Mondolfo, Rodolfo

da Fornero, Tassinari - Le filosofie del Novecento (Bruno Mondadori, Milano 2002)

15. Il marxismo dopo Marx

9. Mondolfo: una lettura riformistico-democratica del marxismo

In un momento nel quale sembrava che in Italia il marxismo teorico dovesse soccombere sotto i colpi della revisione-liquidazione che del pensiero di Marx aveva condotto tra il 1896 e il 1899, attraverso i suoi studi marxisti, Benedetto Croce, ebbe qualche merito Rodolfo Mondolfo nel riaffermare la possibilità, anzi la necessità di una filosofia marxista, alla cui formulazione egli avrebbe dedicato diversi scritti, da Il materialismo storico in Federico Engels (1912) a una serie di saggi raccolti in volume nel 1919, e ancora nel 1923, sotto il titolo Sulle orme di Marx, e che sarebbero riapparsi, in una nuova edizione arricchita, nel 1968, sotto un nuovo titolo, Umanismo di Marx.

In uno di questi saggi, Socialismo e filosofia (1913), Mondolfo fa risalire la crisi in corso del socialismo italiano, lacerato nelle opposte correnti del riformismo e del massimalismo, all'assenza di una limpida coscienza teorica, insomma di una filosofia, senza la quale non si danno né «chiara consapevolezza delle premesse», né «netta visione del fine, [che] sono le due condizioni della coerenza nel pensiero e della sicurezza nell'azione».

Il marxismo mondolfiano, peraltro, pur collocato al fianco del riformismo di Turati, si sarebbe rivelato incapace di incidere sulle sorti del movimento socialista italiano, e destinato a un'esclusiva rilevanza teorica, anche questa di dubbia portata rinnovatrice all'interno del pensiero marxista. La sua debolezza, costituita, com'è stato detto, da una troppo meccanica e semplicistica congiunzione tra oggettività dei processi reali e iniziativa soggettiva rappresentata dall'azione di classe, tra necessità e libertà, scientificità e umanismo, derivava dalla stessa formazione dell'uomo, cui avevano presieduto sia la cultura di stampo positivistico sia l'idealismo trionfante di Croce e Gentile.

E vero che Mondolfo aveva avuto il merito di riabilitare, facendola discendere dalla "soffitta" in cui era stata relegata, l'opera di Labriola, a cui si sarebbe ispirato come a quella di un maestro capace di emendare il marxismo dalle scorie positivistiche e di riscattarlo da ogni sorta di materialismo meccanicistico e di determinismo economicistico. E anche vero, però, che egli avrebbe forzato il pensiero labriolano in una direzione umanistica e idealistica, smarrendone la carica rivoluzionaria e il più profondo spessore teorico.

Rodolfo Mondolfo nasce nel 1877 a Senigallia, ove esordisce in politica, nel 1907, con scritti che teorizzano possibili convergenze tra mazzinianesimo e sociali smo, segno di un'originaria ispirazione democratica e riformistica. Si laurea a Firenze nel 1899 e ivi aderisce al Partito socialista. A Padova, dove consegue la libera docenza, mantiene stretti rapporti con Roberto Ardigò, che supplisce nell'in segnamento tra il 1907 e il 1910. Nel 1914 si trasferisce a Bologna, nella cui università insegna fino al 1939, quando, in conseguenza delle leggi razziali, è costretto, lui ebreo, a rifugiarsi in Argentina. Nel paese sudamericano insegna per lunghi anni, fino alla morte, nel 1976, all'età di novantanove anni.

Studioso fin dai primi anni del secolo delle origini del pensiero politico moderno da Hobbes a Rousseau, è costretto dal regime fascista ad abbandonare fin dal 1925 gli studi marxisti, e da quel momento si dedica a importanti studi di filosofia greca antica. Questi diversi aspetti della sua riflessione sono presenti in scritti quali Saggi per la storia della morale utilitaria: la morale di Thomas Hobbes (1903), Rousseau nella formazione della coscienza moderna (1914), L'infinito nel pensiero dei greci (1934), Problemi del pensiero antico (1936). In Argentina, oltre che saggi ancora di filosofia antica - La comprensione del soggetto umano nell'antichità classica (1955) e Socrate (1955) - ri prende a scrivere di marxismo con un saggio, Intorno a Gramsci e alla filosofia della prassi (1955), e con altri interventi come Il materialismo storico come umanismo realistico e La concezione dell'uomo in Marx (1962).

Nel già citato scritto Socialismo e filosofia, Mondolfo sostiene che il "peccato di origine" del socialismo italiano - e non solo - in tutte le sue versioni è stato d'affidarsi al cosiddetto "socialismo scientifico", responsabile di aver separato «la celebre frase di Marx, che non la coscienza determini l'essere dell'uomo, ma il suo essere sociale determini la sua coscienza [...] da quella filosofia della prassi che le conferiva il giusto valore». Detta separazione è, infatti, secondo Mondolfo, all'origine di quel determinismo, economicismo e materialismo oggettivistico che congiurano a vanificare dell'insegnamento di Marx l'ispirazione volontaristica e umanistica, ben espressa, appunto, nel concetto di prassi, condiviso anche da Engels, come non hanno saputo vedere le frequenti interpretazioni rozzamente positivistiche del suo pensiero, nonostante una qualche tendenza naturalistica affiorata nell'ultima fase della sua opera.

È da sottolineare, peraltro, che, nell'individuazione in Marx della centralità del concetto di prassi, Mondolfo appare debitore della lettura in chiave idealistica che Gentile aveva proposto, nel saggio La filosofia di Marx (1897), della terza Tesi marxiana su Feuerbach, là dove Marx parla dell'attività umana come «prassi rivoluzionaria». Il nostro autore, infatti, fa sua la traduzione infedele - «prassi rovesciata» - che di quella espressione aveva offerto il filosofo idealista e che gli aveva dato modo di intenderla nel senso di una «prassi che si rovescia».

E vero che Mondolfo avrebbe in seguito sostenuto che la traduzione infedele di quel passo non gli aveva impedito di cogliere lo "spirito" della dottrina marxiana, ben espresso dal termine «autotrasformazione» con cui nella Tesi si parla dell'attività umana; ciò non dissipa, però, l'impressione di una dipendenza del filosofo marxista da un'interpretazione francamente idealistica del testo marxiano come quella gentiliana. Un'impressione rafforzata sia dal significato piuttosto generico che Mondolfo finisce con l'attribuire alla nozione di prassi, sempre più lontana dal senso rivoluzionario secondo cui Marx l'aveva usata, sia dalla dichiarata preferenza mondolfiana per l'espressione concezione realistica della storia al posto di quella, engelsiana, a suo parere equivoca, di materialismo storico.

La filosofia della prassi, o, come anche Mondolfo la definisce, la concezione critico-pratica caratteristica del marxismo, viene assumendo nello studioso socialista la fisionomia di uno storicismo umanistico e realistico che, come ha scritto Bobbio, «rovescia Hegel sostituendo allo Spirito l'uomo concreto; [...] rende umanistico, servendosi di Feuerbach, lo storicismo di Hegel, e rende storicistico, servendosi di Hegel, l'umanismo di Feuerbach».

Se negli anni precedenti la prima guerra mondiale Mondolfo insiste nel presentare il marxismo come una filosofia della volontà, avversa a ogni interpretazione fatalistica della storia, dopo la Rivoluzione d'ottobre egli sottolinea sempre più il momento oggettivo del processo storico, contro il disegno rivoluzionario leninista, che gli appare - a lui, uomo ancora legato al socialismo della Seconda Internazionale - una forzatura volontaristica della dialettica storica. Di nuovo vicino alle posizioni politiche di Turati, egli vede nel leninismo una sorta di risorgente blanquismo, che pretende di «accelerare con la violenza il ritmo della storia», e contro il quale occorre riaffermare invece quello che era andato dicendo Marx nella Prefazione del 1859 alla Critica dell'economia politica circa le condizioni necessarie al compiersi della rivoluzione, condizioni del tutto assenti nella realtà russa. Mondolfo si trova così a recuperare le classiche argomentazioni evoluzionistiche del riformismo secondinternazionalista, contro le quali si era mossa finora la sua filosofia della prassi; esse lo inducono a scorgere nel famoso articolo del giovane Gramsci, La rivoluzione contro il Capitale, apparso sul finire del 1917, nient'altro che una testimonianza ulteriore dell'estraneità del leninismo rispetto all'autentica lezione di Marx.

Mondolfo avrebbe in ogni occasione ribadito il suo giudizio sulla Rivoluzione del 1917 e su Lenin; ne è conferma lo stesso confronto che conduce durante gli anni cinquanta e sessanta con il pensiero di Gramsci. Da un lato egli riconosce in quest'ultimo un momento del marxismo italiano come filosofia della prassi che, prendendo le mosse da Labriola, avrebbe avuto nell'opera mondolfiana stessa una sua tappa importante. Di qui l'attribuzione a Gramsci del merito, contro l'ortodossia del materialismo dialettico,

di aver decisamente distinto la filosofia della prassi dall'economismo storico, di aver rivalutato l'uomo come artefice della sua storia, [...] di aver superato il dualismo di struttura e soprastruttura nel riconoscimento dell'unità della vita sociale e del processo storico, in cui tutti i momenti e gli aspetti compiono uno scambio continuo di azioni e reazioni mutue [...].

Dall'altro lato Mondolfo rimprovera a Gramsci di aver ceduto, contravvenendo alla sua concezione "consiliare" della democrazia socialista, all'idea giacobina e leninista del partito come «moderno Principe» che suppone una distinzione persistente di dirigenti e diretti, di apparato e di massa, di intellettuali organici da una parte, incaricati d'esercitare l'azione educativa e conservare il consenso "spontaneo" del popolo e la legalità e la disciplina, e il popolo stesso dall'altra parte, che accetta la direzione spirituale, consente e obbedisce. [...] La collocazione di un Principe sul trono o sull'altare della venerazione popolare converte le élites politiche, burocratiche, tecnocratiche, investite di tale autorità, in dominatrici delle masse e delle coscienze. Questa via può condurre solo al totalitarismo come in Russia.

 

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Storico della filosofia italiano (Senigallia 1877 - Buenos Aires 1976). Prof. nelle univ. di Torino (1910) e di Bologna (1914); a causa delle leggi razziali fasciste, emigrò in Argentina dove insegnò a Córdoba (1940) e poi a Tucumán (1948-52). Si dedicò alla storia del pensiero moderno (Un psicologo associazionista: E. B. de Condillac, 1902, 2a ed. 1925; Saggi per la storia della morale utilitaria, 2 voll., 1903-04; Le teorie morali e politiche di C. A. Helvétius, 1904; Il dubbio metodico e la storia della filosofia, 1905) e specialmente a quella delle dottrine politico-sociali (Rousseau nella formazione della coscienza moderna, 1914; rist. come introduzione a Rousseau, Discorsi e contratto sociale, 1924, 3a ed. 1949). Singolare importanza hanno avuto i suoi studî sul marxismo (in partic. Il materialismo storico di F. Engels, 1912; Sulle orme di Marx, 1919), di cui ha proposto un'interpretazione volontaristica e umanistica, insistendo sul concetto di "rovesciamento della prassi", in polemica con il materialismo dialettico (più tardi: Intorno a Gramsci e alla filosofia della prassi, 1955; Umanismo di Marx, 1968, raccolta di saggi pubblicati tra il 1908 e il 1966). In seguito, soppressa (1925) la Biblioteca di studi sociali da lui diretta, si dedicò particolarmente agli studî sul pensiero greco: Il pensiero antico (1928; 2a ed. rifatta e accresc. 1950; rist. 1967); L'infinito nel pensiero dei Greci (1934; 2a ed. accr. col titolo L'infinito nel pensiero dell'antichità classica, 1956); Problemi del pensiero antico (1936); La comprensione del soggetto umano nell'antichità classica (a Buenos Aires nel 1955, poi a Firenze 1958); Moralisti greci. La coscienza morale da Omero a Epicuro (1960); Momenti del pensiero greco e cristiano (1964); il commento e aggiornamento alla traduzione dell'opera di E. Zeller, La filosofia dei Greci, da lui diretto e, per quanto riguarda Ionici, Pitagorici, Eraclito ed Eleati (1932-67), personalmente curato. I criterî storiografici di M. sono esposti in Problemi e metodi di ricerca nella storia della filosofia (1952). Altri studî: Alle origini della filosofia della cultura (1956); Il pensiero politico nel Risorgimento italiano (1959); Cesare Beccaria (1960); Da Ardigò a Gramsci (1962); Figure e momenti della filosofia del Rinascimento (1963); Il "verum-factum" prima di Vico (1969).

DBI

di Paolo Favilli

Nacque a Senigallia il 20 ag. 1877, da Vito e da Sigismonda Padovani, in una famiglia ebraica benestante. Dopo gli studi liceali si trasferì a Firenze dove, dal 1895 al1899, frequentò la sezione di filosofia e filologia dell’Istituto di studi superiori e pratici.

L’atmosfera della prima formazione del M. può considerasi, lato sensu, positivista: uno fra i suoi punti di riferimento, P. Villari, indubbiamente positivista, era tuttavia, nella impostazione del suo pensiero, lontanissimo dalla rappresentazione di maniera di quel movimento: nel saggio La storia e la scienza  (1891) Villari articola un impianto metodologico sostanzialmente aperto, per nulla coincidente con lo «scientismo» storiografico. Un terreno poi, quello di Villari, certamente contiguo, in qualche punto addirittura compenetrato, con quello che contemporaneamente venivano arando studiosi che cercavano di coniugare la «storia come scienza» con il socialismo militante, proprio attraverso il riferimento privilegiato alla concezione materialistica della storia; terreno su cui anche il M. si sarebbe trovato. Lato sensu soprattutto perché il suo maestro di filosofia, F. Tocco, con il quale discusse la tesi di laurea su Condillac, nel 1899, maestro anche di G. Gentile, filosofo speculativo principe dell'idealismo italiano, difficilmente può essere considerato positivista.

Gli anni fiorentini furono importanti nella formazione politica del M.; tramite il fratello, Ugo Guido, di due anni più anziano, entrò in contatto con un gruppo di studenti e giovani laureati che si riunivano nella casa di Ernesta Bittanti, futura moglie di Cesare Battisti. Si formò così, insieme con A. Galletti, G. Salvemini, G. Mondaini, lo stesso Battisti, una comunità in cui studio e passione politica convivevano alimentandosi vicendevolmente, portando il M., agli inizi del secolo, a un'intensa collaborazione con la Critica sociale di F. Turati, la più importante rivista del socialismo italiano.

La collaborazione del M. – proseguita fino alla chiusura del periodico nel 1926 e ripresa nel secondo dopoguerra – toccò i più vari argomenti: dai temi direttamente politici a questioni concernenti il mondo dell’insegnamento e della laicità della scuola, dalle recensioni a questioni relative alla morale sessuale.

Contemporaneamente il M. passava dall’esperienza di insegnante nei licei (Potenza, Ferrara e Mantova) a quella di insegnante universitario: dapprima (1904) a Padova, come incaricato a sostituire R. Ardigò, poi (1910-14) come titolare di storia della filosofia a Torino, e infine, dal 1914, a Bologna, sempre sulla cattedra di storia della filosofia.

Il salto di qualità del M. nel dibattito filosofico italiano si ebbe nel contesto della teorizzata fine del socialismo (Croce, 1911) e della collocazione «in soffitta» del marxismo (Giolitti, 1911). In realtà proprio in quel lasso di tempo era in corso un’operazione dallo spessore teorico tutt’altro che irrilevante, di cui il M. fu protagonista, tesa a una «ricostruzione» del marxismo come «filosofia del socialismo».

La riflessione del M. sul marxismo come «filosofia del socialismo» partiva non tanto dall’ambito del positivismo, quanto piuttosto dall’atmosfera di crisi del positivismo: «Il viaggio dall’illuminismo al marxismo, da Hobbes a Engels – avverte Garin (Tra due secoli…, p. 223) –, non fu per Mondolfo una pacifica passeggiata nel mondo delle idee sotto la guida di Roberto Ardigò. Fu un’esigenza emergente dalle lotte politiche e dal travaglio socialista alla vigilia della guerra italo turca che lo portò ad affrontare il chiarimento teorico delle posizioni di Feuerbach, Marx, Engels e Lassalle, e questo nella ormai comune atmosfera di crisi del positivismo, ovunque diffusa ». Vi sono alcuni aspetti di questo viaggio, per lo meno di quello nel «mondo delle idee», che sono in grado di fornire utili indicazioni sulla qualità del suo «integralismo marxista». Ardigò, «guida» cui egli fa riferimento, gli permette di «integrare» idealismo e positivismo in un «realismo», offrendogli così una risposta al problema della duplicità della conoscenza. Questo meccanismo di «integrazione» il M. lo avrebbe utilizzato nella costruzione della sua «filosofia del socialismo», che non a caso ebbe un carattere di compattezza e di sistematicità in gran parte assente, per esempio, nella elaborazione di A. Labriola. La «ricostruzione» mondolfiana del marxismo cominciò, infatti, con l’«integrazione» in quel processo del «vero» L.A. Feuerbach, da lui sottratto al materialismo. E lo stesso Engels, che pure nell’AntiDühring (Fr. Engels, Il rovesciamento della scienza del signor Eugen During)ha usato le espressioni più assolute di monismo materialistico, a parere del M. non può davvero considerarsi materialista: Engels, per il M., ha usato solo una «terminologia» materialistica, ma la sua opposizione all’«idealismo speculativo» si determina per quella «filosofia della praxis» che è la negazione di ogni filosofia materialista. E soprattutto la dialettica, «forma e condizione della intellegibilità del reale» anche per Engels, dovrebbe essere di per se stessa antidoto principe contro ogni forma di materialismo. Quindi, «integrazione», come elemento di «costruzione sistematica», «dialettica» come negazione di «materialismo» caratterizzano un progetto filosofico che intende dare risposte ai problemi posti da una stagione della storia del socialismo nei suoi rapporti con la società e la cultura italiane.

Di fatto però, il periodo dal 1908 al 1912, durante il quale il M. elaborò il nucleo centrale della propria lettura marxista, non può considerarsi del tutto omogeneo: il passaggio da una prospettiva di crescita (1908), a una di crisi (1911) spiega, per lo meno in parte, come nell’oscillazione del M. tra una teoria del socialismo basata su «analisi economico-sociale e analisi storico-empirica» e una riflessione basata su una «coscienza puramente filosofica», sia infine quest’ultima a prevalere. Vi è tuttavia un aspetto di «omogeneità» che trascende il periodo considerato e che fa meglio comprendere anche l’importanza del progetto del M. e della sua realizzazione. Quando, nel 1908, il M. intervenne su Critica sociale dopo che il congresso di Firenze del Partito Socialista Italiano (PSI) ebbe sancito l’egemonia dei riformisti sul partito, lo fece soprattutto per esorcizzare quella «fine del marxismo» evocata allora non solo dal Corriere della sera, ma soprattutto tacitamente accettata in molti ambienti del riformismo.

A ragione N. Bobbio sostiene che, per il M., «lo studio del pensiero filosofico di Marx e di Engels fu un modo di fare i conti col revisionismo in entrambe le sue dimensioni» e che «dal punto di vista teorico, Mondolfo non appartiene alla storia del revisionismo» (Introduzione a R. Mondolfo, Umanesimo di Marx, pp. XXX, XXXII). Forse sarebbe più giusto definire quella del M. come la «filosofia del riformismo», ma proprio quel marxismo «integrale» di cui si è detto, così caratteristico della sua «filosofia del socialismo», rende problematica anche quella definizione.

Per il M. nel socialismo si riscontra «l’assenza di un’anima teorica, di una direttiva filosofica», c’è dunque «bisogno di un orientamento filosofico» (R. Mondolfo, Rovistando in soffitta), questa chiara affermazione programmatica apparve sulla Critica sociale nel 1911, ma ci sono scarsi dubbi che tale impostazione non fosse anche alla base del suo primo importante studio «ricostruttivo» di un «orientamento filosofico» marxista: La filosofia del Feuerbach e le critiche del Marx (Prato 1909). La struttura analitica della «filosofia del socialismo» fu, dunque, delineata nel breve periodo che corre dal 1909 al 1912, ed ebbe ai suoi estremi le opere teoriche più significative del M.: appunto il saggio su Feuerbach e quello su Engels (Il materialismo storico in Federico Engels, Genova 1912).

L'«orientamento filosofico», secondo il M., è necessario tanto ai riformisti quanto ai rivoluzionari: i primi hanno ritenuto «la teoria superata nella pratica» e dunque hanno disdegnato di rifar mai i conti con la filosofia, mentre i secondi non hanno mai davvero riflettuto su quella «filosofia volontaristica» alla quale pure dicevano d’ispirarsi. E allora «nessuna tendenza, vecchia o nuova, che sorga nel partito socialista, potrà mai prescindere da quella necessità preliminare che Marx ed Engels per i primi sentirono: la necessità di fare i conti con la filosofia» (cfr. Socialismo e filosofia, in L'Unità, 1913). L’«integralismo» metodologico del M. risponde anche alla necessità di una ricollocazione delle «tendenze» tradizionali di fronte alla nuova esigenza di teoresi che dovrà informare la filosofia per tutto il socialismo.

Questo nucleo forte della «filosofia del socialismo» elaborato negli anni 1908-13, originale approccio alla teorica marxiana, venne ripreso, sviluppato, e messo a confronto con i nuovi problemi a partire dalla crisi del primo dopoguerra. Non casualmente già nel 1919 il M. raccolse in volume i suoi studi marxisti degli anni prebellici (Sulle orme di Marx, Bologna) poi ristampato nel 1923 in edizione accresciuta per la «Biblioteca di studi sociali», collana diretta dallo stesso M. per l’editore Cappelli.

Questa nuova edizione del libro (la terza: ne era uscita una seconda nel 1920) è la dimostrazione dell’interesse intorno a una sistematica teorica che si confronta con il nuovo della crisi postbellica, mantenendo il nucleo analitico originale. Di particolare interesse e attualità risultano l'analisi della rivoluzione russa e dell’inizio dell’esperienza sovietica: il M., il quale pure aveva costruito un’interpretazione antidetermistica del marxismo, che aveva messo l’accento sulle possibilità creative della praxis,è nettissimo nel condannare, proprio in nome di Marx, quello che considera il volontarismo assoluto di Lenin. In Russia, per il M., non era presente alcuna fra quelle condizioni necessarie per una trasformazione rivoluzionaria così come Marx le aveva indicate. «L’azione rivoluzionaria di Lenin [spezzava] bruscamente il legame dialettico tra condizioni oggettive e coscienza soggettiva [scindeva] la coscienza rivoluzionaria dal senso storico (Bobbio, cit., pp. XXXIX-XL)». Il giovane A. Gramsci era intervenuto con veemenza nel dibattito fin dalla prima edizione del libro (cfr. L’Ordine nuovo, 15 maggio 1919) accusando il M. di «marxismo professorale», di «amore grammaticale» per la rivoluzione: in sostanza di voler sottoporre i grandi sconvolgimenti storici alla pietra di paragone del «senso filologico dell’erudito». Non c’è dubbio che la tendenza a sottoporre gli «slittamenti» della storia nel letto di Procuste della correttezza secondo testi, nella linearità di una teoria da quei testi desunta, si dimostri euristicamente sterile. Non c’è dubbio, altresì, che, nel giudizio storico sui settant'anni dell’esperienza sovietica, il percorso del M. dietro le Orme di Marx debba comunque essere tenuto in attenta considerazione.

La «Biblioteca di studi sociali» si configurò, in quel periodo, come il luogo privilegiato dove assumevano maggiore spessore riflessivo gli intensi dibattiti di quel dopoguerra. Il M. interveniva non solo nella Critica sociale di Turati, ma anche su L’Unità di Salvemini, Energie nuove e poi La Rivoluzione liberale di P. Gobetti, Quarto Stato di P. Nenni e C. Rosselli. Tale ampio sistema di relazioni, aperto a tutti i contributi critici, si rispecchiava appunto nella «Biblioteca di studi sociali», un vero e proprio carrefour di itinerari. Esemplarmente, tra gli ultimi titoli della collana figurano La rivoluzione liberale di Gobetti e i Saggi intorno alla concezione materialistica della storia di Labriola curati da L. Dal Pane: una coniugazione tra rigore teorico e apertura ai problemi nuovi che l’affermazione definitiva del regime fascista cancellò dal discorso pubblico italiano.

Dopo il 1926 e fino al 1938, il  M. fu, ovviamente, impossibilitato a continuare quel tipo di discorso pubblico; non chiuse però la riflessione sui temi del marxismo e del socialismo pubblicando in sede accademica alcuni lavori di messa a punto storico-critica su tali questioni. In particolare fu piuttosto intensa la sua collaborazione con l’Enciclopedia italiana.

Tra le altre redasse voci che potevano risultare politicamente impegnative, come Materialismo storico, Comunismo, Socialdemocrazia, Socialismo, Labriola. Il tutto in quell’atmosfera impregnata di nicodemismo, asetticità scientifica, legami di amicizia personale, fraindendimenti voluti, che caratterizzò le iniziative culturali del fascismo di cui furono protagonisti tanto Gentile che G. Volpe.

Nello stesso periodo, tuttavia, prendeva forma una nuova fase della biografia intellettuale del M.: quella dello studioso del «pensiero antico» a un livello di eccellenza; assai probabile che questa nuova fase fosse strettamente legata a un clima politico che non permetteva, se non nei limiti di cui si è detto, di coltivare il «pensiero moderno» nei termini nei quali il M. l’aveva praticato per venticinque anni. Certo la monumentale Storia del pensiero antico (Roma 1929), costruita con testi greci e latini appositamente tradotti dall’autore, è dimostrazione di un rapporto con il mondo classico non esploso all’improvviso; piuttosto, quello che può far considerare la pubblicazione un «nuovo inizio» è il fatto che da allora la dimensione dell’antichistica divenne il luogo primo dell’impegno intellettuale del Mondolfo.

Nel 1932 e nel 1938 uscirono, curati dal M., i due grossi volumi sul pensiero antico di E. Zeller (Origini, caratteri e periodi della filosofia greca, Firenze); mentre nel 1935 fu pubblicata la chiarificazione metodologica del M. (I problemi del pensiero antico, Bologna); contemporaneamente apparve una lunga serie di articoli sugli autori oggetto delle grandi monografie.

Nel 1938 le leggi razziali costrinsero il M. all’emigrazione oltreoceano, e questo suo «secondo inizio» contribuì in maniera non secondaria a introdurlo nell’insegnamento universitario argentino; ottenne, infatti, la cattedra di greco antico presso l’Università di Córdoba, dove si trattenne dal 1940 al 1948; dal 1948 al 1952 insegnò storia della filosofia antica all’Università di Tucumán.

Dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, il M. iniziò una fase di pendolarismo tra Italia e Argentina. Fu reintegrato nel ruolo dei professori universitari e nella cattedra di storia della filosofia dell'Università di Bologna, ma non vi ristabilì la propria residenza. Mantenne, in quegli anni, una operosità impressionante.

Tra il 1950 e il 1960 uscirono una ventina di volumi in italiano e in spagnolo e qualche decina di articoli. Insieme con nuovi studi di storia della filosofia antica, curò la riedizione di vecchi lavori rimettendo in circolo i suoi antichi studi marxisti. Riprese e continuò fino a tardissima età la sua collaborazione a Critica sociale.

Il M. morì a Buenos Aires il 16 luglio 1976.