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Giornalista e scrittore italiano (Genova 1895-Napoli 1969). Dopo essere stato redattore capo a Il Lavoro di Genova, aderì al fascismo e diresse dal 1937 al 1943 Il Telegrafo di Livorno. Durante la II guerra mondiale svolse l'incarico di radiocommentatore e interprete ufficiale della situazione politica. Alla fine del conflitto, fu direttore del quotidiano Il Mattino di Napoli (1950-65) e collaboratore di settimanali (Tempo, Il Borghese). Scrisse una monografia su Giolitti, Il ministro della buonavita (1949), e, con lo pseudonimo di Willy Farnese, Il vero signore (1947), raccolta di norme di galateo.
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  DBI
di Francesco M. Biscione - Giovanni Russo
Nacque a Genova il 28 nov. 1895 da Francesco
    Gerolamo, figlio del noto imprenditore Giovanni, e da Emma Ramorino.
    Laureatosi in giurisprudenza, ufficiale e decorato nella prima
    guerra mondiale, "dotato di ottima e vasta cultura, di temperamento
    e forte vena polemica, all'insegna dell'idealismo militante della
    Voce di Prezzolini e dell'Unità di Salvemini" (Staglieno, p.
    9), si dedicò al giornalismo iniziando nell'immediato
    dopoguerra a collaborare al quotidiano genovese Il Lavoro del quale
    fu caporedattore dal 1921 al 1925.
    
    Due furono probabilmente le caratteristiche di scrittore che lo
    imposero rapidamente quale una delle firme più prestigiose
    del panorama giornalistico: la corposa capacità immaginifica
    nella descrizione degli eventi e il persistente richiamo (sempre
    ammiccante e mai esplicito, ma perciò particolarmente
    incisivo) a un sedimentato buon senso borghese, tale da rendere
    facile l'identificazione di un lettore medio con le sue posizioni e
    i suoi commenti.
    
    Su posizioni liberali e moderate, ma nettamente antifasciste
    (collaborò al settimanale La Rivoluzione liberale diretto da
    Piero Gobetti e fu uno dei primi a parlare del fascismo come
    reazione piccolo-borghese), dopo l'assassinio di Matteotti fu tra i
    firmatari del manifesto crociano degli intellettuali antifascisti
    pubblicato su Il Mondo il 30apr. 1925, e condusse sul Lavoro una
    vivace campagna antifascista, tale che, superata la crisi, nel
    novembre 1926 gli squadristi distrussero la tipografia del giornale,
    costringendolo a sospendere le pubblicazioni per sei mesi. Lo stesso
    A. subì, nel dicembre 1924, una "tremenda bastonatura" a
    Carrara (dove si trovava come inviato del suo giornale per un
    reportage su uno sciopero) da parte dei fascisti. Collaborò
    al quotidiano torinese La Stampa, diretto da Alfredo Frassati,
    continuando a mantenere rapporti con i militanti antifascisti di
    estrazione liberale.
    
    Il 28 nov. 1926 fu arrestato a Como per tentato espatrio clandestino
    e il 5 marzo 1927 venne condannato a cinque anni di confino e
    tradotto a Lipari. Il 7 ag. 1927 venne accolto il suo ricorso e fu
    posto in stato di libertà provvisoria. Continuò la
    collaborazione alla Stampa, siglando gli articoli con la stella
    nera, dato l'obbligo di non firmare con il proprio nome. Nel 1929
    tornò al Lavoro, quotidiano diretto da Giuseppe Canepa, di
    cui era amministratore il vecchio dirigente sindacale Ludovico
    Calda.
    
    "Il giornalista del Lavoro - hascritto Murialdi (La stampa
    quotidiana, p. 71) - più noto per l'antifascismo e per le sue
    indubbie doti di scrittore e di polemista … è Ansaldo. Le sue
    idee, i suoi gusti, le tradizioni di famiglia consentono di
    definirlo fin da giovane un liberal-conservatore, ma è con
    Canepa che ha avuto la possibilità di entrare nel
    giornalismo. Dalla fine del 1929 le sue rubriche, contrassegnate
    dalla stella nera, cominceranno a essere conosciute in ristretti
    ambienti fuori dalla Liguria; e nel giro giornalistico genovese
    comincia a circolare la voce che Mussolini dia tutti i giorni
    un'occhiata al Lavoro, soprattutto per leggere Ansaldo".
    
    Nella redazione del Lavoro rimase fino all'ottobre 1935,
    conquistandosi un seguito sempre maggiore tra i lettori e
    continuando a firmarsi con la stella nera (Calda nel 1929 aveva
    chiesto e ottenuto da Mussolini la reiscrizione all'albo dei
    giornalisti per l'A. e nel gennaio 1931 si era nuovamente rivolto al
    capo del governo per chiedergli che lo stesso potesse tornare a
    firmare col proprio nome).
    
    Fu in questo ambito che maturò il voltafaccia politico
    dell'A., il quale si avvicinò progressivamente al fascismo,
    assecondandone innanzitutto le velleità imperiali, fino a
    divenirne acceso sostenitore. Dopo la conferenza di Stresa (aprile
    1935), rispetto alla quale Il Lavoro e l'A. sostennero la
    possibilità di un'intesa dell'Italia con Francia e
    Inghilterra, "Il Lavoro e in particolare Ansaldo si mostrarono via
    via più sensibili alle aspirazioni dell'Italia e ai temi
    sociali agitati dalla propaganda per preparare la conquista
    dell'Abissinia. Nelle sue frequenti rubriche… intitolate
    "Calendarietti" o "Epiloghi", Ansaldo … finisce per assecondare
    certi spunti della polemica antibritannica e, soprattutto, si
    dipinge come un onest'uomo della vecchia Italia che riconosce quella
    nuova, dei giovani e di Mussolini" (Murialdi, ibid., p. 168).
    
    Contribuirono a questa scelta - che allora apparve clamorosa - da
    una parte, la sfiducia in un rapido mutamento della situazione
    politica e nell'attività dell'antifascismo militante,
    dall'altra l'aver maturato un'esperienza, un prestigio ed una
    professionalità giomalistica tali da consentirgli di aspirare
    a posti di responsabilità e di potere non raggiungibili senza
    un'esplicita adesione al regime, soprattutto per i suoi noti
    trascorsi antifascisti. Essendo infatti divenuto vicedirettore del
    Lavoro, trovò sbarrata la strada alla direzione, il che
    finì per rendere tesi i rapporti con il direttore Canepa. Ma
    nella scelta soprattutto, forse, giocò un ruolo decisivo il
    fatto che l'A. fosse fondamentalmente un conservatore: come le sue
    sferzate degli anni Venti erano rivolte contro la violenza eversiva
    del movimento fascista, così la sua conversione degli anni
    Trenta fu una resa alla stabilità raggiunta dal regime. La
    sua mentalità lo portava probabilmente a non credere
    nell'utilità di persistere su posizioni ideali e a ritenere
    che chi possedeva il potere avesse anche, sostanzialmente, ragione.
    
    Gli era stata offerta da Costanzo Ciano la direzione del Telegrafo,
    quotidiano di Livorno. Al fine di ottenere la tessera del Partito
    nazionale fascista - questa la spiegazione, peraltro plausibile, che
    dell'episodio dà il Signoretti (p. 166) - il 26 ott. 1935
    l'A. fu richiamato alle armi su sua richiesta e, dopo un corso a
    Civitavecchia, fu inviato in Cirenaica con la divisione Trento col
    grado di capitano.
    
    Ottenuta la tessera del partito, assunse la direzione del Telegrafo
    nell'ottobre 1936, venendo a figurare tra i più prestigiosi
    giornalisti italiani, anche perché il quotidiano livornese
    rappresentava, data la forte influenza dei Ciano sulla
    proprietà, un autorevole punto di vista soprattutto rispetto
    alla politica estera. Infatti in questo periodo furono molto stretti
    i rapporti dell'A. con Galeazzo Ciano.
    
    Dal 1940, insieme con M. Appelius e R. Alessi, prese a redigere
    l'ascoltata rubrica radiofonica "Commento ai fatti del giorno",
    nella quale, pur aderendo sostanzialmente alla retorica
    nazionalistica del fascismo - e, anzi, facendosi autorevole
    portavoce del regime - nel seguire gli eventi bellici mostrò
    talora una certa autonomia di giudizio, peraltro confermata da
    alcune relazioni di polizia dalle quali si evince come l'A. - nei
    colloqui privati con conoscenti e amici - si mostrasse del tutto
    consapevole della reale entità delle forze in campo e
    prevedesse con una certa esattezza gli esiti finali del conflitto.
    Dal 1942 fu redattore anche di un'altra rubrica radiofonica: "La
    radio del combattente".
    
    Richiamato alle armi, dopo l'8 sett. 1943 fu fatto prigioniero dai
    Tedeschi in Dalmazia e deportato in campo di concentramento. Tornato
    in Italia, fu escluso dopo la Liberazione da ogni attività
    giornalistica e fu detenuto per un breve periodo a Pisa, Firenze e
    Procida (Staglieno, p. 10), dopo di che, amnistiato, si
    trasferì a Pescia (Pistoia), dove riprese una vasta
    attività pubblicistica innanzitutto come scrittore, meditando
    l'abbandono definitivo del giornalismo quotidiano. Pubblicò
    infatti, per la casa editrice di Leo Longanesi, con il quale ebbe
    uno stretto rapporto di amicizia, il libro di belle maniere Il vero
    signore (edito con lo pseudonimo di Willy Farnese, Milano 1947) e
    Latinorum (con lo pseudonimo di Michele Fornaciari, ibid. 1947).
    Curò, inoltre, dietro il velo dell'anonimato, una riduzione
    della Cronistoria di Cesare Cantù dal titolo I cimiteri
    dell'Ottocento, ibid. 1948. Ma l'opera maggiore fu Il ministro della
    buona vita. Giolitti e i suoi tempi (ibid. 1949), saggio biografico
    che, al di là dell'evidente intento riabilitativo (fin dal
    titolo vi è una chiara polemica antisalveminiana
    riconducibile agli scritti dell'A. degli anni Venti), appariva non
    privo di spunti originali, tanto da entrare a far parte della
    corrente letteratura storiografica sull'età giolittiana. Col
    Longanesi aveva già collaborato al periodico bolognese
    L'Italiano, e avrebbe altresì collaborato a Il Libraio,
    bollettino delle novità della casa editrice.
    
    Nel 1950 gli fu affidata dalla proprietà (in mano al Banco di
    Napoli) la direzione del quotidiano di Napoli Il Mattino, direzione
    che mantenne fino al 1965. La scelta dell'A. - che veniva imputata
    alla Democrazia cristiana - suscitò critiche negli ambienti
    politici della sinistra laica e socialista sia per i trascorsi
    dell'uomo, sia perché mostrava quale immagine di sé
    volesse dare il partito di maggioranza nel Napoletano di fronte
    all'offensiva populista e reazionaria della destra. In sintesi, il
    discorso dell'A. ai lettori sarebbe stato "un invito a preferire una
    destra colta a una becera" (Murialdi, Dalla liberazione, p. 236).
    
    Collaborò al settimanale Tempo, diretto da Arturo Tofanelli,
    sul quale curò dal 1957 una rubrica di costume, "II
    Serraglio", che prendeva il posto del "Battibecco" di Curzio
    Malaparte. Collaborò altresì a L'Europeo e al
    Borghese, fondato e diretto dal Longanesi. Una scelta dei suoi
    articoli su quest'ultimo periodico fu edita nel volume postumo
    Dizionario degli italiani illustri e meschini dal 1870 a oggi,
    Milano 1980.
    
    Nella biografia, da lui stesso scritta come è tradizione di
    chi riceve il premio Marzotto (1963), è interessante notare
    alcune considerazioni che mostrano qual era l'idea che egli aveva e
    quindi voleva dare di sé, quella, cioè, di un uomo e
    un intellettuale che aveva ragionato sempre con la propria testa
    anche quando aveva aderito al regime fascista o ad ideologie e
    movimenti di massa. Per esempio, a proposito del suo interventismo
    nella grande guerra egli sosteneva che era stato un "interventismo
    suo particolare", che aveva sì l'obiettivo di annettere
    all'Italia Trento e Trieste, ma anche di conservare l'Austria,
    ingrandendola, anzi, a spese della Germania, perché riteneva
    l'Austria necessaria all'Europa. Questo snobismo intellettuale
    (pregno altresì di forti venature aristocratiche)
    guidò una vita contrassegnata da un lato da una lucida
    visione della realtà e da una solida formazione culturale e
    dall'altro da comportamenti ispirati ad un pragmatismo che poteva
    sembrare cinico. Per chi ebbe modo di conoscere e di frequentare
    l'A., della sua complessa personalità colpivano l'ostentato
    scetticismo sulla natura umana, una superbia intellettuale basata
    sulla consapevolezza del proprio valore (giustamente il Signoretti,
    p. 171, annota che egli fu "sempre uno dei direttori che vedono il
    giornale in funzione del proprio articolo, del proprio pezzo") e
    nello stesso tempo il desiderio non celato di avere stima e amicizia
    dalle persone a cui riconosceva intelligenza, cultura e coerenza
    morale.
    
    L'A. morì a Napoli il 1º sett. 1969.