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Filosofo italiano (Napoli 1668-1744). Contribuì, sia pure indirettamente, alla formazione della teoria kantiana della conoscenza opponendosi a quella di Descartes, e soprattutto con la sua filosofia della storia anticipò concezioni successivamente sviluppate dalla cultura preromantica, romantica e idealistica tedesca e in particolare da J. G. Herder e da G. W. F. Hegel. Tormentato per tutta la vita da una disagiata situazione economica, da una salute malferma e da una vita familiare non sempre felice, Vico, dopo aver studiato giurisprudenza, filologia e filosofia, esercitò per breve tempo la professione di avvocato, fu precettore e insegnante privato presso diverse famiglie napoletane, e nel 1699 venne infine nominato professore di retorica all'Università di Napoli. Le sue opere principali sono: De nostri temporis studiorum ratione (1709), De antiquissima Italorum sapientia (1710), De universi juris uno principio et fine uno (1720), De mente heroica (1732). Ma il suo capolavoro è La Scienza nuova (1725). Di rilevante interesse è la sua Autobiografia (1728).
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di Domenico Proietti
1. La vita e le opere
Giambattista Vico nacque a Napoli il 23 giugno 1668, in una famiglia
di modeste condizioni (il padre era libraio). Intrapresi gli studi
di filosofia come esterno presso il collegio dei gesuiti di Napoli
alla fine del 1680, li proseguì ben presto da solo. Su
incitamento del padre, si avviò poi (fine 1684) verso gli
studi giuridici, conducendo anche questi prevalentemente da
autodidatta, ma riuscendo a laurearsi in utroque (diritto canonico e
civile), forse a Salerno tra il 1693 e il 1694.
Nel 1699 ottenne la modesta cattedra di eloquenza e retorica presso
lo Studio napoletano, che mantenne sino agli ultimi anni della sua
vita. Non allontanandosi mai da Napoli, condusse un’esistenza
appartata e oscura, angustiata dalle ristrettezze finanziarie ma
assorbita completamente dai suoi studi: sul corso di essi è
essenzialmente impostata la Vita scritta da se medesimo (1725-1728),
che costituisce «un poderoso tentativo di autointerpretazione
filosofica» (Tessitore 2000: XXVII).
Legate alla docenza universitaria sono sei prolusioni (1699-1706),
cui nel 1708 seguì una settima (De nostri temporis studiorum
ratione), considerata la prima manifestazione originale del suo
pensiero. Nel 1710 propose una prima esposizione dei fondamenti
delle sue idee nel De antiquissima Italorum sapientia, ex linguae
latinae originibus eruenda (primo libro, unico pubblicato, di tre
previsti) e, cooptato nell’Arcadia pur senza abbracciarne il
classicismo petrarchistico, intraprese la stesura delle
Institutiones oratoriae (1711-1741). Reagendo alle critiche mosse
sul «Giornale de’ letterati» di Venezia al De
antiquissima, chiarì le sue posizioni in due Risposte (1711 e
1712). Anche nell’intento (vanamente perseguito) di ottenere la
più prestigiosa cattedra di diritto romano, si dedicò
poi a studi di teoria e storia delle istituzioni giuridiche, che
dovevano concretarsi in un’ampia trattazione sul Diritto universale,
di cui realizzò una sintesi programmatica (Sinopsi del
diritto universale, 1720) e due libri (De universi iuris uno
principio et fine uno, 1720; De constantia iurisprudentiae, 1721).
Nelle opere giuridiche si ritrovano il retroterra storico-erudito,
gran parte delle teorie linguistiche (cfr. Formigari 1987) e molte
delle premesse concettuali del capolavoro di Vico, i Principj di una
scienza nuova intorno alla natura delle nazioni, stampati a Napoli
nel 1725. Rispondendo alle critiche sollevate dal libro
(nell’opuscolo Vindiciae, 1729), egli ne preparò un’edizione
integralmente riscritta, pubblicata alla fine del 1730. Ma neppure
in questa rinnovata veste l’opera ebbe il successo sperato.
L’intensa e multiforme attività aveva tuttavia procurato a
Vico una certa fama, che gli valse, nel 1735, l’incarico di
storiografo regio (attribuitogli dal re Carlo III di Borbone), la
cui retribuzione alleviò le sue persistenti ristrettezze
finanziarie.
Durante gli ultimi anni non cessò di aggiungere alla Scienza
nuova commenti, note e correzioni (soprattutto formali e
stilistiche) che confluirono nella terza edizione dell’opera,
pubblicata postuma nel giugno 1744 dal figlio Gennaro (che dal 1741
lo aveva sostituito nell’insegnamento accademico), dopo che Vico,
che aveva licenziato le bozze di due terzi dell’opera, era morto a
Napoli il 23 gennaio dello stesso anno.
2. Il pensiero linguistico
Le idee di Vico sulla lingua sono state a lungo ignorate. Anche dopo
la riscoperta della sua filosofia da parte di Croce (1911), non sono
mancate svalutazioni (sulle quali Salamone 1984: 27; Simone 1990:
358-359; Marazzini 2002: 114) dell’importanza di Vico, considerato
l’attardato epigono di un sistema di pensiero vetusto o addirittura
l’«esecutore testamentario dell’umanesimo linguistico»
(K.O. Apel, in Simone 1990: 359, nota 81).
D’altra parte, anche nella folta schiera di quanti hanno rivendicato
l’originalità e la novità delle idee linguistiche
vichiane (Terracini 1957: 165-167; Pagliaro 1961; Rosiello 1968; De
Mauro 1980; Trabant 1996) non si è mancato di rilevare la
posizione isolata di Vico nei dibattiti linguistici della sua epoca,
il suo debito alla tradizione retorico-linguistica dell’Umanesimo e
la sua scarsa influenza nei successivi sviluppi del pensiero
linguistico moderno.
In realtà, molte delle posizioni e alcuni dei temi ricorrenti
nella riflessione linguistica vichiana trovano corrispondenze in
autori e orientamenti della cultura settecentesca. Tra questi:
(a) l’inserimento del linguaggio in una ricostruzione (sia pure
mitologica) dell’origine e dell’evoluzione delle istituzioni umane e
il correlativo inquadramento (soprattutto nella Scienza nuova prima,
libro III, capp. XXVIII-XXXV) del linguaggio stesso nella
facoltà umana di creazione di simboli e segni (cfr. Trabant
1996: 119-213);
(b) l’idea di descrivere la genesi e l’evoluzione della grammatica
in corrispondenza con le fasi di sviluppo della conoscenza umana;
(c) il nesso strettissimo posto tra la primigenia facoltà
poetica e lo sviluppo delle capacità linguistiche, tema,
quest’ultimo, che trova diverse consonanze nel trattato della Ragion
poetica di Gianvincenzo Gravina, amico di Vico e legato all’ambiente
intellettuale napoletano (cfr. Marazzini 2002: 113).
Vico risulta invece del tutto estraneo al clima culturale della sua
epoca riguardo all’altro termine-concetto fondamentale della sua
riflessione linguistica, quello di filologia. Questa infatti
è da lui intesa non come ricerca di dati attendibili ed
esatti da ricavare con lo studio delle fonti antiche (come nei
contemporanei Ludovico Antonio Muratori e Scipione Maffei), ma
come speculazione storico-filosofica dalla quale dedurre i
«principj» (le costanti) della storia stessa. Il che
comportò che solo occasionalmente egli facesse riferimento
alle lingue nella loro concretezza storica e, soprattutto, che non
dedicasse riflessioni teoriche alla lingua italiana in quanto tale,
tenendosi lontano dalla questione della lingua. Va infine
osservato che l’interesse linguistico di Vico, pur risultando
costante nella sua opera, con spunti notevoli nelle orazioni, nel De
antiquissima e nelle opere giuridiche (cfr. Salamone 1984: 3-26), si
manifesta e si articola compiutamente nella Scienza nuova prima,
trovando la sua forma definitiva nella Scienza nuova seconda.
Anche tenendo conto di queste necessarie restrizioni e
puntualizzazioni, risulta innegabile che alcuni risultati della
riflessione linguistica vichiana siano da considerare tra le
più significative conquiste del pensiero linguistico
settecentesco. In primo luogo, l’idea, nel quadro di un radicale
rifiuto del logicismo razionalista (della grammatica ‘ragionata’),
della completa storicità delle lingue, la cui storia viene
ricostruita da Vico (Scienza nuova seconda, libro II, sezione II,
cap. IV) a partire dalla forma di conoscenza fantastica e mitica
degli uomini primitivi, passando per l’elaborazione dei primi
sistemi espressivi (prima azioni e gesti, poi la scrittura
geroglifica nata insieme alla lingua-canto), fino alle lingue
articolate e al contemporaneo sviluppo della retorica (rispondente
alla penuria di mezzi semiotici delle lingue più antiche).
Inoltre, partendo dalla descrizione-spiegazione della nascita e
dello sviluppo della grammatica, l’affermazione, puntualmente
argomentata, dell’esistenza di un legame inestricabile, di un
parallelismo necessario e costante tra l’evoluzione della mente
umana e del linguaggio. Ne consegue il riconoscimento della
naturalità delle lingue, nate non per caso, né per
convenzione, ma come risposta ai bisogni espressivi dell’uomo e in
rapporto alle capacità mentali raggiunte (ibid., libro I,
sezione 02, capp. LVI-LVIII).
Proprio i diversi modi e livelli di sviluppo delle risorse mentali
dei vari gruppi etnici (le nazioni) nelle diverse condizioni
geografiche e storiche in cui vengono successivamente a trovarsi
comportano la differenziazione delle diverse lingue, che serbano
comunque tracce delle loro fasi più antiche; il che consente
a Vico di enunciare la sua idea che attraverso la storia delle
lingue sia possibile leggere la storia dei popoli (ibid., Idea
dell’opera, § 32; libro I, sezione II, capp. IV-V; libro II,
cap. IV). A tali spinte verso la differenziazione, peraltro, fa da
contrappeso un processo di riaggregazione delle lingue in tre tipi
fondamentali (corrispondenti alla tripartizione del diritto
naturale, del governo e dell’autorità), da considerare non
tanto come stadi storicamente successivi quanto, probabilmente, come
aspetti (o funzioni) diversi di ogni lingua. In quest’ottica Vico,
riprendendo una teoria già presente in Giusto Lipsio,
potrebbe essere considerato un anticipatore della moderna tipologia
linguistica (cfr. Simone 1990: 363).
3. Lingua e stile
La complessa formazione culturale di Vico si alimenta di componenti
diverse (e spesso contrastanti), che si articolano in un
personalissimo itinerario, insieme speculativo e
stilistico-espressivo (su cui Nicolini 1930; Bertoni 1932; Fubini
19652 e 1969; Battistini 1971, 1978 e 2004), il quale risulta
scandito in diversi momenti e stadi.
In una prima fase, fino al 1712, prevale il latino, utilizzato,
secondo la prassi accademica del tempo, nelle opere di maggior
impegno (le sette prolusioni e il De antiquissima); ed è un
latino regolare ma robusto e solenne, essenziale nella formazione
della sua prosa italiana. Nei meno numerosi testi in volgare (le due
risposte al «Giornale de’ letterati», i documenti
epistolari e le rare prove poetiche, tra cui la canzone giovanile
d’ispirazione lucreziana Affetti di un disperato e il sonetto
classicheggiante Donna bella, e gentil, inviato come ringraziamento
per la cooptazione in Arcadia) si coglie una prima, peraltro non
estremistica, adesione al tradizionalismo cruscante introdotto a
Napoli da Leonardo di Capua (frequentatore della libreria del
padre), preferito al lineare ma più esile classicismo
arcadico.
Segue un periodo di preparazione, segnato dall’esercizio
dell’insegnamento retorico, dalla stesura (in latino e italiano) dei
libri del Diritto universale e dalle connesse letture
giusnaturalistiche. Vico conquista una più ampia, consapevole
e originale dimensione filosofico-storica dalla quale perviene
all’integrazione (prima concettuale poi linguistico-stilistica) dei
modi più alti della retorica greco-latina e del discorso
filosofico, in un registro espressivo «sublime» ed
eloquente ma anche adeguato alla «stesura compatta, razionale
e veloce» (Nencioni 1988: 286) che caratterizza la prima
edizione della Scienza nuova (per lo studio della quale si dispone
delle concordanze curate da Aldo Duro nel 1981).
Nelle successive versioni del capolavoro, «in cui i
contrastati ritmi e colori, l’accumulazione immaginosa, gli accenti
commossi e profetici drammatizzano l’esposizione e ne esaltano
l’eloquenza e la poeticità» (Nencioni 1988: 286), Vico
venne progressivamente intensificando in senso espressivistico il
suo stile. Le scelte lessicali e l’articolazione sintattica
rispondono così a una marcata personalizzazione della
scrittura e a un conseguente allontanamento dalla lingua d’uso,
facendo «non meno leva sulla sprezzatura napoletana che sulla
ripatinatura antico-toscana» (ibid.: 301) della scrittura. In
questo quadro, tendenze e soluzioni già sporadicamente
presenti nelle opere precedenti ricorrono solidalmente e fanno
sistema, conferendo alla prosa della Scienza nuova seconda e terza
un posto unico nel pur variegato panorama della saggistica
settecentesca.
Limitandoci solo ad alcuni dei fenomeni più caratteristici,
si può segnalare innanzitutto l’articolata serie dei
latinismi: grafici (auttore, sollenne, stranfondere), semantici
(divertire «allontanare»; fermare
«rafforzare»; riceversi «ritornare» se
recipere) e sintattici (condennare di morte, calcato su damnare
capitis; giovare / insegnare usati transitivamente: giovare il
genere umano, insegnar il volgo; in casa «in pace»,
calco di domi nella locuzione domi bellique; relative con valore
finale; finali con il dimostrativo prolettico «per ciò
va in Efira, per …»; completive infinitive calcate
sull’accusativo + infinito: «si è creduto avere
sparso»).
Nella costruzione del periodo predominano architetture complesse, ma
lontane dall’articolata ipotassi del modello boccacciano-bembesco e
dalla sua bilanciata distribuzione di carichi sintattici, con
riecheggiamenti piuttosto della prosa dei primi secoli e in
particolare con il frequente e sintomatico ricorso alla ripresa del
soggetto dopo un inciso o un sintagma interposto, e al «gioco
di richiami reciproci fra le parole» (Auerbach 1970: 74). In
questa ricerca dell’andamento ‘primitivo’ del discorso vanno
inquadrati anche la predilezione di Vico per i dimostrativi, la
tendenza a sostituirli agli articoli (non «il mondo delle
nazioni» ma «questo mondo delle nazioni»; cfr.
Fubini 19652: 116-117; spesso con il rafforzamento
esornativo-intensivo di aggettivi possessivi: «questa nostra
umana civil natura») o a usarli in forma di preannuncio
cataforico («questa è la natura della sublime poesia:
ch’ella non si fa apprender per alcun’arte») e il particolare
uso dell’aggettivo, spesso anteposto («due grandi rottami
dell’egiziache divinità»), talora in forma di
«concitati pleonasmi: “densa notte di tenebre”, “prima da noi
lontanissima antichità”» (Auerbach 1970: 69), di
frequente in accumuli espressivi: «lunghe densissime
tenebre», «fresca selvaggia origine», «primi
crudi fierissimi uomini» (Fubini 19652: 144; Battistini 1971:
24-27). Infine, le scelte lessicali, con le quali Vico rifinisce la
‘ripatinatura’ culta e arcaizzante della prosa della Scienza nuova,
nelle direzioni della ricerca dell’arcaismo trecentesco (con la
ripresa di forme accantonate dal gusto classicistico rinascimentale:
propio, notomia, traccurare); dell’accoglimento (cfr. Nencioni 1988:
293-295) di «iperfiorentinismi» quali innondazione e
innimitabile, «ipertoscanismi» (ritruovare, scuoprire) e
forme «iperromanze» del tipo combattidore,
comprendevole, elegione. Il tutto variegato da soluzioni intermedie,
di convergenza tra dialettismo napoletano e fiorentinismo cruscante,
in voci quali allumare, chiasso e conceputo, locuzioni come escire
in furore (incrocio tra il partenopeo escire pazzo e l’ariostesco
venire in furore) o «passare la mosca per innanzi alla punta
del naso», o perpetuando costrutti quali la flessione di forme
indefinite (infinito, gerundio) proprie dei dialetti meridionali
antichi e delle scritture fondate su di essi («essendono elle
ne’ lor incominciamenti selvagge e chiuse»).
Caratteristiche sostanzialmente analoghe rivela l’autobiografia
vichiana, «stilisticamente più vicina alla prima che
alla seconda» edizione della Scienza nuova (Tomasin 2009: 36).
«Vivacemente anomalista […] in campo morfosintattico»
(ibid.: 45), il testo presenta nel lessico termini particolari come
incomprendevolità «incomprensibilità»,
gentilità «età dei gentili», traccuramento
«negligenza», spampinare «lasciarsi andare a un
modo di scrivere enfatico e ridondante», e il grecismo
filautia «amor proprio» (ibid.: 45-46).
4. La fortuna
Le singolarità (e le asperità) della lingua e dello
stile delle opere di Vico (soprattutto della Scienza nuova)
contribuirono certamente, e in modo non secondario, alla tardiva
diffusione del suo pensiero. Già il domenicano Bonifacio
Finetti, in una dissertazione del 1768, deprecava «l’affettata
maniera di scrivere che egli ha avuto il prurito di formarsi a
sé propria e singolare» (Difesa dell’autorità
della Sacra Scrittura contro Giambattista Vico, p. 8); un giudizio
simile si riscontra anche in contesti non polemici, come nella pur
elogiativa menzione in Giuseppe Maria Galanti (Breve descrizione
della città di Napoli e del suo contorno, p. 228:
«Affettò un linguaggio tutto nuovo ed amò farsi
capire da pochi o almeno da coloro che avessero la pazienza di
addomesticarsi con lui»).
Persino nel clima della consacrazione in chiave risorgimentale
dell’opera vichiana, alle soglie dell’Ottocento, non mancarono
rilievi, appunto, sulla lingua e lo stile, come quelli di
Vincenzo Monti:
Donde viene che la Scienza nuova del Vico, opera meravigliosa ha
sì pochi lettori? Non altronde di certo che dallo stile. […]
Se questi ardui pensamenti della più sublime filosofia […]
venissero raccomandati da una lingua più liberale, più
tersa, più fluida [non ci sarebbe] libro né più
utile e più caro (Della necessità dell’eloquenza, pp.
58-59)
e di Basilio Puoti (Della maniera di studiare la lingua e
l’eloquenza italiana, p. 118), secondo cui I principj della Scienza
nuova, «quantunque non sieno punto da lodare per la
oscurità dello stile, sono nondimeno opera sommamente
profonda e scritta in non sozza favella».
D’altra parte, proprio l’inaccessibilità dello stile vichiano
è al contempo rivendicata quale connotato essenziale, cifra
caratteristica della profondità innovatrice del suo pensiero
(«Se tu togli a Tacito, a Dante, a Vico ciò che a’
letterati galanti pare agreste e selvatico, deformerai ogni bella e
grande idea che le opere loro sfolgoranti di filosofia
balenano»: Francesco Lomonaco, Vita di Giambattista Vico, p.
267). Si snoda così una lunga teoria di pronunciamenti
elogiativi (che va da G.B. Corniani alla Storia della letteratura
italiana di Francesco De Sanctis) impostati essenzialmente sulla
formula critica di Vico quale «Dante della filosofia» e
in particolare su un parallelismo psicologico-stilistico tra il
poeta e il filosofo, teso a sottolineare tratti convergenti quali lo
spirito risentito e appassionato, e insieme la «potenza dello
stile» (Fubini 19652: 81-82), l’icasticità e l’esigenza
di realismo.
Si può segnalare, infine, che voci ed espressioni
(ri)scoperte o reinventate da Vico sono poi rifluite nel linguaggio
poetico ottocentesco: candenti (Giosuè Carducci, “Mezzogiorno
alpino”), lezzo de’ cadaveri (Ugo Foscolo, “I sepolcri”), strepito
di vera gloria (Alessandro Manzoni, “Il cinque maggio”).