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    Nacque a Roma, nella zona di via Tomacelli, il 7 genn. 1891, unico
    figlio di Luigi e di Anna Adele Sacerdoti.
    
    Il padre, siciliano di Ragusa, fu ragioniere di prefettura a
    Siracusa, poi funzionario al ministero della Marina a Roma. La
    madre, figlia di Leone Sacerdoti e di Marietta Momigliano,
    piemontese di Ceva, era insegnante elementare, e faceva parte della
    vasta famiglia cui appartennero Attilio, Felice e Arnaldo Momigliano
    (Cavaglion, Felice Momigliano…, passim; Id., Ebrei senza saperlo,
    pp. 106 s.); di religione ebraica, si convertì al
    cattolicesimo in tarda età. Sposata con il rito civile, fece
    battezzare il figlio a sette anni, dopo la morte della propria
    madre.
    
    A Roma lo J. frequentò le ultime classi elementari alla
    scuola di via Gesù e Maria (la madre lo aveva preparato in
    casa per prima e seconda) e il ginnasio all'E.Q. Visconti. Sul
    finire del 1905, dopo la morte del padre non ancora quarantenne, si
    trasferì a Torino dove seguì le ultime due classi
    liceali al classico V. Alfieri. Vi ebbe, tra gli insegnanti,
    l'italianista L. Piccioni e il filosofo P. Martinetti. Nel 1907 si
    iscrisse alla facoltà giuridica: tra i docenti dello J.
    devono annoverarsi A. Loria, G.P. Chironi, L. Einaudi (al quale lo
    legò poi una lunga amicizia), F. Patetta, G. Mosca e F.
    Ruffini, con il quale preparò e discusse una tesi di diritto
    ecclesiastico ("La questione della proprietà ecclesiastica
    nel Regno di Sardegna e nel Regno d'Italia, 1848-1888"), laureandosi
    con 110, lode e dignità di stampa, l'11 luglio 1911. Nel
    periodo universitario frequentò anche, presso la
    facoltà di lettere, i corsi di A. Graf, A. Farinelli, P.
    Toesca, G. Vidari.
    
    Al piccolo mondo ebraico di Ceva e Mondovì, il mondo della
    nonna materna e della "vasta cerchia del cuginato", che
    ritrovò nel periodo torinese, sono dedicate alcune delle
    "Più vecchie storie" rievocate nei suoi "ricordi" apparsi sul
    finire degli anni Sessanta (Anni di prova, Vicenza 1969). Di quel
    periodo e di quella Torino, che lo J. definisce "gozzaniana", vanno
    segnalati i "grandi maestri", menzionati in più scritti, che,
    alla facoltà giuridica nel corso dei primi trent'anni del
    Novecento e in quella di lettere, formarono alcune
    personalità eccezionali (da P. Gobetti ad A. Gramsci, da D.L.
    Bianco a L. Ginzburg e C. Pavese, da A. Galante Garrone a N.
    Bobbio). Centrale fu, nell'esperienza dello J., il pensiero di B.
    Croce corretto, però, dall'impostazione di Ruffini e,
    soprattutto, dall'intenso sodalizio spirituale che stabilì
    con E. Buonaiuti (Lettere di E. Buonaiuti…, a cura di C.
    Fantappiè; Fantappiè, A.C. J. e il modernismo).
    
    Il 29 dic. 1911, in seguito a concorso, lo J. venne nominato
    segretario di IV classe nell'amministrazione del Fondo per il culto
    presso il ministero di Grazia e Giustizia e dei Culti, allora
    diretta dal barone C. Monti. Qualche mese dopo, però, lo J.
    entrò, sempre per concorso e con lo stesso grado, al
    ministero dei Lavori pubblici, dove rimase fino al 15 ott. 1920. Nel
    1913 vinse una borsa di studio per perfezionamento all'estero, nel
    1915 venne promosso alla I classe e, nel 1919, primo segretario.
    Dopo la parentesi della prima guerra mondiale - che, nonostante il
    convinto impegno neutralista tra i collaboratori di Italia nostra di
    C. De Lollis, lo vide in prima linea e, dopo Caporetto, prigioniero
    nel campo di Plan - fu a Parigi e a Vienna, come "giureconsulto"
    della delegazione italiana alla Commissione delle riparazioni, tra
    il 1919 e il 1920.
    
    Scrivendo da Vienna alla futura moglie, Adele Morghen, si definisce
    "antibloccardo, anticonservatore e antiinterventista" (3 ag. 1920),
    e aggiunge: "vorrei prendere per mano qualcuno dei retori che
    s'indignarono per le parole [di Benedetto XV] inutile strage: p.
    Semeria, p. Genocchi, qualche altro tra i ciarlatani che, in veste
    di sacerdoti cristiani, predicavano la santità della guerra e
    l'accordo tra guerra e Vangelo, e vorrei dire loro, bonariamente, di
    guardare questo epilogo di guerra" (17 ag. 1920), una guerra cui non
    poté "mai perdonare […] il culto della violenza, il disprezzo
    per le ideologie, il basso materialismo, con cui ha inchiodato a
    terra spiriti ch'erano adatti a più alti voli" (27 ag. 1920).
    
    Nel 1920 I. Bonomi, ministro della Guerra, lo richiese al suo
    gabinetto, ma il ministro dei Lavori pubblici non concesse il
    distacco. In quello stesso anno, nel maggio, tuttavia, lo J. -
    libero docente a Torino nel 1916, trasferito a Roma nel 1919 - aveva
    vinto il concorso a professore straordinario di diritto
    ecclesiastico nell'Università di Sassari (all'epoca aveva
    già pubblicato il volume storico Stato e Chiesa negli
    scrittori politici del Seicento e del Settecento [Torino 1914] e la
    solida monografia giuridica su L'amministrazione ecclesiastica nel
    Trattato di diritto amministrativo a cura di V.E. Orlando [Milano
    1912-20, in fascicoli], nonché una serie di lavori storici e
    di diritto canonico medievale). Chiamato a Sassari il 16 nov. 1920,
    dopo un primo tentativo a Siena, il 24 marzo 1923 si trasferì
    all'Università di Bologna, dove restò, con un breve
    passaggio sulla cattedra di diritto amministrativo nel 1925 e con la
    parentesi degli anni accademici 1925-26 e 1926-27 alla Cattolica di
    Milano, fino al 1933.
    
    Fu questo un periodo decisivo per lo sviluppo della sua forte e
    complessa personalità di studioso, docente e intellettuale,
    durante il quale iniziò anche quella parallela
    attività di avvocato che continuò praticamente fino
    alla morte e che gli valse non solo un grande nome tra i
    professionisti, ma pure gli consentì di tenere sempre insieme
    la speculazione scientifica con l'esperienza giuridica diretta. Di
    essa testimonia la rubrica che tenne, per molti anni, sulla Rivista
    di diritto civile, con il titolo Gli occhiali del giurista (poi in
    volume, I-II, Padova 1970 e 1985).
    
    Il 31 ott. 1921 Buonaiuti aveva celebrato il suo matrimonio con
    Adele Morghen (sorella dello storico del Medioevo Raffaello,
    insegnante elementare a Nepi) che lo J. aveva incontrato nel gruppo
    di giovani più vicini al sacerdote modernista. Dalla loro
    unione sarebbero nati tre figli: Adele Maria, Guglielmo Luigi e
    Viviana.
    
    A Buonaiuti, figura centrale del modernismo italiano, lo J. fu
    profondamente legato e a lui restò costantemente vicino, a
    onta di tutti gli ostracismi e di tutte le scomuniche.
    
    Se nel biennio 1919-21 lo J. aveva intensamente partecipato
    "all'esperienza comunitaria cristiana nella così detta
    koinonìa" (Fantappiè, pp. 89 s.), costituita da un
    gruppo di discepoli del Buonaiuti, ed era stato coinvolto "negli
    ideali di condivisione e fratellanza evangelica" di esso (ibid., p.
    90), negli anni successivi sia il trasferimento a Bologna sia alcuni
    dissensi di tipo "teorico-storico" lo portarono ad allontanarsi
    dalle posizioni del Buonaiuti, al quale però rimase
    umanamente legato (ibid.). Inoltre, "assumendo la separazione tra i
    valori religiosi e i valori politici come il postulato storico
    centrale del cristianesimo, il secondo Buonaiuti fornì a
    Jemolo, pur con una serie importante di distinguo, gli argomenti
    più efficaci per la maturazione della sua coscienza laica"
    (ibid., p. 107). La vitalità del legame è comunque
    testimoniata dal ricco carteggio (Lettere…, cit.), che va dal 1921
    al 1941, e dall'introduzione alla ristampa delle polemiche "memorie"
    del Buonaiuti (Pellegrino di Roma. La generazione dell'esodo, a cura
    di M. Niccoli, Bari 1964).
    
    Al periodo di più intenso sodalizio con Buonaiuti
    appartengono le ricerche che portarono alla pubblicazione della
    monografia Il giansenismo in Italia prima della Rivoluzione (Bari
    1928).
    
    Nell'opera, che si ricollegava agli studi del Ruffini sul
    giansenismo, lo J. definisce il movimento di riforma religiosa
    l'"ultimo fiotto del medioevo" e si contrappone alla storiografia,
    capeggiata soprattutto da E. Rota, che vedeva nel giansenismo le
    origini della modernità e dello stesso Risorgimento.
    Presentando l'opera in La Critica (XXVI [1928], p. 353) G. De
    Ruggiero, pur riconoscendo che il volume segnalava il rinnovamento
    della storiografia "sotto l'influsso della nuova cultura
    filosofica", criticava la rivendicazione del carattere puramente
    religioso del movimento fatta dallo Jemolo. Padre A. Gemelli, dal
    canto suo, lo definiva "lavoro sterile" di "un'anima vittima delle
    illusioni modernistiche" (in Rivista di filosofia neoscolastica, XX
    [1928], pp. 364 s.) e coglieva l'occasione per dichiarare che il
    Manuale di diritto ecclesiastico, edito dallo J. (il riferimento
    è ad A. Galante, Manuale di diritto ecclesiastico, 2ª
    ed., per cura di A.C. Jemolo, Milano 1923), era "avvelenato dal
    sottile e caustico ed ironico spirito del liberalismo". Eppure, solo
    qualche anno prima, aveva usato ogni mezzo per averlo come docente
    nella neonata facoltà di giurisprudenza
    dell'Università cattolica (F. Margiotta Broglio, A.C. J. e V.
    Del Giudice, in L'insegnamento del diritto canonico
    all'Università cattolica del S. Cuore, a cura di C. Minelli,
    Milano 1992, pp. 228-246).
    
    Nel 1925 lo J. fu, con Ruffini, M. Falco e V. Del Giudice, docenti
    di diritto ecclesiastico, e con altri giuristi come P. Calamandrei,
    A. Levi, G. Chiovenda, E. Finzi, e S. Trentin, tra i firmatari del
    manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Croce.
    
    Ripubblicando il suo Crispi (1ª ed., Firenze 1922; 2ª ed.
    aggiornata, ibid. 1972), lo J. scrisse di voler fare anche "una
    specie di pubblica confessione di peccati di giovinezza": a chi
    aveva citato passi dell'opera su F. Crispi come prova di un
    atteggiamento "di benevola attesa, di anticipazione del fascismo",
    replicava di non essere caduto nell'errore di previsione in cui pure
    caddero "egregi uomini, tanto migliori di me" che, dal gennaio del
    1925, furono però fermi e coraggiosi oppositori della
    dittatura. Confessando di avere subito, tra il 1912 e il 1914, il
    "fascino del nazionalismo", e l'"impronta della eccitata polemica
    neutralista-interventista dei mesi a cavallo del gennaio 1915", lo
    J. ricordava come alla vigilia della marcia su Roma fosse "venuta
    meno la fiducia che le cose si aggiustassero da sé, si
    ritornasse all'epoca in cui l'Italia era retta da Montecitorio,
    sicché quando si dava una maggioranza sicura, la pace interna
    fosse assicurata". Con altri "nostalgici dell'Italia risorgimentale"
    aveva se mai pensato a una soluzione militare, a un generale (Enrico
    Caviglia) a capo del governo che occupasse, obbedendo a un dovere,
    "la posizione pericolosa, ben lieto di riconsegnarla poi ad uomini
    politici quando la situazione era ritornata normale".
    
    Nel luglio del 1933 la facoltà di giurisprudenza
    dell'Università di Roma lo chiamò con voti unanimi a
    succedere, dal 1° novembre successivo, a F. Scaduto, fondatore
    col Ruffini della scienza del diritto ecclesiastico italiano su tale
    cattedra, che avrebbe ricoperto fino al 30 ott. 1961.
    
    Gli anni del fascismo e della guerra furono vissuti all'insegna del
    pessimismo e della sofferenza e le leggi razziali, con la
    persecuzione degli ebrei, spinsero lo J. a una decisa svolta
    metodologica: "allorché ho visto di che lacrime grondasse e
    di che sangue la voluntas legis, ho avuto solo la preoccupazione di
    cercare, per quel pochissimo che l'opera del giurista poteva,
    d'impiegarla a stornare un po' dei frutti amari della legge. E dopo
    il tragico 9 sett. 1943 anche il precetto kantiano che escludeva la
    menzogna a fin di bene non ha frenato alcuni di noi: abbiamo fatto
    atti falsi, giurato per la formazione di atti notori spuri, senza
    avere alcuna crisi di coscienza, senza neppure temere di cadere in
    peccato" (Attività intellettuale e vita morale, in Archivio
    di filosofia, XIV [1945], p. 119).
    
    Nel 1949 vinse il premio Viareggio per la saggistica con il volume
    Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni (Torino 1948;
    più volte aggiornato e ristampato).
    
    Quest'opera ha rappresentato, e rappresenta, l'unica sintesi valida
    della storia dei rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa
    cattolica dal Piemonte di Carlo Alberto alla Repubblica del 1948 e,
    nelle successive edizioni, all'età di Giovanni XXIII, Paolo
    VI e del concilio Vaticano II. C. Morandi scrisse che, con
    quest'opera, "il liberalismo italiano" veniva a constatare
    "l'esaurimento del suo compito storico […] nei confronti della
    Chiesa e della massa cattolica del paese" (in Il Ponte, V [1949], p.
    130). La Civiltà cattolica non esitò a manifestare
    serie riserve sull'ortodossia dello J., ma alla sua scomparsa
    L'Osservatore romano (14 maggio 1981) parlò di "opera
    giudicata di eccezionale valore" e S. Pertini, presidente della
    Repubblica, in una lettera alla moglie, parlò di lui come di
    "una presenza stimolante per quanti, come me, attendevano di
    conoscere la sua opinione sempre ricca di ammaestramenti e di
    saggezza".
    
    Nel dopoguerra lo J. condusse una costante battaglia civile sulle
    più impegnate riviste della cultura laica (dal Politecnico di
    E. Vittorini a Belfagor di L. Russo, dal Mondo di M. Pannunzio
    all'Astrolabio di F. Parri, dal Ponte di M. Calamandrei alla Nuova
    Antologia di G. Spadolini), nonché nel quotidiano La Stampa
    di Torino (dove pubblicò oltre 1200 articoli dal 1955 al
    1981).
    
    Questa lunga battaglia lo vide in prima linea contro la "legge
    truffa" e, poi, a favore del divorzio e si concluse, dolorosamente,
    con la seconda edizione accresciuta, apparsa postuma con
    introduzione di G. Spadolini, del volume Questa Repubblica. Dal '68
    alla crisi morale (Firenze 1981). Nell'epilogo scriveva: "Sono
    svanite le grandi speranze che nutrivamo alla fine della seconda
    guerra mondiale […] quando rievoco i molti che divisero con me le
    grandi speranze del 1945 e degli anni immediatamente seguenti, penso
    che sono stati amati da Dio quelli che hanno chiuso gli occhi in
    tempo per non vedere l'Italia del 1978" (p. 301).
    
    A riposo dal 1966, venne nominato dalla facoltà professore
    emerito il 12 dic. di quell'anno.
    
    Lo J. morì a Roma il 12 maggio 1981.
    
    Nel 1959 gli era stata conferita la medaglia d'oro di I classe per i
    benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte; nel 1973 la
    penna d'oro. La brevissima presidenza della RAI - Radio audizioni
    Italia (qualche mese tra il 1945 e il 1946) fu l'unica carica
    pubblica da lui ricoperta.
    
    Se guardiamo al complesso della sua opera - le bibliografie,
    largamente incomplete, registrano quasi settecento titoli tra il
    1911 e il 1980 - è possibile constatare, con qualche
    approssimazione, che circa la metà dei suoi scritti è
    dedicata ad argomenti giuridici, mentre l'altro cinquanta per cento
    si divide tra storia, politica e costume, con prevalenza della
    ricerca storica. Tra gli scritti giuridici vanno ricordati, oltre ai
    molti volumi dedicati al diritto matrimoniale canonico e civile,
    alla già menzionata Amministrazione ecclesiastica e all'opera
    su La crisi dello Stato moderno (Bari 1954), le numerose edizioni
    delle sue esemplari Lezioni di diritto ecclesiastico (1ª ed.,
    Città di Castello 1933), puntualmente aggiornate e ristampate
    fino al 1976.
    
    Complessa la sua posizione verso la Chiesa di Roma e il Papato, dei
    quali fu studioso da più angoli visuali. Fortemente critico
    verso Pio XI, perplesso e lontano rispetto a Pio XII - di cui
    apprezzò peraltro le aperture de re Biblica -,
    considerò il pontificato Roncalli uno dei due soli periodi
    radiosi della sua esistenza (l'altro era stato il biennio delle
    grandi speranze 1944-46). Con G.B. Montini aveva avuto rapporti
    amichevoli e frequenti durante la guerra: divenuto Paolo VI, il
    pontefice citò più volte scritti dello J. nelle sue
    allocuzioni. E di Montini lo J. tracciò un profilo
    articolato, inquadrandolo nel papato del Novecento; per lui Paolo VI
    non fu mai "suscettibile di subire vere influenze […] tempra
    d'acciaio malgrado la naturale dolcezza, la condiscendenza a tutti
    ascoltare e cercare di comprendere […] portato a profonde,
    affettuose amicizie", capace di "apprezzare e riconoscere ottimi
    cattolici in modi diversi" (cfr. Introduzione ad Anni e opere di
    Paolo VI, Roma 1978): il "modo", fra gli altri, in cui lo fu lo J.,
    che amava definirsi "cattolico malpensante, ma senza crisi" e che
    aveva, in qualche modo, assorbito la lezione postmodernista
    (Fantappiè, p. 109). Interessato alle esperienze di A.
    Capitini, di F. Tartaglia, di R. Pettazzoni, ma anche all'impegno di
    P. Mazzolari, di don L. Milani, e di padre E. Balducci, lo J.
    conservava una sua originale posizione: "mantenere la comunione con
    la Chiesa ma, al tempo stesso, operare dal di dentro per riformarla
    ossia per favorire nel suo corpo quella maturazione necessaria ad
    elevarne lo spirito religioso e adeguarne le strutture al mondo
    presente: il tutto nella profonda consapevolezza storica dei gravi
    ostacoli che una riforma religiosa avrebbe incontrato in Italia"
    (ibid., p. 110). Difficile, comunque, definire la sua "religione":
    in una lettera del gennaio 1942 ai due figli maggiori
    protestò contro "chi asserisce ch'egli va in Chiesa, ma non
    crede in niente" e scrisse che "non è proprio vero che il suo
    pensiero religioso si possa sintetizzare così. Perché
    sarà la sua una coscienza religiosa che fa al lato del
    sentimento un gran posto, e che difende i diritti del sentimento
    anche quando non abbiano una base razionale, ma non è affatto
    una coscienza religiosa che crede che questo lato del sentimento sia
    qualcosa di fittizio[…] No, per me il lato razionale è il
    lato illuminato, ove riusciamo a vedere, ma il lato irrazionale non
    è affatto meno reale, per ciò che non conosciamo le
    leggi che in esso dominano" (copia presso l'autore di questa voce).
    
    Ancora più complesso individuare la "famiglia" politica alla
    quale appartenne. Di là dalla facile etichetta di seguace del
    cattolicesimo liberale - del tutto inadeguata per chi ebbe
    più volte a sottolineare il contrasto insanabile tra sentire
    cattolico e sentire liberale - dev'essere ricordato che nella prima
    giovinezza, pure irritato dall'anticlericalismo di pessimo conio
    allora corrente, fu avverso a ogni clericalismo e non volle mai
    iscriversi "ad un circolo che avesse un assistente ecclesiastico".
    Nel 1919 rifiutò di aderire al Partito popolare di Sturzo e,
    nel 1944, non accolse i molti inviti a essere fra i primi iscritti
    alla Democrazia cristiana, per la quale dichiarò di non avere
    mai votato. In rapporto con i giovani della sinistra cristiana - al
    cui organo Voce operaia collaborò in più occasioni -,
    così spiegò al figlio il voto senza illusioni, nelle
    elezioni del 1948, per il Fronte popolare: "dopo essermi mangiato il
    fegato per il fascismo durante tutti quelli che avrebbero dovuto
    essere gli anni più belli della mia vita, non me la sento di
    concorrere alla resurrezione di tutti i gros bonnets del fascismo
    che ad uno ad uno De Gasperi rimette ai vecchi posti; e soprattutto
    al vedersi ripetere la manovra del 20-21, il sacrificio di tutte le
    libertà per la paura dei rossi" (in La Repubblica, 17 giugno
    1989). Avversario della scelta atlantica, nelle elezioni politiche
    del 1953 fu, con Parri, A. Codignola e Calamandrei, nella lista di
    Unità popolare contro la legge truffa; e in quelle del 1958
    fra i candidati dell'alleanza tra radicali e repubblicani disegnata
    da U. La Malfa. Quanto ai comunisti, scrisse ancora al figlio nel
    1948, "chi ha nel sangue il veleno razionalista e la
    necessità di tutto criticare, non potrà mai essere dei
    loro" (ibid.). Il suo sentire politico - prescindendo
    dall'originaria vicinanza a Ruffini, De Lollis, Albertini - fu assai
    prossimo a quello di Calamandrei e Salvemini, di A. Monti e di T.
    Codignola, di E. Rossi e di G. Calogero: per gli azionisti, del
    resto, preparò nella collana "Quaderni del Partito d'azione"
    uno studio su Il decentramento regionale (Roma 1944). Ma fu un
    sentire segnato dalla perenne ricerca, dalla continua
    insoddisfazione, dall'affermare mai categorico, dal rifiuto di
    chiudere il sentire politico in un pensiero omogeneo e ben definito.