da Fornero, Tassinari - Le filosofie del Novecento (Bruno Mondadori, Milano 2002)
15. Il marxismo dopo Marx
9. Mondolfo: una lettura riformistico-democratica del marxismo
In un momento nel quale sembrava che in Italia il marxismo teorico dovesse soccombere sotto i colpi della revisione-liquidazione che del pensiero di Marx aveva condotto tra il 1896 e il 1899, attraverso i suoi studi marxisti, Benedetto Croce, ebbe qualche merito Rodolfo Mondolfo nel riaffermare la possibilità, anzi la necessità di una filosofia marxista, alla cui formulazione egli avrebbe dedicato diversi scritti, da Il materialismo storico in Federico Engels (1912) a una serie di saggi raccolti in volume nel 1919, e ancora nel 1923, sotto il titolo Sulle orme di Marx, e che sarebbero riapparsi, in una nuova edizione arricchita, nel 1968, sotto un nuovo titolo, Umanismo di Marx.
In uno di questi saggi, Socialismo e filosofia (1913), Mondolfo fa risalire la crisi in corso del socialismo italiano, lacerato nelle opposte correnti del riformismo e del massimalismo, all'assenza di una limpida coscienza teorica, insomma di una filosofia, senza la quale non si danno né «chiara consapevolezza delle premesse», né «netta visione del fine, [che] sono le due condizioni della coerenza nel pensiero e della sicurezza nell'azione».
Il marxismo mondolfiano, peraltro, pur collocato al fianco del riformismo di Turati, si sarebbe rivelato incapace di incidere sulle sorti del movimento socialista italiano, e destinato a un'esclusiva rilevanza teorica, anche questa di dubbia portata rinnovatrice all'interno del pensiero marxista. La sua debolezza, costituita, com'è stato detto, da una troppo meccanica e semplicistica congiunzione tra oggettività dei processi reali e iniziativa soggettiva rappresentata dall'azione di classe, tra necessità e libertà, scientificità e umanismo, derivava dalla stessa formazione dell'uomo, cui avevano presieduto sia la cultura di stampo positivistico sia l'idealismo trionfante di Croce e Gentile.
E vero che Mondolfo aveva avuto il merito di riabilitare, facendola discendere dalla "soffitta" in cui era stata relegata, l'opera di Labriola, a cui si sarebbe ispirato come a quella di un maestro capace di emendare il marxismo dalle scorie positivistiche e di riscattarlo da ogni sorta di materialismo meccanicistico e di determinismo economicistico. E anche vero, però, che egli avrebbe forzato il pensiero labriolano in una direzione umanistica e idealistica, smarrendone la carica rivoluzionaria e il più profondo spessore teorico.
Rodolfo Mondolfo nasce nel 1877 a Senigallia, ove esordisce in politica, nel 1907, con scritti che teorizzano possibili convergenze tra mazzinianesimo e sociali smo, segno di un'originaria ispirazione democratica e riformistica. Si laurea a Firenze nel 1899 e ivi aderisce al Partito socialista. A Padova, dove consegue la libera docenza, mantiene stretti rapporti con Roberto Ardigò, che supplisce nell'in segnamento tra il 1907 e il 1910. Nel 1914 si trasferisce a Bologna, nella cui università insegna fino al 1939, quando, in conseguenza delle leggi razziali, è costretto, lui ebreo, a rifugiarsi in Argentina. Nel paese sudamericano insegna per lunghi anni, fino alla morte, nel 1976, all'età di novantanove anni.
Studioso fin dai primi anni del secolo delle origini del pensiero politico moderno da Hobbes a Rousseau, è costretto dal regime fascista ad abbandonare fin dal 1925 gli studi marxisti, e da quel momento si dedica a importanti studi di filosofia greca antica. Questi diversi aspetti della sua riflessione sono presenti in scritti quali Saggi per la storia della morale utilitaria: la morale di Thomas Hobbes (1903), Rousseau nella formazione della coscienza moderna (1914), L'infinito nel pensiero dei greci (1934), Problemi del pensiero antico (1936). In Argentina, oltre che saggi ancora di filosofia antica - La comprensione del soggetto umano nell'antichità classica (1955) e Socrate (1955) - ri prende a scrivere di marxismo con un saggio, Intorno a Gramsci e alla filosofia della prassi (1955), e con altri interventi come Il materialismo storico come umanismo realistico e La concezione dell'uomo in Marx (1962).
Nel già citato scritto Socialismo e filosofia, Mondolfo sostiene che il "peccato di origine" del socialismo italiano - e non solo - in tutte le sue versioni è stato d'affidarsi al cosiddetto "socialismo scientifico", responsabile di aver separato «la celebre frase di Marx, che non la coscienza determini l'essere dell'uomo, ma il suo essere sociale determini la sua coscienza [...] da quella filosofia della prassi che le conferiva il giusto valore». Detta separazione è, infatti, secondo Mondolfo, all'origine di quel determinismo, economicismo e materialismo oggettivistico che congiurano a vanificare dell'insegnamento di Marx l'ispirazione volontaristica e umanistica, ben espressa, appunto, nel concetto di prassi, condiviso anche da Engels, come non hanno saputo vedere le frequenti interpretazioni rozzamente positivistiche del suo pensiero, nonostante una qualche tendenza naturalistica affiorata nell'ultima fase della sua opera.
È da sottolineare, peraltro, che, nell'individuazione in Marx della centralità del concetto di prassi, Mondolfo appare debitore della lettura in chiave idealistica che Gentile aveva proposto, nel saggio La filosofia di Marx (1897), della terza Tesi marxiana su Feuerbach, là dove Marx parla dell'attività umana come «prassi rivoluzionaria». Il nostro autore, infatti, fa sua la traduzione infedele - «prassi rovesciata» - che di quella espressione aveva offerto il filosofo idealista e che gli aveva dato modo di intenderla nel senso di una «prassi che si rovescia».
E vero che Mondolfo avrebbe in seguito sostenuto che la traduzione infedele di quel passo non gli aveva impedito di cogliere lo "spirito" della dottrina marxiana, ben espresso dal termine «autotrasformazione» con cui nella Tesi si parla dell'attività umana; ciò non dissipa, però, l'impressione di una dipendenza del filosofo marxista da un'interpretazione francamente idealistica del testo marxiano come quella gentiliana. Un'impressione rafforzata sia dal significato piuttosto generico che Mondolfo finisce con l'attribuire alla nozione di prassi, sempre più lontana dal senso rivoluzionario secondo cui Marx l'aveva usata, sia dalla dichiarata preferenza mondolfiana per l'espressione concezione realistica della storia al posto di quella, engelsiana, a suo parere equivoca, di materialismo storico.
La filosofia della prassi, o, come anche Mondolfo la definisce, la concezione critico-pratica caratteristica del marxismo, viene assumendo nello studioso socialista la fisionomia di uno storicismo umanistico e realistico che, come ha scritto Bobbio, «rovescia Hegel sostituendo allo Spirito l'uomo concreto; [...] rende umanistico, servendosi di Feuerbach, lo storicismo di Hegel, e rende storicistico, servendosi di Hegel, l'umanismo di Feuerbach».
Se negli anni precedenti la prima guerra mondiale Mondolfo insiste nel presentare il marxismo come una filosofia della volontà, avversa a ogni interpretazione fatalistica della storia, dopo la Rivoluzione d'ottobre egli sottolinea sempre più il momento oggettivo del processo storico, contro il disegno rivoluzionario leninista, che gli appare - a lui, uomo ancora legato al socialismo della Seconda Internazionale - una forzatura volontaristica della dialettica storica. Di nuovo vicino alle posizioni politiche di Turati, egli vede nel leninismo una sorta di risorgente blanquismo, che pretende di «accelerare con la violenza il ritmo della storia», e contro il quale occorre riaffermare invece quello che era andato dicendo Marx nella Prefazione del 1859 alla Critica dell'economia politica circa le condizioni necessarie al compiersi della rivoluzione, condizioni del tutto assenti nella realtà russa. Mondolfo si trova così a recuperare le classiche argomentazioni evoluzionistiche del riformismo secondinternazionalista, contro le quali si era mossa finora la sua filosofia della prassi; esse lo inducono a scorgere nel famoso articolo del giovane Gramsci, La rivoluzione contro il Capitale, apparso sul finire del 1917, nient'altro che una testimonianza ulteriore dell'estraneità del leninismo rispetto all'autentica lezione di Marx.
Mondolfo avrebbe in ogni occasione ribadito il suo giudizio sulla Rivoluzione del 1917 e su Lenin; ne è conferma lo stesso confronto che conduce durante gli anni cinquanta e sessanta con il pensiero di Gramsci. Da un lato egli riconosce in quest'ultimo un momento del marxismo italiano come filosofia della prassi che, prendendo le mosse da Labriola, avrebbe avuto nell'opera mondolfiana stessa una sua tappa importante. Di qui l'attribuzione a Gramsci del merito, contro l'ortodossia del materialismo dialettico,
di aver decisamente distinto la filosofia della prassi dall'economismo storico, di aver rivalutato l'uomo come artefice della sua storia, [...] di aver superato il dualismo di struttura e soprastruttura nel riconoscimento dell'unità della vita sociale e del processo storico, in cui tutti i momenti e gli aspetti compiono uno scambio continuo di azioni e reazioni mutue [...].
Dall'altro lato Mondolfo rimprovera a Gramsci di aver ceduto, contravvenendo alla sua concezione "consiliare" della democrazia socialista, all'idea giacobina e leninista del partito come «moderno Principe» che suppone una distinzione persistente di dirigenti e diretti, di apparato e di massa, di intellettuali organici da una parte, incaricati d'esercitare l'azione educativa e conservare il consenso "spontaneo" del popolo e la legalità e la disciplina, e il popolo stesso dall'altra parte, che accetta la direzione spirituale, consente e obbedisce. [...] La collocazione di un Principe sul trono o sull'altare della venerazione popolare converte le élites politiche, burocratiche, tecnocratiche, investite di tale autorità, in dominatrici delle masse e delle coscienze. Questa via può condurre solo al totalitarismo come in Russia.
www.treccani.it
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Storico della filosofia italiano (Senigallia 1877 - Buenos Aires
1976). Prof. nelle univ. di Torino (1910) e di Bologna (1914); a
causa delle leggi razziali fasciste, emigrò in Argentina dove
insegnò a Córdoba (1940) e poi a Tucumán
(1948-52). Si dedicò alla storia del pensiero moderno (Un
psicologo associazionista: E. B. de Condillac, 1902, 2a ed. 1925;
Saggi per la storia della morale utilitaria, 2 voll., 1903-04; Le
teorie morali e politiche di C. A. Helvétius, 1904; Il dubbio
metodico e la storia della filosofia, 1905) e specialmente a quella
delle dottrine politico-sociali (Rousseau nella formazione della
coscienza moderna, 1914; rist. come introduzione a Rousseau,
Discorsi e contratto sociale, 1924, 3a ed. 1949). Singolare
importanza hanno avuto i suoi studî sul marxismo (in partic.
Il materialismo storico di F. Engels, 1912; Sulle orme di Marx,
1919), di cui ha proposto un'interpretazione volontaristica e
umanistica, insistendo sul concetto di "rovesciamento della prassi",
in polemica con il materialismo dialettico (più tardi:
Intorno a Gramsci e alla filosofia della prassi, 1955; Umanismo di
Marx, 1968, raccolta di saggi pubblicati tra il 1908 e il 1966). In
seguito, soppressa (1925) la Biblioteca di studi sociali da lui
diretta, si dedicò particolarmente agli studî sul
pensiero greco: Il pensiero antico (1928; 2a ed. rifatta e accresc.
1950; rist. 1967); L'infinito nel pensiero dei Greci (1934; 2a ed.
accr. col titolo L'infinito nel pensiero dell'antichità
classica, 1956); Problemi del pensiero antico (1936); La
comprensione del soggetto umano nell'antichità classica (a
Buenos Aires nel 1955, poi a Firenze 1958); Moralisti greci. La
coscienza morale da Omero a Epicuro (1960); Momenti del pensiero
greco e cristiano (1964); il commento e aggiornamento alla
traduzione dell'opera di E. Zeller, La filosofia dei Greci, da lui
diretto e, per quanto riguarda Ionici, Pitagorici, Eraclito ed
Eleati (1932-67), personalmente curato. I criterî
storiografici di M. sono esposti in Problemi e metodi di ricerca
nella storia della filosofia (1952). Altri studî: Alle origini
della filosofia della cultura (1956); Il pensiero politico nel
Risorgimento italiano (1959); Cesare Beccaria (1960); Da
Ardigò a Gramsci (1962); Figure e momenti della filosofia del
Rinascimento (1963); Il "verum-factum" prima di Vico (1969).
DBI
di Paolo Favilli
Nacque a Senigallia il 20 ag. 1877, da Vito e da Sigismonda
Padovani, in una famiglia ebraica benestante. Dopo gli studi liceali
si trasferì a Firenze dove, dal 1895 al1899, frequentò
la sezione di filosofia e filologia dell’Istituto di studi superiori
e pratici.
L’atmosfera della prima formazione del M. può considerasi,
lato sensu, positivista: uno fra i suoi punti di riferimento, P.
Villari, indubbiamente positivista, era tuttavia, nella impostazione
del suo pensiero, lontanissimo dalla rappresentazione di maniera di
quel movimento: nel saggio La storia e la scienza (1891)
Villari articola un impianto metodologico sostanzialmente aperto,
per nulla coincidente con lo «scientismo» storiografico.
Un terreno poi, quello di Villari, certamente contiguo, in qualche
punto addirittura compenetrato, con quello che contemporaneamente
venivano arando studiosi che cercavano di coniugare la «storia
come scienza» con il socialismo militante, proprio attraverso
il riferimento privilegiato alla concezione materialistica della
storia; terreno su cui anche il M. si sarebbe trovato. Lato sensu
soprattutto perché il suo maestro di filosofia, F. Tocco, con
il quale discusse la tesi di laurea su Condillac, nel 1899, maestro
anche di G. Gentile, filosofo speculativo principe dell'idealismo
italiano, difficilmente può essere considerato positivista.
Gli anni fiorentini furono importanti nella formazione politica del
M.; tramite il fratello, Ugo Guido, di due anni più anziano,
entrò in contatto con un gruppo di studenti e giovani
laureati che si riunivano nella casa di Ernesta Bittanti, futura
moglie di Cesare Battisti. Si formò così, insieme con
A. Galletti, G. Salvemini, G. Mondaini, lo stesso Battisti, una
comunità in cui studio e passione politica convivevano
alimentandosi vicendevolmente, portando il M., agli inizi del
secolo, a un'intensa collaborazione con la Critica sociale di F.
Turati, la più importante rivista del socialismo italiano.
La collaborazione del M. – proseguita fino alla chiusura del
periodico nel 1926 e ripresa nel secondo dopoguerra – toccò i
più vari argomenti: dai temi direttamente politici a
questioni concernenti il mondo dell’insegnamento e della
laicità della scuola, dalle recensioni a questioni relative
alla morale sessuale.
Contemporaneamente il M. passava dall’esperienza di insegnante nei
licei (Potenza, Ferrara e Mantova) a quella di insegnante
universitario: dapprima (1904) a Padova, come incaricato a
sostituire R. Ardigò, poi (1910-14) come titolare di storia
della filosofia a Torino, e infine, dal 1914, a Bologna, sempre
sulla cattedra di storia della filosofia.
Il salto di qualità del M. nel dibattito filosofico italiano
si ebbe nel contesto della teorizzata fine del socialismo (Croce,
1911) e della collocazione «in soffitta» del marxismo
(Giolitti, 1911). In realtà proprio in quel lasso di tempo
era in corso un’operazione dallo spessore teorico tutt’altro che
irrilevante, di cui il M. fu protagonista, tesa a una
«ricostruzione» del marxismo come «filosofia del
socialismo».
La riflessione del M. sul marxismo come «filosofia del
socialismo» partiva non tanto dall’ambito del positivismo,
quanto piuttosto dall’atmosfera di crisi del positivismo: «Il
viaggio dall’illuminismo al marxismo, da Hobbes a Engels – avverte
Garin (Tra due secoli…, p. 223) –, non fu per Mondolfo una pacifica
passeggiata nel mondo delle idee sotto la guida di Roberto
Ardigò. Fu un’esigenza emergente dalle lotte politiche e dal
travaglio socialista alla vigilia della guerra italo turca che lo
portò ad affrontare il chiarimento teorico delle posizioni di
Feuerbach, Marx, Engels e Lassalle, e questo nella ormai comune
atmosfera di crisi del positivismo, ovunque diffusa ». Vi sono
alcuni aspetti di questo viaggio, per lo meno di quello nel
«mondo delle idee», che sono in grado di fornire utili
indicazioni sulla qualità del suo «integralismo
marxista». Ardigò, «guida» cui egli fa
riferimento, gli permette di «integrare» idealismo e
positivismo in un «realismo», offrendogli così
una risposta al problema della duplicità della conoscenza.
Questo meccanismo di «integrazione» il M. lo avrebbe
utilizzato nella costruzione della sua «filosofia del
socialismo», che non a caso ebbe un carattere di compattezza e
di sistematicità in gran parte assente, per esempio, nella
elaborazione di A. Labriola. La «ricostruzione»
mondolfiana del marxismo cominciò, infatti, con
l’«integrazione» in quel processo del «vero»
L.A. Feuerbach, da lui sottratto al materialismo. E lo stesso
Engels, che pure nell’AntiDühring (Fr. Engels, Il rovesciamento
della scienza del signor Eugen During)ha usato le espressioni
più assolute di monismo materialistico, a parere del M. non
può davvero considerarsi materialista: Engels, per il M., ha
usato solo una «terminologia» materialistica, ma la sua
opposizione all’«idealismo speculativo» si determina per
quella «filosofia della praxis» che è la
negazione di ogni filosofia materialista. E soprattutto la
dialettica, «forma e condizione della intellegibilità
del reale» anche per Engels, dovrebbe essere di per se stessa
antidoto principe contro ogni forma di materialismo. Quindi,
«integrazione», come elemento di «costruzione
sistematica», «dialettica» come negazione di
«materialismo» caratterizzano un progetto filosofico che
intende dare risposte ai problemi posti da una stagione della storia
del socialismo nei suoi rapporti con la società e la cultura
italiane.
Di fatto però, il periodo dal 1908 al 1912, durante il quale
il M. elaborò il nucleo centrale della propria lettura
marxista, non può considerarsi del tutto omogeneo: il
passaggio da una prospettiva di crescita (1908), a una di crisi
(1911) spiega, per lo meno in parte, come nell’oscillazione del M.
tra una teoria del socialismo basata su «analisi
economico-sociale e analisi storico-empirica» e una
riflessione basata su una «coscienza puramente
filosofica», sia infine quest’ultima a prevalere. Vi è
tuttavia un aspetto di «omogeneità» che trascende
il periodo considerato e che fa meglio comprendere anche
l’importanza del progetto del M. e della sua realizzazione. Quando,
nel 1908, il M. intervenne su Critica sociale dopo che il congresso
di Firenze del Partito Socialista Italiano (PSI) ebbe sancito
l’egemonia dei riformisti sul partito, lo fece soprattutto per
esorcizzare quella «fine del marxismo» evocata allora
non solo dal Corriere della sera, ma soprattutto tacitamente
accettata in molti ambienti del riformismo.
A ragione N. Bobbio sostiene che, per il M., «lo studio del
pensiero filosofico di Marx e di Engels fu un modo di fare i conti
col revisionismo in entrambe le sue dimensioni» e che
«dal punto di vista teorico, Mondolfo non appartiene alla
storia del revisionismo» (Introduzione a R. Mondolfo,
Umanesimo di Marx, pp. XXX, XXXII). Forse sarebbe più giusto
definire quella del M. come la «filosofia del
riformismo», ma proprio quel marxismo «integrale»
di cui si è detto, così caratteristico della sua
«filosofia del socialismo», rende problematica anche
quella definizione.
Per il M. nel socialismo si riscontra «l’assenza di un’anima
teorica, di una direttiva filosofica», c’è dunque
«bisogno di un orientamento filosofico» (R. Mondolfo,
Rovistando in soffitta), questa chiara affermazione programmatica
apparve sulla Critica sociale nel 1911, ma ci sono scarsi dubbi che
tale impostazione non fosse anche alla base del suo primo importante
studio «ricostruttivo» di un «orientamento
filosofico» marxista: La filosofia del Feuerbach e le critiche
del Marx (Prato 1909). La struttura analitica della «filosofia
del socialismo» fu, dunque, delineata nel breve periodo che
corre dal 1909 al 1912, ed ebbe ai suoi estremi le opere teoriche
più significative del M.: appunto il saggio su Feuerbach e
quello su Engels (Il materialismo storico in Federico Engels, Genova
1912).
L'«orientamento filosofico», secondo il M., è
necessario tanto ai riformisti quanto ai rivoluzionari: i primi
hanno ritenuto «la teoria superata nella pratica» e
dunque hanno disdegnato di rifar mai i conti con la filosofia,
mentre i secondi non hanno mai davvero riflettuto su quella
«filosofia volontaristica» alla quale pure dicevano
d’ispirarsi. E allora «nessuna tendenza, vecchia o nuova, che
sorga nel partito socialista, potrà mai prescindere da quella
necessità preliminare che Marx ed Engels per i primi
sentirono: la necessità di fare i conti con la
filosofia» (cfr. Socialismo e filosofia, in L'Unità,
1913). L’«integralismo» metodologico del M. risponde
anche alla necessità di una ricollocazione delle
«tendenze» tradizionali di fronte alla nuova esigenza di
teoresi che dovrà informare la filosofia per tutto il
socialismo.
Questo nucleo forte della «filosofia del socialismo»
elaborato negli anni 1908-13, originale approccio alla teorica
marxiana, venne ripreso, sviluppato, e messo a confronto con i nuovi
problemi a partire dalla crisi del primo dopoguerra. Non casualmente
già nel 1919 il M. raccolse in volume i suoi studi marxisti
degli anni prebellici (Sulle orme di Marx, Bologna) poi ristampato
nel 1923 in edizione accresciuta per la «Biblioteca di studi
sociali», collana diretta dallo stesso M. per l’editore
Cappelli.
Questa nuova edizione del libro (la terza: ne era uscita una seconda
nel 1920) è la dimostrazione dell’interesse intorno a una
sistematica teorica che si confronta con il nuovo della crisi
postbellica, mantenendo il nucleo analitico originale. Di
particolare interesse e attualità risultano l'analisi della
rivoluzione russa e dell’inizio dell’esperienza sovietica: il M., il
quale pure aveva costruito un’interpretazione antidetermistica del
marxismo, che aveva messo l’accento sulle possibilità
creative della praxis,è nettissimo nel condannare, proprio in
nome di Marx, quello che considera il volontarismo assoluto di
Lenin. In Russia, per il M., non era presente alcuna fra quelle
condizioni necessarie per una trasformazione rivoluzionaria
così come Marx le aveva indicate. «L’azione
rivoluzionaria di Lenin [spezzava] bruscamente il legame dialettico
tra condizioni oggettive e coscienza soggettiva [scindeva] la
coscienza rivoluzionaria dal senso storico (Bobbio, cit., pp.
XXXIX-XL)». Il giovane A. Gramsci era intervenuto con veemenza
nel dibattito fin dalla prima edizione del libro (cfr. L’Ordine
nuovo, 15 maggio 1919) accusando il M. di «marxismo
professorale», di «amore grammaticale» per la
rivoluzione: in sostanza di voler sottoporre i grandi sconvolgimenti
storici alla pietra di paragone del «senso filologico
dell’erudito». Non c’è dubbio che la tendenza a
sottoporre gli «slittamenti» della storia nel letto di
Procuste della correttezza secondo testi, nella linearità di
una teoria da quei testi desunta, si dimostri euristicamente
sterile. Non c’è dubbio, altresì, che, nel giudizio
storico sui settant'anni dell’esperienza sovietica, il percorso del
M. dietro le Orme di Marx debba comunque essere tenuto in attenta
considerazione.
La «Biblioteca di studi sociali» si configurò, in
quel periodo, come il luogo privilegiato dove assumevano maggiore
spessore riflessivo gli intensi dibattiti di quel dopoguerra. Il M.
interveniva non solo nella Critica sociale di Turati, ma anche su
L’Unità di Salvemini, Energie nuove e poi La Rivoluzione
liberale di P. Gobetti, Quarto Stato di P. Nenni e C. Rosselli. Tale
ampio sistema di relazioni, aperto a tutti i contributi critici, si
rispecchiava appunto nella «Biblioteca di studi
sociali», un vero e proprio carrefour di itinerari.
Esemplarmente, tra gli ultimi titoli della collana figurano La
rivoluzione liberale di Gobetti e i Saggi intorno alla concezione
materialistica della storia di Labriola curati da L. Dal Pane: una
coniugazione tra rigore teorico e apertura ai problemi nuovi che
l’affermazione definitiva del regime fascista cancellò dal
discorso pubblico italiano.
Dopo il 1926 e fino al 1938, il M. fu, ovviamente,
impossibilitato a continuare quel tipo di discorso pubblico; non
chiuse però la riflessione sui temi del marxismo e del
socialismo pubblicando in sede accademica alcuni lavori di messa a
punto storico-critica su tali questioni. In particolare fu piuttosto
intensa la sua collaborazione con l’Enciclopedia italiana.
Tra le altre redasse voci che potevano risultare politicamente
impegnative, come Materialismo storico, Comunismo, Socialdemocrazia,
Socialismo, Labriola. Il tutto in quell’atmosfera impregnata di
nicodemismo, asetticità scientifica, legami di amicizia
personale, fraindendimenti voluti, che caratterizzò le
iniziative culturali del fascismo di cui furono protagonisti tanto
Gentile che G. Volpe.
Nello stesso periodo, tuttavia, prendeva forma una nuova fase della
biografia intellettuale del M.: quella dello studioso del
«pensiero antico» a un livello di eccellenza; assai
probabile che questa nuova fase fosse strettamente legata a un clima
politico che non permetteva, se non nei limiti di cui si è
detto, di coltivare il «pensiero moderno» nei termini
nei quali il M. l’aveva praticato per venticinque anni. Certo la
monumentale Storia del pensiero antico (Roma 1929), costruita con
testi greci e latini appositamente tradotti dall’autore, è
dimostrazione di un rapporto con il mondo classico non esploso
all’improvviso; piuttosto, quello che può far considerare la
pubblicazione un «nuovo inizio» è il fatto che da
allora la dimensione dell’antichistica divenne il luogo primo
dell’impegno intellettuale del Mondolfo.
Nel 1932 e nel 1938 uscirono, curati dal M., i due grossi volumi sul
pensiero antico di E. Zeller (Origini, caratteri e periodi della
filosofia greca, Firenze); mentre nel 1935 fu pubblicata la
chiarificazione metodologica del M. (I problemi del pensiero antico,
Bologna); contemporaneamente apparve una lunga serie di articoli
sugli autori oggetto delle grandi monografie.
Nel 1938 le leggi razziali costrinsero il M. all’emigrazione
oltreoceano, e questo suo «secondo inizio»
contribuì in maniera non secondaria a introdurlo
nell’insegnamento universitario argentino; ottenne, infatti, la
cattedra di greco antico presso l’Università di
Córdoba, dove si trattenne dal 1940 al 1948; dal 1948 al 1952
insegnò storia della filosofia antica all’Università
di Tucumán.
Dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, il M.
iniziò una fase di pendolarismo tra Italia e Argentina. Fu
reintegrato nel ruolo dei professori universitari e nella cattedra
di storia della filosofia dell'Università di Bologna, ma non
vi ristabilì la propria residenza. Mantenne, in quegli anni,
una operosità impressionante.
Tra il 1950 e il 1960 uscirono una ventina di volumi in italiano e
in spagnolo e qualche decina di articoli. Insieme con nuovi studi di
storia della filosofia antica, curò la riedizione di vecchi
lavori rimettendo in circolo i suoi antichi studi marxisti. Riprese
e continuò fino a tardissima età la sua collaborazione
a Critica sociale.
Il M. morì a Buenos Aires il 16 luglio 1976.