente formazione di una aristocrazia operaia e socialista dal grande spirito di disciplina e solidarietà di classe. Egualmente efficace la cronaca dello sciopero del porto di Genova (dicembre 1900 gennaio 1901), dovuto alla decisione del prefetto di sciogliere la locale Camera del lavoro. Qui l'E. analizzò con maestria la composizione sociale delle maestranze del porto, l'ascendenza corporativa delle associazioni che d'altra parte non ne pregiudicava la forte coscienza unitaria, e l'inadeguatezza del collegio dei probiviri come organo di composizione delle controversie lavorative. Fin da allora l'E. si dichiarò contrario alle mediazioni statali nelle controversie collettive di lavoro.

Lasciata La Stampa, l'E. approdò nel 1903 al Corriere della sera, diretto da Luigi Albertini, di pochi anni più anziano di lui e già suo collega al Laboratorio torinese di economia. Negli oltre vent'anni di ininterrotta collaborazione l'E. pubblicherà sul quotidiano milanese circa 1.700 pezzi. La politica economica ebbe in lui un commentatore di insuperato rigore, spesso fornito di informazioni di prima mano, come testimonia il carteggio con l'allora direttore della Banca d'Italia Bonaldo Stringher a proposito della crisi del 1907 e della politica monetaria seguita per uscirne.

Nel 1896 l'E. aveva iniziato a collaborare alla Riforma sociale, pubblicata dal Roux a Torino sotto la direzione di Francesco Saverio Nitti, che del giovane E. divenne amico e protettore accademico. Nel 1900 l'E. figura redattore; nel 1902 condirettore, e alla fine del 1907 direttore unico. Sotto la sua guida, la rivista, che Nitti aveva concepito come palestra di studi sociali e con forte caratterizzazione metodologica, si apri alle questioni di attualità in campo tributario, doganale, cooperativo, della finanza locale, delle municipalizzazioni, ecc. Merito dell'E. fu di costituire un gruppo omogeneo di collaboratori, in prevalenza torinesi: oltre a Jannaccone, ne fecero parte Giuseppe Prato, professore nel R. Istituto superiore di commercio, Alberto Geisser, uomo d'affari di origine svizzera fra i principali finanziatori della rivista, Attilio Cabiati, Gino Borgatta e altri. Alla vigilia della grande guerra la Riforma era seconda per autorevolezza solo al Giornale degli economisti.

Con il consolidarsi dell'egemonia di Giovanni Giolitti sulla politica italiana, le posizioni dell'E. vennero chiaramente delineandosi in senso moderato, in sintonia del resto con quelle del Corriere.

Più che grande corruttore - come era considerato da un Salvemini - Giolitti appariva agli occhi dell'E. come un uomo grigio, dalla visione angustamente provinciale, senza tensioni ideali e tutto preso nella routine della lotta parlamentare. I socialisti riformisti sembravano all'E. completamente aggiogati al carro giolittiano, mentre i sindacalistirivoluzionari, in auge presso molti intellettuali, secondo lui non facevano altro che "rimettere a nuovo con altre parole più imprecise e violente la vecchia dottrina economica liberale" (Sononuove le vie del socialismo?, in Corr. d. sera, 29 marzo 1911).

Questo atteggiamento di insofferenza verso i partiti politici tradizionali avvicinò l'E. a Gaetano Salvemini e alla sua Unità, di cui divenne collaboratore; ma anche alla Voce di Giuseppe Prezzolini e al suo programma di rinnovamento culturale nel segno di una riscossa dei valori della sana borghesia contro il parassitismo degli affaristi (i capitalisti degeneri, beneficiari delle commesse statali) e dei socialisti (che si servono delle cooperative per mantenersi a spese del contribuente). In questi anni l'E. non risparmiò colpi ai primi e ai secondi. I primi sono definiti nrivellatori" (alla lettera, di terreni petroliferi nella colonia libica, ma metaforicamente, del bilancio statale: cfr. I fasti italiani degli aspiranti trivellatori della Tripolitania, in La Riforma sociale, XIX [1912], 3, pp. 161-193). I secondi ispirano all'E. e a Giuseppe Prato una violenta requisitoria che, prendendo spunto dal dissesto di una cantina comunale gestita da socialisti, si concludeva invocando una esemplare giustizia contro i malversatori, invece della "sfacciata impunità con la quale il Governo incoraggia la prostituzione progressiva del riformismo parlamentare" (La meravigliosa storia di una cantina comunale socialista, ibid., XX [1913], I, p. 11). In questo spirito l'E. prestava la sua penna alla grande campagna della stampa moderata contro il progetto nittiano di monopolio delle assicurazioni sulla vita, che lo portò a polemizzare duramente con l'amico Attilio Cabiati che ne era difensore.

L'operosità dell'E. negli anni precedenti la prima guerra mondiale non si limitò al giornalismo e alla direzione della Riforma sociale. Nel 1907-1909 faceva uscire a Torino due ponderose ricerche di storia finanziaria piemontese, rispettivamente sulle Entrate pubbliche dello Stato sabaudo… durante la guerra di successione spagnuola e sulla Finanza sabauda all'aprirsi del sec. XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, risultati di indagini di archivio condotte con la preziosa assistenza della moglie Ida. Le conclusioni storiografiche dell'E. erano che la monarchia sabauda, per quanto non rientrasse propriamente nel novero degli Stati illuminati, seppe supplire con la pratica della buona amministrazione all'indubbia carenza di riforme civili e amministrative. Fin da allora l'E. mostrava di orientarsi verso una storia economica di tipo "tecnico", in cui lo studio specialistico dei fatti economici e finanziari consentisse di illuminare l'ambiente sociale e intellettuale, senza concedere spazio alle ideologie e tanto meno all'interpretazione marxista della storia.

Di maggiore rilevanza è però l'opera dell'E. come scienziato delle finanze. Dopo aver fatto uscire nel 1907 e 1908 due volumi di un corso universitario di Scienza delle finanze e diritto finanziario (corso ripudiato poi dallo stesso autore, insoddisfatto del suo impianto troppo descrittivo), nel 1912 egli pubblicò nelle Memorie della R. Acc. delle scienze di Torino (LXIII [1911-12], pp. 209-313), di cui era socio dal 1910, un ben più impegnativo saggio Intorno al concetto di reddito imponibile e di un sistema di imposte sul reddito consumato in cui compiva un salto di qualità, dando prova, lui eminentemente economista applicato, di una notevolissima sagacia teorica. Fondandosi sulla nozione di equità della tassazione di John Stuart Mill, e sulla definizione psicologica di reddito e di capitale di Irving Fisher, l'E. dava una definizione di reddito imponibile coincidente con la parte di reddito destinata al consumo, escludendo la parte destinata al risparmio, sulla quale non si deve applicare l'imposta, pena una doppia tassazione (quella attuale, e quella futura sui redditi derivanti dal risparmio). Riconosciuta la difficoltà pratica di accertare volta per volta quale parte del reddito fosse destinata effettivamente a consumo e quale a risparmio, l'E. individuava molto abilmente nell'ordinamento tributario vigente alcuni criteri oggettivi che lasciavano intendere come il legislatore, nonostante dichiarasse di voler tassare il reddito "guadagnato" (comprensivo cioè di consumo e risparmio), tassasse in realtà solo il reddito consumato. Per l'E. le esenzioni di cui godevano i redditi di lavoro dipendente (per la vecchiaia, la mutualità operaia, ecc.) definivano una sorta di "risparmio presunto". Inoltre, per venire tassato il reddito deve essersi compiutamente staccato dalla sua fonte. Perciò l'E. combatteva la tassazione degli incrementi di valore, perché il reddito colpito era ancora allo stato potenziale. Il tipico caso è quello delle imposte sulle aree fabbricabili, che sono inique, mentre quelle sui fabbricati sono legittime, perché solo queste ultime colpiscono il reddito "che si distacca dalla fonte ed è 'pronto' al consumo".

La teoria dell'E. provocò un nutrito dibattito in Italia e all'estero, anche se i critici si schierarono prevalentemente contro di essa, sia per ragioni teoriche (la restrittività del concetto di reddito da essa sussunto), sia, e ancor più, per ragioni pratiche, in quanto la finanza avrebbe perduto cespiti troppo ingenti di entrata, contrastando tendenze ormai consolidate. Nonostante che la teoria del reddito come consumo non avesse di per sé una precisa valenza politica, fu lo stesso E. a conferirle una patina conservatrice, innestando su di essa una dura requisitoria contro la finanza "democratica" e il mito della giustizia tributaria; requisitoria che doveva trovare il suo coronamento nell'opera del 1938.

Lo scoppio della grande guerra colse la famiglia Einaudi (arricchita di tre figli: Mario, nato nel 1904, Roberto, nato nel 1906, e Giulio, nato nel 1912) nella vacanza balneare di Celle Ligure. Mario Einaudi ricorda ancora come il padre non avesse esitazioni nello schierarsi a fianco delle potenze dell'Intesa. L'ammirazione per la Gran Bretagna, culla dell'economia politica e del pensiero politico liberale, era nell'E. grandissima, e altrettanto forte l'antipatia per la cultura economica e politica tedesca. Il suo interventismo fu senza esitazioni. In polemica con le interpretazioni marxiste della guerra, l'E. riaffermava che la storia è mossa dai grandi sentimenti (in questo caso, i valori di patria e di solidarietà fra i popoli) e non dagli interessi economici, in quanto, se si fosse dato retta a questi ultimi, guerra non vi sarebbe stata: infatti il sistema degli scambi internazionali precedenti il 1914, virtualmente perfetto, aveva prodotto un grandioso progresso economico per tutte le nazioni che ora scendevano in campo l'una contro l'altra.

Naturalmente l'E. non ebbe subito la percezione che una guerra di simili dimensioni avrebbe portato alla dissoluzione il sistema economico basato sul laissez-faire in politica economica e sul gold standard in politica monetaria. A guerra finita, tuttavia, l'E. lamentò che gli uomini, come impazziti, avessero abbandonato quei solidi valori di parsimonia e di operosità che avevano costituito secondo lui il supporto del sistema economico antebellico. Il moralismo einaudiano - tutto teso a mostrare come i principi economici abbiano il loro fondamento in principi etici, e non viceversa - si fa insistente a partire dal 1919-22, per riprendere in grande stile negli scritti della tarda maturità.

Nel primo dopoguerra crebbe altresi la sua denuncia della burocratizzazione dell'economia, a causa di organismi pubblici di gestione nati durante la guerra ma che il governo non si decideva ancora a smantellare. In particolare il settore annonario, oltre a essere gravato dal prezzo politico del pane, presentava numerosi casi di consorzi di importazione, contingentamento e distribuzione dei prodotti alimentari (vino, burro, formaggi, ecc.) allo scopo di calmierarne i prezzi, ma secondo l'E. raggiungendo l'effetto contrario, cioè di diminuirne l'offerta. Bisognava perciò "licenziare i padreterni", cioè gli alti funzionari ministeriali preposti al governo dell'economia e animati da una mentalità "Ieninista", dispotica e dittatoriale. L'E. polemizzò appassionatamente con Vincenzo Giuffrida, direttore generale del ministero per gli Approvvigionamenti e consumi alimentari (cfr. in specie Il delirio del comando e la corsa alla rovina (a proposito del fenomeno Giuffrida), in Corriere d. sera, 26 dic. 1919), riconoscendo a questo alto funzionario onestà e disinteresse personale, ma presentandolo come il campione di un modo sbagliato di intendere i compiti governativi. Le critiche coinvolgevano tutta l'azione del presidente del Consiglio Nitti.

Sul grande turbamento portato dalla guerra all'economia italiana l'E. tornò anni dopo, con due libri commissionatigli dalla Fondazione Carnegie per la pace internazionale, nei quali peraltro il negativo giudizio sull'operato dei governi del tempo non mutava. In La guerra e il sistema tributario (Bari-New Haven 1927) l'E. rappresentava la distruzione del disegno unitario dell'ordinamento mediante l'introduzione di "addizionali, decimi e altri aggeggi alle imposte esistenti". In La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana (Bari-New Haven 1933) osservava amaramente come la guerra avesse condotto tutti i ceti sociali, "gli industriali più che gli operai", ad attendersi tutto dallo Stato, secondo una mentalità (questo era implicito) che il fascismo aveva finito con il coltivare e l'esaltare.L'autorevolezza dell'E. trova una decisiva sanzione nella sua nomina a senatore del Regno (6 ott. 1919: categoria 18), disposta dallo stesso Nitti su consiglio di Luigi Albertini. In precedenza l'E. aveva fatto parte, in veste di tecnico, di una commissione ministeriale, insediata dal ministro delle Finanze Filippo Meda nel 1916, per la riforma delle imposte dirette. L'E. redasse la parte più impegnativa della relazione al disegno di legge relativo, che non trovò realizzazione.

Una volta al Senato, presentò due altre relazioni: una sulla crisi delle abitazioni e degli alloggi (24 marzo 1920) e una sull'avocazione dei profitti di guerra (28 febbr. 1921). Mentre sul Corriere era stato critico durissimo di ogni misura di vincolo al regime libero dei fitti, in Senato l'E. ammorbidi la sua posizione di principio riconoscendo con realismo l'opportunità di un regime graduale di passaggio dai fitti bloccati ai fitti liberi. Nella seconda relazione, dopo aver giustamente osservato che criteri troppo severi avevano portato gli imprenditori ad aumentare il capitale sociale delle anonime per evadere l'imposta, con conseguenti dannose immobilizzazioni, l'E. caldeggiava maggiore flessibilità nel calcolo delle detrazioni.

Negli anni del dopoguerra l'E. modificò il suo atteggiamento verso i problemi del mondo del lavoro, nel senso di una critica sempre più veemente al sindacato e di una difesa altrettanto veemente delle ragioni del padronato. Gli scioperi gli apparivano sempre più come indizi della degenerazione del socialismo, come manifestazioni di "invidia" nei confronti di chi sta meglio o è ritenuto star meglio. "II veleno che corrose la società italiana del dopoguerra - avrebbe scritto nel 1961, ristampando i suoi articoli del 1919-20 sul Corriere nel vol. V delle Cronache economiche e politiche di un trentennio - e la condusse alla dolorosa esperienza fascistica … era morale e operò per vie morali, che si chiamano invidia, odio, superbia, lussuria, rapina, miseria, vendetta, ignoranza" (Cronache…, V, Torino 1966, p. XXXIII). La guerra aveva operato, attraverso l'inflazione, una gigantesca reffistribuzione dei redditi dagli impiegati di Stato, dai proprietari di immobili a fitto bloccato e dai risparmiatori detentori di titoli pubblici ai negozianti e agli speculatori, agli operai e ai contadini. A rigore dunque i ceti che apparivano più turbolenti (appunto quelli operai e contadini) non erano stati impoveriti, tutt'altro, ma non contenti di quello che avevano avuto, pretendevano sempre di più.

L'E. condannò severamente l'occupazione delle fabbriche, e il governo Giolitti che l'aveva tollerata; ma ebbe parole di sarcasmo anche nei confronti degli esponenti socialisti riformisti, che, senza pensare a espropriazioni, intendevano sperimentare una qualche forma di cogestione delle aziende. L'E. del resto non mise mai in discussione l'unicità e indivisibilità della funzione imprenditoriale; gli operai, per quanto capaci, non sarebbero mai stati in grado di collaborare alla gestione dell'azienda. Liquidò anche sbrigativamente l'ampio programma riformatore presentato da Turati nel 1920.

Come la grandissima maggioranza degli economisti e degli intellettuali liberali italiani, l'E. guardò con simpatia al nascente movimento fascista, sia per i valori patriottici e antibolscevichi che lo ispiravano, sia per il liberismo del suo programma. Una preoccupazione soltanto affiora negli scritti del 1922: che i fascisti, una volta arrivati al potere, si mettano a fare come i socialisti, scioperando e attizzando la lotta di classe, e trascurando di restaurare l'ordine (cfr. Parole e fatti, in Corriere della sera, 27 sett. 1922).

Tale fiducia gli sembrò ben riposta esaminando l'azione del ministro delle Finanze di Mussolini, Alberto De Stefani. La politica di sgravi fiscali, di riduzione della spesa statale corrente mediante la riduzione del personale in eccedenza, e in generale l'indirizzo favorevole alla privatizzazione, fu da lui commentata favorevolmente sul Corriere. L'E. non mancò peraltro di cogliere, pur nel favore di massima per il vigoroso liberismo economico di De Stefani, certi segni premonitori delle intenzioni del regime di non seguire la linea della tradizione liberale. Seppure con imbarazzo, l'E. non tralasciò di segnalare criticamente l'abuso del decreto legge, l'obbligo del giuramento per i professori universitari, la tutela prefettizia sulle associazioni private. Per ora, però, gli sembravano soltanto contraddizioni, errori di percorso di un governo che non sempre si ricordava che "nella vita tutto è connesso: politica e finanza, relazioni estere ed economia nazionale" (Il risanamento economico e finanziario dell'Italia nel discorso del ministro delle finanze a Milano, in Corriere della sera, 14 maggio 1923). Fu con il delitto Matteotti che la natura autoritaria del regime gli si presentò in tutta la sua evidenza. In particolare l'E. denunciò l'indifferenza e il cinismo degli industriali, che continuavano ad appoggiare Mussolini (cfr. Il silenzio degli industriali, ibid., 6 ag. 1924). Ma alcuni di loro gli risposero seccamente.

L'E. passò all'opposizione aperta. Aderi all'Unione nazionale di Giovanni Amendola; fu fra i primi firmatari del manifesto Croce, pubblicato sul Mondo del 1º maggio 1925; e allorché Piero Gobetti mori esule in Francia rese commosso omaggio alla memoria del giovane allievo, che aveva pubblicato pochi anni prima una delle più belle raccolte di scritti dell'E.: Le lotte del lavoro (Torino 1924). Fra il 1925 e il 1926 fu costretto a una serie di passi che ridussero la sua sfera di influenza sull'opinione pubblica, e lo confinarono in un ambito più ristretto. Dovette lasciare la collaborazione al Corriere della sera, dove L. Albertini non era più direttore; l'ultimo articolo dell'E. usci il 27 nov. 1925. L'anno seguente fu costretto a lasciare l'insegnamento, tenuto fin dal 1904, all'università Bocconi di Milano. Al Senato ormai fascistizzato comparve solo rarissimamente. Nel 1928 fu fra i 46 che si opposero all'approvazione della nuova legge elettorale a lista unica formata dal Gran Consiglio del fascismo. Non partecipò alla discussione e votazione per la ratifica dei Patti lateranensi. Infine, votò contro l'ordine del giorno favorevole alla campagna d'Etiopia (18 marzo 1935). Anche i figli manifestarono apertamente idee antifasciste. Il maggiore, Mario, partecipò ai funerali di Matteotti; il secondogenito, Roberto, venne trovato mentre affiggeva volantini antifascisti in occasione delle elezioni del 1928, e fu arrestato. Il più giovane, Giulio, venne arrestato nel 1935. La bella casa di via Lamarmora a Torino diventò luogo di incontro di antifascisti.

Costretto a ridurre la sua attività pubblica e giornalistica, l'E. si concentrò negli studi e nella direzione della rivista, che - dopo un certo appannamento negli anni del dopoguerra - conobbe un periodo di grande fulgore. La cerchia dei collaboratori si allargò. Se è vero che La Riforma sociale perse Giuseppe Prato, morto nel 1928, negli stessi anni essa acquistò Carlo Rosselli, Alberto Breglia, Ernesto Rossi, Francesco Antonio Repaci, Renzo Fubini, Mauro Fasiani, Paul Rosenstein Rodan. Vi fu una maggiore attenzione alla teoria economica e alle idee provenienti dall'estero. In questi anni l'E. fu consulente per l'Italia della Rockefeller Foundation, con il compito di selezionare giovani per borse di studio negli Stati Uniti. Egli stesso nel 1926 compi un viaggio in America, visitando le università di Yale, Harvard, Princeton, Columbia, Minnesota, Berkeley, St. Louis e incontrando alcuni fra i principali economisti americani. Insieme con i collegamenti accademici e scientifici internazionali, in questi anni l'E. intensificò i propri acquisti di opere rare di economia, specie di lingua inglese, per i quali si avvalse della preziosa collaborazione di Piero Sraffa, già suo allievo a Torino e ormai trasferito a Cambridge.

Il forzato raccoglimento gli consenti di dedicarsi con più agio alla passione autentica di agricoltore. Aveva acquistato la cascina S. Giacomo a Dogliani nel 1897, con i primi guadagni da giornalista e con un indebitamento fatto a ragion veduta, perché di li a poco i prezzi dei prodotti agricoli e quindi della terra crebbero.

Gli acquisti di terra nei comuni di Dogliani e di Barolo (necessari questi ultimi per produrre il vino di quella denominazione) proseguirono fino al 1958, raggiungendo l'estensione di 250 "giornate" (1 giornata = 3.810 m².). L'E. amò disegnare personalmente le nuove costruzioni dei suoi poderi, e procedette con grande amore e perizia al restauro delle vecchie, risalenti al 1600.

In questi anni crebbe la sua fama internazionale. Fin dal 1922 collaborò stabilmente all'Economist di Londra, come corrispondente dall'Italia. Nel 1929 e 1930 intervenne sul Quarterly Journal of economics di Harvard, discettando con Piero Sraffa a proposito di una questione di priorità fra James Pennington e James Mill in tema di teoria del commercio internazionale. Nel 1930-31 scrisse numerose voci di finanza e di storia del pensiero economico Per la Encyclopaedia of the social sciences edita a New York sotto la direzione di E. A. R. Seligman. Partecipò altresi ai lavori di diverse commissioni scientifiche internazionali sui problemi fiscali.

Soprattutto l'E. perfezionò in questi anni la sua costruzione teorica. Già nel 1919, in Osservazioni critiche intorno alla teoria dell'ammortamento dell'imposta … (in Atti della R. Accad. delle scienze di Torino, LIV [1918-19], pp. 1051-1131), prendendo spunto da una questione tecnica come quella dell'ammortamento o capitalizzazione dell'imposta (tramite la riduzione del valor capitale), l'E. aveva affermato la necessità di tener conto non solo della tassazione, ma anche del modo in cui lo Stato spende i proventi di essa, per decidere se l'ammortamento avviene o meno. Se lo Stato impiega tale provento in modo più produttivo di quanto non sappiano fare i privati, ammortamento non vi sarà; il saggio d'interesse (indice principale della prosperità di un paese) tenderà a diminuire, nonostante l'imposta, e si potrà dire che l'imposta è veramente "neutra", cioè non disturba l'equilibrio economico. Negli scritti successivi l'E. cercherà di collegare le proprie conclusioni sull'imposta "neutra" con quelle precedentemente raggiunte sulla preferibilità di un'imposta sul solo reddito consumato, in un quadro di equilibrio economico generale che tenga conto non solo dell'imposizione, ma anche della spesa pubblica e della sua produttività. Nel 1924, in La terra e l'imposta (in Annali di economia, I, pp. XIII-173), esaminando le vicende della tassazione sui redditi della terra in Italia, dal catasto teresiano alla legge De Stefani del 1923, l'E. giungeva alla conclusione che l'unico criterio valido fosse quello di tassare il solo reddito ordinario, cioè medio, senza distinguere fra quello dovuto alla proprietà (reddito fondiario) e quello dovuto all'attività imprenditoriale (reddito agrario). Tutti i sovraredditi comunque chiamati dovevano essere esenti, a premio di proprietari e coltivatori dalle capacità superiori alla media. In Contributo alla ricerca dell'"ottima imposta" (ibid., V [1928-29], pp. 7-244) polemizzava con Antonio De Viti De Marco, che aveva sostenuto che "tutti, consumando servizi pubblici generali in proporzione al proprio reddito, debbono pagare imposta in proporzione a quel reddito", modificando tale massima in questo modo: "Tutti, consumando servizi pubblici generali in proporzione al proprio reddito normale…, debbono pagare imposta in proporzione a quel reddito". L'imposta sul reddito normale è considerata da lui come la migliore approssimazione all'ideale di una rigorosa esenzione del risparmio.

Finalmente, dopo aver condotto perspicue ricerche sui propri precursori (cfr. Contributi fisiocratici alla teoria dell'ottima imposta, in Atti della R. Acc. delle scienze di Torino, LXVII [1931-32], 2, pp. 433-456; La teoria dell'imposta in Tommaso Hobbes. sir William Petty e Carlo Bosellini, ibid., LXVIII [1932-33], 2, pp. 546-610), egli tratteggiava i connotati di uno Stato ideale, in cui massima sia la fiducia dei contribuenti nei confronti dei pubblici poteri, e lo incarnava nell'Atene dell'età periclea, in cui i cittadini contribuivano volontariamente alle spese pubbliche. Stato perfetto sarebbe quello in cui non si dovesse ricorrere alla coattività nella esazione e, corrispondentemente, quello in cui i pubblici poteri non si incaponissero nell'accertamento del reddito effettivo, di difficilissima valutazione, ma si limitassero a definire il reddito medio. In questo modo lo Stato avrebbe veramente assunto il ruolo di "fattore di produzione", contribuendo ad arricchire la collettività (Miti e paradossi della giustizia tributaria, Torino 1938).

Nei medesimi anni l'E. prese progressivamente le distanze da John Maynard Keynes, in precedenza ammirato come autore delle Economic consequences of the peace e come grande biografo di economisti. All'E. non piacevano le previsioni sul futuro dell'economia, presentate da Keynes nei suoi Essaysin persuasion; in particolare, che il capitalismo non fosse altro che una parentesi storica apertasi casualmente con l'afflusso di metalli preziosi dal nuovo mondo e ormai prossima a chiudersi per via della soluzione dei problema della scarsità. Ancora più radicalmente negativa è la posizione dell'E. di fronte a The means to prosperity, in cui Keynes caldeggiava una politica di investimenti pubblici utilizzando il concetto di moltiplicatore. Per l'E., "senza lepre non si fanno i pasticci di lepre" (Il miopiano non è quello di Keynes, in Riforma sociale, XI, [1933], 2, p. 132); cioè senza un atto di risparmio (e quindi una astensione dal consumo) non è possibile procedere a nuovi investimenti. Né il credito fornito dalle banche è ritenuto dall'E. idoneo a spingere in alto i prezzi e a ricostituire quei margini di profitto necessari per rilanciare la produzione. Invece, per lui la crisi dovrà essere lasciata libera di esplicare tutta la sua potenza devastatrice, ma anche selezionatrice delle forze imprenditoriali migliori. Prima le imprese dovranno ricostituire l'equilibrio fra costi e ricavi; quelle fra loro che avranno saputo risanarsi saranno in grado di far uscire l'economia dalla crisi.

L'ottica microeconomica con cui l'E. guardò al fenomeno della crisi gli fece peraltro apprezzare taluni concetti keynesiani riguardanti il comportamento e la psicologia degli operatori. Recensendo la General theory of employment, interest and money, l'E. metteva bene in luce l'importanza della preferenza per la liquidità alla base della domanda speculativa di moneta anche se rifiutava l'idea che essa caratterizzasse strutturalmente l'economia capitalistica (cfr. Della moneta "serbatoio di valori" e di altri problemi monetari, in Riv. di storia economica, IV [1939], 2, pp. 133-166).

La medesima intransigenza mostrata nel difendere la concezione ortodossa della politica economica dalle provocazioni di Keynes l'E. la impiegò nel difendere la scienza economica dagli attacchi dei sostenitori del corporativismo fascista. Contro lo storicismo e statualismo di Ugo Spirito, affermò che i "dogmi" economici sorgono indipendentemente dal contesto sociale e storico, per cui una storia scientifica delle dottrine economiche avrebbe dovuto costituirsi come svolgimento di teoremi elaborati da "menti sovrane" che avevano fatto avanzare la "verità" sull'"errore". Concezione, questa, mutuata da Maffeo Pantaleoni, ma che l'E. storico del pensiero economico di fatto non osservò fino in fondo, prediligendo ricerche su economisti al di fuori del mainstream dell'ortodossia: F. Le Play, J.-Ch.-L. Sismondi, F. Fuoco, c. Cattaneo. In effetti l'insistenza sul dogma economico serviva all'E. a mettere in discussione la legittimità di una rifondazione della scienza economica su basi corporative, cosi come intendevano i teorici del corporativismo. Questi ultimi - obiettava l'E. - avrebbero dovuto indicare su quali ipotesi di comportamento dei soggetti economici e su quali nuovi strumenti di analisi intendevano fondare la nuova economia.

Per es., avrebbero dovuto spiegare in che cosa il "salario corporativo" si discostasse dal salario di equilibrio della teoria economica tradizionale, seppure determinato dal giudice e non dal libero accordo delle parti (cfr. Le premesse del salario dettato dal giudice, in La Riforma sociale, XXXVIII [1931], 5-6, pp. 311-316). Naturalmente, l'E. non si faceva illusioni sul fatto che l'economia corporativa, in quanto economia regolata, si scostasse dal modello di concorrenza perfetta per introdurre vincoli di natura politica, e quindi generalmente dannosi, all'operare delle forze di mercato; e che il corporativismo rappresentasse il trionfo degli interessi economici costituiti a spese dei consumatori e dei produttori nuovi (cfr. per es. La corporazione aperta, ibid., XLI [1934], 2, pp. 13-27; Intorno alla disciplina degli impianti industriali, in Giornale degli economisti e Annali di economia, n. s., III [1941], 7-8, pp. 458-470).

L'esperienza negativa del corporativismo e, a maggior ragione, dell'autarchia (che l'E. con pignoleria etimologica chiama "autarcia"), come pure, ai suoi occhi di liberale puro, del New Deal rooseveltiano, e naturalmente della pianificazione sovietica, spingeva l'E. a vagheggiare il ritorno a un'"economia di concorrenza" a misura d'uomo, diversa sia dalle esperienze di economia regolata, sia anche da quel "capitalismo storico" brutale e monopolistico che aveva spianato la via al totalitarismo presente. Di qui il consenso per le tesi dell'economista tedesco Wilhelm Roepke, espresso in saggi quali Economia di concorrenzae capitalismo storico. La terza via fra i secoli XVIII e XIX, in Riv. di storia econ., VII (1942), 2, pp. 49-72. E, soprattutto, la cortese ma ferma polemica con Benedetto Croce, l'altro grande interprete del liberalismo che il fascismo non aveva costretto al silenzio. L'E. negava che si potesse separare il liberalismo politico dal liberismo economico; meglio, rivendicava anche a quest'ultimo un profondo contenuto morale e quindi, in certo senso, filosofico. Il liberismo dà contenuto concreto alla libertà, che altrimenti sarebbe vuota (cfr. in particolare Tema per gli storici dell'economia: dell'anacoretismo economico, ibid., II [1937], 2, pp. 186-195).

L'E. che appare dagli scritti del 1935.1943 è un pensatore che medita sull'insegnamento del passato per risalire alle origini degli errori dell'età presente e indicare strade alternative. La vocazione alla storia lo porta a dar vita alla Rivista di storia economica, all'indomani della soppressione, ordinata dal prefetto di Torino il 27 maggio 1935, della Riforma sociale. L'ordine era stato dato in conseguenza dell'arresto di Giulio Einaudi, editore della rivista del padre, nell'ambito della repressione del nucleo clandestino torinese di Giustizia e libertà. La nuova rivista, edita anch'essa da Giulio Einaudi a partire dal marzo 1936, rappresenta a tutt'oggi un modello insuperato di collaborazione fra economisti e storici. Accanto ai nomi degli antichi colleghi dell'E., come Cabiati e Jannaccone, e di economisti più giovani, come A. Breglia, M. De Bernardi, M. Lamberti, compaiono storici dell'economia come Gino Luzzatto, Armando Sapori e Domenico Demarco. Ma la maggior parte degli scritti apparsi sulla rivista sono opera del suo direttore, che intraprese una discussione a distanza con Lucien Febvre e Marc Bloch sul metodo della storia economica, con Earl J. Hamilton sul significato della "rivoluzione dei prezzi" nel XVI sec., e vi affrontò la rilettura di economisti del passato.

All'indomani della caduta del regime l'E. venne nominato rettore "badogliano" dell'università di Torino. Ma non fece in tempo a prendere possesso della carica, perché, braccato dai nazifascisti dopo l'8 sett. 1943, fu consigliato di prendere la via dell'espatrio. A sessantanove anni, claudicante per la rottura del femore riportata nel 1926, egli varcò insieme con la moglie il confine italo-svizzero del Col Fenêtre, il 26 settembre, dopo una traversata resa ancor più faticosa da una tormenta di neve. I coniugi furono tosto avviati al campo profughi dell'Orphelinat, presso Losanna, dove si ricongiunsero con il figlio Giulio, espatriato fin dal 15 settembre. Ma nel campo la vita era insopportabile e, grazie ai buoni uffici di William Rappard, professore di finanza all'università di Ginevra, essi poterono uscire il 7 ottobre, trovando ospitalità a Basilea presso Marguerite Kirchhofer, vedova di un figlio di R. Michels, il sociologo tedesco che era diventato consuocero dell'E. dopo il matrimonio della figlia Manon con Mario.

Si aprì un capitolo breve ma intensissimo della vita dell'E., a contatto con un ambiente intellettuale molto vivo, costituito, oltre che da uno scelto gruppo di studiosi svizzeri (Edgar Salin, Werner Kaegi, ecc.), dai giovani Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, che dibatterono fervidamente con l'E. le tesi federalistiche, e dai più anziani professori, anch'essi esuli, Gustavo Colonnetti, Gustavo Del Vecchio, Francesco Carnelutti, Concetto Marchesi. Costoro erano gli animatori dei campi universitari per italiani, in funzione a Ginevra, Losanna, Neuchâtel e Friburgo. Nel campo di Ginevra l'E. fu invitato a tenere un corso, dall'aprile al giugno 1944, che dette luogo a quelle che saranno pubblicate come Lezioni di politica sociale (Torino 1949).

In questo clima le idee dell'E., da sempre favorevoli al decentramento e al self-government, come si conveniva a un ammiratore del modello angloamericano, acquistavano nuova forza fino a diventare una vera filosofia del buongoverno, centrata sul piano locale sull'autonomia delle comunità (termine che l'E. desunse da Adriano Olivetti, anch'egli rifugiato in Svizzera) organizzate in "collegi" non coincidenti con le circoscrizioni elettorali e preposte alla fornitura di servizi pubblici e all'approntamento dei piani regolatori; e sul piano internazionale sul superamento del "mito dello Stato sovrano" e degli egoismi nazionalistici, verso un'Europa federata. In questo contesto, in cui lo Stato deve rifondarsi dal basso, non c'è posto per il prefetto, simbolo dell'accentramento napoleonico-fascista (cfr. Via il prefetto!, in L'Italia e il secondo Risorgimento, I [1944], 12, pp. 1 s.).

L'E. rientrava in patria il 9 dic. 1944, richiamatovi dal governo Bonomi per assumere in Roma ormai liberata la carica di governatore della Banca d'Italia. Insediato il 15 genn. 1946, ottenne pochi mesi dopo che fosse nominato direttore generale Donato Menichella, già direttore generale dell'IRI (Istituto ricostruzione industriale) durante il fascismo e uscito assolto dal processo di epurazione. Nonostante la diversa provenienza, i due uomini lavorarono in perfetta sintonia, e quando Menichella succedette all'E. come governatore, l'economista piemontese segui il suo operato con piena approvazione.

Fra il 1945 e il 1946 la Sinistra (compresa una parte della Democrazia cristiana facente capo a Gronchi) richiese con insistenza il cambio della moneta., gia realizzato o in corso di realizzazione in Francia e altrove. Lo scopo era quello di procedere a un inventario della ricchezza tesaurizzata presso il pubblico (ricchezza proveniente in parte dal mercato nero), che doveva essere assoggettata a una imposta patrimoniale. Il presidente del Consiglio F. Parri chiese il parere del governatore E., che manifestò il suo scetticismo sull'opportunità e l'efficacia del provvedimento, sia per ragioni strettamente tecnico-amministrative, sia perché, se si fosse voluto veramente perseguire lo scopo di colpire tutta la ricchezza liquida, si sarebbe dovuto tassare anche i depositi e i conti correnti bancari, con conseguente corsa ai ritiri da parte dei clienti e quindi ulteriore incentivo alla tesaurizzazione, con effetti controproducenti. Nell'estate del 1946 il clamoroso furto dei clichés della nuova carta moneta (furto secondo alcuni avvenuto su commissione degli avversari del cambio) affossò definitivamente la misura. L'imposta patrimoniale, cosi mutilata, venne ugualmente varata dal moribondo governo tripartito DC-PSI-PCI nel marzo 1947. In vari articoli sul Corriere della sera l'E. chiari che non era lecito attendersi molto da essa: tanto meno che frenasse l'inflazione ormai galoppante.

Mentre nella sua prima relazione da governatore (29 marzo 1946) l'E. aveva manifestato ottimismo sulla ripresa economica, spendendo parole compiaciute per l'aumento degli sportelli bancari, segno di vivacità e competizione fra banche grandi e piccole, nella seconda relazione (31 marzo 1947) - comprendente per la prima volta le Considerazioni finali, che da allora non mancheranno più in quel documento - egli affrontava con toni drammatici il tema dell'inflazione, di cui indicava il rimedio nello "spezzare il torchio dei biglietti". L'inflazione monetaria agiva perversamente sul sistema economico, riducendo anzitutto la propensione a risparmiare, in quanto "il risparmio è funzione della fiducia nella unità monetaria". Ma il fattore principale di inflazione era la crescente spesa statale. Per dare maggior suggestione al proprio appello, l'E. lanciava il concetto di "momento critico dell'inflazione", oltre il quale l'ulteriore emissione di moneta si risolveva in perdita netta di potere d'acquisto da parte dell'Erario. L'E. intendeva ammonire circa la lezione della drammatica esperienza tedesca del 1923, in cui l'iperinfiazione aveva aperto la strada al totalitarismo. Meno preoccupante gli sembrava il problema della disoccupazione, che probabilmente secondo lui sarebbe stato avviato a soluzione quando i vincoli protezionistici interni ed internazionali fossero stati rimossi.

Già membro della Consulta nel 1945-46 e pur mantenendo la carica di governatore - anzi, rivendicando puntigliosamente la compatibilità di essa con il mandato parlamentare -, l'E. fu eletto all'Assemblea costituente per la lista dell'Unione democratica nazionale, composta da liberali, demolaburisti ed esponenti autonomi della lotta partigiana. Durante la campagna elettorale non aveva fatto mistero della propria fede monarchica, argomentando che una monarchia rispettosa delle autonomie locali era da preferire a una repubblica accentratrice e giacobina (nel 1944, in Svizzera, aveva avuto contatti con la principessa Maria Josè per organizzare una campagna di stampa a favore della monarchia). Fece parte della commissione dei 75 incaricata di redigere il progetto di costituzione, e fu assegnato alla seconda sottocommissione, sull'ordinamento costituzionale dello Stato, seguendo i lavori della prima sezione di essa, sul potere esecutivo.

I suoi interventi furono numerosi, e spesso incisero nel dettato costituzionale. Cosi, si batté a favore del sistema bicamerale e contro la trasformazione del Senato in "rappresentanza degli interessi" economici, che gli suonava come eco del corporativismo. Sempre per voler combattere ogni concessione in questo senso, si oppose a che si facesse menzione del CNEL (Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro) fra gli "organi ausiliari" (il CNEL, in effetti, entrò in funzione nel 1956, dopo il mandato presidenziale dell'Einaudi). Fu inoltre favorevole al referendum abrogativo, e ne caldeggiò l'estensione anche alle leggi tributarie. Fu invece contrario, come molti esponenti del liberalismo prefascista (fra cui Nitti), alla Corte costituzionale, presentando il io febbr. 1947 un emendamento che ripartiva le funzioni della Corte fra magistratura ordinaria, Cassazione e potere legislativo.

Forse più importanti sono però gli interventi in Assemblea in seduta plenaria. Fu contro l'art. 33 non perché esso fosse troppo favorevole alla scuola privata (in origine mancava l'inciso "senza oneri per lo Stato"), ma perché sanciva implicitamente il valore legale dei titoli "di dottorato e di licenza", che per l'E. era la negazione dell'autentica libertà di insegnamento. Il 9 maggio 1947 prese la parola per respingere l'emendamento firmato dall'on. Mario Montagnana e da altri deputati di sinistra, e inteso a includere l'idea di piano economico nella costituzione. L'E. fu buon causidico nel dimostrare la debolezza del concetto di "piano che dia il massimo rendimento per la collettività". Riusci inoltre a evitare che nel dettato costituzionale vi fosse un riferimento alla "partecipazione ai profitti" delle aziende da parte dei lavoratori. La maggior parte delle idee da lui esposte negli interventi forni materia per numerosi articoli che l'E. scrisse per il Corriere della sera, che aveva ripreso a essere la sua palestra d'elezione.

Nel gennaio del 1947 si ebbe la svolta politica che portò, nel maggio successivo, alla formazione del quarto gabinetto De Gasperi. L'E., che fu chiamato a farne parte come indipendente, ebbe la vicepresidenza dei Consiglio e il dicastero riunito delle Finanze e Tesoro, che peraltro furono subito scorporati (e assegnati rispettivamente a Giuseppe Pella e Gustavo Del Vecchio, ambedue vicini all'E.), mentre gli venne affidato il portafoglio del Bilancio, dicastero costituito appositamente per lui. Nel frattempo un decreto assicurava la compatibilità fra la carica di ministro e quella di governatore (anche se l'interim fu assunto da Menichella). L'E. ebbe dunque poteri vastissimi di direzione della politica economica, e seppe valersene con grande energia. Combatté l'inflazione con provvedimenti di restrizione creditizia, che ponevano un tetto al rapporto fra impieghi e depositi bancari, e riducevano il rapporto impieghi-patrimonio delle-banche. Per coinvolgere maggiormente le forze di governo nella sua politica, l'E. ripristinò il comitato interministeriale per il credito e il risparmio, previsto dalla legge bancaria del 1936 e frettolosamente abolito nel 1944. Le critiche alla "linea Einaudi" non provennero soltanto dalla Sinistra (che lamentava che in questo modo si accrescesse la disoccupazione), ma anche dagli ambienti industriali, che temevano che il processo di ricostruzione ne venisse frenato. Anche se è difficile stimare esattamente gli effetti della politica di restrizione monetaria promossa dall'E., per il fatto che gli aiuti Marshall del 1948 furono essenziali nel fornire le riserve valutarie e consolidare la posizione della lira, gli storici sono sostanzialmente concordi nel rilevare come essa non avesse alternative valide, per la difficoltà di operare una manovra selettiva nel credito e per i lunghi tempi che un'azione riformatrice nel campo fiscale avrebbe richiesto. è da osservare, peraltro, che la linea Einaudi giocò anche un pesante ruolo politico nell'indebolire i sindacati e le forze di sinistra, e quindi nel preparare il terreno per il trionfo di De Gasperi il 18 apr. 1948.

All'indomani delle elezioni politiche De Gasperi pensò di candidare alla carica di presidente della Repubblica il suo ministro degli Esteri Carlo Sforza, destinando l'E. alla presidenza del Senato. Ma Sforza, nonostante sulla carta disponesse di un'ampia maggioranza, non riusci a fare il pieno dei voti della Democrazia cristiana, avendo particolarmente contraria la corrente di sinistra capeggiata da Giuseppe Dossetti. Il pomeriggio del 10 maggio 1948 De Gasperi e il ministro degli Interni Mario Scelba convennero che dopo i risultati dei primi due scrutini non era più il caso di insistere su Sforza e che si poteva puntare sull'Einaudi. L'indomani, alle 6 di mattina, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giulio Andreotti comunicò all'E. la decisione. La nuova candidatura incontrò la disponibilità del partito comunista, purché si fossero sospese le operazioni di voto per una consultazione. Ma Dossetti, d'intesa con De Gasperi e Scelba, replicò a Togliatti che a urne aperte non potevano essere ammesse sospensive; il che formalmente era corretto, ma copriva la volontà di tener fuori l'opposizione dall'elezione presidenziale. Alle 18 dell'11 maggio, al quarto scrutinio, l'E. venne eletto con 518 voti su 871, mentre il candidato delle sinistre, il vecchio Vittorio Emanuele Orlando, riceveva 320 voti.

Il presidente si installò al Quirinale, occupando peraltro non gli appartamenti reali, ma quelli più modesti della "manica lunga". Lui e la moglie furono degli autentici padroni di casa, ricevendo intellettuali, artisti, antichi colleghi, studiosi stranieri, con una signorilità che metteva a proprio agio gli ospiti, e che ha dato luogo ad aneddoti quale quello, narrato da Enmo Flaiano, della pera troppo grande che il presidente voleva dividere con gli altri conimensali, con imbarazzo del maggiordomo. Da grande bibliofilo, il presidente curò la sistemazione della biblioteca del palazzo, disegnandone personalmente gli scaffali e arricchendone il patrimonio librario. La coppia amò anche trascorrere parte delle vacanze nella villa presidenziale di Caprarola, restaurata, oltre che - naturalmente - a Dogliani.

L'E. non rinunciò a scrivere; non più sulla stampa quotidiana, per ovvie questioni di riserbo, ma su quella scientifica e letteraria. Pubblicò un profilo di F. Galiani nei Rendiconti dell'Acc. dei Lincei (classe di sc. mor., storiche e filologiche, s. 8, IV [1949], 3-4, pp. 121-156); fece uscire sul Mondo di Mario Pannunzio una parte della sua copiosa corrispondenza con Emesto Rossi quando questi era al confino, ristampò i suoi scritti di storia del pensiero economico (Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Roma 1953); vergò numerose rievocazioni (fra cui fondamentale quella dal titolo Scienza economica. Reminiscenze, in Cinquant'anni di vita intellettuale italiana (1896-1946). Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo compleanno, a cura di C. Antoni - R. Mattioli, Napoli 1950, II, pp. 293-316) e prefazioni a volumi di altri autori. Consenti che Ernesto Rossi raccogliesse un'antologia dei suoi scritti (Il buongoverno, Bari 1954), i cui utili furono devoluti al Movimento federalista europeo, di cui l'E. era stato fra i promotori in Italia.

Per quanto ideologicamente solidale con la maggioranza centrista che lo aveva eletto, l'E. interpretò il ruolo di presidente in maniera tutt'altro che notarile, non mancando di esercitare una funzione di stimolo e di correzione, nell'ambito previsto dalla costituzione, nei confronti dell'esecutivo e del legislativo.

Sembra anzi che in origine l'E. intendesse manifestare il proprio eventuale dissenso dai provvedimenti governativi a lui sottoposti, mediante invio di messaggi al presidente del Consiglio. Ma, consigliato in questo dal segretario generale della presidenza della Repubblica, il giurista Ferdinando Carbone, si limitò a intervenire in forma non ufficiale, con ogni sorta di quesiti, richieste di ulteriori informazioni, e soprattutto inviti a ripensare certi provvedimenti. L'E. pubblicò questo amplissimo materiale, per lo più lasciato cadere nel silenzio dai destinatari, nel suo Scrittoio del presidente (Torino 1956), documentazione di una straordinaria vivacità e varietà di interessi.

Già in sede di Costituente aveva approvato la proposta del liberale Aldo Bozzi, fatta propria anche da E. Vanoni, di inserire nel testo cosfituzionale un articolo della legge del 1923 sulla contabilità dello Stato, secondo cui nelle proposte di nuove e maggiori spese occorrenti dopo l'approvazione del bilancio dovevano essere indicati i mezzi per far fronte alle spese stesse. In difesa di quello che era divenuto l'art. 81, ultimo comma, si pronunciò il 13 dic. 1948 in una lettera al ministro del Tesoro Pella, in cui ammoniva che il dettato costituzionale intendeva primariamente affermare il principio, che l'E. considerava un valore in sé, del pareggio del bilancio (cfr. Sulla interpretazione dell'art. 81della Costituzione, riprodotto in Lo scrittoio…, pp. 201-207). Carattere esemplare in questo senso ebbe il ricorso da parte sua, in virtù dell'art. 74 della costituzione, al rinvio alle Camere con "messaggio motivato" di alcune leggine di iniziativa parlamentare perché sprovviste della necessaria copertura (9 apr. 1949). Un altro rinvio, invocante stavolta il rispetto dell'art. 106, riguardò una legge che immetteva in ruolo senza concorso personale della carriera giudiziaria (11 genn. 1950). Poiché la legge venne nuovamente votata, l'E. fu costretto a promulgarla, ma non si trattenne dallo scrivere, con lo pseudonimo di E. Manfredi, un vivace articolo di protesta (cfr. Un articolo sconosciuto di L. Einaudi al "Mondo" (1950), a cura di N. Tranfaglia, in Annali della Fondaz. L. Einaudi, II [1968], pp. 303-322). Ma il rinvio che fece maggiormente discutere, in quanto non vi era una precisa norma costituzionale da far rispettare, ma la generica esigenza della buona amministrazione, fu quello relativo a una legge riguardante i compensi "casuali" di taluni dipendenti pubblici. Nel messaggio (21 nov. 1953) il presidente-scrittore rappresentava con la consueta maestria l'irrazionalità da ancien régime di simili forme di compenso (cfr. il testo dei messaggi in Lo scrittoio…, pp. 208-229).

Le elezioni del 7 giugno 1953 segnarono la fine dell'era degasperiana; lo statista trentino, al quale l'E. aveva affidato un nuovo incarico, fu bocciato il 28 luglio ("quella notte a Caprarola il Presidente Einaudi e la moglie avevano le lacrime agli occhi", ricorda Giulio Andreotti). Il 13 agosto l'E. - rilevata l'impraticabilità di una soluzione Piccioni - incaricava, senza alcuna previa consultazione, il piemontese (e liberista) come lui Giuseppe Pella, il quale formò un monocolore democristiano di minoranza autodefinitosi "governo della nazione" (evidentemente per non dichiarare a quali partiti intendeva appoggiarsi), che ottenne la fiducia grazie al voto dei monarchici. Il governo Pella, considerato una specie di "governo del presidente", ebbe vita stentata, soprattutto per la sotterranea ostilità della DC. Il 5 genn. 1954, di fronte al veto espresso dal direttivo del gruppo parlamentare democristiano nei confronti della nomina dell'on. Salvatore Aldisio al ministero dell'Agricoltura, Pella si dimetteva. Il 12 gennaio l'E. convocava i capigruppo della DC A. Moro e S. Ceschi per ricordare loro che per l'art. 92 della costituzione "il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questi, i ministri", e che quindi il veto di un gruppo parlamentare era inammissibile. L'E. dunque reincaricò Pella, al quale non restò altro che rinunciare definitivamente. Il nuovo incaricato A. Fanfani dichiarò espressamente che intendeva tener conto dell'opinione dei vari gruppi parlamentari.

La condotta costituzionale dell'E. suscitò qualche polemica a proposito del travagliato iter della riforma elettorale in senso maggioritario. Il 29 marzo 1953 la legge fu approvata dal Senato, ma in modo cosi tumultuoso (dato l'ostruzionismo delle sinistre) che molti senatori chiesero all'E. di non procedere alla promulgazione. L'E. invece la promulgò, e contemporaneamente sciolse il Senato nonostante che per il sistema elettorale di allora mancasse un anno alla sua scadenza, perché "è opportuno che gli elettori manifestino contemporaneamente, con i metodi ora mutati, la loro volontà sull'indirizzo futuro del Parlamento". Come è noto, la legge maggioritaria non scattò; nel 1963 una legge costituzionale provvide a fissare la durata del Senato in cinque anni, come quella della Camera.

In effetti anche l'E., come molti liberali prefascisti, era favorevole a un premio di maggioranza che assicurasse stabilità all'esecutivo. Fin dal 4 nov. 1944, scrivendo Contro la proporzionale, aveva dichiarato la propria avversione per i "piccoli giochetti aritmetici della cosiddetta giustizia proporzionale" (rist. in Il buongoverno, p. 65). E nel febbraio 1946, alla Consulta, aveva affermato che il sistema proporzionale favorisce la formazione di "partiti scombinati". Negativa era per lui l'esperienza delle elezioni italiane del 1919, le prime effettuate con il metodo della rappresentanza proporzionale e con lo scrutinio di lista, che segnarono la crisi delle maggioranze liberali e l'affermarsi dei partiti di massa socialista e cattolico. Con indubbia lucidità, per prevenire cioè sia il rischio di instabilità sia lo strapotere dei partiti di massa, l'E. avanzò in due memorie redatte nel 1953 la proposta di un (modesto) premio di maggioranza e insieme quella (che forse gli stava più a cuore) dell'introduzione di un collegio uninominale in cui gli elettori potessero esprimere una preferenza di "seconda linea" da conteggiarsi se nessuno dei candidati avesse ottenuto il quorum sufficiente. In tal modo si sarebbero favoriti i partiti minori o intermedi rispetto ai due maggiori (cfr. Osservazioni sui sistemi elettorali…, in Lo scrittoio, pp. 20-31).

L'agenda degli impegni internazionali dell'E. presidente è molto scarna, dato anche il relativo isolamento di un'Italia uscita sconfitta dalla guerra. Egli peraltro segui l'azione del governo Scelba nella delicata manovra diplomatica atta a ottenere la restituzione di Trieste alla madrepatria, nel 1954. In una memoria riservata egli sostenne una sua antica tesi del 1915 circa la necessità di costituire un'ampia zona doganale franca intorno al capoluogo giuliano, che gli avrebbe consentito di recuperare il suo antico ruolo di collegamento fra Nordest e Sud di Europa. Per quanto riguarda le questioni europee, l'E. esercitò un potente stimolo verso il superamento delle barriere doganali e la rapida ratifica dei trattati relativi.

Scaduto nel 1955 il mandato presidenziale, l'E. ritornò con immutato fervore alla collaborazione giornalistica al Corriere della sera, sviluppando, accanto ai temi prediletti del migliore funzionamento del mercato, temi di più ampio respiro civile, come quello dell'istruzione e della libertà dell'insegnamento. L'idea dell'E. era quella di una scuola non professionalizzata, ma tesa a formare cittadini. Il corollario era peraltro l'abolizione del valore legale dei titoli di studio. Contemporaneamente l'E. fece uscire presso la casa editrice del figlio una serie di dispense, le Prediche inutili (raccolte poi in volume, Torino 1959), in cui si susseguono commenti sulla politica economica e finanziaria italiana - segnata allora da un inizio di dibattito sulla programmazione -, sui sindacati degli industriali del settore a partecipazione statale, sulla riforma agraria, sulla funzione della Chiesa cattolica nella società. Nell'ultima sua apparizione pubblica, al convegno della Mont Pelerin Society tenutosi a Torino nel settembre 1961, ribadiva la sua visione profondamente umanistica del ruolo dell'economista: "L'economista … non è una fetta d'uomo; ma è un uomo intero, il quale non può liberare se stesso dalla propria natura, dalle proprie passioni, dall'eredità delle generazioni, dal potere degli interessi" (Politici ed economisti, in IlPolitico, XXVI [1962], 2, p. 248).

Colpito da broncopolmonite, l'E. mori a Roma il 30 ott. 1961. Dopo il funerale di Stato, la salma fu tumulata nel cimitero di Dogliani.

La precocità della sua affermazione come scrittore ed economista, la saldezza dei suoi principi, il prestigio delle cariche ricoperte e, naturalmente, la longevità fanno dell'E. uno dei personaggi di maggiore influenza dell'Italia del Novecento: un uomo che in migliaia di scritti giornalistici e scientifici, impiegando ragionamenti serrati e facili apologhi, ha insegnato a generazioni di lettori, di studenti e di studiosi come funziona un mercato e quali sono i gravi compiti dello Stato nell'assicurare il buon funzionamento di esso. Anche se amò il tono predicatorio (e "prediche" sono intitolate due delle sue più note raccolte di scritti), l'E. non fu mai un dogmatico. Egli era troppo dotato di sensibilità storica per ritenere che le "armonie economiche" si formassero spontaneamente. Fu dunque un osservatore acuto dei fenomeni economici del suo tempo e del suo paese. Alla fine del secolo scorso, quando pochi ritenevano che l'Italia potesse assurgere a grande potenza economica (e tanto meno a grande potenza industriale), l'E. seppe cogliere le prime avvisaglie del decollo economico, che si stavano manifestando nell'ascesa di una nuova classe imprenditoriale e di un proletariato combattivo ma disposto a collaborare alle riforme. L'E. fu dunque uno dei migliori interpreti della stagione che va dal 1896 al 194. Accanto al ruolo centrale del mercato, l'E. indicò il ruolo dello Stato democratico (cioè libero da ogni condizionamento di gruppi di pressione), oltre che nel fornire servizi pubblici efficienti, nell'assicurare, attraverso un sistema scolastico a larga base e un sistema tributario che incoraggiasse il risparmio delle classi meno abbienti, quella "eguaglianza nei punti di partenza" che giustamente egli riteneva l'essenza di una società libera. Liberale all'inglese, l'E. ritenne che vi dovesse essere un limite preciso all'intervento statale non solo nell'econornia, ma più in generale nella sfera privata; ma a differenza di certa tradizione individualista esaltò la funzione dei corpi sociali intermedi, dell'associazionismo volontario (più sindacale che partitico), e soprattutto delle autonomie locali. Coerentemente, si batté per una effettiva libertà e indipendenza della stampa dalle lobbies e dal potere economico. Il direttore di un quotidiano avrebbe dovuto rispondere delle proprie posizioni soltanto ai suoi lettori, unici suoi giudici. In generale, avversò tutti i monopoli pubblici e privati.

Il suo pensiero, pur ricco e articolato, è di stampo ottocentesco; non solo perché i classici dell'economia e della politica da lui maggiormente amati furono John Stuart Mill, Alfred Marshall e Maffeo Pantaleoni, ma perché il suo riferimento costante, il suo modello, fu l'ordine economico precedente al 194, e implicitamente il sistema politico di quel tempo, basato su gruppi di opinione e non su partiti di massa. Di conseguenza le trasformazioni del sistema capitalistico nel periodo fra le due guerre gli sembrarono più deviazioni patologiche da quel modello che non tendenze irreversibili dell'econornia nei paesi occidentali. Anche le nuove funzioni economiche dello Stato, delineate da Keynes nelle sue opere, lo trovarono all'opposizione. Eppure l'E. visse una stagione politica da grande protagonista nel decennio 1945-1955. L'Italia uscita dalle distruzioni della guerra aveva un profondo bisogno di ancorarsi a solidi valori, dopo le tremende delusioni patite. Scartata l'ipotesi del comunismo, questi valori trovarono in uomini come l'E. gli interpreti più autorevoli. I fatti dettero loro ragione. Il "miracolo economico", per quanto i suoi tratti fossero alquanto diversi da quelli della società vagheggiata dall'econornista, sembrò premiare la tenacia con cui l'E. persegui la sua severa politica di ricostruzione.

All'inizio degli anni Sessanta, con la crisi politica del centrismo, e l'acuirsi di problemi sociali che il miracolo economico non solo non aveva risolto, ma aveva lasciato aggravare, la stella dell'E. impallidi. In questi ultimi anni, invece, in un clima di crescente insoddisfazione verso lo Stato sociale (o meglio assistenziale), diverse proposte dell'E. riacquistano una insospettata attualità, come quelle circa una maggiore autonomia e imprenditorialità delle banche (peraltro l'E. fu sempre contrario a stretti legami banca-industria), quelle favorevoli a una effettiva concorrenza fra scuola pubblica e privata, ecc. Anche le sue idee a favore della tassazione del solo reddito destinato a consumo meritano un riesame, data l'esigenza di controllo della domanda globale postulata dalla finanza funzionale keynesiana. Infine, la tendenza dei sistemi tributari a forte progressività a operare un drenaggio fiscale automatico sull'economia può far considerare con simpatia l'argomento cinaudiano a favore della tassazione del reddito ordinario, la quale presenta inoltre il vantaggio di non scoraggiare le attività più rischiose e meglio retribuite. Non si deve peraltro dimenticare che le proposte dell'E. erano nate, come si è detto, nel contesto italiano di inizio secolo, proprio di un'econornia che iniziava appena il suo decollo, e quindi molto diversa dall'econornia odierna. Il che rende l'attualizzazione delle idee dell'E. molto difficile, ove si intenda procedere alla loro realizzazione, e non meramente richiamarle a scopo polemico.