BENEDETTO CROCE

 

Txt.: Materialismo storico ed economia marxistica

Txt.: Storia economico-politica e Storia etico-politica

Txt.: Teoria e storia della storiografia

Txt.: Cultura e vita morale

Txt.: Storicismo

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DBI

di Piero Craveri

Nacque a Pescasseroli (L'Aquila) il 25 febbr. 1866 da Pasquale e Luisa Sipari, di famiglia abruzzese i cui titoli di proprietà risalivano al sec. XVII. Il nonno Benedetto (1794-1854), magistrato borbonico, era stato consigliere presso la Suprema Corte di giustizia in Napoli.

Fu educato a Napoli: iscritto a nove anni al collegio della Carità, proseguì gli studi al liceo Genovesi. Nel 1883 si trasferiva a Roma nella casa dello zio Silvio Spaventa, divenuto tutore suo e dei fratello Alfonso, dopo la morte dei genitori e della sorella nel terremoto di Casamicciola di quell'anno. Si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e segui con scarso profitto solo i corsi del primo anno, in particolare quelli del Filomusi-Guelfi. L'anno seguente prese a frequentare le lezioni di filosofia morale di Antonio Labriola, che aveva conosciuto nella casa dello zio Silvio, in via della Missione, luogo di incontro del mondo politico, intellettuale e giornalistico della capitale.

Nel 1886, senza pensare più alla laurea, che non prese mai, tornava a Napoli. Fin dagli anni dei liceo aveva inclinazione per gli studi eruditi e letterari, di cui sono testimonianza i primi scritti Pubblicati dal 1882 (Pagine sparse, 2, 1, 1943) che aveva proseguito nel soggiorno romano lavorando soprattutto alla Biblioteca Casanatense. A Napoli il C. entrò nel fiorente ambiente di eruditi e studiosi della Società storica, allora presieduta da Bartolomeo Capasso, legandosi di profonda amicizia col De Blasiis, S. Di Giacomo e M. Schipa.

Prendono inizio in questi anni gli studi del C. sul 1799 che, accresciuti da altri contributi nell'anno del centenario, vennero poi raccolti ne La rivoluzione napoletana del 1799: biografie, racconti, ricerche (1899), e sulla storia culturale e politica dell'Italia meridionale dei periodo aragonese, in parte poi raccolti in Storie e leggende napoletane e in Uomini e cose della vecchia Italia e altre sillogi. Di questo periodo (1889-1891) è anche l'ampia monografia su I teatri di Napoli dalla Rinascenza alla fine del secolo decimottavo, di cui redasse anche una diversa edizione nel 1916.

Nel 1892, con S. Di Giacomo, il C. dava vita alla rivista Napoli nobilissima, che uscirà fino al 1906 (ebbe una breve ripresa negli anni 1920-22), volta a illustrare i monumenti storici ed artistici napoletani e a divulgare la conoscenza dell'arte antica meridionale. La rivista fu affidata per la redazione a Giuseppe Ceci, ed in essa il C. scrisse una messe di articoli, rubriche e note.

Ma il lavoro più maturo di questo periodo sono le ricerche raccolte successivamente nel volume su La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza (1a, ediz., Bari 1917). illustrazione di taluni aspetti della vita morale e civile dell'Italia nel Quattro-Cinquecento. Fu con quest'ultimo lavoro, opera ancora frammentaria, che si fecero più stringenti nel C. gli stimoli ad approfondire i problemi logici e metodologici della storiografia e ad orientare gli studi in quella direzione che diede il suo primo frutto con la memoria su La storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte letta nel 1893 all'Accademia Pontaniana, di cui era divenuto uno dei soci più attivi.

Questa prima inclinazione del C. per gli studi filosofici ebbe una svolta decisiva nel 1895, quando il Labriola, con cui i rapporti, stretti durante il soggiorno romano, non si erano mai interrotti, gli inviò il suo opuscolo In memoria del "Manifesto dei comunisti", che egli fece pubblicare presso la casa editrice Loescher, come in seguito altri scritti del Labriola. Ne derivò per il C. un forte impulso allo studio della filosofia e dell'economia e un interesse nuovo alla vita civile e politica. Fu un "appassionamento politico", in primo luogo per le dottrine socialiste, che lo fece entrare in rapporto con gli ambienti del socialismo italiano, ma che andò negli anni seguenti stemperandosi nel corso degli studi che intraprese sul marxismo, che lo portarono a scrivere su alcuni aspetti centrali di esso i saggi - poi raccolti nel volume Materialismo storico ed economia marxistica (1900) - che tra il 1896 e il 1899 aveva pubblicato, tra l'altro, su la Riforma sociale e su Critica sociale nonché ancora su Divenir social, collaborazione quest'ultima che diede origine ai suoi rapporti con Georges Sorel.

Sono questi anche gli anni in cui il C. venne sviluppando altri interessi di studio, segnatamente quello per l'opera del De Sanctis del quale si fece editore e su cui, rispondendo alle obiezioni dei critici, fra i quali il Carducci, pubblicò una prima memoria per la Pontaniana, Francesco De Sanctis e i suoi critici recenti (1898). "La filosofia ebbe da allora parte sempre più larga nei miei studi - ricordava il C. - anche perché in quel mezzo, distaccandosi alquanto intellettualmente dal Labriola che non sapeva perdonarmi certe conclusioni che io traevo dalle sue premesse, cominciò la mia corrispondenza e collaborazione. con il Gentile, che conobbi giovanissimo, ancora studente dell'università di Pisa, e che aveva pubblicato recensioni dei miei lavori intorno alla teoria della storia ed al marxismo" (Contributoalla critica di me stesso, in Etica e politica).

Nel 1899, a Perugia dove trascorreva l'estate, aveva anche stretto una duratura amicizia con Carlo Vossler, testimoniata dal Carteggio Croce-Vossler (1951), in cui troviamo il primo annuncio della fondazione de La Critica. E fu a Perugia nel '99 che prese a lavorare intorno a "un'Estetica e una storia dell'Estetica", di cui il il primo frutto fu la memoria per la Pontaniana, Tesi fondamentali di un'Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale (1900), che due anni dopo sarà seguita dall'opera fondamentale del sistema filosofico crociano l'Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale (1902).

Il primo numero de La Critica uscì nel gennaio 1903 dallo stampatore Vecchi di Trani. La rivista fu poi, dal 1906, edita a Bari da Giuseppe Laterza lungo quasi un quarantennio, fino al 1945. cui seguirà fino al 1952 la serie dei Quaderni della Critica, sempre sotto la direzione dei C., che si giovò della stretta collaborazione prima di Giovanni Gentile e Guido De Ruggero, poi di Adolfo Omodeo. Dall'incontro con Laterza, che risale al 1903, nacque uno stretto rapporto di amicizia e una intensa collaborazione di cui vanno ricordate le maggiori collane editoriali dalla "Biblioteca di cultura moderna", ai "Classici della filosofia moderna", fondati nel 1907, e agli "Scrittori d'Italia", iniziati nel 1910; infine alla serie delle opere del C. che prese forma dal 1908 con la terza edizione dell'Estetica (il C. aveva già pubblicato alcune sue opere in altra forma dal Laterza) nelle quattro partizioni de "la filosofia dello spirito", dei "saggi filosofici", degli "scritti di storia letteraria e politica" e degli "scritti varii".

Tra il 1903 e il 1915 il C. proseguì i suoi studi di storia letteraria e civile, con una vasta messe di saggi pubblicati su La Critica, tra cui vanno ricordati quelli poi raccolti ne La letteratura della nuova Italia, i cui primi due volumi uscirono nel 1914 e il terzo e quarto nel 1915 (gli ultimi due nel 1939 e nel 1940), i Saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1911) e il lavoro su la Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, scritti negli anni 1914 e 1915 e pubblicati successivamente ne La Critica, poi raccolti in due volumi nel 1921. Ma furono soprattutto gli anni in cui scrisse, dopo l'Estetica, le sue maggiori opere filosofiche che delineano il suo sistema di "Filosofia dello Spirito". Nel 1905 negli Atti dell'Accademia Pontaniana (XXXV, mem. I) uscivano i Lineamenti d'una logica come scienza del concetto puro, che aveva "una seconda edizione interamente rifatta" col titolo Logica come scienza del concetto puro nel 1909. Lo stesso anno pubblicava la Filosofia della pratica. Economia ed etica, e Wilhelm Windelband gli richiedeva, per una collana tedesca, una monografia sulla filosofia della storia che uscì a Tubinga nel 1915e coi titolo di Teoria e storia della storiografia nell'originale italiano nel 1917. Accanto a queste opere maggiori vanno, tra gli altri scritti, segnalati due volumi: il Saggio sullo Regel seguito da altri scritti di storia della filosofia (1909) che raccoglie tra l'altro lo studio critico pubblicato nel 1906 su La Critica dal titolo Ciò che è vivo e ciò ch'è morto della filosofia di Hegel, e quello sulla Filosofia di Giambattista Vico (1910).

Va, inoltre, ricordata, per il rilievo che essa necessariamente assume nella biografia intellettuale del C., la polemica che egli ebbe con Giovanni Gentile intorno all'idealismo attuale, con due scritti, pubblicati su La Voce (ottobre e dicembre 1913), raccolti col titolo Una discussione tra filosofi amici nel secondo volume delle Conversazioni critiche (1918).

Nel 1910 il C. ricevette, su proposta del ministro Sonnino, a cui l'aveva segnalato Giustino Fortunato, la nomina a senatore (21a categoria: censo). Il C. non aveva mai partecipato in modo diretto alla vita politica. Il '98 lo aveva visto, su posizioni liberali, solidarizzare pubblicamente con i socialisti e trovarsi poi in sintonia con le posizioni di Zanardelli e Giolitti. Si trovò piuttosto a svolgere un ruolo politico come uomo di pensiero, di cui per altro era pienamente consapevole, come mostrano i giudizi su "l'opera della Critica e i suoi collaboratori" nelle pagine da lui scritte ne La storia d'Italia dal 1871 al 1914 (pp. 255 ss.).

Non irrilevante, al di là delle numerose polemiche d'ordine accademico, di cui va ricordata quella del 1908 (pubbl. 1909) Il caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana, è la sua partecipazione alla vita civile ed amministrativa. Anche qui numerose le polemiche in difesa del patrimonio artistico, librario ed archivistico. Nel novembre 1900 aveva assunto l'incarico, che tenne per nove mesi, di amministratore delle scuole elementari e medie del comune di Napoli. Molto attiva inoltre, come abbiamo accennato, la sua partecipazione alle istituzioni culturali napoletane. Nel luglio 1914, per le elezioni amministrative del comune di Napoli fu presidente del "fascio dell'ordine", l'alleanza liberale, moderato-cattolica, contrapposta al "blocco" delle Sinistre.

Difese le posizioni "neutraliste" con articoli de La Critica e assieme a Cesare De Lollis su L'Italia nostra, organo dell'omonima associazione, con una polemica culturale molto ferma contro il dilagare della demagogia nazionalista, in difesa dell'unitarietà della cultura europea e del ruolo che in essa, in modo particolare, vi svolgeva quella tedesca di cui diede testimonianza nel volume Pagine sulla guerra poi ristampato col titolo di L'Italia dal 1914 al 1918 (1919) e di cui ulteriore documentazione trovasi nel primo volume dell'Epistolario (Napoli 1967).

Nel giugno del 1920 Giolitti, con cui non aveva mai avuto rapporti personali, lo chiamava a far parte del suo ultimo ministero come titolare del dicastero della Pubblica Istruzione. Si mosse in una congiuntura difficile, in contrasto con la burocrazia ministeriale, con scarse simpatie in quei settori del Senato che provenivano dall'insegnamento universitario e, alla Camera, con la diffidenza dei popolari e la scoperta ostilità dei socialisti e dei settori liberaldemocratici di ispirazione massonica che costituivano la maggioranza nella commissione parlamentare della Pubblica Istruzione, in cui il C. ebbe difficoltà a varare provvedimenti legislativi minori e si trovò poi respinto il progetto istitutivo dell'esame di Stato, su cui il governo intendeva far perno per riformare la scuola media. il progetto era stato elaborato da una commissione ministeriale alla cui presidenza il C. aveva chiamato Giovanni Gentile. Con le risultanze di questa commissione il dissenso del C. aveva riguardato soltanto l'obbligatorietà dell'insegnamento religioso nelle scuole elementari, che egli non propose. La bocciatura parlamentare del suo progetto di legge sull'esame di Stato lo indusse a presentare le dimissioni a Giolitti, che le respinse prevedendo di lì a pochi mesi lo scioglimento delle Camere. Numerose le iniziative prese nell'ambito dei suoi poteri, tra cui vanno ricordati il trasferimento della Biblioteca nazionale di Napoli dal Museo in un'ala della reggia e la ripresa delle relazioni culturali con la Germania, con la restituzione degli istituti confiscati durante la guerra. Nel giugno del 1921, nell'assenza da Roma di Giolitti, portò a termine l'incarico di risolvere lo sciopero degli impiegati dello Stato.

L'atteggiamento del C. di fronte all'ascesa del fascismo, dopo la marcia su Roma, fu simile a quello di altri esponenti liberali. In una intervista dell'ottobre 1923 osservava: "nel fatto non esiste ora una questione di liberalismo e di fascismo, ma solo una questione di forze politiche. Dove sono le forze che possono, ora fronteggiare o prendere la successione del governo presente? Io non le vedo. Noto invece grande paura di un eventuale ritorno alla paralisi parlamentare del 1922" (Paginesparse, II, 1943, pp. 477 s.). "Non riuscivo, neppure per ipotesi e immaginazione, a raffigurarmi un'Italia che si rassegnasse a lasciarsi togliere la libertà per la quale aveva combattuto", noterà altrove (Nuove pagine sparse, I, p. 83)., che era una soverchia fiducia che la solidità liberale delle istituzioni statutarie potesse essere coniugata con una azione di restaurazione conservatrice guidata dal fascismo. "Un segreto istinto di ritrosia" (ibid., p. 83) gli fece tuttavia rifiutare tutti gli incarichi che gli vennero offerti. Nell'estate che seguì il delitto Matteotti passò decisamente all'opposizione. Tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1925, per invito di Giovanni Amendola, scrisse e pubblicò il Manifesto degli intellettuali antifascisti, in risposta ad uno redatto da Giovanni Gentile e firmato da un gruppo di intellettuali fascisti.

Con pochi altri colleghi rimase al Senato quale oppositore del regime, recandosi, tra il 1929 e il 1934 a tutte le sedute, per votare contro le leggi liberticide. Nel 1929 prese la parola in Senato contro i patti lateranensi.

Pur nelle vicende impegnative dei primo dopoguerra e dell'avvento dei fascismo l'attività di pensiero e di studio dei C. continuò senza soste. Vero è che esse appartengono ad una stagione nuova, più determinata dall'impegno civile. "I miei lavori filosofici e storici, senza cessar di essere severamente scientifici" egli stesso osserva, "si mossero, con maggiore e più rapida corrispondenza che per l'innanzi, secondo le nuove esigenze che la coscienza morale poneva". Vanno innanzi tutto ricordate le tre storie, "ideate già prima della guerra", la Storia del Regno di Napoli (1925), la Storia d'Italia dal 1871 al 1915 (1928)e la Storia d'Europa dal 1815 al 1915 (1932) a cui nel 1929 si era accompagnato il volume su l'Etàbarocca in Italia. Accanto a queste opere di sintesi, continuarono numerosi i lavori di storia letteraria e civile, raccolti principalmente nelle due serie di Uomini e cose della vecchia Italia (1927), nei Nuovisaggi sulla letteratura italiana del Seicento (1931), nelle Varietà di storialetteraria e civile (1935)e nelle Vite di avventure, di fede, di passione (1936). Le opere filosofiche più importanti di questo periodo furono La poesia: introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura (1936)in cui riprendeva i temi già trattati nell'Estetica, e La storia come pensiero e come azione (1939), in cui invece riprendeva i temi trattati in Teoria e storia della storiografia. Di questo periodo vanno anche ricordati i saggi, tra cui gli Elementi di politica, raccolti nel volume Etica e politica (1931)e Il carattere della filosofia moderna (1941).

Il giudizio del C. sul deflagrare del conflitto mondiale fu quello di una "guerra di religione", in cui vedeva lo sbocco inevitabile dell'ascesa in Europa del nazifascismo. Dopo la caduta del regime fascista ebbe subito un ruolo eminente ponendo il problema dell'abdicazione di Vittorio Emanuele III e di una reggenza fino al referendum istituzionale. La preoccupazione del C. fu quella di garantire la continuità istituzionale con un rapido passaggio dal regime regio a quello dei partiti costituzionali. Si trovò in netto contrasto su questo punto con le autorità alleate, in particolare con quelle inglesi e con gli ambienti di corte e venne a trovarsi in una posizione mediana tra il governo Badoglio e i partiti dell'intransigenza istituzionale P.C.I., P.S.I. e P.d'A. Ebbe influenza determinante sul congresso antifascista di Bari (29 genn. 1944) e sulla posizione intermedia che ne uscì, di richiesta dell'abdicazione del sovrano e della creazione della giunta dei partiti antifascisti. Dopo l'arrivo di Togliatti e il ritiro della pregiudiziale istituzionale da parte dei comunisti (marzo 1944). le autorità alleate appoggiarono la linea che egli andava sostenendo dall'agosto 1943 assieme a Sforza, Tarchiani, Rodinò, De Nicola e altri. Con la rinuncia al trono di Vittorio Emanuele III e la luogotenenza si rese possibile la costituzione del secondo governo Badoglio (aprile 1944), con la partecipazione dei partiti antifascisti, nella cui definizione il C. ebbe un notevole ruolo di mediazione politica e del quale entrò a far parte come ministro senza portafoglio. Dopo la liberazione di Roma il C. entrò anche nel primo governo Bonorni, sempre come ministro senza portafoglio, dandone le dimissioni il 27 luglio seguente.

La posizione del C., continuò ad essere coerente con l'impostazione inizialmente data alla sua azione politica dopo il 25 luglio, solo che a cambiare profondamente fu il peso, e quindi il ruolo, delle forze in giuoco. Gli elementi di continuità dello Stato liberale, che egli aveva inteso riaffermare, dovevano essere coniugati con la nuova realtà delle forze democratiche e dei nuovi partiti di massa. Il C., che aveva assunto la presidenza del P.L.I., su molte idee guida entrò subito in collisione con le posizioni assunte dagli altri partiti. La questione dei poteri del C.L.N. lo trovò sulle posizioni negative e rigide del P.L.I. e così il conseguente atteggiamento verso il governo Parri nel novembre '45. Significativa è anche la sua posizione sui poteri della futura Costituente, da limitarsi strettamente alla redazione della nuova carta costituzionale, e la posizione assunta sulla legge elettorale con la costituzione, insieme con Bonorni, Einaudi, Nitti e Orlando, della Lega per la difesa delle libertà democratiche con la proposta, di contro alla proporzionale, del collegio uninominale. Era stato membro della Consulta e fu eletto alla Costituente nella lista dell'Unione democratica nazionale. Sarebbe intervenuto nel dibattito sul progetto di costituzione solo per pronunziarsi contro l'art. 7 che regolava i rapporti tra la S. Sede e lo Stato italiano. Intervenne ancora il 4 giugno 1947 portando il voto di fiducia del P.L.I. al terzo governo De Gasperi, sottolineando l'approvazione per "il ritorno alla prassi costituzionale di una maggioranza che governa e di una minoranza che conduce con metodo democratico l'opposizione" (Scritti e discorsi politici (1943-1947), II, p. 399); ancora il 24 luglio dello stesso anno si pronunziava contro l'approvazione da parte della Costituente del trattato di pace, giusta una difesa del principio di nazionalità di cui si era fatto interprete presso gli Alleati fin dall'indomani della caduta del regime fascista. Il 30 nov. 1947 dava le dimissioni da presidente del P.L.I. Nel maggio 1948 tornava al Senato come senatore di diritto: il C., riuscendogli ormai troppo stancante viaggiare, partecipò solo al voto del Senato per l'adesione italiana al Patto atlantico (luglio '49).

Dal '45 la sua partecipazione alla vita politica democratica per quanto intensa si fece dunque più mediata, come testimonia, del resto, la maggior parte dei suoi interventi e delle sue polemiche, centrate su ques tioni di principio e sulla delucidazione del significato storico e ideale delle questioni. Già nell'agosto '43 aveva chiesto la soppressione dell'Accademia d'Italia e presiedette al rinnovamento dell'Accademia dei Lincei. Nel febbraio 1947 fondava l'Istituto italiano per gli studi storici con l'aiuto di Raffaele Mattioli, chiamando a dirigerlo Federico Chabod.

Furono questi ultimi anni, di più intensa partecipazione politica, parimente operosi come testimoniano i volumi da lui pubblicati, dai Discorsi di varia filosofia (1945), alle Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1952), a cui debbono aggiungersi i tre volumi dei Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento (1945e 1952), i saggisu La letteratura italiana del Settecento (1948), e le serie degli Aneddoti di varia letteratura e delle Pagine sparse.

Il C. morì a Napoli il 20 nov. 1952.

L'attività filosofica e quella storico-politica del C. devono essere intese ed esposte, nel ricco svolgimento della sua vita, come un'unità, anche se molteplice e nel corso del tempo diversamente accentuata. L'occuparsi di storia (res gestae)e di storiografia - e la riflessione su di esse - diede al C. impulsi importanti per i suoi studi filosofici, ed ebbe un ruolo centrale nel suo pensiero filosofico, dall'inizio del Novecento fino alle sue opere ultime. Questo studio fu al tempo stesso un'importante premessa per le sue prese di posizione politica, specialmente rispetto al fascismo e divenne, in particolar modo nelle opere sulla storia d'Italia dopo l'unità e sulla storia d'Europa nel secolo decimonono, l'efficace espressione della opposizione intellettuale alla dittatura fascista. Già dallo schizzo autobiografico del C. del 1915 Contributo alla critica di me stesso (Etica e politica, quarta ed., 1956) e dalla bibliografia delle sue pubblicazioni del Borsari si può vedere che gli interessi storici, accanto allo studio della letteratura e dei suoi problemi, precedettero di più di un decennio i suoi intensi studi filosofici, e che doveva passare più di un altro decennio prima che la coscienza politica del C., finora poco sviluppata e manifestatasi solo occasionalmente, si profilasse e si impegnasse chiaramente nel dibattito sull'intervento dell'Italia nella prima guerra mondiale.

All'inizio quindi fu la storia ad affascinare il C., la storia come oggetto di erudizione letteraria, che però non è arida e antiquata, poiché riceve impulso dall'incontro del C. con la città di Napoli, la sua patria elettiva, con le sue testimonianze del passato e la sua gente, e che porta con sé un elemento di viva umanità e trova un punto di contatto anche nelle apparentemente insignificanti tradizioni popolari.

Espressione di questa fase di interesse umano per la storia sono le molteplici ricerche, all'incirca degli anni fra il 1882e il 1900, sulla topografia storica, sulle tradizioni popolari e sulla biografia e aneddotica dell'Italia meridionale e in particolare della sua città (Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, 1911; La rivoluzione napoletana del 1799: biografie, racconti, ricerche, 1912; I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo, 1916; La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, 1917; Storie e leggende napoletane, 1919; Aneddoti di varia letteratura, 1942; Pagine sparse, 1919-20; Nuove pagine sparse, 1949).

Con l'andar del tempo il C. non fu più soddisfatto di questo lavoro erudito sul passato e, stimolato anche dai suoi studi sul marxismo, si sentì sempre più spinto ad una comprensione più profonda della storia e in particolare allo studio del problema del rapporto con il passato dell'uomo che pensa e agisce nel presente. Una prima riflessione sistematica sulla storia si trova in una conferenza tenuta all'Accademia Pontaniana a Napoli nel 1893, La storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte (Primi saggi, 1927). La tesi del C. parte dal rifiuto della concezione positivistica ed edonistica dell'arte. In questo modo egli può respingere anche l'interpretazione positivistica della storia (historiarerum gestarum)come scienza nel senso di scienza naturale, senza per questo svalutare la storiografia ispirata a questa concezione. Sicché nel momento in cui il C. concepisce l'arte come un campo a sé stante, con gli stessi diritti, accanto alla scienza, cioè come "raffigurazione dell'oggetto nella sua concretezza", la collocazione della storia nel campo dell'arte significa la sua liberazione da quelle errate e per questo irrealizzabili aspettative di scientificità. Ma ciò significa allo stesso tempo non una svalutazione della storia, ma la sua autonomia all'interno del campo dell'arte, come "narrazione dei fatti", a differenza dell'arte, intesa in senso più ampio come rappresentazione generalmente indipendente dai fatti. Il C. difende in seguito quest'autonomia della storia nel saggio Il concetto della storia anche contro ogni tentativo di una sua interpretazione generale da parte di qualsiasi tipo di filosofia della storia (Primi saggi, 1927).

L'incontro, di grande importanza, del C. con il marxismo avvenne nel 1895 attraverso il suo maestro romano e amico paterno, Antonio Labriola (l'esposizione e documentazione fatta dal C. di questo incontro si trova nel saggio Come nacque e come mori il marxismo teorico in Italia (1895-1900) del 1937 raccolto insieme ai saggi contemporanei al dibattito sul marxismo nel volume Materialismo storico ed economia marxistica, 1900; cfr. anche A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce.1885-1904, Napoli 1975. Per quanto riguarda l'importanza dei marxismo nello sviluppo della storiografia italiana cfr. Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, 1921). Il significato di questo incontro per il C. sta nel fatto che esso risvegliò in lui, per la prima Volta, anche se per un breve periodo, un vivo interesse politico che riempi il vuoto di interiore scontentezza provato per le ricerche fatte fino ad allora, e che inoltre lo spinse a dedicarsi a studi di economia e ad arricchire la sua visione della vita e della storia attraverso concreti aspetti economici, sociali e politici. In relazione a questa ampliata esperienza egli sviluppò il suo giudizio sul marxismo, che però non gli diede risposta definitiva riguardo al problema che lo interessava, ma che tuttavia divenne, per l'ampliamento e l'intensificazione della problematica, una premessa fondamentale per l'elaborazione della sua filosofia sistematica. Il nucleo centrale dell'interpretazione dei marxismo, che il C. svolse in diversi saggi dal 1896 fino al 1902, Si può puntualizzare in tre domande: quale forza conoscitiva sta nella concezione marxista? Quali conseguenze per l'azione concreta derivano dal marxismo? Come si può definire in generale l'azione pratica? Il C. non trova la forza conoscitiva del marxismo né in una generale interpretazione della realtà, né nello sviluppo delle leggi storiche o in una filosofia della storia, ma in un arricchimento dell'umano sapere sui fenomeni economici e il loro legame con la vita umana.

Il marxismo, secondo il C., non si risolve in una motivazione scientifica del socialismo, neppure come premessa necessaria dell'azione politica. Esso è piuttosto l'espressione di una determinata convinzione e posizione etico-politica, in cui, in generale, sia pure con contenuto diverso, consiste il concreto impulso all'azione. Il marxismo ha quindi un carattere pratico e politico e si rifà in questo ad una determinata situazione storica. Se deve di nuovo influire sull'agire, esso deve essere ripreso con fede e convinzione intima, cosa alla quale il C. stesso fu disposto solo per brevissimo tempo. Alla fondamentale chiarificazione dell'azione, secondo il C., il marxismo non apportò alcun contributo. Il C. cercò dapprima questa chiarificazione piuttosto nell'economia pura, ma deluso da questa, si volse ben presto ai tentativi di chiarire la posizione dell'azione nell'ambito della propria filosofia dello spirito.

La critica crociana al marxismo significò, per la cultura italiana, un più stretto collegamento con le posizioni revisionistiche di Eduard Bernstein, di Georges Sorel e anche di Antonio Labriola. Dopo la seconda guerra mondiale il C., stimolato questa volta dal confronto con la Russia, e con i partiti a struttura marxista del proprio paese, riprese i suoi studi sul marxismo con accenti molto critici (Filosofia e storiografia, 1949).

All'inizio dei secolo, il C., sulla base dei suoi studi sulla essenza dell'arte e della storia, e animato inoltre dal dibattito sul marxismo, si accinse ad una fondamentale chiarificazione filosofica delle sue concezioni. Lo spunto gli venne ancora una volta offerto dal campo dell'arte. Nelle sue Tesi sull'estetica e, ancora più conseguentemente, nella sua Estetica egli intraprese il superamento della concezione naturalistico-empirico-edonistica e di quella intellettualistica dell'arte e della realtà, identificando in generale arte ed espressione, cioè espressione dell'individuale - intuizione -, e determinava l'arte come attività spirituale e teoretica autonoma rispetto alla logica come conoscenza dell'universale, interpretandola anzi come necessario fondamento di questa (Tesi fondamentali di un'estetica come scienza dell'espressione linguisticagenerale, in Attidell'Accademia Pontaniana, XXX[1900], Memoria III; Estetica come scienza dell'espressione e linguisticagenerale, 1902). L'espressione, che parte dalle impressioni come presupposti indispensabili, non è però la loro conseguenza necessaria, ma è un'attività umana che si sviluppa liberamente. Partendo dalla sua identificazione di arte ed espressione, il C. chiarificava e rafforzava la base filosofica del dibattito sul carattere delle opere d'arte come estrinsecazione dell'arte e della realizzazione della funzione, solo a loro assegnata, di stimoli fisici della riproduzione di unespressione estetica, base teorica, fra l'altro, della sua critica letteraria. L'ulteriore definizione dell'estetica porta il C. ad un abbozzo di interpretazione filosofica di tutta la realtà. Il C. distingue dall'espressione, cioè l'attività teoretica, il volere, cioè l'attività Pratica, che ha come base e presupposto l'attività teoretica. Egli suddivide i due campi, teoria e prassi, fra loro reciprocamente connessi, in altri due gradi: sull'espressione, in quanto fondamentale attività teoretica, che ha come contenuto l'individuale, si fonda l'attività logica, che tende alla conoscenza dei concetti, all'universale; l'attività pratico-economica, la volontà, l'azione, che tende generalmente al conseguimento degli scopi, costituisce la base per la morale, che a sua volta tende a fini razionali e quindi universali, nei quali trova il suo particolare carattere di attività morale.

Il C. caratterizza come non rilevanti, per la riflessione filosofica, tutte le suddivisioni dell'espressione, secondo forme e contenuti specifici dell'arte, essendo questi determinanti e adatti solo all'uso empirico. Per tutti i campi è valida l'osservazione di base che lo sviluppo di attività costituisce autonoma realizzazione di valore. Quindi a questi campi vengono attribuiti il bello, il vero, l'utile e il buono come corrispettive realizzazioni di valore, e questi stanno a loro volta fra loro, nello stesso rapporto dei quattro campi, nella su menzionata relazione. "I quattro valori s'implicano regressivamente per la loro concretezza: il vero non può star senza il bello, l'utile senza entrambi, e il buono senza i tre precedenti" (Tesi..., p. 45). I contrari di questi valori, per esempio il brutto, non hanno una propria esistenza indipendente, ma consistono piuttosto nella non completa realizzazione dell'attività cominciata, nel persistere di elementi di passività.

Il C. riconduce in seguito la storia, in quanto rappresentazione dell'individuale, al campo dell'arte come espressione dell'individuale e considera, come suo momento differenziale , la sua subordinazione al criterio di realtà. Egli rifiuta, come una contraddizione in sé, una filosofia della storia, perché per lui storia significa concretezza e individualità, mentre la filosofia tende ai concetti, alla conoscenza dell'universale.

Nelle Tesi di un'estetica, e successivamente in forma più estesa nell'Estetica, il C. attribuisce alla storia determinate funzioni anche in rapporto al lavoro retrospettivo sulle espressioni artistiche. La storia deve far presenti le condizioni originarie di un'espressione artistica, e così rendere possibile e facilitare la riproduzione dell'espressione originaria, in base alle sue "estrinsecazioni" attuate nella attività pratica dell'artista. Se la riproduzione dell'espressione è riuscita, allora è compito in particolare della storia della letteratura rappresentare l'espressione nella sua storicità, e cioè nella sua posizione all'interno di un determinato circolo evolutivo dell'espressione artistica, secondo il rapporto di questa espressione con un determinato problema della forma artistica.

In contrapposizione ad altri campi, il concetto del progresso dell'arte quindi non si riferisce al totale sviluppo, ma allo specifico superamento di determinati problemi dell'espressione. Il C. integra, come del resto ha fatto anche nelle altre opere sistematiche con le corrispondenti problematiche, la sua Estetica con una rappresentazione storica che si orienta programmaticamente e praticamente secondo il concetto di arte precedentemente sviluppato. La storia è qui storia dell'evoluzione di una particolare filosofia dell'arte e si possono riconoscere chiaramente nelle sue pagine su Vico, sull'idealismo tedesco, su Herbart e su De Sanctis, i suoi precursori e ispiratori, come, nelle polemiche contro il positivismo e il sensismo, la sua provocazione diretta e i suoi avversari.

Il C. pone al centro della sua Logica, che segue all'Estetica cronologicamente e sistematicamente, la sua definizione del concetto puro, di cui mette in rilievo i caratteri principali - espressività, universalità e concretezza -, cioè la qualità di universale concreto che fonde il suo carattere come espressione, la sua universalità e la sua realizzazione nel caso singolo (Logica come scienza del concetto puro, 1909). "Il concetto (puro) è l'universale rispetto alle rappresentazioni (singole) e non si esaurisce in nessuna..." (Logica). Con questo il concetto puro viene dichiarato come appartenente al campo teoretico; la sua qualità distintiva è nel suo carattere di atto logico, cioè nella comprensione dell'universalità e, allo stesso tempo, nel suo rapporto con la realtà nella sua concretezza. Si deve dunque distinguerlo da tutti i concetti che servono alla pratica riunione di particolari gruppi di espressioni o di rappresentazioni, senza però comprenderli nella loro universalità e concretezza, i quali quindi sono attribuiti al campo della prassi. Essi si definiscono solo impropriamente come concetti, e devono invece essere definiti pseudo-concetti. Aggiungendo alla caratterizzazione del concetto puro la spiritualità, il C. riprende la definizione di tutta la sua filosofia come "filosofia dello spirito", connotandone il suo significato concreto.

Rispetto al concetto puro il C. affronta il problema di unità e distinzione, la cui soluzione aveva solo abbozzato nella Estetica con la distinzione e con i gradi delle diverse attività. Egli parte dalla necessità del legame fra unità e distinzione, e definisce il bello, il vero, l'utile e il buono come concetti distinti, che come tali nella loro interdipendenza sono sempre da vedere in una relazione di unità. In relazione con l'unità dello spirito, essi possono essere denominati e contati singolarmente solo considerando le necessità dell'esposizione, mentre in fondo essi sono inseriti in un'ideale connessione indissolubile, sono uniti in ogni loro distinzione e la loro unità si realizza proprio nella loro distinzione, e attraverso di essa. Pertanto il C. non rappresenta la relazione dei concetti distinti nell'immagine di un crescente sviluppo lineare dall'uno all'altro, ma nella immagine di un circolo, in cui tutti i momenti sono l'uno in rapporto all'altro, e dove ognuna delle distinzioni può rappresentare l'inizio, e da ognuno di questi momenti è possibile cogliere l'unità.

Per il C. diventa importante la delimitazione dei concetti distinti rispetto ai concetti opposti, come, per esempio, nel caso del brutto, in quanto realizzazione necessariamente incompiuta della espressione, quindi nel permanere di momenti di passività nell'attività dell'espressione. Questi concetti opposti non hanno una propria autonomia, ma sono una necessaria componente negativa delle attività, sono l'irreale nel reale, non però "forma o grado di realtà". Come negazione non si possono separare dall'affermazione, senza cancellare questa stessa.

Elemento positivo ed elemento negativo sono la base del carattere dialettico dell'attività, rappresentano il suo movimento nella tensione fra affermazione e negazione, costituiscono il suo divenire, che in ogni momento significa adempimento e insieme spinta ad una nuova attività. I concetti distinti sono al contrario momenti eterni nell'unità, fra i quali non avviene nessun processo dialettico, e sono piuttosto continuamente distinti e insieme uniti. I concetti opposti sono per questo i momenti dialettici del concetto, e anche di ciascuna delle sue concretizzazioni nei concetti distinti.

La critica del C. allo Hegel, elaborata contemporaneamente alla sua "filosofia dello spirito", parte proprio dal rapporto fra concetti distinti e concetti opposti: egli mostra come Hegel abbia trasferito erroneamente la relazione dialettica fra i concetti opposti ai concetti distinti, trattando questi concetti distinti, come anche gli pseudoconcetti, come momenti nella conoscenza dialetticamente crescente della verità e così però non riconoscendo il vero carattere né dei concetti né degli pseudoconcetti, gli uni diversità eterne e indissolubili dello spirito, gli altri attività pratiche, e con ciò mescolando gravi errori nel suo lavoro pur così fondamentale per lo sviluppo della conoscenza (Saggio sullo Hegel, 1906).

Dato che, per il C., il concetto puro come universale concreto porta alla conoscenza logica della realtà, egli riporta i giudizi filosofici nel loro insieme ai giudizi individuali, nei quali il concetto puro si concretizza come conoscenza della realtà e diventa in questo modo realtà. Anche i giudizi definitori si dimostrano per lui giudizi individuali poiché essi, anche se individuabili solo attraverso un'analisi rigorosa, contengono, come gli altri, un elemento individuale e universale in cui consiste il loro carattere conoscitivo. Il giudizio individuale porta alla "percezione del mondo" ed è quindi al tempo stesso anche giudizio storico. Il C. designa i giudizi definitori e individuali, nella loro identificazione, come sintesi a priori, e poiché essi riguardano il campo del pensiero, come sintesi a priori logica, cioè come l'attività logica dell'universale concreto, filosofica, nella sua realizzazione. Il C. pone in uno con le forme del conoscere le forme del sapere e così all'equiparazione fra giudizio definitorio e giudizio individuale nella sintesi a priori corrisponde l'identificazione fra filosofia e storia, mentre gli pseudoconcetti, quali vengono sviluppati dall'attività pratica, sono visti come la base delle scienze naturali e della matematica.

Sia alla religione sia al mito non viene data un'autonomia come attività dello spirito. In un'esposizione sistematica di errori, la religione appare o come filosofia errata da correggere, e quindi da conservare soltanto nel grembo della verità filosofica, oppure identica alla filosofia, in quanto la filosofia vale come la vera religione. Partendo da questa posizione il C. riconosce nella religione elementi della verità da considerare positivi e passi verso la verità filosofica, o errori che la filosofia deve criticare e correggere. Il C. rifiuta il modernismo come critica insufficiente della religione. Filosofia e storia prendono parte in egual modo, nella loro concreta realizzazione, al continuo divenire storico e all'immortalità, che spettano loro come creazioni del pensiero. Come la storia, anche la filosofia si fonda su "fatti storici". La storia non è più integrata, come nell'Estetica, nel campo dell'espressione, dell'intuizione dell'arte in senso ampio, ma nel campo del pensiero, in quanto giudizio individuale.

Nella sua Filosofiadellapratica il C. chiarisce la struttura interna del campo dell'attività pratica e il suo collegamento con il campo teoretico (Filosofia della pratica, economica ed etica., 1908). La morale, in quanto azione che si prefigge fini universali e razionali, ha come presupposto l'attività economica fondamentale, cioè un'attività che è in generale finalizzata e pertanto ha fini individuali. Mentre dunque da una parte l'attività economica non implica necessariamente l'orientamento morale, dall'altra l'attività morale non è possibile senza l'attività economica. Come momento distinto nell'unità, l'attività economica è comunque sempre rimandata alla morale e cerca di realizzare, in unione con essa, l'unione dei momenti distinti. In generale l'azione ha la sua base indispensabile e sicura nell'attività teoretica, e cioè nella sua "percezione della realtà, nella conoscenza storica". Ma questa offre da parte sua base e stimolo all'ulteriore sviluppo dell'attività teoretica nella libertà e nell'originalità della sua attuazione, provocando da una parte giudizi teoretici, cioè storici, sull'attività pratica nella sua concreta realizzazione, e dall'altra parte contribuendo ai cambiamenti della realtà che vanno oltre il singolo atto di volontà e il suo fine stesso.

Nel valutare il risultato delle diverse attività pratiche, occorre mantenere distinta ciascuna di esse, presa singolarmente, dalla loro somma, che rappresenta "accadimento" e momento della eterna evoluzione dello spirito come base di nuove espressioni e nuovi giudizi filosofici e storici. Accanto alla motivazione e delimitazione, date dalla relativa presente situazione storica in continuo cambiamento, l'attività pratica possiede un elemento di libertà e di creatività della sempre progressiva ed eterna realizzazione dell'essere, con cui contribuisce al progredire dello spirito nelle sue distinzioni e con questo al progredire della realtà. Se l'attività pratica si trova nel concreto contesto del conoscere storico e dei volere individuale, allora di fronte ad essa, norme, regole, abitudini e leggi non hanno alcun carattere assolutamente determinante, ma sono aiuti pratici, che facilitano la prova e la conoscenza dei presupposti storici dell'azione, senza poterli sostituire.

Una esplicazione della concezione crociana della storia la troviamo in Teoria e storia della storiografia, che sulla base di lavori precedenti del 1912-13, uscì un anno prima dell'edizione italiana del 1916, in un'edizione tedesca. Storia, nel pieno vero senso della parola, è qui "storia contemporanea", la storia pensata realmente in una data situazione secondo l'esigenza della vita e del momento. Fonti e narrazioni storiche, utili anzi indispensabili per la preparazione e aiuto di nuovi atti del pensiero, da tradizione morta di atti una volta vivi - cronaca -, diventano nuova storia viva, "storia contemporanea", solo nella rispettiva realizzazione di giudizi storici, cioè in nuove attività dello spirito, e nella storia contemporanea lo spirito porta di volta in volta le sue creazioni precedenti. La certezza della tradizione storica fondata su documenti diventa verità solo attraverso un nuovo atto spirituale e non attraverso la sua falsa interpretazione tramite una filosofia della storia. Il presente concreto determina quale passato debba essere ripreso nel nuovo atto spirituale, e così facendo ne seleziona gli elementi positivi, cioè quello che nel passato è stato veramente attività. Il C. all'inizio aveva trattato diversi problemi di questa concezione della storia, dal punto di vista storico, nella monografia del 19 11 (La filosofia di Giambattista Vico, 1911).

In questa opera appare chiaramente il suo metodo, adoperato anche nel libro su Hegel e nei suoi studi su Marx, di riprendere nell'analisi storica soprattutto quegli aspetti che sono in relazione con la sua propria evoluzione, un metodo che trova giustificazione teoretica nella concezione del C. secondo la quale la storia viene ripensata sullo stimolo dei problemi del presente e con questo diventa nuova attività spirituale. Il C. sottolinea così il principio di conoscenza di Vico, che vera conoscenza, conoscenza della verità., è possibile solo per ciò che si è fatto - "verum ipsum factum" - e la sua applicazione di questo principio al mondo storico, di cui l'uomo, come suo creatore, non ha solo una certezza esternamente fondata, ma anche conoscenza della verità, fondata sull'attività creativa. Alla citata interpretazione corrisponde la designazione di Vico, da parte del C., come il grande precursore del pensiero moderno.

Il C. interpreta più dettagliatamente l'identificazione fra storia e filosofia, già precedentemente considerata, nella sua opera sulla storia e la storiografia, considerando la filosofia come momento metodologico della storiografia, come chiarimento dei concetti direttivi dell'interpretazione storica. Egli non si limitò a questa definizione teoretica. Partendo da questo punto trattò la storiografia italiana del diciannovesimo secolo in un'opera in due volumi (Storia dellastoriografia italiana nel secolo XIX, 1921). Questa trattazione, vista dal C. stesso come riempimento di un vuoto del lavoro scientifico internazionale sulla storia della storiografia e, allo stesso tempo, come una specie di opera esemplare per la comprensione metodologica preliminare della filosofia e della storia, a cui egli aspirava, mostra come il C., nei suoi studi, non seguisse affatto solo una individuale necessità di conoscere, ma vedesse il suo lavoro in questo periodo in stretto rapporto con lo svolgimento culturale italiano ed europeo.

Lo scopo del C. era l'integrazione dell'Italia in uno sviluppo culturale ampliato ed intensificato anche da contributi italiani. Prova di questo impegno sono le sue stesse opere e la loro diffusione in Italia e all'estero, come pure gli studi e le edizioni, direttamente o indirettamente da lui stimolati in Italia, e la vasta eco nazionale e internazionale alla sua opera, documentata nelle bibliografie a nostra disposizione in modo imponente, ma malgrado ciò non ancora esauriente.

Con l'assunzione della filosofia a metodologia della storiografia, tutta la filosofia dello spirito si viene a trovare in stretto legame con la storiografia, ed implicazioni e conseguenze di ciò si mostrano sia nella filosofia, sia nella storiografia. La filosofia, designata come metodologia della storia, esce allo stesso modo sia dal suo angusto ambito, sia dalla sua restrizione alla discussione di singoli problemi fondamentali da parte di un gruppo circoscritto di filosofi: si apre piuttosto alla riflessione di tutti i fenomeni e resta aperta alla collaborazione di tutti gli uomini in quanto esseri pensanti. Essa non viene più intesa quasi fosse lo studio del rapporto con la trascendenza o con Dio, unica importante unità di fronte alla molteplicità priva di significato, ma afferma l'immanenza dello spirito nel dinamico avvicendarsi dei suoi distinti, unica realtà, che ripensa sempre nuovamente. Essa quindi non permette e non impone la conclusione di un sistema filosofico definitivo, ma si sviluppa continuamente man mano che il pensiero vien messo di fronte a nuovi problemi.

L'opera sistematica del C. fu quindi, allo stesso tempo, nuovo punto di partenza e punto di arrivo, espressione di un processo., sempre aperto e vigile, di pensiero e di creazione. La vitalità e la sicurezza del pensiero crociano, con queste basi, determinarono, fino nella forma, l'immensa produzione filosofica, storiografica e critica del suo successivo periodo creativo. Accanto alle più grandi e importanti opere storiche troviamo una serie di articoli, per lo più brevi, raccolti via via secondo il tema, in nuovi volumi di saggi, in cui vengono ripresi singoli problemi, accentuati secondo l'attualità certi argomenti, ricordate alcune conoscenze precedenti, o considerati aspetti della realtà che fino ad allora non erano stati presi in considerazione (fra l'altro Etica e politica, 1931; Ultimi saggi, 1935; La storia come pensiero e come azione, 1937; Il carattere della filosofia moderna, 1941; Discorsi di varia filosofia, 1945; Filosofia e storiografia, 1949; Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, 1952). Per il C., con queste peculiarità del suo pensiero e della sua opera, insostituibile e prezioso organo di pubblicazione fu, sin dal suo apparire nel 1901, la rivista La Critica, con il suo proseguimento dal 1945, i Quaderni della Critica. La presente esposizione deve limitarsi a mettere in rilievo singoli punti importanti della successiva produzione crociana, molto ramificata. In questo modo essa segue lo stile creativo del C., e trasmette così l'espressione più vera della sua vita e della sua creatività in questi anni.

Un pronunciato interesse politico si era mostrato nel C. solo per breve tempo, quando fece la conoscenza del socialismo e del marxismo. La nomina a senatore a vita del Regno d'Italia, avvenuta il 26genn. 1910, gli fu conferita per censo (art. 31, comma 21dello Statuto), e non ebbe quindi motivazioni specificamente politiche. Si può dunque dire che il contributo politico del C., nel primo decennio del Novecento, trovò la sua espressione principale nei lavori di filosofia e di critica letteraria. Poiché il C. vedeva attive, nell'errore, forze fondamentali pratiche, non si poteva limitare ad un'esposizione sistematica della verità da lui individuata, ma doveva sentirsi indotto ad opporsi concretamente all'errore. Inoltre egli era interessato a verificare la fecondità e capacità di conoscenza di istituzioni fondamentali, e semmai, secondo la fondamentale apertura del suo pensiero, a giungere a nuove conoscenze. Questo significò da una parte la polemica della filosofia idealistica dello spirito e il pensiero da essa stimolato contro il positivismo legato a posizioni superate (Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, 1914), dall'altra parte il dirigersi, nel contesto della analisi della letteratura contemporanea, contro tendenze generali che avevano espressione particolare nella letteratura., ma che si trovavano alla base di sbagliati sviluppi politici (La letteratura della nuova Italia, 1914-15). Decisione e chiarezza delle posizioni spirituali erano le principali esigenze del Croce, essendo queste il miglior presupposto per un dibattito che stimolasse la vita spirituale.

Il C. assunse una posizione polemica ben definita e netta anche riguardo alla prima guerra mondiale (L'Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, 1919). Al centro delle sue molteplici polemiche vi fu il tentativo di proteggere la sfera dello spirito e della cultura da strumentalizzazioni inammissibili nella contesa di popoli e Stati. Arte e filosofia non dovevano essere adoperati indebitamente come strumenti di lotta, anche se d'altra parte i cittadini dei diversi Stati in guerra avevano l'obbligo di mettersi interamente al servizio della patria, poiché la guerra era in quel momento la forma prevalente in cui avveniva lo scontro delle forze storiche.

La volontà del C. di ristabilire e affermare la coscienza dell'unità culturale di Europa, filo conduttore della maggior parte delle polemiche durante la guerra e della sua opera di ministro della Pubblica Istruzione nel 1921, trovò espressione simbolica nei suoi studi goethiani, elaborati nel 1917-18, e pubbl. nel 1918-19, che riguardavano il poeta apolitico, che sebbene, o appunto perché, appartenesse a una nazione nemica, divenne proprio nel periodo di guerra una lettura preferita, e come tale doveva essere fatto conoscere a un più largo pubblico (Goethe. Con una scelta delle liriche nuovamente tradotte, 1919).

Gli studi del C. su Goethe mostravano la sua tendenza a difendere la libera area della sua creatività spirituale dal troppo oppressivo incalzare della politica. Con l'avvento del fascismo egli fu messo dinanzi ad un nuovo compito propriamente politico, al quale non si sottrasse, e che invece fece diventare, fino alla caduta del fascismo e ancora dopo di essa, un efficace impulso per il suo pensiero e per il suo lavoro. L'unità di filosofia e storia, sistematicamente affermata, diventa in questo periodo per il C. anche vissuta realtà, allorché dibattiti filosofici, meditazioni storiografiche e storiche e una storiografia in grande stile si concatenano, si uniscono e si stimolano reciprocamente, e si illuminano, e con ciò danno prova imponente della vitalità e fertilità dei pensiero e della produzione crociani.

Le prime prese di posizione pubbliche del C. rispetto al fascismo nelle interviste degli anni 1923 e 1924 mostrano un giudizio positivo, poiché da questo ci si attendeva un ristabilimento di quella zutorità dello Stato che si era indebolita nel dopoguerra, e sembrava che esso producesse una politicizzazione di nuovi strati della popolazione (Pagine sparse, II, 1919). In questo giudizio il C. non si lasciò turbare dalla violazione delle forme politiche esistenti, come dalla pesante modifica del diritto di voto del 1921, convinto com'era, secondo la sua generale teoria della politica, che le forme politiche sono legate alla situazione (Elementi di politica, in Etica e politica, 1931). La loro conservazione in tempi normali, importante per il mantenimento della pace politica interna, doveva passare in secondo piano, ora che si trattava soprattutto di ridare una linea consistente alla vita politica, e questo era quello che il C. si aspettava in quel momento dal fascismo.

Dopo l'assassinio del deputato socialista Matteotti, l'atteggiamento del C. divenne evidentemente molto più critico; la sua affermazione che il fascismo non era in grado di creare qualcosa di fondamentalmente nuovo, veniva legata ora alla chiara richiesta che dovesse apportare un rinnovamento del regime liberale, nel senso di una più consapevole responsabilità, di una maggiore serietà politica e di un rafforzamento del potere dello Stato. Il fascismo fu così visto chiaramente come una forza politica il cui compito era in fondo quello di rivitalizzare e rafforzare la tradizione liberale italiana e non di eliminarla o di superarla. La posizione del C. di fronte al fascismo cambiò quindi fondamentalmente quando il comportamento di Mussolini agli inizi del 1925 gli mostrò chiaramente che il fascismo non aveva nessuna intenzione di inserirsi nella tradizione del liberalismo, ma era deciso ad affermare con la forza i suoi interessi di partito senza rispettare né diritto né legge.

In una protesta pubblica contro un manifesto profascista da parte degli intellettuali italiani agli intellettuali del mondoi il C. compì, nel 1925, in modo evidente e clamoroso, la sua svolta contro il fascismo.

Da allora il C. rese attiva la sua opposizione a vari livelli. Nell'ambito del partito liberale, egli sottolineò la necessità sempre più impellente, con l'avanzare delle forze fasciste antiliberali, del ritorno ad un regime liberale vero e proprio. Ancora nel 1929 portò in Senato la sua critica ad una legge contro la massoneria. come espressione di una più ampia legislazione antiliberale, che opprimeva proprio quello che nella vita moderna aveva acquistato sempre più spazio, il libero dispiegarsi delle concorrenti forze spirituali e politiche. In generale il C. giudicava la libertà come il principio evolutivo della storia, che porta al dispiegarsi delle attività umane, e che concorre con il loro confrontarsi alla continuazione e all'elevamento della vita, nella cui concreta conoscenza il pensiero filosofico-storico trova il suo massimo sviluppo contemporaneo (Elementi di politica, in Etica e politica, 1931; Il carattere della filosofia moderna, 1941). Ma la libertà era anche allo stesso tempo l'ideale morale più altamente impegnativo e superiore, fondamentalmente nemico di ogni principio autoritario e di ogni conseguente morale. Così la libertà era chiaramente contro l'assolutizzazione dello Stato, la cui realizzazione nel fascismo era dal C. respinta altrettanto come la sua motivazione teoretica nell'attualismo, che era rappresentato soprattutto da Giovanni Gentile, con il quale il C. ruppe ora i rapporti, dopo quasi trent'anni di intenso scambio spirituale, di lavoro in comune e di amicizia.

Della massima efficacia per la diffusione della posizione filosofico-storica fondamentale del C. e per la sua concreta attuazione nella ribellione spirituale al dispotismo fascista, furono le grandi opere di storia scritte negli anni dal 1924 al 1932 (Storia del Regno di Napoli, 1925; Storia dell'età barocca in Italia. Pensiero, poesia e letteratura, vita morale, 1929; Storia d'Italia dal 1871 al 1915, 1928; Storia d'Europa nel secolo decimonono, 1932). Tutte queste opere hanno l'impronta della consapevolezza del C. del significato delle forze morali e politiche dell'uomo, consapevolezza approfondita dapprima dall'esperienza della guerra e poi dal confronto con il fascismo. Esse rispecchiano la sua esigenza di una stonografia interiorizzata, che già negli anni Novanta era sorta in lui, e formano allo stesso tempo la sua risposta concreta e coerente ai fenomeni di decadenza che minacciavano lui e il suo mondo, ai quali egli cercava di opporsi nelle sue opere storiche con un'elaborazione delle linee di sviluppo positivamente creative della storia d'Italia e d'Europa più antica e più recente.

Il C., in queste opere, cercò di chiarire i fondamenti di una storiografia etico-politica, che gli sembrava ora la forma più alta e più ampia di trattazione, con l'individuazione delle forze che sostenevano lo sviluppo storico nella sua vera sostanza positiva, che cercò "in una fede attuosa nell'universale etico, in un'operosità nell'ideale e per l'ideale, comunque lo si concepisca e teorizzi". Già nella Storia del Regno di Napoli e nelle idee guida della Storia dell'età barocca in Italia, l'attenzione principale è diretta alle attività morali dell'uomo. Ogni uomo ha un compito specifico da assolvere, con riverenza per il tutto che sovrasta, ma anche con la responsabilità di ciò che da lui dipende, trovi o no altri che combattono con lui.

Il C. pone, nella Storia d'Italia e nella Storia d'Europa, al centro della trattazione, la libertà, come problema principale del pensiero storico e dell'azione morale, come richiesto dalla situazione del momento, e la designa "principio esplicativo del corso storico", e allo stesso tempo "ideale morale dell'umanità".

Da questa impostazione il C. traeva la giustificazione di aver messo al centro di ambedue le opere la trattazione della concreta realizzazione della libertà nel liberalismo, senza per questo esporsi al rimprovero di essere partitico. Al massimo ci si poteva chiedere se il liberalismo fosse la forma ancora valida per la realizzazione della libertà. La ragione principale per una risposta affermativa veniva data proprio dal fascismo, che con la sua unilaterale accentuazione della autorità, che degenerava fino all'uso stupido della violenza, e con il suo rifiuto di ogni forma liberale integrata in una lunga tradizione, significava una ricaduta nel passato, senza creare nuove forme della concreta realizzazione della libertà. Di fronte a questo, la difesa del principio della libertà poteva, anzi doveva assumere la forma della difesa del liberalismo, che - rispetto al fascismo - rappresentava senz'altro l'attuale e concreta realizzazione del progresso. In questo senso la Storiad'Italia costituì un apprezzamento del tutto positivo dell'opera del liberalismo nell'Italia unita, che solo nel rilassamento delle energie morali, esistenti realmente al suo centro, e nel fatto che era diventato routine, lasciava vedere i segni della decadenza, avvenuta più tardi, e che dopo la guerra, secondo il giudizio del C., aveva trovato la sua estrema espressione nel fascismo. Per l'Europa, l'analisi presentava situazioni simili: un confronto nell'insieme glorioso e fertile tra il liberalismo e le forze concorrenti, i cui effetti positivi poi, durante e dopo la guerra, vennero messi completamente in discussione per il fatto che il credo liberale, fino a quel momento vittorioso, perdette presa, per quanto concerneva forza di convinzione, su gruppi sempre più estesi della popolazione, e alla fine sembrò dei tutto sorpassato, mentre invece ad esso apparteneva il futuro. Per far rivivere la forza formativa della libertà, il C. vedeva come palcoscenico adatto una Europa unita, che i diversi nazionalismi dovevano sgombrare per fare spazio a un rinnovato spiegarsi dell'ideale della libertà.

Il C. continuò i suoi studi sulla teoria della storia, sulla storiografia e sulla politica, contemporaneamente alla sua attività politica e storiografica, anche se con diversa intensità. Negli anni tra il 1937 e il 1939 essi raggiunsero un nuovo apice (La storia come pensiero e come azione, 1937). Accanto alla ripresa di posizioni già precedentemente discusse sul carattere e sulla formazione della conoscenza storica, il C. qui si interessa con particolare attenzione al rapporto dei conoscere storico, giudizio ed esposizione storici, con l'azione economica o, meglio, politica e morale. Anche qui il C. seguì l'impeto che il suo pensiero ebbe sin dalla metà degli anni Venti, nell'opposizione al fascismo e al suo generale disprezzo e la sua repressione della libertà.

I problemi che il pensiero del C. cercava di chiarire da sempre nuovi punti di vista erano la distinzione e la connessione fra conoscenza storica e azione politico-morale, la determinazione della libertà nel suo generale carattere umano e nella sua storica realizzazione, e la motivazione del concreto pensiero morale e della azione in un mondo la cui immanenza e il cui perenne cambiamento, ambedue affermati decisamente dal C. come norme di base del suo storicismo assoluto, erano resi ancor più evidenti dalla scomparsa delle norme trascendenti ed eterne e dall'adattamento al corso dell'evoluzione. Il C. confermò nelle sue riflessioni sul rapporto e la stretta connessione, fra conoscere ed agire, e quindi fra giudizio storico e azione. Essi si presuppongono l'un l'altro: un bisogno della vita, e quindi dell'attività umana, con una distinzione veduta dal C. come ineliminabile, dà la spinta ad un atto spirituale, un giudizio, che per se stesso è un giudizio storico; questo giudizio è allo stesso tempo presupposto per una nuova attività umana quale che sia il campo nel quale si sviluppa.

Di qui l'osservazione del C. che il reciproco rapporto di conoscenza e azione è disconosciuto nell'attualismo, quando mette sullo stesso piano indistintamente conoscenza e azione. Il carattere di attività della conoscenza è usato così erroneamente per l'identificazione del pensiero e dell'azione, e toglie quindi all'azione la chiarificazione intellettuale che ad essa necessariamente segue, e allo stesso tempo anche la necessaria preparazione nella comprensione intellettuale e nella chiarificazione del presupposto dello sviluppo di nuove attività. La conoscenza nell'attualismo, di fronte all'azione, appare in generale come non importante. Se invece il giudizio storico accoglie in sé le attività compiute, opera, insieme alla conoscenza come preparazione dell'agire, anche la necessaria liberazione dell'azione da una qualsivoglia sopraffazione e paralisi da parte del passato, liberazione che non può avvenire in nessun altro modo.

Per il C. quindi la necessità del giudizio storico, e così della storia, si trova nella conoscenza di quello che è, e non nel concatenamento di anelli causali, come veniva affermato dal positivismo, né nella loro collocazione in un qualsiasi corso già predisposto dello sviluppo. Il C. rifiuta poi, anche esplicitamente, una storiografia psicologica, cioè una descrizione degli avvenimenti storici come conseguenza psichica di spinte esterne. Nella conoscenza storica viene piuttosto aperta la strada alle attività umane, che su essa poggiano. Il principio di queste attività, che si evolvono in un progresso infinito, è la libertà che trova in ciò il suo carattere eterno.

Il C. pone il liberalismo in funzione della realizzazione della libertà nel presente, e così fa anche con la forma economica che lo accompagna, e con l'ordinamento della proprietà del liberalismo economico capitalistico, che è in questo modo solo una condizione nel contesto d'ogni situazione storica, e non un necessario presupposto della libertà.

Era nella logica dello sviluppo del C. continuare a confrontarsi intellettualmente con il suo tempo fino alla morte. Le attività politiche, che il C. fu pronto ad intraprendere, nonostante fosse avanti negli anni, dopo la caduta di Mussolini nel 1943, furono piuttosto imposte dalle circostanze esterne e dal suo personale senso di responsabilità per una nuova, libera Italia. La sua partecipazione a due governi come ministro senza portafoglio e all'attività dell'Assemblea costituente, e la sua presidenza del Partito liberale italiano sono altrettante testimonianze significative di ciò, come le innumerevoli prese di posizione su problemi politici attuali, nei quali egli si impegnò per libere possibilità di formazione e di sviluppo dell'Italia liberata dal fascismo, il cui compito era, secondo il C., il superamento liberale dei suoi problemi politici, economici e sociali (Scrittie discorsi politici (1943-1947). 1963). Nel 1951, un anno prima della sua morte, dichiarava in linea di massima, ancora una volta, la sua posizione rispetto alla incessante attività della sua vita dedicata al proprio compito in ogni situazione politica: "Ma altri crede che in un tempo della vita questo pensiero della morte debba regolare quel che rimane della vita, che diventa così una preparazione alla morte. Ora, la vita intera è preparazione alla morte, e non c'è da fare altro sino alla fine che continuarla, attendendo con zelo e devozione a tutti i doveri che ci spettano. La morte sopravverrà a metterci in riposo, a toglierci dalle mani il compito a cui attendevamo; ma essa non puòfare altro che così interromperci, come noi non possiamo fare altro che lasciarci interrompere, perché in ozio stupido essa non ci può trovare" (Terze pagine sparse, I, Bari 1955, p. 119).

K. E. Lönne

Il primo scritto letterario del C. è del 1885 ed è dedicato a Gaspara Stampa (uscì sulla Rassegna degli interessi femminili di Roma, poi confluirà, nel '19, nella prima serie di Pagine sparse). È la fase dell'apprendistato erudito: il giovane C., trasferitosi a Roma e in seguito a Napoli, aveva iniziato a frequentare archivi e biblioteche con vivace curiosità soprattutto verso tutto quello che riguardava la storia della cultura e delle tradizioni napoletane. Sono gli anni in cui la "scuola storica" è egemone nel campo della letteratura e la ricerca dei documenti e delle fonti appare momento improrogabile per l'approccio ai testi e agli autori: è in questa temperie che il C. sviluppava uno straordinario bagaglio d'erudizione che costituirà la base di molti scritti, anche di anni successivi, dedicati a periodi ed episodi della storia partenopea, sicuramente fra i più utili, convincenti, stimolanti studi crociani. Al di là del contesto "positivo" da cui derivavano questi scritti pubblicati, per lo più, nell'Archivio storico per le provincie napoletane oin Napolinobilissima, periodicoa cui il C. aveva dato vita, nei '92, con l'amico erudito G. Ceci e S. Di Giacomo, e poi raccolti in volumi laterziani (Iteatri di Napoli, del '91, Storie eleggende napoletane, del '19, Uominie cose della vecchia Italia, del '27, ecc.) - emerge da essi una capacità d'indagine tesa alla ricostruzione d'ambiente, all'aneddotica vivace, al gusto narrativo per personaggi e vicende minori. Un rilievo particolare meritano poi i saggi, raccolti nel '16 col titolo La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, che costituiscono un importante esempio di storia di fenomeni culturali su basi erudito-filologiche, ed anche una testimonianza di quella profonda conoscenza della cultura spagnola che fa dei C. uno degli iniziatori, in Italia, degli studi ispanistici. La vastissima conoscenza di documenti, acquisita con una frequenza decennale di biblioteche, sorregge, in tutti questi scritti, il racconto brillante, l'annotazione di costume penetrante e partecipe. Anche i medaglioni di letterati meridionali, distribuiti in raccolte successive (dal citato Uomini e cose ad Aneddoti di varia letteratura [1942], a Varietàdistoria civile e letteraria [1949], sono caratterizzati da quell'acuto buon senso che permette al C. di porsi innanzi ai testi con la curiosità divertita del "conoscitore". Questo tipo di approccio, paradossalmente, si radica tanto nel gusto crociano da riaffiorare anche a notevole distanza di anni, aldilà di ogni teoresi filosofica. Se in questo periodo il C. segue i modelli di ricerca della scuola storica (quattro studi, pubblicati poi ne I teatri di Napoli, uscirono nel Giornale storico della letteratura italiana, nel 1890), ben presto si allontanerà dal metodo "positivo" per formulare un nuovo statuto scientifico della critica letteraria: questo mutamento di posizione è annunciato nel pamphlet del 1894, La critica letteraria: questioni teoriche (NapoliRoma, poi in Primi saggi, Bari 1918), in cui si afferma che la spiegazione "storica" del testo non esaurisce il giudizio estetico, il quale è l'unica forma esaustiva d'approccio alla letteratura; compito della critica sarà quello di scandire questo tipo di giudizio nell'"esposizione dell'opera letteraria, la sua descrizione, riproduzione o rappresentazione" (p. 87). Un appoggio teorico a tale ipotesi metodologica il C. lo individuò, qualche anno dopo - ma già nel pamphlet vi sono accenni in questo senso - nel recupero della lezione desanctisiana, che diverrà per il C. punto di riferimento costante di ogni indagine sulla letteratura. Tra il '97 e il '98 curò la pubblicazione, presso Morano di Napoli, della Letteratura italiana nel secolo XIX e due volumi di Scritti vari inediti o rari di De Sanctis. Nel '98 scrisse Francesco De Sanctis e i suoi critici recenti (poi in La letteratura dellanuova Italia, serie IV, 1915). Il rifiuto della "scuola storica" avviene in nome dei rifiuto dell'identificazione della storia col positivismo e dell'esigenza di una critica letteraria che nasca dalla fusione di "sentimento" e "gusto" e di idee "chiare e precise": dunque un'istanza razionalista che si coniughi con l'esperienza soggettiva del testo. È in tale prospettiva che è riletto De Sanctis, aldilà della tensione etica che anima le sue pagine e di cui il C. si propone come erede diretto: dalla matrice desanctisiana si elabora una sorta di concezione materialistica della storia culturale (nel '94. c'era stato, tramite il Labriola, l'incontro del C. col marxismo, da cui successivamente si allontanerà); si afferma l'autonomia della forma artistica rispetto alle altre forme di conoscenza e d'espressione. Il C. decreta l'esigenza di un realismo inteso come didattica progressiva della realtà; elabora un'idea di storia "interna" della letteratura, storia delle sue forme specifiche. Questa la lezione desanctisiana che sarà ripresa e definita, a più riprese in scritti successivi, negli ultimi anni del secolo come correttivo dell'idea crociana di letteratura, spingendola ad abbandonare la fiducia nei dati "obiettivi" dell'erudizione e a progettare un disegno più vasto dei problemi artistici che giustifichi teoricamente quel "gusto" letterario già, come si è detto, postulato.

Se consideriamo d'altronde la revisione che, in fin di secolo, il C. andava facendo della propria concezione della storia e della filosofia, l'Esteticacome scienza dell'espressione e linguistica generale (Palermo 1902, ma già conferenza del 1900) si pone come crocevia teorico da cui si irradiano effetti categoriali che riguardano vari settori speculativi, esiti metodologici che andranno a condizionare (essendone condizionati) il "gusto" critico. Nell'Avvertenza all'edizione laterziana del 1922 (la quinta), il C. richiama due svolgimenti essenziali del suo scritto d'inizio secolo: il carattere intuitivo e il carattere universale dell'espressione estetica.

Sono questi due caratteri esattamente quelli che troveremo calati nell'esperienza letteraria, nello sforzo, non sempre convincente, di ricavare da essi categorie d'analisi esaustive. Partendo dalla contrapposizione di conoscenza logica ed intuitiva ed affidando la prima alla filosofia, il C. indica nella seconda un modo di conoscere i fenomeni nella loro fisionomia individuale. Correlata agli altri gradi dello spirito (filosofia, economia, morale) ma autonoma nel dispiegarsi del suo agire, l'intuizione estetica è caratterizzata dalla non divisibilità dell'espressione che la formalizza; anzi non è nemmeno possibile distinguere tra espressione ed intuizione in quanto si identificano. Se il linguaggio non è pensabile come sistema strutturato aldilà dell'atto linguistico individuale, contingente e non modellizzabile, l'espressione estetica per il C. non potrà essere una funzione del linguaggio ma un suo modo d'essere, al massimo livello di realizzazione, forma perfetta che sancisce il vero estetico, "rappresentazione" di quel fascio di sensazioni che costituisce l'intuizione. Questa concezione dell'arte come conoscenza intuitiva si radicalizza nella conferenza di Heidelberg del 1908 (Problemi d'estetica, 1909), in cui si afferma che l'espressione è l'attualità dell'intuizione che è "sentimento" degli oggetti (scompare così la propedeuticità della sensazione) e si individua il luogo germinale dell'opera d'arte nella personalità non empirica, ma "spontanea ed ideale" dell'artista (pp. 16 ss.). L'arte come conoscenza del mondo supera il dualismo metafisico spirito-materia, perché è conoscenza delle forze dinamiche del reale e non dell'inerte.

In direzione di una simile teoria estetica, il C. era andato via via muovendo in alcuni saggi pubblicati a cavallo del secolo. Anteriori al 1900 sono quelli che andranno a comporre i Saggi sulla letteratura italiana del '600 (Bari 1911). D'impianto ancora sostanzialmente erudito, con privilegio dell'area napoletana, delineano una storia della cultura attraverso alcune forme artistiche dominanti, alcuni "caratteri dell'epoca". Se il "secentismo" è letto come sostanziale scissione tra forma e contenuto e privilegio di un lavoro sulla prima, la matrice desanctisiana dell'analisi è ancora più evidente nella valorizzazione degli elementi di cultura "popolare", legati alla tradizione e allo "spirito" locale (Basile, il teatro, il grottesco).

Importante è anche la definizione di altri temi formali come lo spagnolismo, il sensualismo, il concettismo, che indica già un modo di organizzare in "storia d'epoca" (il C. parlerà di "media della vita spirituale di un tempo" nei Nuovi saggi sulla letteratura italiana del '600 del '29) i dati della ricerca erudita. Ma aldilà della storia della cultura, la definizione di espressione artistica come intuizione aveva comportato, nell'estetica di Heidelberg, una distinzione tra poeti, letterati e produttori di letteratura (Problemi di estetica, p. 104), cioè tra varie forme e vari livelli di attività letteraria. Se l'espressione estetica è atto individuale, metastorico, non riducibile a generi, a forme retoriche, perché espressione indivisibile ed ogni articolazione è esterna ad essa; se compito della critica è l'approccio all'opera d'arte in sé, nella globalità dei suoi elementi (e il distinguo delle parti appartiene ad un successivo momento didascalico), l'unica storia letteraria possibile è il riconoscimento dell'intuizione lirica all'interno del continuum indistinto della produzione letteraria.

Nel 1902, l'idea di una rivista di letteratura "militante" risponde a due esigenze: calare nella "pratica" la teoria dell'arte con possibili assestamenti, sia per le categorie interpretative sia per le tradizionali categorie della storiografia letteraria italiana; rendere agibili come strumenti di battaglia culturale e ideologica, nel contemporaneo, i principi letterari ed estetici fino a quel momento formulati. Il programma de La Critica, pubblicata a Bari dal 1903 fino al 1944 (a cui seguiranno, dal 1945, i fascicoli quadrimestrali dei Quaderni della Critica), propone un innesto del piano speculativo su quello storico-filologico allora vigente. Nell'assunto di un'uscita dal tecnicismo analitico per una problematica generale, il C., che subito si pone come "autore unico" della rivista (lettera a Vossler del 20 giugno 1902), indica i propri obiettivi polemici in coloro che intendono prescindere dalla "storia delle idee" o dal pensiero filosofico, nelle correnti "mistico-reazionarie o gesuitico-volterriane", nella pseudo arte modernista.

Dunque una strategia culturale che diffondesse la nuova teoresi: una verifica delle possibilità egemoniche del nuovo modello di cultura e appoggio di tale egemonia ad una revisione "tendenziosa" della tradizione. Occorre, scrisse ancora il C. nel programma, "preparare materiale e tentare un primo schema della storia dell'operosità letteraria e scientifica italiana dell'ultimo mezzo secolo" (Conversazioni critiche, II, 1918). Così, parallelamente al progetto di Giovanni Gentile che, sullo stesso periodico, intraprese una lettura dei filosofi italiani dell'ultimo secolo, il C. iniziò una serie di ritratti di scrittori italiani postunitari, attraverso cui organizzare - senza però mai cedere al raccordo "storicista" - un panorama della cultura letteraria che accompagna la fine del secolo e i primi dei Novecento. La tecnica del medaglione, ipotesi di un'analisi dello scrittore capace di fissarlo in una sua immagine specifica, permette al C. di esibire quegli intenti definitori che. quanto più appaiono perentori e, a volte, inarticolati, tanto più rivendicano autorevolezza.Questa serie di articoli de La Critica, apparsi tutti tra il 1903 e il 1911, furono successivamente ripubblicati nelle prime quattro serie della Letteratura della nuova Italia (edite tra il 1914 e il '15). Accanto agli scritti desanctisiani di cui si è detto ed a ritratti di Prati, Guerrazzi, Boito, Camerana - che, con valutazioni differenti, vanno a comporre un modello di attività letteraria "media" - il C. prende, nella prima, posizione sul problema della lingua, rileggendolo a partire dalle tesi manzoniane. Se l'idea di una parlata fiorentina quale koiné letteraria esprimeva l'esigenza di sottrarsi al tradizionale elitarismo della lingua degli scrittori italiani, il C. rifiuta il modo stesso di porre il problema, ribadendo la centralità del rapporto espressione-intuizione.

Anche nei saggi successivi de La Critica, la griglia della teoria estetica attua una rigida selezione. Il giudizio su Verga è in fondo riduttivo, aldilà degli elogi che gli sono tributati: dalla mancanza di realizzazione espressiva nei romanzi giovanili al verismo come formula parziale e quindi erronea della filosofia dell'arte, che può avere però importanza in una prospettiva di storia della cultura. D'altra parte il verismo, come modello espressivo, è utile per riordinare la materia fantastica, per realizzare l'intuizione. Ancora nell'esperienza verista, il C. sottolinea una presenza desanctisiana (l'afferma in un saggio su Capuana) che porta alla concretezza dell'approccio al testo e al rifiuto di qualsiasi principio di eteronomia dell'arte. E una lezione di saggio empirismo - teorico e critico - che poi il C. stesso mutuava da De Sanctis per la propria opera. Altri scritti sono dedicati a De Marchi, Rovetta, Dossi (di cui il C. coglie efficacemente il tentativo di proporre col linguaggio bizzarro una sorta di lingua interiore), a Oriani, una delle più decise rivalutazioni crociane, con l'esaltazione dei molteplici interessi filosofici che circolano nella sua arte "speculativa".

Poi il C. interviene sui metodi critici: difende gli studi filologici, ma rifiuta la meccanicità della "critica delle fonti" di Francesco D'Ovidio. Nella quarta serie della Letteratura della nuova Italia i saggi centrali sono quelli dedicati a D'Annunzio, Fogazzaro, Pascoli e Carducci. In Di un carattere della più recente letteratura italiana, il C. distingue due periodi storici a cui corrispondono due linee culturali: il ventennio 1865-85 è dominato dal magistero di Carducci e vede svolgersi, sotto la sua influenza, il verismo, e il positivismo e la scuola storica. Il periodo dal l'85 in poi, è caratterizzato da autori come Pascoli, Fogazzaro, D'Annunzio, da cui deriva una cultura decadente estetizzante, misticheggiante, imperialista. Passare da Carducci ad un autore dell'altra linea è come passare da un sano ad un malato di nervi. A Pascoli sono poi dedicate pagine fortemente riduttive che leggono la poesia pascoliana nella scissione irrisolta tra tecnica e liricità, senso e retorica. È evidente come in questa fase il C. vada ponendo una radicale discriminante di "gusto" letterario. Contro la letteratura della parola, della crisi dell'individuo, della conoscenza mediata e simbolica, una letteratura del soggetto pieno, della storia progressiva, della parola forte, che non allude ma si pone direttamerite come sola presenza del bello, del vero. A questa idea di unicità, il C. si richiama in un saggio cronologicamente contiguo, raccolto nel secondo volume di Conversazioni critiche (1918).

Se l'esperienza estetica è unica ed individuale, ogni criterio storiografico che non sia di pura riflessione estetica risulterà arbitrario: uno degli esempi più clamorosi di questo arbitrio è additato nelle storie per generi letterari. Questa polemica contro i generi è uno dei momenti più noti ed importanti della revisione crociana dei canoni letterari contemporanei. Se ricordiamo che l'inizio del secolo aveva visto concludersi la pubblicazione della popolare storia letteraria per generi della Vallardi, l'obiettivo polemico del C. è nella parcellizzazione delle forme artistiche, giustificata dalla ricostruzione storica delle stesse. La critica invece va posta come "filosofia della fantasia". In realtà proprio a questo punto va collocato il décalage tra teoria estetica e gusto critico che pone forti limiti all'attività di lettore del C. e che fece scrivere a Serra: "molti saggi si direbbero scritti da uno che non ha letto l'Estetica. Sono saggi di moralità e di psicologia letteraria che guardano, più che all'artista, all'uomo e al contenuto dell'opera" (Scrittiletterari, morali, e politici, Torino 1974, p. 457). È esemplare in questo senso il saggio sullo Stilnovo (Conversazioni critiche, II): recensendo un libro di Vossler sul tema, il C. propone una lettura di questa scuola poetica tutta in chiave filosofica, individuandone le articolazioni nello svolgimento concettuale. Vicino a questo scritto è il Breviario d'estetica del '12 (poi raccolto in Nuovisaggi di estetica del '20).

L'affermazione della liricità dell'arte si coniuga al porsi dell'opera come "perfetta forma fantastica" (p. 27): l'assoluto è calato nella circolarità dei quattro gradi dello spirito. L'unica distinzione possibile è allora quella tra liricità ed espressione non lirica, poesia e "arte", essenza ed artificio. Il critico è philosophus additus artifici (in risposta all'artifex additus artifici di Angelo Conti) e gli è precluso ogni disegno storiografico che non sia quello di una storiografia di individui (come in De Sanctis): la conoscenza vera non è conoscenza per cause ma per fini. Ugualmente al philosophus dovrà essere estranea ogni definizione tecnico-formale del testo perché privilegierebbe un momento intenzionale, nell'autore, rispetto a quello fantastico. In questo momento va ulteriormente accentuandosi la chiusura dello spazio dei giudizio critico: la base teorica della totalità e dell'unitarietà dell'intuizione estetica implica la soggezione dei lettore al semplice problema della individuazione dell'espressione lirica. Una volta compiuta questa individuazione - ed espresso il giudizio di valore - altro il critico non può fare, passando da un livello teorico ad uno empirico, che parafrasare il testo in base a quell' "oratoria del gusto", che è "una risonanza o assonanza morale con la poesia" (L. Russo, La criticaletterariacontemporanea, Firenze1967, p. 133). Ma se, a volte, "la paura di uscire dall'estetica dell'intuizione lo [il C.] fa rimanere estraneo alla personalità di cui si tratta" (G. Prezzolini, B. C., Napoli 1909, p. 61), altre volte un limite della lettura crociana è nell'uso monodico della chiave psicologica come interpretazione del testo.

La psicologia, in quest'ottica, è un modello interpretativo che abolisce ogni rilievo formale, privilegiando il piano del contenuto, del plot, esito paradossale per un'estetica dell'espressione. Questa sfasatura della critica del C., derivata dal connubio tra educazione erudita e spiritualismo idealistico-umanistico, comporta due conseguenze: da un lato offre, all'esterno, strumenti di rapida appropriazione del testo, dietro l'alibi teorico di una lettura di "buon senso". Dall'altro promuove una dinamica della speculazione crociana in direzione di un progressivo adattamento dei due livelli, la teoria estetica aprendosi ad una giustificazione "scientifica" delle tecniche letterarie, e la critica testuale mostrandosi più sensibile ad annotazioni di linguaggio.

Ma forse è da accreditare alla monoliticità del metodo dispiegato nei saggi del primo decennio de LaCritica, il grande impatto che essa ebbe sul mondo culturale: la rivista divenne immediatamente un punto di riferimento per il dibattito critico e il C. è arbitro del formarsi del (buono e comune) "gusto" letterario. Garin scrisse che "il capolavoro di Croce è 'La Critica', ove l'unità di un'immensa ricerca non è un'architettura simmetrica, ma la coscienza di un metodo e la presenza di un uomo" (Cronache di filosofiaitaliana, I, Bari 1966, p. 234). E naturalmente la ricerca di un intervento che investa globalmente la cultura letteraria non poteva prescindere da un grande programma editoriale.

Un piccolo e attivo editore barese, Laterza (editore anche di tutti gli scritti del C.), è l'occasione su cui il C. punta per la propria strategia: sul Giornale d'Italia del 26 sett. 1909, il C. annuncia il catalogo de Gli scrittori d'Italia, progetto d'edizione dei maggiori autori della tradizione italiana. Un catalogo quello laterziano, a numero chiuso - parallelo ad un altro che Giovanni Gentile andava approntando per gli scritti filosofici - costruito per porsi come base filologica della lettura che la critica crociana andava effettuando della nostra letteratura.

Ma la "revisione" del C., forte del carattere enciclopedico che la tradizione erudita gli assicurava, anzi valorizzata proprio dal porsi come modello letterario "generale", non rimaneva certo nell'ambito della letteratura italiana. La comparatistica era un altro piano di intervento sulla tradizione: ancora una volta quella della scuola storica che riconduceva al problema delle fonti i confronti tra letterature straniere.

Il C., muovendo dall'individuazione della espressione estetica, la pone come livello di contiguità tra autori e letterature diverse. È del '19 il volume dedicato a Goethe con una scelta di liriche nuovamente tradotte: la singolarità e l'autonomia dell'esperienza poetica è al centro della lettura goethiana. La lingua come manifestazione del soggetto poetico pone un'esperienza, di cui è possibile solo ricostruire storicamente la genesi. Del Faust il C. esalta la "vigorosa saggezza", la carica di "fantasia arcaicizzante" derivata da elementi popolareschi e risponde all'idea vichiana della poesia come forma espressiva della giovinezza dei popoli che il C. aveva fatto sua, inserendola nel proprio complesso quadro teoretico (La filosofia di Giambattista Vico è dell'11). Nel Goethe, di cui non va dimenticata la portata polemica dato che fu scritto in anni di ostilità per la Germania, a ribadire l'autonomia sovranazionale della poesia, si annuncia un ruolo specifico per la critica letteraria italiana (specificità più volte successivamente riaffermata): se quella tedesca è legata all'identità tra le intenzioni del poeta e la sua poesia, quella italiana distingue nettamente quest'ultima, facendone il proprio oggetto centrale.

Nello stesso anno appaiono i saggi desanctisiani, assieme ad alcuni saggi eruditi, nella raccolta Una famiglia di patrioti. La similarità dell'idea di forma di De Sanctis e di espressione poetica del C. è sottolineata assieme a quella della distinzione, presente in entrambi, tra "artista" e "poeta". Questa distinzione pone una maggiore articolazione nel rapporto tra autore ed espressione, rispetto a quanto formulato in sede teorica: ed è in questa prospettiva che andrà evolvendo il pensiero crociano. L'idea dell'universalità ed unitarietà del fatto estetico - già nel Breviario d'estetica del '12 - trova la sua applicazione più nota e significativa nel saggio sull'Ariosto, primo della trilogia di "comparatistica", assieme a Corneille e Shakespeare, pubblicata nel 1920.

Fulcro della poesia ariostesca è l'"armonia": "L'Arte nella sua idea non è altro che espressione o rappresentazione del reale, del reale che è contrasto e lotta che in perpetuo si compongono" (p. 23). E la distinzione, già ripresa, come si è detto, dal De Sanctis, tra poeti e artisti, è riformulata come differenza tra chi ha per progetto l'armonia e chi ha altri parziali affetti. Dunque l'armonia come distanza dai sentimenti e dalle cose e fusione di tutto nella forma estetica: il modello armonico, ridefinizione dell'espressione lirico-intuitiva, si pone come sistema linguistico perfetto. In Shakespeare invece la dinamica degli affetti, nell'espressione estetica, si pone con tutta la complessità delle vicende umane ("il mondo dei contrasti insoluti"). Anche qui la chiave critica è tutta nella sintesi narrativa che il C. dà dei testi, ruotante su alcuni eventi centrali, sentimentali o reali. L'intuizione lirica, che si riconosce come unica categoria di giudizio, in sede analitica si riduce ad efficace descrizione di sentimenti e di caratteri, con attenzione a volte all'organicità strutturale dell'opera (si vedano le singolari pagine in Nuovi saggidiestetica, del '20, dedicate alla teoria pittorica della "macchia" d'Imbriani), ma per lo più al solo livello di contenuto, sia pure di forma dei contenuto (in termini hjemsleviani). Il giudizio critico deriva allora da un'ambigua proiezione del testo di parafrasi sul testo parafrasato: il secondo è riconosciuto dal primo come compiuto ed irripetibile ed il primo trova a sua volta senso e valore nel norsi come ricomposizione, celebrativa, dei nodi narrativi di maggior rilievo. Anche il saggio dedicato a Corneille è costruito su questo schema: la "tragedia della volontà" è un nucleo ternatico che, dal piano dei significato, si pone come motivo attorno a cui l'opera si organizza, senza alcuna mediazione formale.

Ma la realizzazione più completa di un simile metodo critico è presente ne La poesia di Dante, ancora del 1920. Se la critica è "una varia interpretazione filosofica e pratica" del testo (p. 8) e se il sistema allegorico è la cornice connettiva che il pensiero costruisce attorno al nucleo poetico, è possibile individuare l'arte di Dante solo distinguendone il "centro" estetico dalle sovrastrutture.

Il peso dottrinario della didascalia o si scioglie nell'espressione poetica o si pone quale parte a sé, distinta: sono proprio questi luoghi del testo, nati con finalità pratiche, a porsi come "struttura" del poema, collegando i luoghi della vera "poesia". La tensione al "divino e inattingibile", che è il senso dell'intero poema, si spezza nei dettagli del "romanzo teologico" (descrizioni storiche, geografiche, astronomiche): il rapporto tra poesia e romanzo è quello tra l'espressione estetica e quella storico-scientifica in cui si consuma l'aspirazione alla conoscenza totale. La chiave del poema è, ancora una volta, nel disegno dei personaggi: il testo critico, al solito, si struttura sul riassunto emozionato delle psicologie descritte. La sfasatura tra il massimo valore riconosciuto al testo e ciò che di esso viene evidenziato come "notabile" diviene ancora maggiore. A ribadire l'assunto metodologico dei saggi danteschi, un volume di due anni successivo ha titolo Poesia e non poesia. È in qualche modo una ripresa dello schema della Letteratura della nuova Italia. Se in questa era stato delineato un disegno, per artisti, della letteratura italiana postunitaria, ora il panorama abbraccia l'intera Europa. La prospettiva, rigida e rassicurante, è sempre quella data dall'individuazione dell'espressione poetica: e di molti scrittori si dà un giudizio riduttivo per il peso del momento intellettuale o didascalico su quello genuinamente lirico. Così da Alfieri a Schiller, da un certo Leopardi a Manzoni, da Flaubert a Baudelaire, a Mallarmé.

Proprio a partire dal 1920, che vedeva rafforzarsi e radicalizzorsi l'arbitrato crociano sulla letteratura e la nascita di un gusto estetico antintellettualistico, possiamo datare una diversa e più ricca articolazione della teoresi crociana, un'attenzione meno rigida e pregiudiziale per la varietà delle pratiche artistiche. E certo non furono estranei gli avvenimenti storico-politici a questo maggiore "realismo" culturale se, durante il ventennio fascista, il C. si impegnò in un lavoro di recupero di alcuni valori della tradizione storiografica italiana. La "storia delle età" è il nuovo capitolo per la critica crociana: il veto che l'estetica della "poesia" poneva sulla valorizzazione dei processi storicoculturali, cade nella proposta di una storia del gusto, impoetica ma capace di testimoniare su quell'"addestramento" letterario che alcune epoche promuovono. Tutta in questo senso dunque la Storia dell'età barocca in Italia (1929) e i Nuovi saggi sulla letteratura italiana del '600 (1931). È evidente però come il recupero di una possibile dimensione diacronica permanga filtrato dal dato tematico, contenutistico: la storia delle "forme" estetiche è, ancora, storia dei contenuti.

Questa ricerca di motivi strutturali in cui si articoli l'intuizione lirica è presente, sotterraneamente, nell'Aestethica in nuce del '29. Se vi si ribadisce la centralità del giudizio estetico come'unico, vero giudizio storico per l'opera d'arte e gli si attribuisce una dimensione morale, d'altra parte si riconosce l'esistenza di un lato empirico. ineliminabile, dell'opera d'arte. là il lavoro della comunicazione, ossia della conservazione e divulgazione, delle forme artistiche, che, guidato dalla tecnica, produce le opere d'arte. Questo riconoscimento della tecnica come "riproduzione" della poesia innesta nella monoliticità del pensiero estetico crociano un livello di empiria sul quale è ora possibile, ad esempio, anche una rilettura dei generi letterari (prima radicalmente rifiutati) non come leggi estetiche, ma come concetti classificatori.

Sottesa da un pensiero estetico più articolato, Poesia popolare e poesia d'arte (del '33) sembra muovere da un'accezione vichiana dell'espressione poetica per approdare a connotare la "poesia popolare" di un "buon senso" che, derivato da specifiche condizioni sociali, si pone come categoria estetico-spirituale. La distinzione con la poesia d'arte è nettamente psicologica: è diverso l'atteggiamento dello scrittore nei confronti della propria opera, al gusto "semplice" si oppone un gusto intellettuale meno spontaneo e diretto.

In questo disegno allora il petrarchismo diviene "letteratura", "espressione" che però non raggiunge l'universalità dell'intuizione lirica; andrà di conseguenza interpretato tutto in chiave concettuale-filosofica (evidenziandone i rapporti col platonismo), col privilegio del livello referenziale del testo. Ed una possibile categorizzazione dei petrarchismo cinquecentesco diviene quella per caratteri psicologici, che si proiettano direttamente dall'autore al piano testuale: Tansillo è il "discorsivo", la Stampa l'"appassionata", Galeazzo di Tarsia, l'"animoso". Il linguaggio poetico ammette ora quindi una scansione, ma solo a partire da una tipizzazione dello stile, cioè da un segno del soggetto che scrive.

Nel 1935, La poesia sancisce il definitivo assestamento della teoria estetica: è da ricordare come il C. stesso considerasse superata l'Estetica del 1902, tanto da inserire, nell'antologia che egli stesso curò nel '51 per la Ricciardi (Filosofia, poesia, storia), solo pagine di scritti estetici successivi al '12.

La poesia si pone come sintesi di tutte le correzioni che la pratica critica aveva apportato alla rigida griglia analitica degli scritti letterari precedenti il 1920. Accanto all'espressione poetica si danno vari altri modi di espressione. La circolarità dello spirito è colta nelle quattro forme dell'"espressione sentimentale", "poetica", "prosastica", "retorica". Attorno ad esse si dispiegano i "dominii della letteratura": letteratura sentimentale, d'esortazione morale, d'intrattenimento, didascalica. Quando queste forme si fondono nell'espressione lirica, perdendo la loro specifica finalità, si dà la poesia; rispetto ad essa. il brutto nasce dall'"interferenza della volontà che prosegue i suoi pratici fini entro il processo del 12 formazione artistica" (p. 66).

Ultima sintesi del pensiero estetico crociano, La poesia ne è il frutto più maturo e duttile: proprio nell'accoglimento di alcune esigenze della pratica artistica, ribadisce la tensione di tutta la speculazione del C. a porsi come fondazione di un nuovo sapere; ed anzi il perfezionamento di una griglia di giudizio, con articolazioni più accorte, permette il rafforzamento del valore centrale della poesia e della lettura critica capace di individuarla.

E non a caso il C. decide di raccogliere in questi anni gli ultimi saggi per la Letteratura della nuova Italia apparsi su La Critica (sono edite due nuove serie, nel '39 e nel '40). Ritornando ad esaminare scrittori d'età umbertina che non erano entrati nelle prime raccolte o rileggendo autori come Pascoli e D'Annunzio, su cui erano già stati espressi giudizi negativi, il tono diviene meno polemico, più duttile.In Poesia antica e moderna, del 1941, la prospettiva si allarga, esteddendosi ad esperienze straniere o a poeti del passato. Ancora una volta il valore estetico è "rappresentato" nella parafrasi dei testo, da Omero a Dante, a Tasso. E a proposito della Gerusalemme, il C. scrive: "Ho dato rilievo all'intrinseco carattere umano della poetica conversione di Clorinda perché superflui non mi paiono ancora gli avvertimenti e gli ammonimenti a non trattare i poeti come rappresentanti di religioni, di sistemi, di età storiche e simili, laddove essi sono rappresentanti unicamente della poesia" (p. 241).

Nella riedizione del 1943 della seconda serie della Letteratura della nuova Italia sono raccolti saggi carducciani risalenti agli anni immediatamente precedenti. La centralità che il C. attribuisce a Carducci fra i valori della nostra tradizione, esaltandone come abbiamo visto l'opposizione ad una linea decadente simbolista, da un lato rimanda all'interpretazione vichiana della poesia, dall'altro testimonia l'adesione personale del C. ad un modello di intellettuale "positivo": Carducci "fu più che poeta: e questo ci tocca come uomini del sentimento ed in particolare italiani, ammonendoci del dovere ripigliare e proseguire la sua virile aspirazione alla vita" (p. 114).

In Poeti e scrittori del pieno e tardo Rinascimento, del '45, invece la prospettiva dell'indagine, per così dire si abbassa; un ritratto d'epoca, condotto nei suoi autori più significativi, per integrare la prospettiva storiografica - nell'accezione crociana - di Poesia popolare e poesia d'arte. D'impostazione desanctisiana - il dissidio tra arte rinascimentale e situazione politica italiana segna l'inizio della crisi storico-culturale degli anni seguenti - fa emergere via via, nella cultura cinquecentesca una tendenza di pensiero laico che attraversa con impegno i due secoli successivi per essere riaffermata da Vico e riorganizzata nel pensiero liberale ottocentesco.

Al trionfo di una "religiosità" estetica - quale emergeva già nel saggio ariostesco del 120 - corrisponde un senso laico ed umanistico della storia che corre nei sentimenti delle commedie cinquecentesche, dell'Arcadia sannazzariana, nel realismo folenghiano. Ed a questo livello di lettura anche i testi di poetica, pur nei limiti del precettismo, si pongono come utile difesa dell'ideale della bellezza come "verità". Aldilà del giudizio sui singoli autori, strutturati nell'alveo della teoria dell'intuizione lirica, quello che fa di questa serie di saggi, una delle raccolte più mature ed articolate della critica crociana, è il fondersi delle due tensioni. Da un lato la ricerca del valore poetico assoluto, ma storicizzabile per scansioni interne; dall'altro la sensibilità alla ricostruzione erudita di quadri d'epoca, attraverso cui è possibile recuperare il gusto all'aneddotica, ed al bozzetto di costume che aveva caratterizzato, in gioventù, l'approccio crociano alla letteratura.

Questa rinnovata formula storiografica porta ora il C. a rileggere in prospettiva meno rigida fenomeni di "scuola" letteraria; nella Letteratura italiana del '700 (del '49)., l'Arcadia, ad esempio, è letta come rivalutazione del sentimento e del gusto poetico individuale, capace, attraverso un esercizio travestito da puro gioco e passatempo, di raggiungere reali forme d'arte. In Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e la critica della poesia (del 1950). il C. raccoglie alcuni scritti nati dalle polemiche suscitate dalle sue teorizzazioni: vi ritroviamo, in sintesi, alcuni luoghi principali del pensiero crociano.

Da una difesa della propria lettura dantesca al problema dell'interpretazione della poesia: contro l'opposizione di simbolo e allegoria (teorizzata dal Bezzola), il C. afferma il "simbolico" come condizione della poesia (e la malinconia di questa deriverebbe dalla tensione all'ideale cui si accompagna il contemptus mundi): il simbolo però va inteso come presenza dell'universale nella forma poetica, che deve poter essere fruita in totale autonomia. Poi, a proposito della specificità della storia letteraria, si ribadisce l'esemplarità del modello desanctisiano che sottomette sintesi monografiche a grandi sintesi storiche., mantenendo così l'identità della singola esperienza estetica. Questa idea di singolarità ed unità è riaffermata anche a proposito del linguaggio: l'unica realtà linguistica è il vivo parlare ed è quindi inaccettabile sia la teoria di un sistema (langue) saussuriano, sia approcci specifici alla linguistica di un testo quali, ad esempio, quelli della critica stilistica. Assimilata al decadentismo, questa è accusata di "rompere l'unità spirituale" dell'opera. Infine la raccolta è chiusa dallo scritto contro la letteratura contemporanea: di fronte alla grande tradizione letteraria, gli autori contemporanei appaiono all'anziano C., che pure in passato aveva mostrato, ad esempio, simpatia verso le intemperanti impazienze dei giovani papiniani del Leonardo (Conversazioni critiche, II), ma che ormai è abituato ad un magistero esercitato attraverso la lettura dei classici, come esponenti di un mondo piccolo e chiuso, che sfugge al principio d'ordine dei valori poetici: "il demimonde, la società equivoca, soverchia le monde, il vero mondo, cioè la piccola società eletta".

Contini definì il C. "un sommo atleta della cultura", Labriola "un Lewiathan dello scibile", Gramsci, "l'ultimo uomo del Rinascimento". L'aggettivazione dei lettori del C., dei più diversi, mostra la tendenza ad un registro alto, alla definizione iperbolica: e ciò anche nelle pagine più ferocemente anticrociane, quali, ad esempio, quelle che riportano i giudizi di Lucini e di Campana. È un indice della portata storica per la letteratura italiana - e non solo per essa naturalmente - del fenomeno C.: del suo porsi in un momento nodale della nostra storia intellettuale, i primi quarant'anni del secolo, come arbitro intransigente, che lascia filtrare, nella cultura italiana, solo alcune tematiche del dibattito contemporaneo. Trattenendo, nella propria "griglia", quanto di quel dibattito non sembrasse omologabile alla cultura di un ceto laico medio-alto borghese che tendenzialmente, dall'Italia giolittiana, doveva esprimere la continuità di una società liberal-moderata, organicamente attestata attorno ad un proprio modello culturale.

Ma l'impronta che diede il C. fu un'impronta che tagliò radicalmente i ponti della cultura italiana con i grandi temi novecenteschi della cultura europea: come d'altronde per il dibattito sui problemi del linguaggio, in cui il C. rimase ben distante dalla tematica dello strutturalismo linguistico e delle sue discendenze formalistico-letterarie, tutta la problematica della letteratura europea della "crisi" rimase pressoché estranea, anche negli ultimi anni della produzione crociana, ad un magistero letterario che non cessava di eseicitarsi sui temi privilegiati di una tradizione "umanistica", non priva di provincialismo nelle sue scelte più specificamente letterarie.

Da un lato il C. recuperò come "senso" della tradizione italiana un umanesimo laico e individualista che via via si definì come il più alto ed efficace livello d'integrazione dei diversi fenomeni che la nostra storia intellettuale avesse progressivamente registrato. Dall'altro, ponendosi ad una ipotetica confluenza tra i due piani della tradizione culturale, l'aristocrafico e il popolare, riuscì a dar vita ad un didascalismo nuovo ed accattivante, capace di rendere apparentemente divulgabili i problemi teorici che andava dibattendo.

Gramsci, nei Quaderni, nel '32, annota: "Elementi della relativa popolarità del Croce: a) elemento stilistico-letterario (mancanza di pedanteria e astruseria), b) elemento filosofico-metodico (unità di filosofia e senso comune), c) elemento etico (serenità olimpica)". Proprio la riduzione teorica della problematica filosofica a schemi fondamentalmente elementari (si pensi alla identificazione della storia con la conoscenza del pratico-individuale e dell'estetica con l'espressione intuitiva) assicurava efficacia didascalica alla teorizzazione. In questa era poi sempre presente l'emotività, controllata ma tesa, dello studioso che assicurava efficacia retorica alla scrittura.

In molte pagine della bibliografia crociana è possibile leggere l'esaltazione delle qualità del C. scrittore. Aldilà di un simile, improbabile, giudizio di valore, occorre riconoscere la funzionalità, proprio nella prospettiva "divulgativa" di cui si è detto, della costruzione dello stile crociano. Ponendosi come tautologia del testo letto, riproduzione della sua "poeticità", la pagina del C. si anima di climax, metafore, enfasi: fa continuamente appello ad una tensione morale che è dei critico e del lettore che vi si riconosce e che diviene garanzia primaria, ma paradossalmente esterna, della esteticità del testo. 2 in tal modo che la complessità formale e linguistica di un'opera analizzata si schiaccia sul filo, chiaro e distinto, dell'intreccio, effettuale e psicologico, di eventi o di personaggi. L'"altezza" del testo coincide con l'"altezza" della pagina critica (proprio come nella retorica classica l'"altezza" dell'espressione corrispondeva all'"altezza" dei sentimenti) e di conseguenza l'"altezza" della lettura che vi si adegui, psicologicamente ed eticamente. Ciò dà vita ad una prosa gonfia e solenne, piena di iterazioni, scansioni ad effetto, con l'individuazione della poesia nella esaltazione della pagina. Tutto questo, non va dimenticato, in rimando alla particolare concezione crociana del linguaggio.

La riduzione di questo ad atto individuale, implica un sostanziale rifiuto di ogni concezione di sistema linguistico. Anche se nelle ultime teorizzazioni estetiche, e soprattutto ne La poesia, il C. deve articolare le proprie posizioni ("mi proposi la ulteriore questione che cosa fosse quello studio della lingua che è oggetto non dei critici e degli storici della poesia, ma dei linguisti", da Discorsi di varia filosofia, 1945, I, p. 214), a mmettendo l'uso di pseudoconcetti per analizzare il linguaggio non sotto uno statuto teoretico ma di "scienza naturale", l'assioma vigente nella teoria crociana è quello dell'identità di arte e linguaggio: "la riduzione della linguistica ad estetica avviene mediante la riconduzione di linguaggio e arte alla medesima forma di coscienza" (P. D'Angelo, L'estetica di B. C., Bari 1982, p. 100).

Se si osserva poi come tale riduzione valga anche come riduzione della complessità dei processi significanti (ad esempio l'eliminazione di tutta la problematica che concerne la semantica), fino ad accostarvisi in modo puramente nominalistico (ha scritto il linguista Coseriu: "non si tratta del linguaggio e della linguistica come oggetti ma di ciò che Croce chiama linguaggio e linguistica", in Teoria del linguaggio e linguistica generale, Bari 1971, p. 32), è evidente che alla concentrazione di ogni atto estetico e creativo nella volizione del soggetto consegue una valorizzazione antintellettualistica dei processi artistici, facilmente condivisibile dal pubblico dei non specialisti.

Simile è l'atteggiamento nei confronti della "letteratura". Isolata, a partire dall'Estetica del 1902, nel rango di una pratica linguistica, inferiore al valore estetico della poesia, viene via via rivalutata in un quadro più articolato storicamente e tecnicamente ("particolare atto di economia spirituale che si configura in una particolare disposizione ed istituzione", La poesia, p. 32), dove si mescolano categorie estetiche e pragmatiche.

La letteratura, come "forma pratica che si offre come prodotto estetico" (D'Angelo, L'estetica, p. 91), finisce per apparire quasi uno pseudoconcetto, prodotto dallo spirito pratico per la conoscenza empirica. Un intero e peculiarissimo sistema semiotico quale è quello letterario, nel momento in cui se ne definisce il ruolo, e la tecnica. è mantenuto subalterno al valore principe dell'espressione artistica che non richiede articolazioni intellettuali, ma adesioni emotive.

Notava E. Garin (Intellettuali italiani del XX° secolo) che il C. esercitò una maggiore influenza in campo letterario che in campo filosofico, a causa del pubblico di professori di liceo che furono tra i più fedeli estimatori e divulgatori delle tesi crociane. E questa rispondenza immediata, la militanza intellettuale del C. l'ottenne anche grazie ad un indefesso, sorprendente attivismo. Serra scrisse che "Croce è una attività". Un'attività tesa al dispiegamento di un disegno organico esplicativo del reale, attorno a principi d'ordine e di controllo dei fenomeni (Contini parla di "un desiderio di conoscenza totale che nessuna brutta sorpresa, nessun imprevisto sopraggiungente da una qualunque parte dell'orizzonte, valga a minacciare"), che strappava a Campana, nel '15, la denuncia dell'appartenenza del C. alle "ultime propaggini filosofiche del mal de Naples (gesuitismo, camorra, borbonismo sbirro)". Ma, anche spinta ad uno status progressivo e positivo dell'intellettuale come vate borghese, interprete "politico" della realtà. Scriveva, nel '15, il C., a proposito del proprio impegno per La Critica, "mi si formò la tranquilla coscienza di ritrovarmi al mio posto, di dare il meglio di me e di compiere opera politica, di politica in senso lato" (Contributoalla critica di me stesso, p. 388). Si rivela la precisa coscienza di un ruolo intellettuale da definire in rapporto alla tradizione, alla storia e alla società (e fu questo il lavoro periodico de La Critica), che portò il C. a tentare una scommessa che, se non fu sempre pienamente vincente, fondò un'egemonia culturale solida e duratura per quel gruppo sociale di cui essa era espressione: la scommessa della conoscenza come ordine della realtà e dei fenomeni. È in questa prospettiva che la presenza del pensiero crociano nel dibattito teorico-letterario, può essere descritta come un movimento continuo e vario attorno ad un'idea di unicità che sottenda le articolazioni variegate degli eventi.

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da http://www.homolaicus.com/teorici/croce/croce.htm

LA FILOSOFIA ITALIANA E IL NEOIDEALISMO DI CROCE E GENTILE

Quadro storico

L'unificazione nazionale italiana è avvenuta nel 1860, tardi rispetto agli altri paesi europei (se si esclude la Germania). Essa ebbe due principali caratteristiche: fu un movimento popolare rivoluzionario e si concluse con il tradimento della borghesia, che volle realizzare il compromesso con l'aristocrazia (laica ed ecclesiastica) e la monarchia. La questione agraria, soprattutto al sud, rimase irrisolta e anzi si aggravò, determinando la spaccatura fra un nord industrializzato e un sud sottosviluppato. La borghesia, consapevole di questa contraddizione, aveva bisogno di un sistema ideologico-filosofico cui poter fare riferimento per giustificare i rapporti sociali esistenti. Questo sistema venne trovato nel neoidealismo di Croce e Gentile.

Il neoidealismo italiano consiste in una riforma dell'idealismo hegeliano, promossa, agli inizi del Novecento, da un filosofo napoletano, Benedetto Croce (1866-1952) e da un filosofo siciliano, Giovanni Gentile (1875-1944).

E' stata una risposta, sofisticata nella forma ma arretrata nei contenuti (in quanto reazionaria), alle due principali correnti ideologiche e politiche affermatesi nella seconda metà dell'Ottocento: ilsocialismo e il positivismo. E' stata una risposta che si è avvalsa delle teorie liberiste già formulate nel corso del Risorgimento nazionale e che sono state conciliate sia con la tradizione cattolica che con la filosofia hegeliana. Una risposta culturalmente debole (anche se in Italia apparve molto forte), in quanto espressione di una borghesia nazionale costretta a cercare un compromesso con le forze più retrive del paese: i latifondisti e la chiesa romana. Quel compromesso che era stato realizzato politicamente l'indomani dell'unificazione, verrà realizzato anche ideologicamente col neoidealismo.

Questa riforma della filosofia hegeliana riuscì, grazie al livello intellettuale particolarmente elevato di questi due filosofi, a emarginare, nel panorama culturale italiano, qualunque disciplina di tipo scientifico, qualunque ideologia politica progressista, almeno sino alla fine della seconda guerra mondiale.

La differenza fondamentale tra Croce e Gentile stava nel fatto che mentre per il primo (teorico del liberalismo) la riforma neoidealistica doveva avvenire nell'ambito dello Stato democratico-liberale, per il secondo invece (teorico del fascismo) doveva avvenire nell'ambito dello Stato fascista.

Per capire le loro due filosofie bisogna metterle in rapporto al positivismo, al marxismo, al cattolicesimo e all'hegelismo.

  1. Il positivismo in Europa occidentale e negli Usa si presentava come l'ideologia dell'industrializzazione monopolistica e imperialistica nella seconda metà dell'Ottocento. In Italia, industrialmente ancora molto debole e priva di colonie significative, il primo positivismo s'era manifestato in Lombardia con Cattaneo e Ferrari, la cui linea politica di un'Italia federale era uscita sconfitta durante l'unificazione. Il tardo positivismo di Ardigò, Lombroso, Ferri... era troppo superficiale per vincere la battaglia col neoidealismo. Croce e Gentile consideravano la scienza del tutto subordinata alla filosofia.
  2. L'unico rappresentante significativo del marxismo italiano, prima di Gramsci, è stato Labriola (1843-1904), contro cui Croce, suo allievo, si scaglierà sin dalla sua prima pubblicazione,Materialismo storico ed economia marxistica (1900). Croce e Gentile rifiutano qualunque cosa significativa del marxismo: lo considerano una pseudo-scienza sul piano economico (viene negata validità alla teoria del plusvalore), una utopia politica e una non-filosofia (al massimo lo accettano come metodo di ricerca nella storia dell'economia).
  3. Riguardo al cattolicesimo, entrambi lo considerano inferiore alla filosofia idealistica e non amano alcuna forma di clericalismo politico, ma ritengono anche che un intellettuale non possa non essere cattolico, quindi rifiutano gli sviluppi ateistici della Sinistra hegeliana. Gentile ritiene addirittura che la più alta realizzazione degli ideali religiosi del cattolicesimo sia incarnata dallo Stato fascista.
  4. Riguardo all'hegelismo, la riforma che compiono mira a dare concretezza a una filosofia che a loro appare troppo astratta e metafisica. Di qui l'interesse di Croce per la storia, la letteratura e l'estetica, e l'interesse di Gentile per la politica e l'istruzione scolastica e universitaria.

A motivo di questa dura opposizione al positivismo e al socialismo, Croce e Gentile seppero creare un clima d'isolamento nel nostro paese, illudendo gli intellettuali che il loro neoidealismo fosse la migliore filosofia europea.

Quadro culturale-filosofico

a) La filosofia all'inizio del XIX secolo

Le dottrine filosofiche che in Italia hanno dominato nella prima metà del XIX sec. sono state quelle a sfondo religioso. Gli esponenti più importanti sono stati A. Rosmini (1797-1855) e V. Gioberti (1801-52). Essi capeggiarono il cd. movimento cattolico-liberale (o neoguelfismo). Nelle loro vedute politiche e nella loro attività (soprattutto in Gioberti) vi furono alcuni momenti positivi per le condizioni italiane di quel periodo (ad es. le tendenze antifeudali e quelle favorevoli al movimento di liberazione nazionale, la lotta antigesuitica ecc.), ma le loro concezioni filosofiche sono del tutto conservatrici, specie quando hanno per oggetto le riforme borghesi. Essi infatti tendevano a rafforzare l'influenza della filosofia cattolica (ovviamente in parte riveduta e aggiornata) contro il materialismo francese e la dialettica hegeliana. Nelle concezioni di Rosmini, in particolare, la linea platonico-agostiniana si univa con elementi kantiani (nesso filosofico, questo, che si ritrova nel fondatore dello spiritualismo cristiano, A. Carlini). Rosmini si sforzava anche di sottolineare la vicinanza delle concezioni agostiniane con le idee tomistiche (cosa che è caratteristica di un altro spiritualista cristiano contemporaneo, M. Sciacca). Rosmini non negava le classiche "cinque vie" di Tommaso per dimostrare l'esistenza di Dio, ma preferiva attribuire maggiore importanza al percorso del soggetto verso l'assoluto, sulla base di una sintesi della concezione agostiniana dell'"illuminazione" e le idee dell'apriorismo. L'idea dell'essere è a priori nel soggetto in quanto risultato dell'illuminazione divina.

L'influenza di Gioberti sul pensiero religioso dell'Italia contemporanea è inferiore a quella di Rosmini. Egli tuttavia merita d'essere ricordato perché ha cercato di reintrodurre il tema della dialettica nell'ambito della filosofia cattolica. Rifacendosi a Platone e alla filosofia cristiana medievale, Rosmini ha sostenuto due tesi: 1) una vera dialettica deve fondarsi sull'idea della creazione, sull'idea della causa; 2) una vera dialettica è la pacificazione dei contrari che scaturisce dall'atto della creazione. In pratica il tentativo di trasformare la dialettica in un'ancella della teologia escludeva dall'essere la lotta dei contrari e l'automovimento.

b) Il pensiero progressista nell'epoca del Risorgimento

Nel periodo 1830-60 la filosofia italiana e il pensiero politico ufficiale si evolse sotto l'influsso del movimento di liberazione nazionale. In questo periodo vi furono vari pensatori progressisti come Pisacane e i rappresentanti del primo positivismo italiano: C. Cattaneo (1801-90) e G. Ferrari (1811-76). Essi appartenevano all'ala repubblicano-democratica del suddetto movimento e avanzarono idee progressiste come ad es. la concezione della rivoluzione sociale, l'idea della natura sociale dell'uomo, il nesso tra lo sviluppo della civiltà e la struttura materiale della società, tra la produzione e i rapporti tra le classi. Inoltre manifestavano idee chiaramente antiteologiche, sulla scia del loro maestro G.D. Romagnosi, contro le dottrine di Rosmini e Gioberti. Sulle loro concezioni hanno esercitato un influsso significativo gli illuministi francesi, i sensisti francesi del XVIII sec. e inoltre Vico, Hegel, Saint-Simon.

c) L'hegelismo napoletano

L'indirizzo filosofico più significativo della metà del secolo scorso, che ha esercitato la maggiore influenza sul pensiero filosofico italiano del XX sec., è stato il cd. "hegelismo napoletano". Malgrado il suo moderatismo politico generale, malgrado il fatto che non sia diventata la concezione del movimento democratico italiano, questa corrente fu, in parte, una delle forme in cui si espressero le forze progressiste.

La scuola hegeliana è comparsa in Italia relativamente tardi (alla fine del 1830) e la sua fioritura va posta in quel periodo in cui in Germania l'hegelismo era già stato superato dal marxismo. L'hegelismo napoletano, quindi, non era una novità a livello europeo, ma nella sua "ala sinistra" diede contributi di notevole valore. Praticamente dalla sinistra hegeliana napoletana (F. De Sanctis, gli Spaventa, S. Tommasi e altri) è nato, da un lato, il pensiero progressista e marxista italiano, cominciato con A. Labriola, e dall'altro, è nato l'idealismo neohegeliano, di natura profondamente conservatrice.

Questa contraddittorietà negli sviluppi della scuola hegeliana napoletana è stata oggetto di accese controversie. Gli idealisti neohegeliani (Croce e Gentile) faranno di tutto per dimostrare d'essere gli unici eredi di questa sinistra, della quale però vorranno ignorare gli elementi più progressisti e materialisti (che dalla sinistra però erano stati elaborati in maniera assai poco sistematica). Elementi, questi, che invece vennero colti dai filosofi marxisti, i quali cercarono di dimostrare come il percorso più significativo del pensiero italiano non andasse da De Sanctis a Croce ma da De Sanctis a Gramsci.

La sinistra dell'hegelismo napoletano cercò di superare l'interpretazione dogmatica dell'hegelismo, collegando le costruzioni speculative con la vita. In pratica essa riproduceva il processo avvenuto in Germania: l'hegelismo diventava fruttuoso solo per coloro che lo superavano in direzione del materialismo. A dir il vero De Sanctis (1817-83), che è l'esponente di maggior spicco, si rifaceva di più al realismo filosofico e scientifico di Bacone, Locke, Hume e degli enciclopedisti, convinto, in tal modo, di potersi liberare dalle idee teologiche e retoriche. Tuttavia, nella sua critica dell'hegelismo egli ha espresso molte idee che lo avvicinano al marxismo (ad es. quella per cui l'hegelismo è volto al passato e non al futuro). La sua opera principale resta La Storia della letteratura italiana.

Un carattere più accademico ha invece la filosofia di B. Spaventa (1817-82), che per molto tempo si soffermò sull'immanentismo idealistico, poi sviluppato dal neo-idealismo di Croce e Gentile. Ma nell'ultimo periodo della sua vita, Spaventa accentuò motivi antropologici, naturalistici e materialistici, avvicinandosi alla filosofia di Feuerbach. Il suo rapporto col materialismo era abbastanza tradizionale, poiché ne conosceva solo la variante matafisica e meccanicistica. Tuttavia egli arrivò col rifiutare l'idea della priorità assoluta dello spirito e preferiva collegare indissolubilmente natura e spirito in un'unica sostanza, assegnando però all'aspetto materiale di questa sostanza un aspetto subordinato. Per lui insomma la dialettica dello spirito restava la forma superiore di dialettica, ma a condizione che essere e pensiero marciassero insieme, nell'ambito del pensiero. L'influenza di Fichte era evidente. Da questi elementi, tendenzialmente soggettivistici, prenderà poi le mosse la filosofia di Gentile, che sarà appunto una variante dell'immanentismo idealistico in chiave soggettivistica.

d) La linea marxista di A. Labriola

Chi meglio ereditò e sviluppò le concezioni della sinistra hegeliana napoletana sulla negazione dell'autonomia dello spirito dalla natura, sul collegamento della filosofia con i problemi concreti della vita, sul rifiuto d'interpretare il metodo dialettico come mero strumento per verificare l'esistente (e non anche per modificarlo), sulla conciliazione del pensiero colla realtà di fatto, sulla generale direzione illuministica, umanistica e anticlericale che andava data al pensiero filosofico italiano - fu A. Labriola (1843-1904), che è il maggior filosofo italiano della fine del XIX sec. inizio XX. Egli è stato il primo e per lungo tempo l'unico teorico del marxismo italiano. Quando i lavori di Marx ed Engels erano quasi sconosciuti al pubblico italiano e quando fu possibile averne una conoscenza, regolarmente solo di seconda mano, attraverso le trattazioni travisate dei suoi avversari (come ad es. Croce e Gentile), oppure attraverso le volgarizzazioni ancora peggiori delle idee marxiste da parte di A. Loria, E. Ferri e altri - solo le opere di Labriola seppero introdurre in modo coerente, nella vita intellettuale italiana, le idee del materialismo storico e del socialismo scientifico, tanto che tutti gli sviluppi ulteriori del pensiero borghese italiano non furono che una ininterrotta polemica contro queste idee. (Da notare che Labriola ebbe come allievo Croce).

e) L'egemonia del positivismo

Tuttavia la corrente che negli ultimi decenni del secolo scorso s'impose nella cultura italiana (e borghese) fu il positivismo. Si badi però: il tardo positivismo italiano non ha nulla a che vedere con il primo positivismo di Cattaneo e Ferrari, in quanto che esso preferisce ricollegarsi al positivismo francese e inglese (soprattutto a Spencer), nonché al materialismo meccanicistico di Moleschott. Il culto della scienza aveva preso ad unirsi al dilettantismo, il fenomenismo a costruzioni universali ingenue; ad una primitiva schematicità meccanicistica si accompagnava la feticizzazione del fatto particolare; all'idea del sistema compiuto della conoscenza scientifica faceva seguito una grossolana tendenza anticlericale. Inoltre questo positivismo univa motivi democratico-socialisti con l'opportunismo e un'interpretazione eclettica del marxismo.

Questa forma superficiale di positivismo, debole sul piano metodologico, non poteva reggere il confronto all'inizio del XX sec. con il neoidealismo di Croce e Gentile. Alla sua fine naturalmente contribuì anche la svolta reazionaria intrapresa dalla borghesia che da un lato si sentiva minacciata dal crescente proletariato e dall'altro voleva avventurarsi nella strada dell'imperialismo. La limitatezza di questo positivismo si manifestò anche nel fatto che alcuni esponenti passarono nelle file dell'idealismo e addirittura nel misticismo religioso (Tarozzi, Marchesini e altri).

Il rappresentante più significativo di questa corrente fu R. Ardigò (1828-1920) che unisce un'interpretazione soggettivo-idealistica del mondo (inteso come unica realtà psicofisica) con una rappresentazione meccanicistica della natura naturans (la natura autocreantesi all'infinito). Per Ardigò la natura procede in modo omogeneo e uniforme, assolutamente determinato, senza salti, dall'amorfo indifferenziato e semplice al differenziato e complesso, ove la varietà e la forma delle cose sono il risultato della semplice azione reciproca. Uomo, società e pensiero non sono che gradi naturali indispensabili dell'armonia meccanica del cosmo, senza alcuna vera specificità.

Accanto al meccanicismo fioriscono nel positivismo italiano (ma anche in quello europeo) diverse varianti di un biologismo volgare. Ad es. la teoria della predisposizione bioantropologica alla criminalità di C. Lombroso. La criminalità sarebbe determinata non da condizioni sociali, dall'influenza dell'ambiente, ecc, ma esclusivamente da un fattore ereditario contro cui il soggetto e l'ambiente sono impotenti.

Idee simili le formulò anche E. Ferri che fu uno dei dirigenti e teorici principali del partito socialista italiano all'inizio del secolo. Egli era un eclettico di tendenze positiviste che risentì fortemente l'influsso del materialismo volgare. Il marxismo, per lui, non era che un completamento sociologico dell'evoluzionismo di Darwin e Spencer (ad es. la lotta di classe non è che una forma di selezione naturale). Ferri in pratica riduceva le leggi storico-sociali a leggi naturali e interpretava quest'ultime in termini esclusivamente sociali. Il socialismo italiano, fino alla I guerra mondiale non ebbe alcun teorico marxista di rilievo, eccettuato Labriola. Dopo la morte di quest'ultimo esso cadde per più di un decennio sotto l'influenza di concezioni riformiste e anarco-sindacaliste (conseguenza del fatto che in filosofia s'era lasciato influenzare dal tardo positivismo).

f) L'ideologia religiosa all'inizio del XX secolo

La borghesia abbandonò il positivismo nel primo decennio del XX sec., diversamente da quanto stava accadendo nel resto dell'Europa. Di fronte a sé non aveva molte alternative: una di questa era la filosofia religiosa. Il positivismo infatti risultava del tutto inaccettabile ai vecchi gruppi politico-religiosi collegati colla chiesa cattolica. Inoltre il positivismo era stato accettato dal nascente socialismo italiano (se si esclude Labriola).

Tuttavia, il compromesso ideologico, all'inizio del secolo, non poté essere raggiunto neppure sulla base dell'ideologia cattolica, per via delle tradizioni anticlericali del Risorgimento, non ancora dimenticate dalla borghesia, abituata a considerare il Vaticano come un nemico dell'Unità e Indipendenza italiana. Questo però non impedirà alla borghesia di simpatizzare, già verso la fine del XIX sec., per le dottrine irrazionalistiche e mistiche in funzione antisocialista.

Dal canto loro, gli esponenti del movimento cattolico più lungimiranti tentarono di democratizzare la politica e l'ideologia ecclesiastiche per realizzare meglio il compromesso con la borghesia (si pensi alla nascita del movimento cattolico e più tardi del partito popolare). Ma la curia papale non vide mai di buon occhio questi tentativi (essa ad es. represse brutalmente il cd. movimento "modernista"). Solo a partire dall'enciclica di Leone XIII, Rerum novarum (la prima delle encicliche sociali), la chiesa, riconoscendo il tomismo come propria filosofia ufficiale e accostandosi per la prima volta alla questione operaia e alle libertà borghesi, iniziò a percorrere la strada del rinnovamento interno, anche se il neo-tomismo non ebbe influenza sensibile -nonostante il suo razionalismo e naturalismo- sulla filosofia italiana.

Sul piano della filosofia religiosa ebbero senz'altro maggiore importanza alcuni sistemi oggettivo-idealistici "non ortodossi", come quelli di B. Varisco e soprattutto P. Martinetti. Quest'ultimo, in particolare, propendeva per il panteismo idealistico, considerando Dio come "ragione infinita" o "principio universale unificatore del mondo" e inoltre, a differenza dell'altro, fu un fiero avversario del fascismo.

In ogni caso, nessuna corrente della filosofia religiosa fu in grado di colmare il vuoto aperto dal crollo del positivismo. Così, altre correnti cercarono di inserirsi nel dibattito di quegli anni: quelle irrazionaliste e nazionaliste (che condurranno all'ideologia fascista), quella neokantiana e quelle soggettivo-idealistiche.

g) Il pragmatismo in Italia

Per un certo tempo ebbe un certo successo il pragmatismo, diviso in due tendenze abbastanza diverse. La prima, di G. Vailati e M. Calderoni, era vicina alle posizioni di Peirce, Berkeley e Mach, ed era caratterizzata da una spiegazione meramente strumentale delle leggi delle scienze naturali e sociali, che hanno un significato solo nella misura in cui sono efficaci come mezzo di previsione: cioè il significato di qualsiasi conoscenza, processo, ecc. del presente sta nella sua realizzabilità nel futuro.

In particolare Vailati (1863-1909) formulò idee che anticiperanno quelle del Circolo di Vienna. Egli infatti avanzava l'esigenza di verificare i significati dei concetti scientifici, cioè la loro fondatezza e quindi comprensibilità, e a tale scopo poneva il problema di come creare un linguaggio comune, che andasse aldilà di quello ordinario, spesso fuorviante ai fini della scienza. Senza analisi linguistica era per lui impossibile uno sviluppo del pensiero scientifico. Le sue idee però ebbero un'influenza del tutto insignificante, soprattutto dopo l'affermazione dell'idealismo neohegeliano.

L'altra tendenza pragmatista è collegata ai nomi di G. Papini e G. Prezzolini e alla rivista "Il Leonardo", da essi pubblicata nel 1903-7 (cui collaborarono anche Vailati e Calderoni). Si trattava di un indirizzo meno scientifico, più pseudorivoluzionario. Essi proclamavano la distruzione della vecchia filosofia e la costruzione di una "filosofia dell'azione", volta a trasformare il mondo. In realtà tale filosofia non faceva che anticipare, con la sua retorica e demagogia, le idee e la politica del fascismo.

Papini e Prezzolini divulgarono il pragmatismo anglo-americano. Le loro idee individualiste e irrazionaliste erano vicine alla filosofia di James e Schiller. Per loro il pragmatismo non era che un metodo di azione e di vita, compatibile con qualunque filosofia e religione. Essi infatti negavano qualunque posizione gnoseologica o etica, tranne lo strumentalismo utilitaristico (ogni teoria può essere trasformata, se questo è utile). Col tempo, Papini si volse alla religione e alla mistica; Prezzolini passò all'idealismo neohegeliano e al completo nichilismo.

Nel complesso il pragmatismo può essere considerato un fenomeno alquanto transitorio in Italia. Il carattere estremista, frammentario e superficiale delle concezioni di Papini e Prezzolini non poteva soddisfare l'intellighenzia borghese, alla ricerca di una forma sintetica di sistema ideologico. Mentre l'altra tendenza pragmatista era per la borghesia troppo accademica e astratta. Il pragmatismo tornerà di moda in Italia dopo la II guerra mondiale, con l'influenza delle idee di Dewey e naturalmente con la caduta del neohegelismo, che avverrà tra il 1940 e il 1950.

Il neoidealismo italiano

Le classi dirigenti italiane riuscirono a trovare il compromesso ideologico, all'inizio del secolo, nel neoidealismo hegeliano di Croce e Gentile. Si trattava di un sistema elaborato, sicuramente non banale, la cui sostanza consisteva in una lotta senza quartiere contro il materialismo e il marxismo, nella giustificazione del sistema sociale esistente, nell'unificazione di diversi indirizzi ideologici conservatori, nell'affermazione della cultura borghese laica ma non anticlericale.

Il neohegelismo sorse alla fine del secolo scorso in Inghilterra, ma solo in Italia manifesterà un'influenza così generale sulla cultura nazionale. Negli altri paesi fu soltanto uno degli indirizzi filosofici, spesso neppure quello fondamentale, mentre in Italia si trasformò, nel giro di pochi decenni, da fenomeno esclusivamente filosofico a "egemone" della cultura e dell'ideologia borghesi.

B. Croce (1866-1952) e G. Gentile (1875-1944) determinarono la struttura di tutta la scuola italiana, l'organizzazione delle facoltà universitarie, la fine del pensiero e della ricerca scientifici, hanno diretto influenti riviste di teoretica, esercitato una forte influenza sull'orientamento della stampa, sono stati a capo di alcune delle maggiori iniziative editoriali e culturali (si pensi all'Enciclopedia italiana o ai libri di filosofia pubblicati dalla Laterza).

Il neohegelismo seppe conciliare i sentimenti religiosi con l'anticlericalismo popolare, motivi positivistici e pragmatisti coll'idealismo; si pose a fondamento teorico-politico del liberalismo con Croce e del fascismo con Gentile, e dell'imperialismo della borghesia.

Croce e Gentile: unità e diversità

I punti di fondamentale contatto tra i due sono:

1) Alla destra di Hegel

Al suo nascere, il neohegelismo italiano appare subito consequenziale, battagliero, privo di compromessi. Persino l'idealismo di Hegel, per non parlare di quello kantiano, viene giudicato dualistico e incoerente (Hegel ad es. assegnava alla natura una parte dello spirito). Croce e Gentile si riproponevano di fondare una filosofia dello spirito puro e conseguente: il primo in forma oggettivo-idealistica, il secondo in forma soggettivo-idealistica. Lo "spirito assoluto" di Croce si differenzia poco dall'"Io universale" di Gentile. A dir il vero Gentile cercò di trasformare l'"Io assoluto" di Fichte nell'Io personale (il "mio io"), ma l'impresa non gli riuscì, temendo egli di cadere nel solipsismo.

Entrambi negavano risolutamente l'esistenza del mondo materiale. Lo spirito è tutto il reale e l'unica filosofia possibile è quella dello spirito -così Croce. Gentile identificava la realtà con l'Atto (donde "attualismo"). L'Atto è il "pensiero pensante", cioè processo creativo che avviene in ogni istante, mentre il reale è il "pensiero pensato", cioè esaurito, pietrificato. Il pensiero attuale pone tutto nel momento in cui pone se stesso, non ha nulla di antecedente, non è oggettivabile, è libero e indeterminabile. L'idealismo è negazione di ogni realtà che si opponga al pensiero come suo presupposto, ma è anche negazione dello stesso pensiero quale attività pensante, se concepita come realtà già costituita. L'idealismo è perenne creatività.

2) La critica delle cosiddette "filosofie trascendenti"

Dalla posizione di un simile immanentismo assoluto, l'idealismo neohegeliano attacca il materialismo (specie quello marxista) e la filosofia religiosa, sulla base della motivazione che entrambe ammettono l'esistenza di qualche cosa esterno allo spirito (la materia, Dio), per cui sono trascendenti. La realtà invece va affermata come spirito e lo spirito coincide col mondo.

Il tentativo di Croce e Gentile è dunque quello d'indirizzare contro il materialismo gli atteggiamenti anticlericali, associando il materialismo a una filosofia teologica. Tuttavia, se nei confronti del materialismo la loro ostilità è netta e sempre lo sarà, non si può dire lo stesso nei confronti della religione. In effetti, sia Croce che Gentile non hanno mai inteso negare Dio, l'anima o l'immortalità, ma solo la concezione tradizionale, ecclesiastica di questi concetti. Gentile era attirato dalla considerazione di un "Dio nel mondo", Croce da quella del "mondo in Dio". E' peraltro famoso l'articolo di Croce, Perché non possiamo non dirci cristiani.

I neohegeliani han sempre ritenuto la filosofia idealistica come l'autentica religione che libera il cristianesimo dal primitivo involucro fantastico-mitologico e ritualistico. Inoltre essi credevano che le religioni tradizionali fossero una tappa nel movimento dello spirito verso la vera religione. Infine essi predicavano che la religione negata dal filosofo, in quanto forma primitiva di coscienza sociale, è indispensabile al popolo. Malgrado molti loro libri venissero messi all'Indice dalla chiesa, i neohegeliani contribuirono a rafforzare le posizioni della religione nella società. Croce e Gentile introdussero, p.es., nelle scuole l'insegnamento obbligatorio della religione. E così, nonostante l'accanita polemica con la chiesa e la critica della religione ufficiale, il neohegelismo ha nel complesso predicato il passaggio del pensiero borghese dall'anticlericalismo volgare della fine del secolo scorso alle posizioni dell'ideologia religiosa. Non a caso la maggior parte dei rappresentanti dello spiritualismo cristiano sono stati in passato allievi di Gentile.

3) La critica della scienza

La negazione della realtà del mondo materiale e della natura ha portato logicamente alla negazione del valore teoretico delle scienze naturali, che vengono considerate, d'ora in avanti, su un piano meramente convenzionale, strumentale, pratico-utilitaristico. Sotto questo aspetto, il neoidealismo italiano ha ripreso le tradizioni del pragmatismo e si è inserito tra quei sistemi filosofici antiscientifici d'inizio secolo, come il bergsonismo, la fenomenologia, l'esistenzialismo, lo spiritualismo cristiano... Per Croce e Gentile, Hegel avrebbe dovuto negare qualunque valore alle scienze naturali e alla matematica. La vera scienza è solo la filosofia idealistica.

In particolare, Gentile includeva la scienza ora in uno ora nell'altro dei due momenti inferiori della triade: arte-religione-filosofia; e la escludeva dalla sfera della conoscenza vera e propria, concreta, sintetica. Sia Gentile che Croce ritenevano la scienza un'elaborazione astratta, analitica, diretta a un oggetto irreale. La conoscenza vera è l'autocoscienza dell'io. La scienza produce solo "pseudo-concetti", aventi carattere pratico-mnemonico, utili strumenti per la generalizzazione di gruppi o classi di fatti empirici, ma senza alcun nesso con la realtà. In tal senso, il neoidealismo si serviva anche del convenzionalismo positivistico di Poincaré, Mach, Avenarius..., venendo incontro alle posizioni della religione.

4) La riforma della dialettica hegeliana

Base comune in Croce e Gentile di questa riforma era la critica mossa alla dialettica hegeliana d'essere astrattamente oggettiva, formalistica, non sufficientemente speculativa, estesa arbitrariamente all'inesistente mondo materiale e alla sfera delle scienze naturali.

[Croce] Croce accetta la coincidenza assoluta hegeliana di realtà e razionalità, di essere e dover essere. La realtà per Croce s'identifica colla storia, che è storia dello spirito (storicismo assoluto).

Nella struttura dello spirito Croce pone una distinzione essenziale tra momento pratico (economia ed etica) e momento teoretico (estetica e logica). La filosofia è sempre della conoscenza e dell'azione: quella della conoscenza si serve dell'intuizione (conoscenza individuale immediata che produce arte: il bello) e della logica (conoscenza universale che produce filosofia: il vero). La filosofia della pratica invece si serve del concetto di utile quando è individuale (economia) e del concetto di bene quando è universale (etica).

Croce dunque nega la triade hegeliana di idea, natura e spirito e afferma solo lo spirito, che è appunto distinto in una diade: pratica e teoretica. Negando la triade Croce nega anche la dialettica degli opposti, accettandola soltanto, in via del tutto formale, all'interno di una medesimo grado/forma dello spirito (ad es. un giudizio teorico può essere vero o falso), ma non l'accetta tra i diversi gradi/forme dello spirito (ad es. l'arte non è il contrario della filosofia). Peraltro l'opposizione all'interno di una medesima forma/grado implica il condizionamento reciproco dei due termini che si oppongono, non il superamento dell'uno nell'altro (ad es. non c'è bello senza brutto).

Non solo, ma i primi due gradi dello spirito (estetica e logica) sono indipendenti rispetto agli altri due (economia ed etica). E' piuttosto l'attività pratica che è condizionata dalla conoscenza che la illumina, e nell'attività pratica l'economia condiziona l'etica, mentre in quella teoretica l'arte fornisce alla filosofia il linguaggio, cioè il mezzo della sua espressione. L'indipendenza implica la diversità, la dipendenza implica l'unità (è la dialettica dei distinti).

In Croce la dialettica è una semplice manifestazione del rapporto circolare dalla diversità all'unità. Croce ha cercato la conciliazione degli opposti proprio per eliminare la funzione rivoluzionaria della dialettica. Lo sviluppo è per lui un eterno movimento circolare e non un progresso all'infinito. In tal modo le contraddizioni storico-sociali non appaiono più come tali, ma come parte di un processo circolare inevitabile.

[Gentile] Gentile elimina l'opposizione non nel rapporto tra le forme della filosofia ma all'interno dello stesso soggetto pensante. Il mondo reale per lui è l'unità assoluta dell'Io nell'Atto del pensiero. L'oggettività cioè non sta nel pensiero-pensato (che diviene così oggetto di contemplazione), ma nel pensiero-pensante (che può essere solo vissuto come autocoscienza del soggetto trascendentale o Io assoluto). L'Attualismo è la creatività perenne del pensiero che pone se stesso senza mai oggettivarsi, perché non vuole essere limitato da alcunché. L'Atto è autoposizione, autoctisi. Le distinzioni valgono solo per il pensiero-pensato e sono quindi relative. Assoluta invece è l'unità del pensiero-pensante. (Il ritorno a Fichte è evidente).

5) La prassi mistificata

Il neohegelismo italiano ha esordito criticando non Hegel ma Marx: Croce con Materialismo storico ed economia marxista (1900), Gentile con La filosofia di Marx (1899). Entrambi hanno ripreso il concetto marxiano di "prassi" e l'hanno rielaborato mostrando che la loro riforma, in realtà, aveva per oggetto la dialettica hegeliana. Tuttavia, prima di riformare la dialettica hegeliana, essi han dovuto rivedere la prassi marxista, che di quella dialettica pretendeva d'essere lo svolgimento più coerente.

Sia Croce che Gentile, in questo senso, comprendono perfettamente che la dialettica non può essere astratta e contemplativa (come finiva appunto col diventare in Hegel non volendo questi accettarne le conseguenze più rivoluzionarie). Filosofia e prassi per il neoidealismo vengono a coincidere. In Gentile ciò avviene nell'Atto di un pensiero che pensa se stesso; e in questa autoesaltazione mistica dell'Io, Gentile arriverà a sostenere il volontarismo irrazionalistico del fascismo (vedi il suo culto idolatrico per il duce e per gli istinti irrazionali delle masse).

In Croce la soluzione è meno semplicistica e più contraddittoria: egli accetta la categoria marxiana di "prassi" ma la riferisce esclusivamente all'attività economica (all'utile), non a quella politico-rivoluzionaria. La prassi non è che una delle manifestazioni dello spirito e in questo senso non è la filosofia che deve "inghiottire" la storia - dice Croce, riferendosi a Gentile -, ma il contrario. Per Croce il concetto di prassi si risolve nello storicismo assoluto, cioè la storia diventa il deus ex-machina in grado di risolvere ogni contraddizione (di qui la sua teoria del provvidenzialismo). Tuttavia, Croce ha sempre negato ogni importanza ai fattori materiali, produttivi, della storia.

6) Altri aspetti

6.1) La teoria dell'arte

[Croce] Il primo momento dello spirito universale è l'intuizione, ma questa è veramente estetica solo quando ha un principio vitale che l'anima: il sentimento. La vera intuizione non è sensazione/percezione ma espressione pura, profonda, senza predicazioni logiche o astratte. Il risultato è il prodotto artistico.

L'intuizione esclude la distinzione tra realtà e irrealtà. L'arte non ha nulla a che fare con l'utile, il piacere, il dolore, la morale, la buona volontà, la religione, il mito. Scopo dell'arte è la bellezza: essa è quindi assolutamente autonoma. L'arte è sempre intuizione lirica perché prodotto sintetico a priori di sentimento e immagine. Senza immagine il sentimento è cieco, senza sentimento l'immagine è vuota. L'arte non accoglie i sentimenti così come sono, ma li trasfigura in pura forma, cioè in immagini che rappresentano la liberazione dall'immediatezza e la catarsi della passionalità.

L'intuizione senza espressione è nulla. L'espressione tecnica non coincide di per sé con quella artistica. L'espressione prima e fondamentale è il linguaggio, che non è segno convenzionale delle cose, ma immagine significante spontaneamente prodotta dalla fantasia. Poesia e linguaggio si identificano. Naturalmente l'intuizione estetica ha un carattere di totalità e cosmicità. Il sentimento guarda l'universo sub specie intuitionis. Ciò che vi è di fondamentale nell'espressione poetica (che è la più alta forma intuitiva) è il ritmo.

Croce contesta il romanticismo che insiste solo sul sentimento; il classicismo che insiste solo sull'immagine; il decadentismo che con la sua formula "l'arte per l'arte" è vuoto. Delle quattro espressioni possibili: sentimentale, prosastica, letteraria e poetica, Croce preferisce l'ultima, perché: quella sentimentale è priva di contenuto, non riuscendo a superare il sentimento (nell'espressione poetica il sentimento viene espresso insieme alla forma); quella prosastica è come quella filosofica, dando luogo a simboli o segni di concetti che non esprimono immagini o intuizioni; quella letteraria si limita ad armonizzare le espressioni poetiche con quelle non-poetiche (passionali, prosastiche, oratorie) in modo che quest'ultime non offendano le altre.

[Rilievo critico] La svalutazione dei fattori sociali, morali, politici, della comunicazione concreta, delle tecniche materiali nella comprensione del fenomeno artistico deriva dall'estetica crociana.

[Gentile] Gentile accetta la suddivisione hegeliana di arte-religione-filosofia per quanto concerne le manifestazioni dello spirito assoluto. L'arte per lui è il momento della soggettività, è il sentimento che l'Io trascendentale ha nella propria soggettività. In questo senso ogni prodotto artistico è una monade che non ha storia: non ha cioè senso una "storia dell'arte" poiché non esiste un inveramento temporale dell'arte. Ogni opera d'arte ha una storia irriducibile a un più ampio disegno storico.

La religione e la scienza sono invece il momento dell'oggettività, poiché annullano il soggetto nell'oggetto (Dio per l'una: dogmatismo; Natura per l'altra: naturalismo). Entrambe vengono superate dalla filosofia che è sapere assoluto, unica vera realtà autocosciente.

6.2) Teoria della storia

[Croce] Storia e filosofia coincidono: ogni racconto o episodio storico include il concetto filosofico; ogni sistema filosofico aiuta a comprendere la realtà storica. La filosofia è la metodologia della storia. Individuo e idea non possono essere presi separatamente. La filosofia tradizionale, per Croce, è morta, essa è risorta nella storiografia.

Nessuna distinzione è possibile tra fatti storici (significanti) e fatti non-storici (banali), in quanto non esiste un fattore determinante o prevalente su altri. Nessun fattore è fondamentale. La storia, come la poesia, la coscienza morale, il pensiero, non ha leggi, non ha necessità. Ogni ricerca delle cause dei fatti storici va abolita. Né ha senso una periodizzazione oggettiva del processo storico. Croce vuole escludere la possibilità della prevedibilità storica, nonché qualunque teoria scientifica dello sviluppo sociale. Il giudizio storico riguarda solo il passato. La storia è solo una serie di fenomeni singoli, individuali, irripetibili, una serie di atti creativi dello spirito universale. L'ordine e l'unità dei fatti storici sono introdotti dallo storico e pertanto hanno valore solo logico.

Naturalmente Croce non nega alla storia delle cause specifiche, dice però che tali cause ci sfuggono. Lo spirito universale è l'unico soggetto-oggetto della storia, esso ha un piano che può realizzarsi in persone eccezionali, secondo un criterio di provvidenzialità che ci resta ignoto, anche se l'uomo può sforzarsi di comprenderlo. Il processo storico, per Croce, è senza persone e senza fatti salienti che indichino una qualche direzione logica; oppure è un frammentarsi della storia in situazioni particolari e individuali.

[Gentile] Il concetto di storia in Croce è analogo a quello dell'Io trascendentale di Gentile. L'Io è l'unica realtà, assolutamente libera, non condizionata, e non ricade sotto leggi di qualsiasi natura. Gentile riconosce la realtà del solo momento presente e nega il passato.

6.3) Teoria dello Stato e del diritto

[Croce] Egli identifica diritto con utilità e forza. Riconosce l'esistenza di diritti immorali persino ad associazioni delittuose: il diritto di quest'ultime è subordinato a quello della società poiché la forza le costringe, ma il diritto resta.

Il diritto non è morale né immorale ma amorale, in quanto precede la vita morale e ne è indipendente. Esso è espressione della forza impiegata per raggiungere un utile. Esso è condizione della morale poiché questa, per esprimersi, si traduce in utilità e forza.

Lo Stato è l'applicazione del diritto. Esso si attua nel governo e non se ne distingue. Nello Stato il consenso è sempre forzato. Morale e politica sono aldilà del bene e del male.

Tuttavia, l'esperienza del regime fascista e l'opposizione ad esso ha favorito la trasformazione in Croce del rapporto tra morale e politica. Egli cioè ha maturato la convinzione che la vita politica deve realizzare un impegno morale che al suo centro ha l'idea di libertà (religione della libertà). La stessa concezione della storia diventa quella di una storia della libertà (che diventa il vero soggetto creativo, ideale morale della storia).

La libertà però continua a restare solo quella giuridico-morale o formale, cui Croce non aggiunge mai quella socio-economica o sostanziale. Non a caso Croce ha sempre difeso la necessità dei rapporti feudali e semifeudali nel Meridione, ha sostenuto che nel capitalismo di allora si era raggiunto il massimo grado di libertà possibile per i lavoratori, ha sempre appoggiato il gerarchismo sociale (solo un'élite aristocratica può governare), la monarchia e l'uso statale della forza contro le rivendicazioni dei lavoratori.

[Gentile] Egli afferma l'identità di individuo e Stato, nel senso che il primo si realizza nel secondo, trovando in questo la sua ragion d'essere. Economia, diritto e vita politica sono risolti nell'eticità statuale. Gentile era convinto che con lo Stato fascista egli avrebbe potuto realizzare la propria filosofia. Come continuatore della Destra storica (che era caduta nel 1876), il fascismo -secondo Gentile- avrebbe dovuto compiere l'opera del Risorgimento spiritualista (giobertiano e mazziniano) che aveva sempre anteposto la patria -secondo lui- all'idolo della libertà (di qui la religione della patria).

La riforma della scuola fu uno degli impegni etico-politici più rilevanti di Gentile. La nuova scuola non doveva essere né confessionale (che educa all'intolleranza) né laica (che educa all'indifferenza), ma una scuola che offre un'educazione religiosa nelle elementari e un'educazione filosofica nei licei, che fosse quest'ultima portatrice di una religiosità immanente, superiore alla religione tradizionale. Il superamento veniva però riservato ai pochi che allora potevano frequentare i licei. Questo rapporto ancillare della religione nei confronti della filosofia deriva dal fatto che Gentile aveva accettato la posizione di Bruno.

Gentile sostiene anche una netta separazione tra lavoro intellettuale e manuale.

6.4) Il rapporto col fascismo

[Croce] Nonostante la decisione di passare all'opposizione, Croce può essere considerato, non meno di Gentile, un precursore del fascismo. L'apologia della violenza, delle guerre, del machiavellismo politico, contenuta negli scritti del periodo della I guerra mondiale rientrò nella dottrina fascista come un elemento fondamentale. Prima che Mussolini andasse al potere egli sosteneva la militarizzazione delle squadre fasciste (in funzione antisocialista), con Giolitti al governo preparò un progetto per la riforma scolastica (successivamente realizzato da Gentile) che Mussolini definì "profondamente fascista" nel suo spirito, votò più volte per Mussolini al senato (anche dopo l'assassinio di Matteotti) e via di seguito.

Se più tardi Croce superò le proprie illusioni nei confronti del fascismo, ciò non significa che la sua posizione divenne più progressista. Da un lato infatti la sua filosofia della "libertà" poteva garantire agli intellettuali l'ultimo spiraglio di opposizione al regime; dall'altro però la sua posizione attendista, cioè di astensione dalla lotta attiva contro il regime, la sua estraneazione nella filosofia astratta, nelle ricerche storiche particolari, nella speranza di una caduta automatica della dittatura, ostacolarono di fatto la lotta antifascista. Inoltre Croce fruì da parte del regime di una certa libertà proprio perché continuò per tutta la sua vita a polemizzare aspramente con le idee del socialismo.

L'antifascismo "escatologico" di Croce era, in questo senso, analogo a quello cattolico, secondo cui la non-adesione doveva servire per evitare che la crisi futura del fascismo coinvolgesse anche lo Stato monarchico. Si trattava di un antifascismo conservatore, per il quale il regime autoritario non era che un fenomeno "casuale" nella storia italiana, destinato a estinguersi da solo. Nell'analisi di Croce mancavano completamente i riferimenti alle cause storico-sociali che l'avevano generato. Egli in pratica non aveva aderito al fascismo più che altro per motivi personali, non ideologici.

[Gentile] Viceversa, Gentile aderì immediatamente al fascismo e non ebbe mai ripensamenti (sarà ucciso dai partigiani di Firenze per la sua rinnovata adesione alla Repubblica di Salò). Nonostante ciò e nonostante ch'egli fosse stato anche ministro del governo di Mussolini e che la parte filosofica della voce "Fascismo" da lui scritta per l'Enciclopedia italiana (e pubblicata sotto la firma di Mussolini) fosse l'esposizione ufficiale più autorevole della dottrina filosofica del fascismo, Gentile non riuscì mai ad ottenere che le sue idee filosofiche fossero riconosciute come ufficiali dello Stato.

Queste idee infatti erano troppo raffinate, ricercate e anche troppo paradossali perché la loro influenza si estendesse aldilà dei circoli intellettuali. D'altra parte il fascismo non ebbe mai una propria dottrina filosofica pienamente elaborata. Essa era composta da idee di vario genere, mutuate da diverse parti: mistico-religiose, irrazionalistiche, nazionaliste, positiviste, neohegeliane, sindacaliste, corporativiste, ecc. Gli immediati ispiratori dell'eclettica ideologia fascista vanno piuttosto cercati in Corradini, D'Annunzio, Marinetti, il sociologo V. Pareto e altri.

Il fascismo eserciterà maggiore influenza sulle masse come dottrina mistica e irrazionale, in cui l'uomo è visto nel suo immanente rapporto con una "legge superiore", una "volontà obiettiva". Siccome esso si oppose sempre alle correnti materialistiche dei secoli XVIII e XIX, la sua valorizzazione del pensiero scientifico fu poco significativa. Questo d'altra parte permise al fascismo d'ottenere l'appoggio delle correnti religiose neo-scolastiche e neo-tomiste (Gemelli, Olgiati, ecc) e spiritualiste cristiane (ad es. A. Carlini), nonché l'appoggio di quelle irrazionaliste, razziste, ecc.

La miseria ideologica del fascismo costituiva una delle cause che fece propendere molti intellettuali borghesi per l'idealismo neohegeliano. A causa inoltre del fatto che tale idealismo tendeva a isolare ideologicamente la nazione, preservandola dagli influssi stranieri, ritenuti nocivi in quanto già superati dal neohegelismo, quegli intellettuali erano convinti di trovarsi al centro di un grande movimento culturale (un movimento che aveva eliminato dal panorama culturale italiano intere branche delle scienze umane, come la sociologia, il marxismo, le indagini sulla logica ecc.). Il ruolo duplice e contraddittorio del neohegelismo italiano (che permetteva nel contempo d'essere pro e contro il fascismo) è stato insieme il suo limite e la ragione del suo successo. Con gli sforzi energici intrapresi per sprovincializzare il pensiero filosofico e la cultura italiana, il neoidealismo poté attirare nella sua orbita tantissimi intellettuali che credevano, pur in presenza del fascismo, di costituire una novità assoluta a livello europeo. Chi riuscì a comprendere il lato conservatore e passivo di questa filosofia, o passò all'opposizione antifascista vera e propria, o cercò di superare i limiti del neoidealismo.

Il dibattito sul neoidealismo in Italia

L'idealismo di Croce e Gentile dominò la scena filosofica tra le due guerre: Gentile conquistò soprattutto il pubblico filosofico, Croce risultò la figura dominante nel più vasto campo della cultura.

I movimenti filosofici di opposizione (più o meno forte) a questa corrente furono: lo spiritualismo di Carabellese, Martinetti e Varisco; il movimento neoscolastico di Gemelli, Olgiati, Bontadini, Vanni Rovighi (neotomismo); la fenomenologia di Paci (allievo di Banfi); l'epistemologia di Aliotta che da Napoli diffuse i temi del neorealismo anglosassone e del pragmatismo; Banfi da Milano diffuse lo storicismo tedesco, la fenomenologia e l'esistenzialismo; Pareyson e Abbagnano furono gli esponenti principali dell'esistenzialismo; tracce di anticrocianesimo si individuano nelle due riviste "La Voce" e "Leonardo" (Prezzolini, Papini, Serra, Borgese...); un anticrocianesimo programmatico nella rivista "Cronache letterarie". Ma lo sbocco privilegiato per molti pensatori di formazione idealistica, quando l'idealismo entrò in crisi, fu il marxismo di Gramsci, il cui pensiero cominciò ad essere diffuso dopo la fine della II guerra mondiale.

Tra i numerosi seguaci di Croce non ci sono figure di rilievo, anche se ancora oggi l'influenza metodologica delle sue dottrine si fa sentire nella storiografia, nella critica letteraria, nella storia dell'arte, nella linguistica. Le idee filosofiche di Gentile hanno invece continuato ad esercitare un certo influsso nell'ambito del pensiero filosofico borghese, specie in Gennaro che è approdato a posizioni solipsistiche, in U. Spirito e G. Calogero, che hanno rappresentato la sinistra gentiliana approdata al problematicismo e all'onnicentrismo. La sinistra in pratica trasformò l'idealismo da assolutistico a relativistico. Il neoidealismo continuò a sopravvivere nella filosofia religiosa di Del Noce, Olgiati, Fabro, Bontadini e altri. Lo scopo era quello di conservare l'anticomunismo del neoidealismo abbandonando invece le sue posizioni agnostiche, immanentistiche e panteiste.

BENEDETTO CROCE (1866-1952)

1. Nasce a Pescasseroli (Abruzzo) nel 1866, ma fece i primi studi a Napoli, in un collegio di barnabiti. Poi, a 17 anni, persi i genitori e la sorella nel terremoto di Casamicciola, si trasferisce a Roma presso il prozio Silvio Spaventa (fratello del filosofo Bertrando), dove seguì con scarso entusiasmo e senza terminarli i corsi di giurisprudenza, essendo molto più interessato alle lezioni di Labriola, cui si sentiva vicino anche politicamente.

2. Tornato a Napoli si dedica alla ricerca erudita. Egli ebbe una straordinaria vocazione da autodidatta. Si pose a confronto con tutta la grande cultura dell'idealismo tedesco, ma anche in assiduo dialogo epistolare con personaggi come Georges Sorel, il revisionista di sinistra, tendenzialmente bergsoniano oltre che marxista, teorico del sindacalismo rivoluzionario. Croce ebbe interessi in primo luogo estetico-letterari, poi filosofici e solo in terzo luogo storici e politici.

3. Croce si staccò assai presto dal Labriola, poiché subì fortemente l'influenza del revisionismo europeo antimarxista. Lo attesta uno dei suoi primi libri: Materialismo storico ed economia marxista(1900). Cercò di confutare soprattutto la teoria del plusvalore e di negare la dipendenza del piano ideale-culturale della storia da quello pratico-materiale. Il materialismo storico gli appariva valido solo come "canone empirico" per interpretare i fatti economici. E così, invece di cercare come Labriola un rapporto interdipendente tra struttura e sovrastruttura, Croce finì per considerare la prima subordinata alla seconda. (Sul suo anticomunismo si può leggere il saggio La morte del socialismo, apparso sulla "Voce" nel 1911.)

4. Alla lettura della Scienza Nuova del Vico si deve la nascita del suo primo interesse autenticamente filosofico, che lo indusse ad affrontare il problema dei rapporti tra arte e storia (La storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte, 1893).

5. Negli ultimi anni del secolo entrò in stretta amicizia con G. Gentile, che collaborò per un ventennio alla rivista La Critica (1903-1944), fondata da Croce, e insieme a lui diresse la collana "I classici della filosofia moderna", stampati da Laterza, che fu la sua casa editrice preferita. Croce fu un formidabile organizzatore di cultura. Con Gentile egli può essere considerato il principale esponente della reazione al positivismo in Italia. Egli affermò l'autonomia della cultura, intesa come manifestazione creativa dell'uomo nella storia, irriducibile a tutto ciò che si pretende indipendente dal soggetto.

6. Divergenze prima filosofiche, quindi politiche (sull'adesione al fascismo), raffreddarono l'amicizia, che terminò nel 1924 con una rottura completa. All'avvento del fascismo assunse un atteggiamento di prudente e moderato consenso, che si mutò in esplicita opposizione in occasione del delitto Matteotti, in seguito al quale Croce si allontanò dalla vita politica attiva. Il regime fascista gli consentì di svolgere liberamente il proprio lavoro intellettuale (solo indirettamente politico), tollerandone la fronda, in quanto Croce era espressione di piccole élites liberali lontane dalle masse e anche perché era troppo noto in tutta Europa. Va detto tuttavia che, essendo l'unica voce libera di grande intellettuale estranea al regime, si trovò ad essere nel ventennio il punto di riferimento principale per gran parte delle forze culturali non succubi al fascismo (si veda il Manifesto degli intellettuali antifascisti del 1925).

7. Nominato senatore nel 1910, partecipò al governo nel 1920-21 come ministro della Pubblica Istruzione (poi di nuovo nel 1943-44). Solo alla fine della guerra riprese per qualche anno l'attività politica, dedicandosi alla ricostruzione del Partito Liberale (ne fu il primo presidente). Tuttavia, con l'avvento della democrazia e con l'affermarsi della cultura marxista, la sua centralità andò progressivamente declinando. Nel 1947 fondò a Napoli l'Istituto Italiano di Studi Storici.

8. Fu ministro e membro della Costituente, ma nel 1948 si dedicò di nuovo agli studi, che proseguì fino alla morte, avvenuta nel 1952.

PENSIERO

9. Croce definì il proprio sistema "filosofia dello spirito", intendendo per spirito tutta la realtà che viene posta e si sviluppa in quattro forme distinte di attività: la conoscenza dell'individuale nell'intuizione (arte) e la conoscenza dell'universale nel concetto (pensiero), che sono le due forme dell'attività teoretica o conoscitiva; la volizione del particolare (economia) e la volizione dell'universale (etica), che sono le due forme dell'attività pratica. Il sistema è compiutamente esposto nei tre libri Estetica come scienza dell'epressione e linguistica generale (1902), Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro (1909) e Filosofia della praticaEconomia ed etica (1909).

10. La prima forma dello spirito è l'arte come conoscenza delle cose singole nell'intuizione, che è differente sia dalla percezione, in quanto può riferirsi indifferentemente a una cosa reale o immaginaria, che dalla mera sensazione perché questa è soltanto passiva, mentre l'arte, intuendo, esprime, sicché si può dire che intuizione ed espressione s'identificano. Non esiste conoscenza reale che non sia compiutamente espressa: s'illude chi crede di aver molte cose da dire, ma di non saperle esprimere, sia pure solo tacitamente. Infatti l'estrinsecazione fisica dell'intuizione in suoni, colori, movimenti, e via dicendo, non è necessaria; l'oggetto fisico (il quadro, la frase pronunciata) non è che uno stimolo per riprodurre l'intuizione (immagine, proposizione) nata nella mente dell'autore. Questa è l'effettiva opera d'arte, e per coglierla bisogna porsi di fronte alla sua estrinsecazione fisica, ricostruendo in noi le stesse condizioni dell'autore nel momento della creazione. Quando ciò avviene, riproduciamo necessariamente, mediante il gusto, l'opera d'arte. La diversità dei giudizi critici è dovuta all'imperfetta esecuzione del procedimento, all'impossibilità soggettiva di ricostruire le condizioni dell'autore.

11. Croce sviluppò successivamente la propria estetica nei saggi raccolti in Problemi di estetica (1910), dove l'espressione artistica è riconosciuta come espressione di sentimento e il suo carattere discriminante nei confronti delle espressioni comuni viene scorto nella purezza da interferenze intellettuali o pratiche (cfr. il saggio su L'intuizione e il carattere lirico dell'arte), quindi nel Breviario di estetica, compreso in Nuovi saggi di estetica (1920), nell'Aesthetica in nuce del 1928 (raccolta negli Ultimi saggi, 1935), e infine in La poesia (1936) dove accanto all'espressione poetica vengono teorizzate le espressioni non poetiche che possono assumere valore artistico come "letteratura".

12. La seconda forma dell'attività dello spirito è la conoscenza dell'universale nel concetto, in cui s'identificano espressività, universalità e concretezza. Croce distingue dal concetto gli "pseudoconcetti empirici" (come cavallo, casa), che sono concreti ma non universali, e gli "pseudoconcetti astratti" (come triangolo), che non sono concreti. Gli uni e gli altri sono finzioni concettuali che hanno una finalità esclusivamente pratica. Tali sono tutte le nozioni che costituiscono le scienze naturali (pseudoconcetti empirici) e le matematiche (pseudoconcetti astratti). Mentre gli pseudoconcetti sono molteplici, il concetto, in quanto universale e concreto, deve essere contemporaneamente unico e distinto; di qui l'unità, nella distinzione, delle quattro forme dell'attività dello spirito. L'opposizione interna in ognuna delle forme (bello-brutto, vero-falso, utile-dannoso, bene-male) si risolve pertanto nel nesso dei distinti: non esiste un momento negativo reale in una forma di attività, ma solo l'interferenza di un'altra forma di attività, che, in sé positiva, diventa negativa quando viene colta per quello che non è. Così, p. es., il brutto non è che l'interferenza, nell'arte, del pensiero o dell'attività pratica, in sé positivi, e negativi solo in quanto vengono valutati nell'ambito estetico.

Croce fu un grande estimatore dell'idealismo hegeliano, proprio perché Hegel faceva dipendere dal pensiero (considerato in sé infinito) l'esistenza e la spiegazione di tutta la realtà. La differenza fondamentale tra i due grandi idealisti stava nel diverso modo di considerare la contraddizione, che per Hegel costituiva un'antitesi vera e propria da superare, mentre per Croce (che in questo assomigliava a Shelling) era solo un aspetto distinto da tenere in considerazione.

Croce fu anche un grande avversario del positivismo e della scienza in generale. Egli riteneva che i concetti scientifici fossero dei "pseudoconcetti", perché il pensiero che "scompare" nelle cose, che si "oggettiva" in un ragionamento quantitativo ed esperienziale, muore. La scienza può avere un valore pratico ma non teorico. Questa sottovalutazione delle scienze esatte e sperimentali comporterà gravi ritardi nella cultura italiana e nella didattica scolastica.

13. L'attività pratica consiste nella volizione che è libera nella misura in cui non è arbitraria o contraddittoria. Immorale è unicamente l'azione, che, essendo economica (volizione del particolare), pretende di essere etica (volizione dell'universale). In sé l'azione economica non potrà mai essere morale o immorale: è sempre assolutamente amorale. L'uomo lotta per il proprio particolare, ma il gioco delle azioni umane ha un senso sovrapersonale che sublima ed anzi strumentalizza l'utilitarismo (economicismo) realizzando idealità e libertà sempre più avanzate.

14. Sul piano politico, va detto che col concetto di liberalismo egli non intendeva una precisa dottrina politica volta a rivendicare le sfere di autonomia del singolo dal potere statuale, onde evitare gli arbitri di chi governa, ma intendeva una sorta di "metapolitica", cioè l'idea che la storia è storia della libertà umana, contro e attraverso le limitazioni che lo spirito umano pone e scopre in se stesso e con cui deve misurarsi per superarle.

15. Sul piano dell'economia politica, polemizzò con Einaudi, negando che il liberalismo dovesse necessariamente essere legato al liberismo, ossia all'economia della massima esaltazione della libera concorrenza tra privati. Per lui il libero mercato senza limiti era solo una delle politiche possibili del liberalismo.

16. Lo Stato per lui era considerato come un grande Leviatano, continuamente teso a sbranare altri Stati. La sua indipendenza dalla chiesa doveva essere assoluta, benché non fosse compito dello Stato stabilire il bene e il male (come senatore votò contro il Concordato del 1929). Ciò che del fascismo non apprezzò mai fu l'idea di diventare Stato autoritario, regime a partito unico.

17. Avendo nettamente separato lo studio dei fatti economici da quelli ideologici (privilegiando quest'ultimi), Croce non poté dare un'analisi storica criticamente adeguata della genesi del fascismo. Per lui il fascismo fu una semplice parentesi, un'eccezione che conferma la regola, una deviazione temporanea nel corso della storia come processo irreversibile della libertà. Non vide mai il fascismo come prodotto che a certe condizioni diventa necessario nel capitalismo.

18. Il sistema crociano si conclude con le riflessioni sul problema della storia da cui si era inizialmente sviluppato. Al problema Croce dedicò la Teoria e storia della storiografia (1917) e La storia come pensiero e come azione (1938). Riprendendo le riflessioni della Logica, la storia (che nell'Estetica era teorizzata come "arte") viene identificata con il pensiero, e la filosofia appare come "il momento metodologico" della storiografia che tratta sempre la storia insieme particolare e universale, perché le attività dello spirito sono appunto distinte ma non separate. Mentre nei confronti del passato è impossibile pronunciare giudizi di valore, e lo storico non può che valorizzare positivamente ogni fatto cogliendolo nella sua necessità (di qui l'ottimismo storico crociano), il presente richiede la valutazione e la scelta degli avvenimenti in atto, che non devono essere accettati passivamente. Croce viene definito come esponente della corrente storiografica "etico-politica".

19. Accanto all'attività filosofica Croce sviluppò un'intensa produzione storiografica i cui risultati più importanti sono la Storia del Regno di Napoli (1925), la Storia d'Italia dal 1871 al 1915 (1928), laStoria dell'età barocca in Italia (1929) e, infine, la Storia d'Europa nel secolo XIX (1932).

20. Definendosi "idealista desanctisiano" in estetica, Croce rivendica i diritti della fantasia contro i positivisti e mette in ridicolo la scuola storico-erudita con la sua aneddotica, volta a indagare elementi insignificanti della vita del poeta. Ma il ritorno a De Sanctis non era privo di motivi di dissenso: Croce rimproverava al De Sanctis il suo eccessivo hegelismo che lo aveva spinto a costruire dialetticamente una storia della letteratura.

21. A differenza del metodo desanctisiano e tenendo conto del carattere individualizzante che, in sede estetica, aveva rilevato nell'espressione artistica, Croce concepisce la storia della letteratura e dell'arte al di fuori di schemi astratti, come una serie di monografie rivolte unicamente a mettere in luce il valore poetico di ogni singola opera. Si dissolvono pertanto i "generi" letterari: come l'arte è nello stesso tempo pittura, architettura, poesia, musica e scultura, così la poesia è sempre lirica ed epica, comica e tragica, e il romanzo è poesia allo stesso titolo di un'opera in versi.

22. Per quanto concerne la critica letteraria, Croce ritiene che il critico non sia artifex additus artifici, ma philosophus additus artifici: la sua funzione, cioè, è quella di distinguere la poesia dalla non-poesia e la parte poetica di un capolavoro dalla sua parte strutturale, la quale è però legata alla precedente da un nesso dialettico. Dal 1903 al 1914 compaiono su "La Critica" le Note sulla letteratura italiana della seconda metà del secolo XIX, raccolte poi sotto il titolo La letteratura della nuova Italia (6 vol., 1914-40). Soprattutto agli scritti apparsi su "La Critica" è legato il nome di Croce come polemista brillante e scrittore limpido ed elegante. Già nel 1903 vedono la luce i saggi su Carducci, Fogazzaro, De Amicis, Verga, Serao, Di Giacomo; seguono i saggi sugli scapigliati, su D'Annunzio, Zanella, ecc.

23. La ricerca concreta su tanti poeti e scrittori diversi porterà Croce a ripensare i principi etico-politici e la sua concezione estetica. La letteratura contemporanea non è però il solo interesse: nel 1911 compaiono i Saggi sulla letteratura italiana del Seicento. Nello stesso anno Croce esprime il desiderio di dar vita a "qualche monografia che risponda meglio... al mio ideale di critica e sia dedicata a un soggetto più importante che non i letterati italiani dell'ultimo mezzo secolo". Da questa esigenza nascerà il saggio su Goethe, scritto quando ancora infuriava la guerra contro la Germania (1917), per quel bisogno di equilibrio e di rispetto per i valori ideali eterni che non possono venir toccati dalle passioni transeunti: un saggio che è un modello di organicità e di sintesi espositiva. A questo fanno seguito i saggi su Ariosto, Shakespeare e Corneille (1920) e La poesia di Dante (1921), che è forse uno dei suoi libri più discussi e influenti. Con Poesia e non poesia (1923) si conclude questa fase della critica crociana.

24. Seguiranno altri studi, con proposte nuove e approfondimento dell'antico. Nascono così i volumi che vanno sotto i titoli di Conversazioni critiche (5 vol. 1918-39), Poesia popolare e poesia d'arte(1933), Poesia antica e moderna (1941), in cui si chiarisce e approfondisce lo stretto rapporto fra pensiero estetico e valutazione delle singole opere. Del periodo estremo si ricordano i Saggi sulla letteratura italiana del Settecento (1949), quelli, in tre volumi, sul Rinascimento (Poeti e scrittori del pieno e tardo Rinascimento, 1945-52), le Letture di poeti (1950) e le postume Terze pagine sparse (1955): ultimi contributi di un'attività straordinariamente ampia che ha fatto di Croce la figura di maggior risalto nel panorama della cultura italiana del primo Novecento. A cura della figlia Lidia sono state pubblicate nel 1975 le Lettere di Antonio Labriola a Benedetto Croce (1885-1904).

Altre osservazioni critiche

Teoricamente la filosofia crociana era priva di valori. Dicendo p.es. che tutto è storia o che lo spirito è la storicità, arrivava a giustificare qualunque cosa. Non a caso egli poneva il valore della storia nella forza, non nel diritto, il quale, anzi, è esso stesso sottoposto al criterio della forza e dell'utile. Croce fa intervenire la libertà soltanto quando la forza diventa esagerata ed evita accuratamente di parlare di "Stato etico". Di qui la sua differenza da Gentile, ma è semplicemente la differenza tra un soggettivista e un oggettivista, benché nella loro filosofia appaia esattamente il contrario, e cioè che lo storicismo crociano sembra rientrare nell'oggettivismo hegeliano (in maniera diciamo "liquida"), mentre il pensiero pensante di Gentile rientra nell'io assoluto di origine fichtiana (in maniera diciamo "indotta").

Ciò spiega facilmente il motivo per cui Croce rifiutasse la dialettica degli opposti. Quando non si vogliono affermare dei valori, non possono esserci dei conflitti irriducibili, i cui elementi devono essere superati entrambi in una sintesi. Esistono soltanto dei distinguo o dei distinti, che vanno salvaguardati entrambi, ognuno dei quali rispecchia una certa posizione di forza. La stessa etica è condizionata dalla forza che si esprime nell'economia e che lui chiama col concetto di utile.

La sua filosofia è non meno irrazionalistica di quella di Gentile: la differenza sta nel fatto che l'uno faceva coincidere immediatamente il singolo con lo Stato, per cui annullava la filosofia nella politica; l'altro invece aveva una posizione più astratta e faceva coincidere filosofia e storia dal punto di vista della storia, poiché questa è storia della libertà che diviene necessità.

Ma se prendiamo p. es. la sua teoria dell'arte o la sua concezione dell'estetica, vediamo che egli fa di tutto per tenerla separata dall'etica. L'artista è sempre moralmente incolpevole. E' sufficiente che abbia l'intuizione sensibile o lirica, il sentimento del bello, senza preoccuparsi se ciò che esprime sia vero, reale o no. Non occorre una passione sfrenata, una concezione molto intellettuale della realtà, né un obiettivo specifico (p.es. l'utile, il vero, il bene, il piacere) per fare un'ottima arte. L'unico fine dell'arte è la bellezza, che Croce considera in maniera astratta e formale, avulsa dal suo contesto, che pur va analizzato con gli strumenti della critica filologica.

Croce dà un'infinita importanza al sentire interiore, che deve però esprimersi secondo un linguaggio specifico. Di tutti i linguaggi quello poetico è per lui il più significativo: infatti nella prosa non vi sono immagini plastiche o simbolico-evocative, mentre nell'oratoria non vi sono parole significative ma solo suoni articolati. Per lui l'anima dell'espressione poetica è il ritmo. La poesia quindi è strettamente legata a un sentimento che si esprime seguendo le regole ritmiche di un proprio linguaggio. Forse si potrebbe dire che quello che Gentile diceva a proposito del "pensiero pensante", irriducibile a qualunque fissazione, Croce lo diceva a proposito dell'arte, che è identità di intuizione ed espressione, cioè linguaggio primordiale.

Per quanto riguarda la storia, è questa che domina e dà senso alla sua filosofia, e non tanto la storia in generale o una qualunque storia, ma la storia che va studiata per un'esigenza sentita nel presente. Quindi la storia è sempre storia contemporanea. Quando la si studia, essa perde la sua passionalità e diventa necessaria. La storia, per lui, è sempre un progresso, perché, anche se vi sono elementi irrazionali, questi, col tempo, diventano razionali, grazie a quella sorta di "provvidenza" che alla fine aggiusta tutto. Ecco perché definisce il fascismo una semplice parentesi irrazionale. Il vero soggetto della storia è lo spirito infinito e nella storia si risolve sempre ogni problema.

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Wikipedia

Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 – Napoli, 20 novembre 1952) è stato un filosofo, storico, politico, critico letterario e scrittore italiano, principale ideologo del liberalismo novecentesco italiano; fu un esponente di spicco dello storicismo, concezione per cui «tutta la realtà è concepita come storia, nel senso di un radicale immanentismo» affrancato altresì dal modello concettuale delle scienze della natura. In funzione anti-positivistica, nella filosofia crociana, la scienza diventa la misuratrice della realtà, sottomessa alla filosofia, che invece comprende e spiega il reale. Fu tra i fondatori del ricostituito Partito Liberale Italiano, assieme a Luigi Einaudi. Con Giovanni Gentile - dal quale lo separarono la concezione filosofica e la posizione politica nei confronti del fascismo dopo il delitto Matteotti - è considerato tra i maggiori protagonisti della cultura italiana ed europea della prima metà del XX secolo, in particolare dell'idealismo.

Biografia

«... e su questo terreno, traballante a ogni passo, dobbiamo fare il meglio che possiamo per vivere degnamente, da uomini, pensando, operando, coltivando gli affetti gentili; e tenerci sempre pronti alle rinunzie senza per esse disanimarci » (Benedetto Croce dai Taccuini (marzo 1944) in Scritti e discorsi politici, Vol. I, pp. 276-277 )

Nacque a Pescasseroli, in provincia de L'Aquila, il 25 febbraio 1866. I genitori appartenevano a due agiate famiglie abruzzesi: l'una, quella materna, nativa di Pescasseroli e radicatasi anche in Capitanata e Terra di Lavoro, più legata agli ideali liberali, l'altra, quella paterna, di stampo borbonico, originaria di Montenerodomo (in provincia di Chieti), ma trapiantatasi a Napoli. Croce crebbe in un ambiente profondamente cattolico dal quale però, ancora adolescente, si distaccò, non riaccostandosi più per tutta la vita alla religiosità tradizionale.

Il terremoto di Casamicciola

A diciassette anni perse i genitori, Pasquale e Luisa Sipari, e la sorella Maria, periti il 28 luglio 1883 nel terremoto di Casamicciola, nell'isola di Ischia, dove Croce si trovava in vacanza con la famiglia. Un terremoto disastroso durato 90 secondi - e rimasto come esempio terribile di distruzione nel modo di dire delle popolazioni coinvolte - dove lo stesso Benedetto rimase «sepolto per parecchie ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo». Fra i primi ad accorrere in suo aiuto fu il cugino Paolo Petroni, la famiglia del quale lo assisté affettuosamente nei mesi seguenti nella loro residenza di campagna a San Cipriano Picentino, poco distante da Salerno. In seguito a questo tragico episodio fu affidato alla tutela dello zio Silvio Spaventa, fratello del filosofo Bertrando Spaventa, che mise da parte i dissapori che aveva con la famiglia Croce e lo accolse nella casa romana dove Benedetto visse fino alla maggiore età. Primi contatti con gli intellettuali . Nel circolo culturale nella casa dello zio Silvio, Croce ebbe modo di frequentare importanti uomini politici ed intellettuali tra cui Labriola che lo inizierà al marxismo. Pur essendo iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Napoli Croce frequentò le lezioni di filosofia morale a Roma tenute dal Labriola. Non terminò mai i suoi studi universitari, ma si appassionò a studi eruditi e filosofici, trascurando il pensiero hegeliano, di cui criticava la forma incomprensibile.

Il ritorno a Napoli.

Lasciata la Roma troppo accesa di passioni politiche, Croce nel 1886 tornò a Napoli, dove acquistò, per abitarvi, la casa dove aveva trascorso la sua vita Giambattista Vico, il filosofo napoletano amato da Croce per la concezione filosofica anticipatrice, per certi aspetti, della sua. Compì numerosi viaggi in Spagna, Germania, Francia ed Inghilterra mentre nella sua formazione culturale cresceva l'interesse per gli studi storici e letterari, in particolare per la poesia di Giosuè Carducci, e per le opere di Francesco De Sanctis. Nel 1895, attraverso Antonio Labriola con cui era rimasto in contatto, si interessò al marxismo, di cui però criticava come astorica la visione che dava del capitalismo. Da Marx risalì alla filosofia hegeliana che cominciò ad apprezzare e ad approfondire.

La fondazione de La critica e la vita politica

Nel gennaio del 1903 uscì il primo numero della rivista La critica, con la collaborazione di Giovanni Gentile, e stampata a sue spese fino al 1906, allorché subentrò l'editore Laterza. Venne nominato per censo senatore nel 1910 e dal 1920 al 1921 fu ministro della Pubblica Istruzione nel 5º e ultimo governo Giolitti. Elaborò una riforma della pubblica istruzione che fu poi ripresa ed attuata da Giovanni Gentile.

Posizione nella prima guerra mondiale.

«Ardenti e vivacissime furono in quei dieci mesi le polemiche tra «interventisti» e «neutralisti», come erano chiamati. [...] non si può dire che [gli interventisti] avessero torto, come non si può dire che l'avessero i loro oppositori, perché dissidî di questa sorta non sono materia, nonché di tribunali, neppure di critica scientifica, e hanno questo carattere entrambe le tesi, appassionatamente difese, sono necessarie per l'effetto politico e, come suona il motto, che, se una delle due opposizioni non ci fosse, converrebbe inventarla. Più di un cosiddetto «neutralista» si sentiva talvolta scosso dalla tesi avversaria e inclinava ad accoglierla, e il medesimo accadeva a più di un «interventista».» (Benedetto Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1943.) Il filosofo, nella scelta tra le due posizioni, neutralismo o interventismo alla prima guerra mondiale, si rivolse alla prima. Ma il suo era un neutralismo che contemperava le posizioni liberali con la possibilità dell'intervento.

Infatti, come scriveva a Henry Bigot nel 1914, era ««pronto ad accettare quella guerra che saremo costretti a fare, quale che sia, anche contro la Germania, ad accettarla come una dolorosa necessità, risoluto a non provocarla per ragioni antinazionali e settarie» » (B. Croce, Epistolario, vol. I, Napoli 1967, p. 3.) La rottura con il fascismo [modifica] Inizialmente affine all'ideologia fascista, nella quale confidava, come molti altri, perché l'Italia potesse effettuare un ritorno all'ordine, Croce ruppe definitivamente col fascismo a seguito del delitto Matteotti (10 giugno 1924). Nello stesso anno interruppe la sua amicizia con Giovanni Gentile, per discrepanze filosofiche e soprattutto politiche. Gentile, con la pubblicazione del Manifesto degli intellettuali fascisti nel 1925, si era infatti schierato definitivamente dalla parte del fascismo. Croce rispose aderendo all'invito di Giovanni Amendola, pubblicando a sua volta su Il Mondo il 1º maggio 1925, il Manifesto degli intellettuali antifascisti nel quale veniva denunciata la violenza e la soppressione della libertà di stampa da parte del regime. Tuttavia nelle votazioni al «Senato del 24 giugno 1925 fu come Gentile e Morello, tra i 225 votanti la fiducia al governo Mussolini. In seguito Benedetto Croce spiegò in una intervista che il suo non era stato un voto fascista, aveva votato a favore del regime perché pensava che Mussolini, se sostenuto, poteva esser sottratto all'estremismo fascista a cui Croce faceva risalire la responsabilità del delitto Matteotti.»

Il disaccordo con la cultura cattolica

Il rapporto di Croce con la cultura cattolica variò nel corso del tempo. Agli inizi del Novecento i filosofi idealisti, come Croce e Gentile, avevano esercitato assieme alla cultura cattolica una comune critica al positivismo ottocentesco. Alla fine degli anni venti vi era stato un progressivo allontanamento della cultura laica e idealistica dalla cultura cattolica. L'11 febbraio 1929 la Chiesa con i Patti Lateranensi aveva ormai raggiunto un rapporto equilibrato con le istituzioni statali italiane distaccandosi quindi dalle posizioni politiche antifasciste dell'idealismo crociano. Croce fu contrario al Concordato e dichiarò apertamente in Senato che «accanto o di fronte ad uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri per i quali l'ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza.» Mussolini gli rispose dichiarandolo «un imboscato della storia», e accusando il filosofo di passatismo e di viltà di fronte al progresso storico. Quando Croce scrisse la Storia d'Europa nel secolo decimonono, il Vaticano criticò aspramente Croce che difendeva le filosofie esaltanti una religione della libertà senza Dio. Dapprima il Sant'Uffizio pose all'Indice nel 1932 questo libro, e non ottenendo negli anni successivi da Croce un qualsiasi ripensamento, nel 1934 inserì nell'elenco dei libri proibiti tutti i suoi scritti. Il fascismo "malattia morale" [modifica] Benedetto Croce Dopo un breve appoggio al movimento antifascista Alleanza Nazionale (1930), si allontanò quindi dalla vita politica, continuando peraltro ad esprimere liberamente le sue idee politiche, senza che il regime fascista lo censurasse. In effetti il fascismo riteneva Croce un avversario poco temibile, sostenitore com'era di un fascismo inteso come "malattia morale" inevitabilmente superata dal progresso della storia. Inoltre la fama di Croce presso l'opinione pubblica europea lo proteggeva da interventi oppressivi da parte del regime. Nel 1938 il regime varò la legislazione antisemita. Il governo inviò a tutti i professori universitari un questionario da compilare ai fini della classificazione "razziale". Tutti gli interpellati risposero. L'unico intellettuale non ebreo che rifiutò di compilare il questionario fu Croce. Il filosofo, invece di restituire compilata la scheda, inviò una lettera al presidente dell'Istituto Veneto di Scienze, in cui scrisse sarcasticamente: «Gentilissimo collega, ricevo oggi qui il questionario che avrei dovuto rimandare prima del 20. In ogni caso, io non l'avrei riempito, preferendo di farmi escludere come supposto ebreo. Ha senso domandare a un uomo che ha circa sessant'anni di attività letteraria e ha partecipato alla vita politica del suo paese, dove e quando esso sia nato e altre simili cose? »

Il rientro nella vita politica

Dopo la caduta del regime Croce rientrò in politica, accettando la nomina a presidente del Partito Liberale. Durante la Resistenza cercò di mediare tra i vari partiti antifascisti. Nel 1944 fu Ministro senza portafoglio nel secondo governo Badoglio. Subito dopo la liberazione di Roma (giugno 1944) entrò a far parte del secondo governo Bonomi, sempre come ministro senza portafoglio, ma diede le dimissioni qualche mese dopo, il 27 luglio. Al referendum sulla forma dello Stato (2 giugno 1946) votò per la monarchia, inducendo tuttavia il Partito Liberale (di cui rimane presidente fino al 30 novembre 1947) a non schierarsi, per far sì che prevalesse sulla questione piena ed effettiva libertà di scelta, e dichiarando in seguito: «il buon senso fece considerare a quei milioni di votanti favorevoli alla monarchia, che, se anche essi avessero riportato la maggioranza legale, una monarchia con debole maggioranza non avrebbe avuto il prestigio e l'autorità necessaria, e perciò meglio valeva accettare la forma nuova della Repubblica e procurar di farla vivere nel miglior modo, apportandovi lealmente il contributo delle proprie forze.» Concetti che Croce aveva, nella loro sostanza, già espresso; ben prima che Umberto II, nel messaggio del 13 giugno 1946, ribadisse tale indicazione.. Eletto all'Assemblea Costituente, non accettò la proposta di essere candidato a presidente provvisorio della Repubblica, così come in seguito rifiutò la proposta, avanzata da Luigi Einaudi, di nomina a senatore a vita. Si oppose strenuamente alla firma del Trattato di pace, con un accorato e famoso intervento all'Assemblea costituente, ritenendolo indecoroso per la nuova Repubblica. Nel 1946 fondò a Napoli l'Istituto Italiano per gli Studi Storici destinando per la sede un appartamento di sua proprietà, accanto alla propria abitazione e biblioteca nel Palazzo Filomarino dove oggi ha sede la Fondazione Biblioteca Benedetto Croce. Per un ictus cerebrale, sopravvenuto nel 1949, semiparalizzato si ritirò in casa continuando a studiare: morì seduto in poltrona nella sua biblioteca il 20 novembre 1952.

La sua opera

Da destra, Giovanni Laterza, Stefano Jacini, Croce e un personaggio non identificato L'opera di Croce può essere suddivisa in tre periodi: quello degli studi storici, letterari e il dialogo con il marxismo, quello della maturità e delle opere filosofiche sistematiche e quello dell'approfondimento teorico e revisione della filosofia dello spirito in chiave storicista. Parallelamente allo studio del marxismo, Croce approfondisce anche quello di Hegel; secondo entrambi la realtà si dà come spirito che continuamente si determina e, in un certo senso, si produce. Lo spirito è quindi la forza animatrice della realtà, che si auto-organizza dinamicamente divenendo storia secondo un processo razionale. Da Hegel egli recupera soprattutto il carattere razionalistico e dialettico in sede gnoseologica: la conoscenza si produrrebbe allora attraverso processi di mediazione dal particolare all'universale, dal concreto all'astratto, per cui Croce afferma che la conoscenza è data dal giudizio storico, nel quale universale e particolare si fondono recuperando la sintesi a priori di Kant e lo storicismo di Giambattista Vico, suo altro filosofo di riferimento. Tuttavia egli critica Hegel, poiché secondo lui il filosofo ha concepito la dialettica in modo riduttivo, ovvero semplicemente come dialettica degli opposti, mentre secondo Croce sussiste anche una logica dei distinti, ovvero il fatto che certi atti ed eventi vadano sempre considerati appunto distinti rispetto ad altri ordini di atti ed eventi. Elabora, quindi, un vero e proprio sistema, da lui denominato la filosofia dello spirito. Qui la realtà in quanto attività (ovvero produzione dello spirito o della storia) è articolata in quattro forme fondamentali, suddivise per modo (teoretico o pratico) e grado (particolare o universale): estetica (teoretica - particolare), logica (teoretica-universale), economia (pratica - particolare), etica (pratica - universale). La relazione tra queste quattro forme opera la suddetta logica dei distinti, mentre all'interno di ognuna di esse si ha la dialettica degli opposti.

Estetica

Croce si interessò anche di critica letteraria (saggi su Goethe (1917), Ariosto, Shakespeare e Corneille (1920), "La letteratura della nuova Italia" e "La poesia di Dante") condotta secondo la sua teoria estetica che mirava nel giudizio critico dell'opera letteraria alla scoperta delle motivazioni profonde dell'ispirazione artistica tanto più valida quanto più coerente con le categorie di bello-brutto. La prima parte della teoria estetica la ritroviamo in opere come Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale (1902), Breviario di estetica (1912) e Aesthetica in nuce (1928). L'estetica, dal significato originario del termine aisthesis (sensazione), si configura in primo luogo come attività teoretica relativa al sensibile, si riferisce alle rappresentazioni ed alle intuizioni che noi abbiamo della realtà. Come conoscenza del particolare l'intuizione estetica è la prima forma della vita dello Spirito. Prima logicamente e non cronologicamente poiché tutte le forme sono presenti insieme nello Spirito. L'arte, come aspetto dell'Estetica, è una forma della vita spirituale che consiste nella conoscenza, intuizione del particolare che come forma dello Spirito, come creatività non è sensazione, conoscenza sensibile che è un aspetto passivo dello Spirito rispetto ad una materia oscura e ad esso estranea; come conoscenza (prima forma dell'attività teoretica) non ha a che fare con la vita pratica.

Bisogna quindi respingere tutte le estetiche che abbiano fini edonistici, sentimentali e moralistici; quale espressione di un valore autonomo dello spirito, l'arte non può né deve essere giudicata secondo criteri di verità, moralità o godimento; come intuizione pura va distinta dal concetto che è conoscenza dell'universale: compito proprio della filosofia. L'arte può essere definita quindi come intuizione-espressione, due termini inscindibili per cui non è possibile intuire senza esprimere né è possibile espressione senza intuizione. Ciò che l'artista intuisce è la stessa immagine (pittorica, letteraria, musicale ecc.) che egli per ispirazione crea da una considerazione del reale, nel senso che l'opera artistica è l'unità indifferenziata della percezione del reale e della semplice immagine del possibile. La distinzione tra arte e non arte risiede nel grado di intensità dell'intuizione-espressione.Tutti noi intuiamo ed esprimiamo: ma l'artista è tale perché ha un'intuizione più forte, ricca e profonda a cui sa far corrispondere un'espressione adeguata. Coloro che sostengono di essere artisti potenziali poiché hanno delle intense intuizioni ma che non sono capaci di tradurre in espressioni, non si rendono conto che in realtà non hanno alcuna intuizione poiché se la possedessero veramente essa si tradurrebbe in espressione. L'arte non è aggiunta di una forma ad un contenuto ma espressione, che non vuol dire comunicare, estrinsecare, ma è un fatto spirituale, interiore come l'atto inscindibile da questa che è l'intuizione. Nell'estetica dobbiamo far rientrare anche quella forma dell'espressione che è il linguaggio che nella sua natura spirituale fa tutt'uno con la poesia. L'estetica quindi come una "linguistica in generale".

Logica

Della logica, Croce tratta essenzialmente in Logica come scienza del concetto puro del 1905; essa corrisponde al momento in cui l'attività teoretica non è più affidata alla sola intuizione (all'ambito estetico), ma partecipa dell'elemento razionale, che attinge dalla sfera dell'universale. Il punto di arrivo di questa attività è l'elaborazione del concetto puro, universale e concreto che esprime la verità universale di una determinazione. La logica crociana è anche storica, nella misura in cui essa deve analizzare la genesi e lo sviluppo (storico) degli oggetti di cui si occupa. Il termine logica in Benedetto Croce assume quindi un significato più vicino al termine dialettica ovvero ricerca storiografica. In genere, la Logica di Croce è lontana da criteri scientifico-razionali, e si ispira ai metodi dell'immaginazione artistica e dell'eleganza estetico-letteraria, nei quali il filosofo raggiunge risultati eccellenti. Di carattere decisamente diverso è invece la filosofia delle scienze fisiche, matematiche e naturali delle quali Croce non si occupa affatto nei suoi studi. Del resto, come segnala Ludovico Geymonat nel suo Corso di filosofia - immagini dell'uomo, «la vera indubbia grandezza di Croce va cercata assai più nella sua opera di storiografo, di critico letterario, ecc., che non nella sua opera di filosofo». In ogni caso la logica e la filosofia della scienza è stata sviluppata in Italia da altri correnti di pensiero contemporaneo a quello crociano, con studiosi fra quali Giuseppe Peano (1858-1932) e lo stesso Geymonat (1908-1991). Un orientamento parzialmente diverso ebbe invece Giovanni Gentile che, pur criticando gli eccessi del positivismo, intrattenne anche rapporti con matematici e fisici italiani e cercò di instaurare un rapporto costruttivo con la cultura scientifica. Invece Croce ebbe con la logica e la scienza un rapporto difficile. La sua posizione portò in Italia nella prima metà del Novecento ad uno scontro dialettico fra due culture contrapposte: quella artistico-letteraria e quella tecnico-scientifica.

Il rapporto conflittuale con le scienze matematiche e sperimentali

Un caso emblematico del giudizio di Benedetto Croce nei confronti della matematica e delle scienze sperimentali è la sua nota diatriba con il matematico e filosofo della scienza Federigo Enriques, avvenuta il 6 aprile 1911 in seno al congresso della Società Filosofica Italiana, fondata e presieduta dallo stesso Enriques. Questi sosteneva che una filosofia degna di una nazione progredita non potesse ignorare gli apporti delle più recenti scoperte scientifiche. La visione di Enriques mal si confaceva a quella idealistica di Croce e Gentile, come pure a gran parte degli esponenti della filosofia italiana di allora, per lo più formata da idealisti crociani. Croce, in particolare, rispose ad Enriques, liquidando in modo generico - "antifilosofico", dirà Enriques - la proposta di considerare la scienza come un valido apporto alle problematiche filosofiche e sostenendo, anzi, che matematica e scienza non sono vere forme di conoscenza, adatte solo agli «ingegni minuti» degli scienziati e dei tecnici, contrapponendovi le «menti universali», vale a dire quelle dei filosofi idealisti, come Croce medesimo. I concetti scientifici non sono veri e propri concetti puri ma degli pseudoconcetti, falsi concetti, degli strumenti pratici di costituzione fittizia. «La realtà è storia e solo storicamente la si conosce, e le scienze la misurano bensì e la classificano come è pur necessario, ma non propriamente la conoscono né loro ufficio è di conoscerla nell'intrinseco». Sul tema Benedetto Croce sostenne, tra l'altro, che: «Gli uomini di scienza [...] sono l'incarnazione della barbarie mentale, proveniente dalla sostituzione degli schemi ai concetti, dei mucchietti di notizie all'organismo filosofico-storico. » (Benedetto Croce da Il risveglio filosofico e la cultura italiana, n. 6, 1908, pp. 161-168) A proposito dello sviluppo novecentesco della logica matematica e dell'introduzione dei formalismi simbolici, ad opera di matematici e filosofi quali Gottlob Frege, Giuseppe Peano, Bertrand Russell, Benedetto Croce dichiarerà: «I nuovi congegni [della logica matematica] sono stati offerti sul mercato: e tutti, sempre, li hanno stimati troppo costosi e complicati, cosicché non sono finora entrati né punto né poco nell'uso. Vi entreranno nell'avvenire? La cosa non sembra probabile e, a ogni modo, è fuori della competenza della filosofia e appartiene a quella della pratica riuscita: da raccomandarsi, se mai, ai commessi viaggiatori che persuadano dell'utilità della nuova merce e le acquistino clienti e mercati. Se molti o alcuni adotteranno i nuovi congegni logici, questi avranno provato la loro grande o piccola utilità. Ma la loro nullità filosofica rimane, sin da ora, pienamente provata.» (Benedetto Croce da Logica come scienza del concetto puro,(1909))

Anni dopo, ancora scriveva che: «Le scienze naturali e le discipline matematiche, di buona grazia, hanno ceduto alla filosofia il privilegio della verità, ed esse rassegnatamente, o addirittura sorridendo, confessano che i loro concetti sono concetti di comodo e di pratica utilità, che non hanno niente da vedere con la meditazione del vero. » (Benedetto Croce da Indagini su Hegel e e schiarimenti filosofici (1952)) e ribadiva come: «Le finzioni delle scienze naturali e matematiche postulano di necessità l'idea di un'idea che non sia finta. La logica, come scienza del conoscere, non può essere, nel suo oggetto proprio, scienza di finzioni e di nomi, ma scienza della scienza vera e perciò del concetto filosofico e quindi filosofia della filosofia. » (Benedetto Croce da Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1952)) Secondo diversi storici e filosofi (es. Giulio Giorello, Enrico Bellone, Armando Massarenti), l'influenza antiscientifica di Croce nel panorama italiano è stata fortemente deleteria sia sul piano dell'istituzione scolastica per gli orientamenti pedagogici della scuola italiana, che si indirizzò prevalentemente agli studi umanistici considerando quelli scientifici di secondo piano, sia per la formazione di una classe politica e dirigente che tenesse in dovuta considerazione l'importanza della scienza e della tecnica e portando, per conseguenza, ad un ritardo dello sviluppo tecnologico e scientifico nazionale.

Filosofia della pratica

Economia ed etica vengono trattate in Filosofia della pratica. Economica ed etica del 1909. Croce dà molto rilievo alla volizione individuale che è poi l'economia, avendo egli un forte senso della realtà e delle pulsioni che regolano la vita umana. L'utile, che è razionale, non sempre è identico a quello degli altri: nascono allora degli utili sociali che organizzano la vita degli individui. Il diritto, nascendo in questo modo, è in un certo qual senso amorale, poiché i suoi obiettivi non coincidono con quelli della morale vera e propria. Egualmente autonoma è la sfera politica, che è intesa come luogo di incontro-scontro tra interessi differenti, ovvero essenzialmente conflitto, quello stesso conflitto che caratterizza il vivere in generale. Croce critica anche l'idea di Stato elaborata da Hegel: lo stato non ha nessun valore filosofico e morale, è semplicemente l'aggregazione di individui in cui si organizzano relazioni giuridiche e politiche. L'etica è poi concepita come l'espressione della volizione universale, propria dello spirito; non vi è un'etica naturale o un'etica formale, e dunque non vi sono contenuti eterni propri dell'etica, ma semplicemente essa è l'attuazione dello spirito, che manifesta in modo razionale atti e comportamenti particolari. Questo avviene sempre in quell'orizzonte di continuo miglioramento umano.

Teoria e storia della storiografia. La storia e lo spirito: lo storicismo assoluto

La teoria di Croce, lo abbiamo visto, è fortemente storicista, come si evince anche da Teoria e storia della storiografia (1917). Per ciò, se volessimo riassumere con una formula la filosofia di Croce, questa sarebbe storicismo assoluto, ossia la convinzione che tutto è storia, affermando che tutta la realtà è spirito e che questo si dispiega nella sua interezza all'interno della storia. La storia non è dunque una sequela capricciosa di eventi, ma l'attuazione della Ragione. La conoscenza storica ci illumina a proposito delle genesi dei fatti, è una comprensione dei fatti che li giustifica con il suo dispiegarsi. Si delinea in quest'ottica il compito dello storico: egli, partendo dalle fonti storiche (documenti), deve superare ogni forma di emotività nei confronti dell'oggetto studiato e presentarlo in forma di conoscenza. In questo modo la storia perde la sua passionalità e diviene visione logica della realtà. Quanto appena affermato si può evincere dalla celebre frase "la storia non è giustiziera, ma giustificatrice". Con questo afferma che lo storico non giudica e non fa riferimento al bene o al male. Quest'ultimo delinea, inoltre, come la storia abbia anche un preciso orizzonte gnoseologico, poiché in primo luogo è conoscenza, e conoscenza contemporanea, ovvero la storia non è passata, ma viva in quanto il suo studio è motivato da interessi del presente.

La storiografia è in seconda istanza utile per comprendere l'intima razionalità del processo dello spirito, e in terzo luogo essa è conoscenza non astratta, ma di fatti ed esperienze ben precise. Croce critica gli illuministi e in generale chiunque vorrebbe individuare degli assoluti che regolano la storia o la trascendono: la realtà è storia, nella sua totalità, la storia è la vita stessa, che si svolge autonomamente secondo i propri ritmi e le proprie ragioni. Essa è un cammino progressivo, ma questa non deve essere una certezza su cui adagiarsi: questa consapevolezza deve essere confermata da un impegno costante degli uomini, e i risultati non sono mai scontati né prevedibili. La storia diviene, allora, anche storia di libertà, dei modi in cui l'uomo promuove e realizza al meglio la propria esistenza. La libertà si traduce, sul piano politico, in liberalismo: una sorta di religione della libertà o di metodo interpretativo della storia e di orientamento dell'azione, che è imprescindibile nel processo del progresso storico-politico, come si evince dal volume del 1938 La storia come pensiero e come azione.