Note e appunti
Argomenti principali:
1) Teoria della storia e della storiografia.
2) Sviluppo della borghesia italiana fino al 1870.
3) Formazione dei gruppi intellettuali italiani: svolgimento, atteggiamenti.
4) La letteratura popolare dei «romanzi d’appendice» e le ragioni della sua persistente fortuna.
5) Cavalcante Cavalcanti: la sua posizione nella struttura e nell’arte della Divina Commedia.
6) Origini e svolgimento dell’Azione Cattolica in Italia e in Europa.
7) Il concetto di folklore.
8) Esperienze della vita in carcere.
9) La «quistione meridionale» e la quistione delle isole.
10) Osservazioni sulla popolazione italiana: sua composizione, funzione dell’emigrazione.
11) Americanismo e fordismo.
12) La quistione della lingua in Italia: Manzoni e G. I. Ascoli.
13) Il «senso comune» (cfr 7).
14) Riviste tipo: teorica, critico-storica, di cultura generale (divulgazione).
15) Neo-grammatici e neo-linguisti («questa tavola rotonda è quadrata»).
16) I nipotini di padre Bresciani.
Rivoluzione francese, Restaurazione, Risorgimento
[Ant.: Il Risorgimento
Mat. Bibliog.: Rivoluzione francese, Restaurazione, Storia d'Italia dall'età napoleonica all'Unità d'Italia, Risorgimento, Storia della questione meridionale, L'interpretazione gramsciana del Risorgimento.]
§138 Risorgimento. Se è vero che la vita concreta degli Stati è fondamentalmente vita internazionale, è anche vero che la vita degli Stati italiani fino al 1870 e cioè la «storia italiana» è più «storia internazionale» che storia «nazionale».
§43
[...]
Nel Risorgimento si verifica già embrionalmente il rapporto storico tra Nord e Sud come un rapporto simile a quello di una grande città a una grande campagna: essendo questo rapporto non già quello organico normale di provincia e capitale industriale, ma assumendo l’aspetto di un vasto territorio, si accentuano le colorazioni di contrasto nazionale1. Ciò che nel Risorgimento è specialmente notevole è il fatto che nelle crisi politiche il Sud ha l’iniziativa: 1799 Napoli — 20-21 Palermo — 47 Messina, 47-48 Napoli e Sicilia.
Altro fatto notevole è l’aspetto particolare che assume il movimento nell’Italia centrale, come una via di mezzo tra Nord e Sud: il periodo delle iniziative popolari (relativamente) va dal 1815 al 48 e culmina nella Repubblica Romana (le Romagne e la Lunigiana bisogna sempre congiungerle al Centro). Queste peculiarità hanno un riscontro anche in seguito: i fatti del giugno 1914 hanno avuto una forma particolare nel Centro (Romagna e Marche). La crisi del 94 in Sicilia e Lunigiana, col contraccolpo a Milano nel 98; 1919 nel Mezzogiorno e 1920 nel Settentrione. Questo relativo sincronismo mostra l’esistenza di una struttura economico-politica omogenea (relativamente) da una parte e mostra come nei periodi di crisi, sia la parte più debole, periferica, a reagire per la prima.
[...]
Nella storia del Risorgimento il così detto Partito d'Azione aveva un atteggiamento «paternalistico», perciò non è riuscito che in misura minima a mettere le grandi masse a contatto con lo stato. Il così detto «trasformismo» è legato a questo fatto: il Partito d'Azione viene incorporato molecolarmente dai moderati e le masse vengono decapitate, non assorbite nell’ambito del nuovo stato.
Dal rapporto «città-campagna» deve muovere l’esame delle forze motrici fondamentali della storia italiana e dei punti programmatici da cui occorre studiare l’indirizzo del Partito d’Azione nel Risorgimento: 1° la forza urbana settentrionale; 2° la forza rurale meridionale; 3° la forza rurale settentrionale-centrale; 4°-5° la forza rurale della Sicilia e della Sardegna.
Restando ferma la posizione di «locomotiva» della prima forza, occorre studiare le diverse combinazioni «più utili» per formare un «treno» che progredisca il più speditamente nella storia. La prima forza incomincia con l’avere i problemi «propri», di organizzazione, di articolazione per omogeneità, di direzione politica e militare; ma rimane fissato che, già «meccanicamente», se questa forza ha raggiunto un certo grado di unità e di combattività, essa esercita una funzione direttiva «indiretta».
Nei diversi periodi del Risorgimento appare che il porsi di questa forza in posizione di intransigenza e di lotta contro il dominio straniero determina un’esaltazione delle forze progressive meridionali; da ciò il sincronismo relativo, ma non la simultaneità nei movimenti del 20-21, del 31, del 48; si realizza nel 59-60 un sincronismo in senso inverso, cioè il Nord inizia, il Centro aderisce pacificamente o quasi e nel Sud lo Stato borbonico crolla per la spinta dei garibaldini, relativamente debole: questo avviene perché il P. d’A. (Garibaldi) interviene, dopo che i moderati (Cavour) avevano organizzato il Nord e il Centro; non è cioè la stessa direzione politica e militare (moderati - Stato sardo o P. d’A.) che organizza la simultaneità relativa ma la collaborazione (meccanica) delle due direzioni che si integrano felicemente.
La prima forza si deve poi porre il problema di organizzare intorno a sé le forze urbane delle altre sezioni nazionali. Questo problema è il più difficile: esso si presenta irto di contraddizioni e di motivi che scatenano ondate di passioni. Ma la sua soluzione, appunto per questo, era il punto cruciale. Le forze urbane sono socialmente omogenee, quindi devono trovarsi in una posizione di perfetta eguaglianza. Teoricamente questo è vero, ma storicamente la quistione si pone altrimenti: le forze urbane del Nord sono nettamente alla testa della loro sezione nazionale, mentre per le forze urbane del Sud questo non si verifica perlomeno in egual misura.
Le forze urbane del Nord dovevano quindi far capire a quelle del Sud che la loro funzione direttiva non poteva non consistere che nell’assicurare la direzione del Nord verso il Sud nel rapporto generale di città-campagna, cioè la funzione direttiva delle forze urbane del Sud non poteva esser altro che una «funzione» della più vasta funzione direttiva del Nord.
Il problema, dunque, di creare una unità Nord-Sud è strettamente legato e in gran parte assorbito nel problema di creare una coesione tra tutte le forze urbane nazionali. (Il ragionamento su esposto vale infatti per le tre sezioni meridionali, Napoletano, Sicilia, Sardegna).
La forza rurale settentrionale-centrale pone una serie di problemi che la forza urbana del Nord deve porsi per il rapporto regionale città-campagna. Bisognava distinguere in essa due sezioni: quella laica e quella clericale. La forza clericale aveva il suo peso massimo nel Lombardo-Veneto, quella laica nel Piemonte, «peso massimo», con interferenze marginali più o meno vaste non solo tra Piemonte e Lombardo-Veneto, ma tra queste due regioni-tipo e le altre settentrionali e centrali e in minore misura anche meridionali e insulari. Risolvendo bene questi rapporti immediati le forze urbane settentrionali avrebbero dato un ritmo a tutte le quistioni simili su scala nazionale.
Su questo problema il Partito d'Azione fallì completamente.
La non impostazione della quistione agraria portava alla quasi impossibilità di risolvere la quistione del clericalismo e dell’atteggiamento del Papa. Sotto questo riguardo i moderati furono molto più arditi del Partito d'Azione: è vero che essi non distribuirono i beni ecclesiastici fra i contadini, ma se ne servirono per creare un ceto nuovo di grandi e medi proprietari legato alla nuova situazione politica, ma almeno non esitarono a mettere le mani sulle congregazioni.
Il P. d’A. era invece paralizzato dalle velleità mazziniane di una riforma religiosa che non solo non toccava le grandi masse, ma le rendeva passibili di una sobillazione contro i nuovi eretici. L’esempio della Francia era lì a dimostrare che i giacobini, che erano riusciti a schiantare i girondini sulla quistione agraria e non solo a impedire la coalizione rurale contro Parigi ma a moltiplicare nelle provincie i loro aderenti, furono invece danneggiati dai tentativi di Robespierre di instaurare una riforma religiosa.
Mat. Bibliog.: Il rapporto città/campagna
Txt: G. C. Abba - Da Quarto al Volturno
§44 Direzione politica di classe prima e dopo l’andata al governo. Tutto il problema delle varie correnti politiche del Risorgimento, dei loro rapporti reciproci e dei loro rapporti con le forze omogenee o subordinate delle varie sezioni (o settori) storiche del territorio nazionale si riduce a questo fondamentale: che i moderati rappresentavano una classe relativamente omogenea, per cui la direzione subì oscillazioni relativamente limitate, mentre il Partito d'Azione non si appoggiava specificamente a nessuna classe storica e le oscillazioni che subivano i suoi organi dirigenti in ultima analisi si componevano secondo gli interessi dei moderati: cioè storicamente il Partito d'Azione fu guidato dai moderati (l’affermazione di Vittorio Emanuele II di «avere in tasca», o qualcosa di simile, il Partito d'Azione1 è esatta, e non solo per i suoi contatti personali con Garibaldi; il Partito d’Azione storicamente fu guidato da Cavour e da Vittorio Emanuele II).
Il criterio storico-politico su cui bisogna fondare le proprie ricerche è questo: che una classe è dominante in due modi, è cioè «dirigente» e «dominante». È dirigente delle classi alleate, è dominante delle classi avversarie. Perciò una classe già prima di andare al potere può essere «dirigente» (e deve esserlo): quando è al potere diventa dominante ma continua ad essere anche «dirigente».
I moderati continuarono a dirigere il Partito d'Azione anche dopo il 70 e il «trasformismo» è l’espressione politica di questa azione di direzione; tutta la politica italiana dal 70 ad oggi è caratterizzata dal «trasformismo», cioè dall’elaborazione di una classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 48, con l’assorbimento degli elementi attivi sorti dalle classi alleate e anche da quelle nemiche. La direzione politica diventa un aspetto del dominio, in quanto l’assorbimento delle élites delle classi nemiche porta alla decapitazione di queste e alla loro impotenza. Ci può e ci deve essere una «egemonia politica» anche prima della andata al Governo e non bisogna contare solo sul potere e sulla forza materiale che esso dà per esercitare la direzione o egemonia politica.
Dalla politica dei moderati appare chiara questa verità ed è la soluzione di questo problema che ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è effettuato di rivoluzione senza rivoluzione o di rivoluzione passiva secondo l’espressione di V. Cuoco. In quali forme i moderati riuscirono a stabilire l’apparato della loro direzione politica? In forme che si possono chiamare «liberali» cioè attraverso l’iniziativa individuale, «privata» (non per un programma «ufficiale» di partito, secondo un piano elaborato e costituito precedentemente all’azione pratica e organizzativa). Ciò era «normale», data la struttura e la funzione delle classi rappresentate dai moderati, delle quali i moderati erano il ceto dirigente, gli «intellettuali» in senso organico.
Per il Partito d'Azione il problema si poneva in altro modo e diversi sistemi avrebbero dovuto essere applicati. I moderati erano «intellettuali», «condensati» già naturalmente dall’organicità dei loro rapporti con le classi di cui erano l’espressione (per tutta una serie di essi si realizzava l’identità di rappresentato e rappresentante, di espresso e di espressivo, cioè gli intellettuali moderati erano una avanguardia reale, organica delle classi alte perché essi stessi appartenevano economicamente alle classi alte: erano intellettuali e organizzatori politici e insieme capi di azienda, grandi proprietari-amministratori terrieri, imprenditori commerciali e industriali, ecc.).
Data questa «condensazione» o concentrazione organica, i moderati esercitavano una potente attrazione, in modo «spontaneo», su tutta la massa d’intellettuali esistenti nel paese allo stato «diffuso», «molecolare», per le necessità, sia pure elementarmente soddisfatte, della istruzione pubblica e dell’amministrazione.
Si rivela qui la verità di un criterio di ricerca storico-politico: non esiste una classe indipendente di intellettuali, ma ogni classe ha i suoi intellettuali; però gli intellettuali della classe storicamente progressiva esercitano un tale potere di attrazione, che finiscono, in ultima analisi, col subordinarsi gli intellettuali delle altre classi e col creare l’ambiente di una solidarietà di tutti gli intellettuali con legami di carattere psicologico (vanità ecc.) e spesso di casta (tecnico-giuridici, corporativi).
Questo fenomeno si verifica «spontaneamente» nei periodi in cui quella determinata classe è realmente progressiva, cioè fa avanzare l’intera società, soddisfacendo alle sue esigenze esistenziali non solo, ma ampliando continuamente i suoi quadri per una continua presa di possesso di nuove sfere di attività industriale-produttiva. Quando la classe dominante ha esaurito la sua funzione, il blocco ideologico tende a sgretolarsi e allora alla «spontaneità» succede la «costrizione» in forme sempre meno larvate e indirette, fino alle misure vere e proprie di polizia e ai colpi di Stato.
Il Partito d'Azione non poteva avere questo potere di attrazione ed anzi egli stesso era attratto, sia per l’atmosfera di intimidazione che lo rendeva esitante ad accogliere nel suo programma determinate rivendicazioni popolari, sia perché alcuni dei suoi uomini maggiori (Garibaldi, per es.) erano, sia pure saltuariamente («oscillazioni») in rapporto personale di subordinazione coi capi dei moderati.
Perché il P. d’A. diventasse una forza autonoma e, in ultima analisi, per lo meno riuscisse a imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente popolare e democratico (più in là non poteva andare date le premesse fondamentali del moto stesso) avrebbe dovuto contrapporre all’azione «empirica» dei moderati (che era empirica solo per modo di dire) un programma organico di governo che abbracciasse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini. All’attrazione «spontanea» esercitata dai moderati, doveva cioè contrapporre un’attrazione «organizzata», secondo un piano.
Intanto il Partito d'Azione avrebbe dovuto avere un programma di governo, ciò che sempre gli mancò. Esso in sostanza fu sempre, più di tutto, un movimento di agitazione e propaganda dei moderati. I dissidi e i conflitti interni del Partito d'Azione, gli odi tremendi che Mazzini suscitò contro di sé da parte dei più cospicui uomini d’azione (Garibaldi stesso, Felice Orsini ecc.) sono dovuti a questa mancanza di direzione politica. Le polemiche interne sono in gran parte altrettanto astratte della predicazione di Mazzini, ma da esse si possono trarre utili indicazioni storiche (valgano per tutti gli scritti del Pisacane, che d’altronde commise errori militari gravissimi, come l’opposizione alla dittatura militare di Garibaldi nella Repubblica Romana).
Il Partito d'Azione segue la tradizione «retorica» della letteratura italiana. Confonde l’unità culturale con l’unità politica e territoriale. Confronto tra giacobini e Partito d’Azione: i giacobini lottarono strenuamente per assicurare il legame tra città e campagna; furono sconfitti perché dovettero soffocare le velleità di classe degli operai; il loro continuatore è Napoleone e sono oggi i radico-socialisti francesi.
Il Partito d'Azione era implicitamente antifrancese per l’ideologia mazziniana (cfr in «Critica» l’articolo dell’Omodeo Primato francese e iniziativa italiana, anno 1929, p. 223); ma aveva nella storia italiana la tradizione a cui collegarsi. La storia dei Comuni è ricca di esperienza in proposito: la borghesia nascente cerca alleati nei contadini contro l’Impero e contro il proprio feudalismo locale (è vero che la quistione è resa più complessa dalla lotta tra borghesia e nobiltà terriera per contendersi la mano d’opera: i borghesi hanno bisogno di mano d’opera ed essa può esser data solo dalle classi rurali; ma i nobili vogliono legati al suolo i contadini; fuga dei contadini in città, dove i nobili non possono catturarli. In ogni modo, anche in diversa situazione, appare nell’epoca dei Comuni la funzione direttiva della città che approfondisce la lotta interna delle campagne e se ne serve come strumento politico-militare per abbattere il feudalismo).
Ma il più classico maestro di politica per le classi dirigenti italiane, il Machiavelli, aveva anch’esso posto il problema, naturalmente nei termini e con le preoccupazioni del tempo: nelle scritture militari del Machiavelli è vista abbastanza bene la necessità di legarsi i contadini per avere una milizia nazionale che elimini le compagnie di ventura.
L’individualità che più occorre studiare per questi problemi del Risorgimento è Giuseppe Ferrari, non tanto nelle sue opere così dette maggiori, veri zibaldoni farraginosi e confusi, quanto nei suoi opuscoli d’occasione e nelle sue lettere. Però il Ferrari era in gran parte fuori della realtà concreta italiana; egli si era troppo francesizzato. Certe volte sembra più acuto di quanto realmente fosse, solo perché adattava all’Italia gli schemi francesi, i quali rappresentavano una situazione ben più avanzata di quella italiana. Il Ferrari, si può dire, si trovava, nei rapporti con l’Italia, nella posizione di un «postero»: era, in un certo senso, il suo, un «senno del poi». Il politico invece deve essere un realizzatore «effettuale e attuale»; egli non riusciva a costruire l’anello tra la situazione italiana e quella francese più avanzata, ma era proprio quest’anello che importava saldare per passare a quello successivo8. Il Ferrari non seppe tradurre il «francese» in «italiano», perciò la sua acutezza stessa diventava un inciampo, creava nuove sette e scolette, ma non incideva nel movimento reale.
Si può dire, data la dispersione e l’isolamento della popolazione rurale e la difficoltà quindi di concentrarli in forti organizzazioni, che conviene iniziare il lavoro politico dagli intellettuali, ma in generale è il rapporto dialettico tra le due azioni che occorre tener presente15. Si può dire anche che partiti contadini nel senso proprio della parola è quasi impossibile crearne: il partito nei contadini si realizza in generale come forte corrente di opinioni, non in forme schematiche; ma l’esistenza anche di uno scheletro di partito è di immensa utilità, sia per una certa selezione di uomini, sia per controllare gli intellettuali e impedire che gli «interessi di casta» li trasportino impercettibilmente in altro terreno.
Questo criterio deve essere tenuto presente nello studio di Giuseppe Ferrari che fu lo specialista inascoltato in questioni agrarie del Partito d'Azione. In Giuseppe Ferrari bisogna anche studiare bene il suo atteggiamento verso il bracciantato agricolo, cioè i contadini senza terra, sui quali egli fonda una parte cospicua delle sue ideologie per cui egli è ancora ricercato e studiato da determinate correnti moderne (opere del Ferrari ristampate dal Monanni con prefazione di Luigi Fabbri). Occorre riconoscere che il problema del bracciantato è difficilissimo e rende arduo anche oggi il trovarne una soluzione. In generale occorre tener presenti questi criteri: i braccianti sono anche oggi ed erano tanto più nel periodo del Risorgimento, dei semplici contadini senza terra, non degli operai di una industria agricola sviluppata con capitale concentrato. La loro psicologia perciò è, salvo eccezioni, la stessa del colono e del piccolo proprietario.
In una forma acuta la quistione si poneva non tanto nel Mezzogiorno, dove il carattere artigianesco del lavoro contadino è troppo evidente, ma nella valle padana dove esso è più velato.
Anche in tempi recenti però l’esistenza del bracciantato padano era dovuta in parte a cause extraeconomiche: 1° sovrappopolazione che non trovava lo sbocco nell’emigrazione come nel Sud ed era artificialmente mantenuta con la politica dei lavori pubblici; 2° volontà dei proprietari che non volevano consolidare in un’unica classe né di braccianti né di mezzadri la popolazione rurale e quindi alternavano alla mezzadria la conduzione a economia, servendosi di questa alternanza anche per selezionare un gruppo di mezzadri privilegiati che fossero i loro alleati politici (in ogni congresso di agrari della regione padana si discute sempre se convenga meglio la mezzadria o la conduzione diretta, e traspare la motivazione politica della scelta che vien fatta). Il problema del bracciantato padano appariva nel Risorgimento sotto la forma di fenomeno pauroso di pauperismo. Così è visto da Tullio Martello nella sua Storia dell’Internazionale del 1871-72, lavoro che occorre tener presente perché riflette ancora le passioni politiche e le preoccupazioni sociali del periodo precedente.
La posizione del Ferrari poi è indebolita dal suo «federalismo», che specialmente in lui, vivente in Francia, appariva ancor più come il riflesso degli interessi nazionali e statali francesi. Ricordare Proudhon e i suoi pamphlets contro l’unità italiana, combattuta dal punto di vista confessato dell’interesse statale francese e della democrazia16: tutte le correnti principali della politica francese erano contro l’unità italiana. Ancora oggi i monarchici (Bainville, ecc.) fanno la lotta contro il principio nazionalitario dei due Napoleoni che avrebbe portato all’unificazione della Germania e dell’Italia, abbassando così la statura relativa della Francia.
È proprio sulle parole d’ordine di «unità e indipendenza» senza tener conto del concreto contenuto politico che i moderati formarono il blocco nazionale sotto la loro egemonia. Come fossero riusciti nell’intento lo dimostra anche questa espressione di Guerrazzi in una lettera a uno studente siciliano (pubblicata nell’«Archivio Storico Siciliano» da Eugenio de Carlo — carteggio di F. D. Guerrazzi col notaio Francesco Paolo Sardofontana di Riella, riassunto nel «Marzocco» del 24 novembre 1929): «Sia che vuolsi — o dispotismo, o repubblica o che altro, — non cerchiamo di dividerci; con questo cardine, caschi il mondo, ritroveremo la via»; ma di questi esempi se ne potrebbero citare a migliaia e tutta l’operosità di Mazzini è stata concretamente riassunta nella propaganda per l’unità. (Naturalmente i moderati dopo il 48, quando furono riorganizzati da Cavour intorno al Piemonte).
A proposito del giacobinismo e del Partito d'Azione un elemento da ricordare è che i giacobini conquistarono con la lotta la loro funzione di partito dirigente: essi si imposero alla borghesia francese, conducendola su una posizione molto più avanzata di quella che la borghesia avrebbe voluto «spontaneamente» e anche molto più avanzata di quella che le premesse storiche dovevano consentire, e perciò i colpi di ritorno e la funzione di Napoleone. Questo tratto, caratteristico del giacobinismo e quindi di tutta la Rivoluzione Francese, del forzare la situazione (apparentemente) e del creare fatti compiuti irreparabili, cacciando avanti la classe borghese a calci nel sedere, da parte di un gruppo di uomini estremamente energici e risoluti può essere «schematizzato» così: il terzo stato era il meno omogeneo degli stati; la borghesia ne costituiva la parte più avanzata culturalmente ed economicamente; lo sviluppo degli avvenimenti francesi mostra lo sviluppo politico di questa parte, che inizialmente pone le questioni che solo interessano i suoi componenti fisici attuali, i suoi interessi «corporativi» immediati (corporativi in un senso speciale, di immediati ed egoistici di un determinato gruppo ristretto sociale); i precursori della rivoluzione sono dei riformisti moderati, che fanno la voce grossa ma in realtà domandano ben poco. Questa parte avanzata perde a mano a mano i suoi caratteri «corporativi» e diventa classe egemone per l’azione di due fattori: la resistenza delle vecchie classi e l’attività politica dei giacobini.
Le vecchie classi non vogliono cedere nulla e se cedono qualche cosa lo fanno con l’intenzione di guadagnare tempo e preparare la controffensiva; la borghesia sarebbe caduta in questi «tranelli» successivi senza l’azione energica dei giacobini, che si oppongono ad ogni arresto intermedio e mandano alla ghigliottina non solo i rappresentanti delle vecchie classi, ma anche i rivoluzionari di ieri oggi diventati reazionari.
I giacobini dunque rappresentano il solo partito della rivoluzione, in quanto essi non solo vedono gli interessi immediati delle persone fisiche attuali che costituiscono la borghesia francese, ma vedono gli interessi anche di domani e non di quelle sole determinate persone fisiche, ma degli altri strati sociali del terzo stato che domani diventeranno borghesi, perché essi sono persuasi dell’égalité e della fraternité.
Bisogna ricordare che i giacobini non erano astrattisti, anche se il loro linguaggio «oggi» in una nuova situazione e dopo più di un secolo di elaborazione storica, sembra «astrattista». Il linguaggio dei giacobini, la loro ideologia, rifletteva perfettamente i bisogni dell’epoca, secondo le tradizioni e la cultura francese (cfr nella Sacra Famiglia l’analisi di Marx da cui risulta che la fraseologia giacobina corrispondeva perfettamente ai formulari della filosofia classica tedesca17, alla quale oggi si riconosce maggiore concretezza e che ha dato origine allo storicismo moderno):
1° bisogno: annientare la classe avversaria o almeno ridurla all’impotenza; creare l’impossibilità di una controrivoluzione;
2° allargare gli interessi di classe della borghesia, trovando gli interessi comuni tra essa e gli altri strati del terzo stato, mettere in moto questi strati, condurli alla lotta, ottenendo due risultati: 1° di opporre un bersaglio più largo ai colpi della classe avversa, cioè di creare un rapporto militare favorevole alla rivoluzione; 2° di togliere alla classe avversa ogni zona di passività in cui essa avrebbe certamente creato eserciti vandeani (senza la politica agraria dei giacobini Parigi sarebbe stata circondata dalla Vandea fino alle sue porte: la resistenza della Vandea propriamente detta è legata alla quistione nazionale determinata tra i Brettoni dalla formula della «repubblica una e indivisibile», alla quale i giacobini non potevano rinunziare pena il suicidio: i girondini cercarono di far leva sul federalismo per schiacciare i giacobini, ma le truppe provinciali condotte a Parigi passarono ai giacobini: eccetto la Brettagna e altre piccole zone periferiche, la quistione agraria si presentava scissa dalla quistione nazionale, come si vede in questo e altri episodi militari: la provincia accettava l’egemonia di Parigi, cioè i rurali comprendevano che i loro interessi erano legati a quelli della borghesia).
I giacobini dunque forzarono la mano, ma sempre nel senso dello sviluppo storico reale, perché essi fondarono non solo lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe «dominante», ma fecero di più (in un certo senso), fecero della borghesia la classe dirigente, egemone, cioè dettero allo Stato una base permanente.
Che i giacobini siano sempre rimasti sul terreno di classe, è dimostrato dagli avvenimenti che segnarono la loro fine e la morte di Robespierre: essi non vollero riconoscere agli operai il diritto di coalizione (legge Chapelier e [sue conseguenze nella legge del «maximum»]) e così spezzarono il blocco urbano di Parigi; le loro forze d’assalto, che si riunivano nel Comune, si dispersero, deluse, e il Termidoro ebbe il sopravvento: la rivoluzione aveva trovato i suoi limiti di classe: la politica degli «alleati» aveva fatto sviluppare quistioni nuove che allora non potevano essere risolte18.
Nel Partito d'Azione non troviamo questo spirito giacobino, questa volontà di diventare «partito dirigente». Occorre tener conto delle differenze: in Italia la lotta si presentava come lotta contro i vecchi trattati e contro la Potenza straniera, l’Austria, che li rappresentava e li sosteneva in Italia con le armi, occupando il Lombardo-Veneto ed esercitando un controllo sul resto del territorio. Anche in Francia il problema si presentò, almeno in un certo senso, perché ad un certo punto la lotta interna divenne lotta nazionale combattuta alla frontiera, ma i giacobini seppero trarne elementi di maggior energia: essi compresero bene che per vincere il nemico esterno dovevano schiacciare all’interno i suoi alleati e non esitarono a compiere le stragi di settembre.
In Italia questo legame che pur esisteva, esplicito ed implicito, tra l’Austria e una parte almeno delle alte classi nobiliari e terriere, non fu denunziato dal Partito d’Azione o almeno non fu denunziato con la dovuta energia: in ogni modo non divenne elemento politico attivo. Si trasformò, curiosamente, in una quistione di maggiore o minore dignità patriottica e dette poi luogo a uno strascico di polemiche acrimoniose, ma sterili fino al 98 (cfr articoli di «Rerum Scriptor» nella «Critica Sociale» e il libro di Bonfadini Cinquant’anni di patriottismo)19.
Se in Italia non sorse un partito giacobino, ci devono essere le ragioni da ricercare nel campo economico, cioè nella relativa debolezza della borghesia italiana, e nella temperatura storica diversa dell’Europa. Il limite trovato dai giacobini, nella loro politica di forzato risveglio delle energie popolari francesi da alleare alla borghesia, con la legge Chapelier e la legge sul «maximum», si presentava nel 48 come uno «spettro» già minaccioso, sapientemente agitato dall’Austria e dai vecchi governi, ma anche da Cavour (oltre che dal Papa).
La borghesia non poteva più estendere la sua egemonia su i vasti strati che poté abbracciare in Francia, è vero, ma l’azione sui contadini era sempre possibile. Differenza tra Francia, Germania e Italia nel processo di presa del potere della borghesia (e Inghilterra).
Questo diverso manifestarsi dello stesso fenomeno nei diversi paesi è da legare ai diversi rapporti non solo interni, ma anche internazionali (i fattori internazionali di solito sono sottovalutati in queste ricerche). Lo spirito giacobino, audace, temerario, è certamente legato all’egemonia esercitata dalla Francia per tanto tempo. Le guerre di Napoleone, invece, con l’enorme distruzione di uomini, tra i più forti e avventurosi, indeboliscono non solo le energie francesi, ma anche quelle delle altre nazioni, sebbene diano anche formidabili lezioni di energia nuova.
I fattori internazionali sono stati certo fortissimi nel determinare la linea del Risorgimento. Essi poi sono stati ancora più esagerati dal partito moderato (Cavour) a scopo di partito: è notevole il fatto, a questo proposito, di Cavour che teme come il fuoco l’iniziativa garibaldina prima della spedizione di Quarto per le complicazioni internazionali che può creare e poi è spinto egli stesso dall’entusiasmo creato dai mille nell’opinione pubblica europea fino a vedere come fattibile una nuova guerra all’Austria. Esisteva dunque in Cavour una certa deformazione professionale del diplomatico, che lo portava a vedere «troppe» difficoltà e lo induceva a una esagerazione cospirativa e a prodigi, che sono in gran parte funamboleschi, di sottigliezza e di intrigo. In ogni caso egli fece bene la sua parte di uomo di partito; che poi questo partito rappresentasse la nazione, anche solo nel senso della più vasta estensione della comunità di interessi della borghesia con altre classi, è un’altra quistione.
A proposito della parola d’ordine «giacobina» lanciata da Marx alla Germania del 48-49 è da osservare la sua complicata fortuna. Ripresa, sistematizzata, elaborata, intellettualizzata dal gruppo Parvus-Bronstein [Trotzky ndc], si manifestò inerte e inefficace nel 1905 e in seguito: era una cosa astratta, da gabinetto scientifico. La corrente che la avversò in questa sua manifestazione intellettualizzata, invece, senza usarla «di proposito» la impiegò di fatto nella sua forma storica, concreta, vivente, adatta al tempo e al luogo, come scaturiente da tutti i pori della società che occorreva trasformare, di alleanza tra due classi con l’egemonia della classe urbana.27
Nell’un caso, temperamento giacobino senza il contenuto politico adeguato, tipo Crispi; nel secondo caso temperamento e contenuto giacobino secondo i nuovi rapporti storici, e non secondo un’etichetta intellettualistica.
Mat. Bibl.: Giacobinismo
§46 Moderati e gli intellettuali. I moderati dovevano avere il sopravvento tra gli intellettuali. Mazzini e Gioberti. Gioberti offriva agli intellettuali una filosofia che sembrava nazionale e originale, tale da porre l’Italia allo stesso livello delle nazioni più progredite e dare nuova dignità al «pensiero» italiano; Mazzini dava solo degli aforismi e degli accenni filosofici che a molti intellettuali, specialmente meridionali, dovevano sembrare vuote chiacchiere (il Galiani aveva «sfottuto» quel modo di pensare e di scrivere). Quistione della scuola. Attività dei moderati per introdurre il principio pedagogico dell’«insegnamento reciproco» (Confalonieri, Capponi ecc.); movimento di Ferrante Aporti e degli asili, legato anche al pauperismo. Era il solo movimento concreto contro la scuola «gesuitica» e non poteva non avere efficacia non solo fra i laici, ai quali dava una personalità propria, ma anche nel clero liberaleggiante e antigesuitico (ostilità contro Ferrante Aporti ecc.; il ricovero e l’educazione dell’infanzia abbandonata era un monopolio del clericalismo e queste iniziative spezzavano il monopolio).
Queste attività scolastiche del Risorgimento di carattere liberale o liberaleggiante hanno una grande importanza per afferrare il meccanismo dell’egemonia dei moderati sugli intellettuali. L’attività scolastica, in tutti i suoi gradi, ha un’importanza enorme, anche economica, per gli intellettuali di tutti i gradi; l’aveva allora anche maggiore, data la ristrettezza dei quadri sociali e le scarse strade aperte all’iniziativa degli intellettuali (oggi: giornalismo, movimento di partiti ecc. hanno allargato moltissimo i quadri intellettuali).
L’egemonia di un centro direttivo sugli intellettuali ha queste due linee strategiche: «una concezione generale della vita», una filosofia (Gioberti), che dia agli aderenti una «dignità» da contrapporre alle ideologie dominanti come principio di lotta; un programma scolastico che interessi e dia una attività propria nel loro campo tecnico a quella frazione degli intellettuali che è la più omogenea e la più numerosa (insegnanti, dai maestri ai professori d’Università).
I Congressi degli scienziati che si ripeterono nel Risorgimento ebbero una doppia efficacia: 1° riunire gli intellettuali del grado più elevato, moltiplicando così la loro influenza; 2° ottenere una più rapida concentrazione degli intellettuali dei gradi più bassi, che sono portati normalmente a seguire gli universitari, i grandi scienziati per spirito di casta.
Lo studio delle Riviste enciclopediche e specializzate dà un altro aspetto di questa egemonia. Un partito come quello moderato offriva alla massa degli intellettuali tutte le soddisfazioni per le esigenze generali che possono essere offerte da un governo (da un partito al governo) attraverso i servizi statali (per questa funzione di partito «di governo» servì ottimamente dopo il 48 lo Stato piemontese che accolse gli intellettuali esuli e mostrò in modello ciò che sarebbe stato il futuro Stato unitario).
§114 Risorgimento. Direzione Politica e militare. Nello studio della direzione politica e militare impressa al movimento nazionale prima e dopo il 48 occorre fare alcune preventive osservazioni di metodo e di nomenclatura. Per direzione militare non deve intendersi solo la direzione militare in senso stretto, tecnico, cioè come riferentesi alla strategia e alla tattica dell’esercito piemontese, o delle truppe garibaldine o delle varie milizie improvvisate nelle sollevazioni locali (5 giornate di Milano, difesa di Venezia, difesa della Repubblica Romana, insurrezione di Palermo nel 48 ecc.). Deve intendersi invece in senso molto più largo e più strettamente aderente alla direzione politica vera e propria.
Il problema era di espellere dall’Italia una potenza straniera, che aveva uno dei più grandi eserciti dell’Europa d’allora e che aveva inoltre non pochi e deboli aderenti nell’Italia stessa, persino nel Piemonte. Il problema militare era pertanto questo: «come riuscire a mobilitare una forza che fosse in grado di espellere dall’Italia l’esercito austriaco e di impedire che potesse ritornare con una controffensiva, dato che l’espulsione violenta avrebbe messo in pericolo l’Impero e quindi ne avrebbe galvanizzato tutte le forze vitali per una rivincita».
Le soluzioni date teoricamente furono parecchie, tutte contraddittorie. «L’Italia farà da sé». Questa fu la parola d’ordine del 48. Ma volle dire la sconfitta. La politica ambigua, incerta, timida dei partiti di destra piemontesi fu la cagione principale della sconfitta: essi furono d’una astuzia meschina. Essi furono la causa del ritirarsi degli eserciti degli altri stati italiani, napoletani e romani, per aver troppo presto mostrato di volere l’espansione piemontese e non la confederazione italiana: essi non favorivano i volontari: essi, insomma, volevano che soli armati vittoriosi fossero i generali piemontesi.
L’assenza di una politica popolare fu disastrosa: i contadini lombardi e veneti arruolati dall’Austria furono lo strumento per soffocare la rivoluzione di Vienna. Essi non vedevano nessun rapporto tra la rivoluzione di Vienna e quella dei loro paesi: il movimento lombardo-veneto era una cosa dei signori e degli studenti come il movimento viennese. Mentre il partito nazionale italiano avrebbe dovuto, con la sua politica rivoluzionaria, portare o aiutare la disgregazione dell’Impero austriaco, con la sua inerzia ottenne che i reggimenti italiani fossero uno dei migliori puntelli della reazione austriaca.
Eppure questo avrebbe dovuto essere il suo fine strategico: non distruggere il nemico e occuparne il territorio, che sarebbe stato fine irraggiungibile e utopistico, ma disgregarlo all’interno e aiutare i liberali austriaci ad andare al potere per mutare la struttura interna dell’impero in federalistica, o almeno per crearvi uno stato prolungato di lotte interne fra le varie nazionalità (lo stesso errore fu commesso da Sonnino durante la guerra mondiale, anche contro il parere di Cadorna: Sonnino non voleva la distruzione dell’Impero absburgico e si rifiutò a ogni politica di nazionalità; anche dopo Caporetto, questa politica fu fatta maltusianamente e non dette i rapidi risultati che avrebbe potuto dare).
Però dopo aver affermato «l’Italia farà da sé» si cercò dopo la sconfitta di avere l’aiuto francese, proprio quando al governo in Francia erano andati i reazionari, nemici di uno Stato italiano forte.
La direzione militare è dunque una quistione più vasta della direzione dell’esercito vero e proprio, della determinazione del piano strategico che questo esercito deve svolgere: essa riguarda la mobilitazione di forze popolari che insorgano alle spalle del nemico e ne intralcino il movimento, essa tende a creare masse ausiliarie e di riserva, da cui si possono trarre nuovi eserciti e che diano all’esercito «tecnico» l’atmosfera di entusiasmo e di ardore. La politica popolare non fu fatta neanche dopo il 48: si cercò l’aiuto della Francia e con l’alleanza francese si equilibrò la forza austriaca. La politica della destra piemontese ritardò l’unità d’Italia di 20 anni.
Mat. Bibl.: Costituzione della Repubblica romana
§117 Direzione politica e militare nel Risorgimento. La incertezza politica, le continue oscillazioni tra dispotismo e costituzionalismo ebbero i loro effetti anche sull’esercito piemontese. Si può dire che quanto più un esercito è numeroso, cioè quanto più profonde masse della popolazione vi sono incorporate, tanto più cresce l’importanza della direzione politica su quella meramente tecnica-militare. La combattività dell’esercito piemontese era altissima al principio della campagna del 48: i destri credettero che questa combattività fosse espressione di un puro «spirito militare» astratto e si dettero ad intrigare per restringere le libertà popolari. Il morale dell’esercito decadde.
La polemica sulla «fatal Novara» è tutta qui. A Novara l’esercito non volle combattere, perciò fu sconfitto. I destri accusarono i sinistri d’aver portato la politica nell’esercito, d’averlo disgregato. Ma in realtà l’esercito si accorge di un mutamento di direzione politica, senza bisogno dei disgregatori, da una molteplicità di piccoli fatti, che uno per uno sembrano trascurabili ma nell’insieme formano una nuova atmosfera asfissiante: quindi la causa non è che di chi ha mutato la direzione politica, senza prevederne le conseguenze militari, cioè ha sostituito una cattiva politica a una precedente buona, conforme al fine. Il problema è legato al concetto di opportuno e di conforme al fine: se gli uomini fossero macchine, il concetto di conforme al fine sarebbe semplice. Ma gli uomini non sono uno strumento materiale che si può usare nei limiti della sua coesione meccanica e fisica: nel «conforme al fine» occorre perciò includere sempre la distinzione «secondo lo strumento dato».
Se con una mazza di legno si batte un chiodo con la stessa energia con cui si batterebbe con un martello d’acciaio, è il chiodo che penetra nel legno invece di conficcarsi nel muro. Con un esercito di mercenari professionisti, la direzione politica è minima (sebbene esista anche in questo caso in qualche modo): con un esercito nazionale di leva il problema muta; nelle guerre di posizione fatte da grandi masse che solo con grandi riserve di forze morali possono resistere al grande logorio muscolare, nervoso, psichico, solo con un’abilissima direzione politica, che tenga conto delle aspirazioni più profonde delle masse, si impedisce la disgregazione e lo sfacelo.
La direzione militare deve essere sempre subordinata alla direzione politica, ossia i comandi dell’esercito devono essere l’espressione militare di una determinata politica. Naturalmente può darsi il caso che gli uomini politici non valgano nulla, mentre nell’esercito ci siano dei capi che alla capacità militare congiungono la capacità politica. Questo è il caso di Cesare e di Napoleone; ma in Napoleone s’è visto come il mutamento di politica, coordinato alla presunzione di avere uno strumento militare astrattamente militare, abbia portato alla sua rovina: cioè anche in questi esempi di direzione politica e militare unite in una stessa persona, la politica era superiore alla direzione militare. I libri di Cesare, ma specialmente il De bello civili, sono un classico esempio di esposizione di una sapiente combinazione di politica e arte militare: i soldati vedevano in Cesare non solo un grande capo militare, ma anche un grande capo politico.
Ricordare che Bismarck sosteneva la supremazia del politico sul militare, mentre Guglielmo II, secondo quanto riferisce Ludwig, annotò rabbiosamente un giornale in cui o l’opinione di Bismarck era riportata o si esprimeva un’opinione simile. Così i tedeschi vinsero brillantemente quasi tutte le battaglie, ma perdettero la guerra.
§109 Confidenti e agenti provocatori dell’Austria.
§110 Contraddizioni dei moderati prima del 48. La lega doganale, promossa da Cesare Balbo e stretta a Torino il 3 novembre 1847 dai tre rappresentanti del Piemonte, della Toscana e dello Stato romano, doveva preludere alla costituzione della Confederazione politica che poi fu disdetta dallo stesso Balbo, facendo così abortire anche la Lega doganale.
§115 A proposito della minaccia continua che il governo viennese faceva ai nobili del Lombardo-Veneto di promulgare una legislazione agraria favorevole ai contadini (cosa che fu fatta nella Galizia contro i signori polacchi a favore dei contadini ruteni), sono interessanti alcuni particolari contenuti in un articolo della «Pologne littéraire» riassunto nel «Marzocco» del 1° dicembre 1929.
Il giornale polacco, ricercando le cause storiche dello spirito militare dei polacchi, per cui si trovano volontari polacchi in tutte le guerre e le guerriglie, in tutte le insurrezioni e in tutte le rivoluzioni del secolo scorso, risale a questo fatto: il 13 luglio 1792 «una nazione che contava 9 milioni di abitanti, che aveva 70 000 soldati sotto le armi, fu conquistata senza essere stata vinta».
Il 3 maggio 1791 era stata proclamata una costituzione il cui spirito largamente democratico poteva divenire un pericolo per i vicini, il re di Prussia, l’imperatore d’Austria e lo zar di Russia, e che aveva parecchi punti di contatto con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino votata dalla Costituente francese nell’agosto del 1789. La Polonia fu conquistata colla piena connivenza dei nobili polacchi, i quali, più previdenti dei loro fratelli di Francia, non avevano atteso l’applicazione della carta costituzionale per provocare l’intervento straniero. Costoro preferirono vendere la nazione al nemico piuttosto che cedere la benché minima parte delle terre ai contadini. Preferirono cadere in servitù essi medesimi, anziché concedere la libertà al popolo.
§88 Gioberti. Nella prefazione alle Letture del Risorgimento, il Carducci scrive: «Staccatosi dalla Giovane Italia nel 1834 tornò a quello che il Santarosa voleva e chiamava cospirazione letteraria ed egli la fece con certa sua filosofia battagliera, che molto alta portava la tradizione italiana, finché uscì nell’agone col Primato e predicando la lega dei principi riformatori, capo il pontefice, attrasse le anime timorose e gli ingegni timorosi, attrasse e rapi il giovane clero, che alla sua volta traevasi dietro il popolo credente anche della campagna». Altrove il Carducci scrive: «... l’abate italiano riformista e mezzo giacobino col Parini, soprannuotato col Cesarotti e col Barbieri alla Rivoluzione, che s’era fatto col Di Breme banditore di romanticismo e soffiatore nel carbonarismo del 21, che aveva intinto col Gioberti nelle cospirazioni e bandito il Primato d’ltalia e il Rinnovamento, che aveva col Rosmini additato le piaghe della Chiesa, che aveva coll’Andreoli e col Tazzoli salito il patibolo... ».
§121 Novara 1849. Nel febbraio 1849 Silvio Spaventa visitò a Pisa il D’Azeglio e di questo colloquio fa ricordo in uno scritto politico composto nell’ergastolo nel 1856: «Un uomo di Stato piemontese dei più illustri diceva a me un mese innanzi: noi non possiamo vincere, ma combatteremo di nuovo: la nostra sconfitta sarà la sconfitta di quel partito che oggi ci risospinge alla guerra; e tra una sconfitta e una guerra civile noi scegliamo la prima: essa ci darà la pace interna e la libertà e l’indipendenza del Piemonte, che non può darci l’altra. Le previsioni di quel saggio (!) uomo si avverarono. La battaglia di Novara fu perduta per la causa dell’indipendenza e guadagnata per la libertà del Piemonte. E Carlo Alberto fece, secondo me, il sacrifizio della sua corona più a questa che a quella». (Cfr Silvio Spaventa, Dal 1848 al 1861. Lettere, scritti, documenti, pubblicati da B. Croce, 2a ed., p. 58 nota).
§118 Il problema dei volontari nel Risorgimento. C’è una tendenza a supervalutare l’apporto delle classi popolari al Risorgimento, insistendo specialmente sul fenomeno del volontariato (vedi articolo del Rota nella «Nuova Rivista Storica» per es.). A parte il fatto che da questi articoli appare che i volontari erano mal visti dalle autorità piemontesi, ciò che appunto conferma la cattiva direzione politico-militare, è in ogni modo da osservare che c’è supervalutazione. Ma questo problema del volontariato pone più in luce la deficienza della direzione politico-militare.
Il governo piemontese poteva arruolare obbligatoriamente soldati nel suo territorio statale, in rapporto alla sua popolazione, come l’Austria poteva farlo nel suo territorio e in rapporto alla sua popolazione enormemente più grandi: una guerra a fondo in questi termini, sarebbe sempre stata disastrosa per il Piemonte dopo un certo tempo. Posto il principio che l’«Italia fa da sé» bisognava o accettare la Confederazione tra eguali con gli altri Stati italiani, o proporsi l’unità politica territoriale su una tale base politica popolare che le masse fossero insorte contro gli altri governi e avessero costituito eserciti volontari che fossero accorsi accanto ai piemontesi.
Ma appunto qui è la quistione: che non si può pretendere entusiasmo, spirito di sacrifizio ecc. su un programma astratto e per fiducia generica in un governo lontano. Questo è stato il dramma del 48, ma non si può inveire contro il popolo: la responsabilità è dei moderati e forse più ancora del Partito d’Azione, cioè in fondo della scarsissima efficienza della classe dirigente.
§84 Giovanni Maioli, Il fondatore della Società Nazionale, Soc. Naz. per la Storia del Risorgimento, Roma, 1928
§140 La costituzione spagnola del 12 nel Risorgimento. Perché fu così popolare? Bisognerebbe confrontarla con le altre costituzioni promulgate nel 48. Certo era molto liberale, specialmente nel fissare le prerogative del parlamento e dei parlamentari.
§119 La demagogia. Le osservazioni fatte sulla deficienza di direzione politico-militare nel Risorgimento potrebbero essere ribattute con un argomento molto comune e molto frusto: «quegli uomini non furono demagoghi, non fecero della demagogia». Bisogna intendersi sulla parola e sul concetto di demagogia. Quegli uomini effettivamente non seppero guidare il popolo, non seppero destarne l’entusiasmo e la passione, se si intende demagogia nel suo significato primordiale. Ma essi raggiunsero il fine che si proponevano? Bisogna vedere: essi si proponevano di creare lo Stato moderno in Italia e non ci riuscirono, si proponevano di creare una classe dirigente diffusa ed energica e non ci riuscirono, di avvicinare il popolo allo Stato e non ci riuscirono.
La meschina vita politica dal 70 al 900, il ribellismo elementare ed endemico delle classi popolari, la creazione stentata e meschina di un ceto dirigente scettico e poltrone sono la conseguenza di quella deficienza.
In realtà poi gli uomini del Risorgimento furono dei grandissimi demagoghi: essi fecero del popolo-nazione uno strumento, degradandolo, e in ciò consiste la massima demagogia, nel senso peggiorativo che la parola ha assunto in bocca dei partiti di destra, in polemica coi partiti di sinistra, sebbene siano i partiti di destra ad aver sempre esercitato la peggiore demagogia.
§129 Il più diffuso luogo comune a proposito del Risorgimento è quello di ripetere in vari modi che tale rivolgimento storico si poté operare per merito delle sole classi colte. Dove sia il merito è difficile capire. Merito di una classe colta perché sua funzione storica è quella di dirigere le masse popolari: se la classe colta non è riuscita a compiere la sua funzione, non deve certo parlarsi di merito ma di demerito, cioè di immaturità e debolezza intima.
Primo Novecento
§43 [...] La relazione di città e campagna tra Nord e Sud può essere studiata nelle diverse forme di cultura. Benedetto Croce e Giustino Fortunato sono a capo, nell’inizio di questo secolo, di un movimento culturale che si contrappone al movimento culturale del Nord (futurismo). È notevole il fatto che la Sicilia si stacca dal Mezzogiorno per molti rispetti: Crispi è l’uomo dell’industria settentrionale; Pirandello nelle linee generali è più vicino al futurismo; Gentile ed il suo idealismo attuale sono anch’essi più vicini al movimento futurista, inteso in senso largo, come opposizione al classicismo tradizionale, come forma di un «romanticismo» contemporaneo.
Diversa struttura delle classi intellettuali: — nel mezzogiorno domina ancora il tipo del «curiale» o del paglietta, che pone a contatto la massa contadina con quella dei proprietari fondiari e con l’apparato statale; — nel Nord domina il tipo del «tecnico» d’officina che serve di collegamento tra la massa operaia e la classe capitalistica2; il collegamento tra massa operaia e Stato era dato dagli organizzatori sindacali e dai partiti politici, cioè da un ceto intellettuale completamente nuovo (l’attuale corporativismo, con la sua conseguenza della diffusione su scala nazionale di questo tipo sociale, in modo più sistematico e conseguente che non avesse potuto fare il vecchio sindacalismo, e in un certo senso uno strumento di unità morale e politica.
Questo rapporto città-campagna è visibile nei programmi politici effettuati prima del fascismo: il programma Giolitti o dei liberali democratici è questo: — creare nel Nord un blocco «urbano» (capitalisti-operai) che dia la base allo stato protezionista per rafforzare l’industria settentrionale, cui il Mezzogiorno è mercato di vendita semicoloniale; il Mezzogiorno è «curato» con due sistemi di misure:
1) sistema poliziesco (repressione implacabile di ogni movimento di massa, stragi periodiche di contadini); nella commemorazione di Giolitti «Spectator» della Nuova Antologia si maraviglia che Giolitti si sia sempre strenuamente opposto ad ogni diffusione del socialismo nel Mezzogiorno3, mentre la cosa è naturale e ovvia, poiché un protezionismo operaio (riformismo, cooperative, lavori pubblici) è solo possibile se parziale, cioè perché ogni privilegio presuppone dei sacrificati;
2) misure politiche: favori personali al ceto dei paglietta o pennaioli (impieghi pubblici, permesso di saccheggio delle pubbliche amministrazioni, legislazione ecclesiastica meno rigida che nel Nord ecc. ecc.), cioè incorporamento a «titolo personale» degli elementi più attivi meridionali nelle classi dirigenti, con particolari privilegi «giudiziari», impiegatizi ecc., in modo che lo strato che avrebbe potuto organizzare il malcontento meridionale diventava uno strumento della politica settentrionale, un suo accessorio «poliziesco»; il malcontento non poteva così assumere aspetto politico e le sue manifestazioni esprimendosi solo in modo caotico e tumultuario diventavano «sfera» della «polizia».
A questo fenomeno di corruzione aderivano sia pure passivamente e indirettamente anche uomini egregi come il Croce e il Fortunato per il feticismo dell’«Unità» (episodio Fortunato-Salvemini a proposito dell’«Unità» raccontato da Prezzolini nella prima edizione della Cultura italiana)4.
Il programma Giolitti fu «turbato» da due «fattori»: l’affermarsi degli intransigenti nel partito socialista con Mussolini e il loro civettare coi meridionalisti (libero scambio, elezioni di Molfetta ecc.), che distruggeva il blocco «urbano» e l’introduzione del suffragio universale che allargava in modo impressionante la base parlamentare nel Mezzogiorno e rendeva difficile la corruzione individuale (troppi da corrompere!). Giolitti muta «partenaire»: al blocco «urbano» sostituisce il patto Gentiloni o meglio lo rafforza per impedirne il completo crollo, cioè, in definitiva un blocco tra gli industriali settentrionali e i rurali della campagna «organica e normale» (forze elettorali cattoliche specialmente nel Nord e nel Centro)6, con estensione degli effetti anche nel Sud nella misura immediatamente sufficiente per «rettificare» utilmente gli effetti dell’allargamento della massa elettorale.
L’altro programma è quello che si può chiamare del «Corriere della Sera» o di Albertini e può essere fatto coincidere con una alleanza degli industriali settentrionali (con a capo i tessili, cotonieri, setaioli libero scambisti) coi rurali meridionali (blocco rurale): il «Corriere» ha sostenuto Salvemini a Molfetta (campagna Ojetti)7, ha sostenuto il ministero Salandra, ha sostenuto il ministero Nitti, cioè i primi due ministeri formati da meridionali (i siciliani sono da considerarsi a parte).
Il suffragio universale già nel 1913 aveva suscitato i primi accenni di quel fenomeno che avrà la massima espressione nel 19-20-21 in conseguenza dell’esperienza politica-organizzativa acquistata dalle masse contadine durante la guerra, cioè la rottura relativa del blocco rurale meridionale e il distacco dei contadini guidati da una parte degli intellettuali (ufficiali in guerra) dai grandi proprietari: si ha il sardismo, il partito riformista siciliano (gruppo Bonomi con 22 deputati siciliani) e il «rinnovamento» nell’Italia meridionale con tentativi di partiti regionali d’azione (rivista «Volontà» col Torraca, «Popolo romano» ecc.)8. In questi movimenti l’importanza della massa contadina è graduata dalla Sardegna, al Mezzogiorno, alla Sicilia a seconda della forza organizzata e della pressione esercitata ideologicamente dai grandi proprietari, che hanno in Sicilia un massimo di organizzazione e hanno invece una importanza relativamente piccola in Sardegna. Altrettanto graduata è l’indipendenza relativa dei rispettivi intellettuali.
§116 [...] Il Nittismo era ancora una formazione politica in fieri: ma Nitti mancava di alcune doti essenziali dell’uomo di Stato, era troppo pauroso fisicamente e troppo poco deciso: egli era però molto furbo, ma è questa una qualità subalterna. La creazione della Guardia Regia è il solo atto politico importante di Nitti: Nitti voleva creare un parlamentarismo di tipo francese (è da notare come Giolitti cercasse sempre le crisi extraparlamentari: Giolitti con questo «trucco» voleva mantenere formalmente intatto il diritto regio di nominare i ministri all’infuori o almeno a latere del Parlamento; in ogni caso impedire che il governo fosse troppo legato o esclusivamente legato al Parlamento), ma si poneva il problema delle forze armate e di un possibile colpo di Stato. Poiché i carabinieri dipendevano disciplinarmente e politicamente dal Ministero della Guerra, cioè dallo Stato Maggiore (anche se finanziariamente dal ministero degli interni), Nitti creò la Guardia Regia, come forza armata dipendente dal Parlamento, come contrappeso contro ogni velleità di colpo di Stato.
Per uno strano paradosso la Guardia Regia, che era un completo esercito professionale, cioè di tipo reazionario, doveva avere una funzione democratica, come forza armata della rappresentanza nazionale contro i possibili tentativi delle forze irresponsabili e reazionarie. È da notare la occulta lotta svoltasi nel 1922 tra nazionalisti e democratici intorno ai carabinieri e alla guardia regia. I liberali sotto la maschera di Facta volevano ridurre il corpo dei carabinieri o incorporarne una gran parte (il 50%) nella guardia regia. I nazionalisti reagiscono e al Senato il generale Giardino parla contro la Guardia Regia, e ne fa sciogliere la cavalleria (ricordare la comica e miserevole difesa che di questa cavalleria fece il «Paese»: il prestigio del cavallo, ecc. ecc.).
Le direttive di Nitti erano molto confuse: nel 1918, quand’era ministro del Tesoro, fece una campagna oratoria sostenendo la industrializzazione accelerata dell’Italia, e sballando grosse fanfaluche sulle ricchezze minerarie di ferro e carbone del paese (il ferro era quello di Cogne, il carbone era la lignite toscana: il Nitti giunse a sostenere che l’Italia poteva esportare questi minerali, dopo aver soddisfatto una sua industria decuplicata; cfr a questo proposito l’Italia in rissa di F. Ciccotti). Sostenne, prima dell’armistizio, la polizza ai combattenti, di 1000 lire, acquistando la simpatia dei contadini. Significato dell’amnistia ai disertori (italiani all’estero che non avrebbero più mandato rimesse, di cui la Banca di Sconto aveva il quasi monopolio).
Discorso di Nitti sulla impossibilità tecnica della rivoluzione in Italia, che produsse un effetto folgorante nel partito socialista (cfr il discorso di Nitti con la lettera aperta di Serrati del novembre o dicembre 1920).
La Guardia Regia era per il 90% di meridionali.
Programma di Nitti dei bacini montani nell’Italia meridionale che produsse tanto entusiasmo.
§44 [...] Per molti aspetti appare che la differenza tra molti uomini del Partito d'Azione e i moderati era più di «temperamento» che politica. La parola «giacobini» ha finito con l’assumere due significati: uno è il significato proprio, storicamente caratterizzato: un determinato partito della Rivoluzione francese, che concepiva la rivoluzione in un determinato modo, con un determinato programma, sulla base di determinate forze sociali e che esplicò la sua azione di partito e di governo con una determinata azione metodica caratterizzata da una estrema energia e risolutezza dipendenti dalla credenza fanatica nella bontà e di quel programma e di quel metodo. Nel linguaggio politico i due aspetti del giacobinismo furono scissi e si chiamò giacobino l’uomo politico energico e risoluto perché fanaticamente persuaso delle virtù taumaturgiche delle sue idee.
Crispi è «giacobino» solo in questo senso. Per il suo programma egli è un moderato puro e semplice. La sua «ossessione» giacobina è l’unità politico-territoriale del paese. Questo principio è sempre la sua bussola d’orientamento, non solo nel periodo del Risorgimento ma anche nel periodo successivo del suo governo. Uomo fortemente passionale, egli odia i moderati come persone; egli vede nei moderati uomini dell’ultima ora, eroi della sesta giornata, gente che avrebbe fatto la pace coi vecchi regimi se questi fossero diventati costituzionali, gente, come i moderati toscani, che si erano aggrappati alla giacca del granduca per non farlo scappare: egli si fidava poco di una unità fatta da non unitari. Perciò si lega alla monarchia che egli sente sarà assolutamente unitaria per interessi dinastici e abbraccia il principio-fatto dell’egemonia piemontese con una energia e una foga che non avevano gli stessi politici piemontesi.
Cavour aveva avvertito di non trattare il Mezzogiorno con gli stati d’assedio, e Crispi invece subito stabilisce lo stato d’assedio in Sicilia per il movimento dei Fasci: accusa i dirigenti dei Fasci di tramare con l’Inghilterra per il distacco della Sicilia (trattato di Bisacquino). Si lega strettamente coi latifondisti siciliani perché la classe più unitaria per paura delle rivendicazioni contadine, nello stesso tempo in cui la sua politica generale tende a rafforzare l’industrialismo settentrionale con la guerra di tariffe contro la Francia e col protezionismo doganale. Egli non esita a gettare tutto il Mezzogiorno in una crisi commerciale paurosa pur di rafforzare l’industria che può dare al paese una vera indipendenza e allargare la classe dominante: è la politica di fabbricare il fabbricante.
Il governo dei moderati dal 61 al 76 aveva solo e timidamente creato le condizioni esterne di uno sviluppo economico — sistemazione dell’apparato statale, strade, ferrovie, telegrafi — e sanato le finanze oberate dai debiti del Risorgimento; il governo della Sinistra cercò di rimediare all’odio suscitato nel popolo dal fiscalismo della Destra, ma non riuscì ad altro che a questo, ad essere una valvola di sicurezza; era la politica della destra con uomini e frasi di sinistra. Crispi invece dette un reale colpo in avanti alla società italiana, fu il vero uomo della nuova borghesia. La sua figura è diminuita dalla sproporzione tra i fatti e le parole, tra le repressioni e l’oggetto da reprimere, tra lo strumento e il colpo vibrato: maneggiava una colubrina arrugginita come fosse un moderno pezzo d’artiglieria. Anche la sua politica d’espansione coloniale è legata alla sua ossessione unitaria. In questo seppe comprendere l’innocenza politica del Mezzogiorno; il contadino meridionale voleva la terra; Crispi non gliela voleva dare in Italia stessa, non voleva fare del «giacobinismo economico»; gli prospettò il miraggio delle terre coloniali da sfruttare.
L’imperialismo di Crispi è un imperialismo rettorico passionale, senza base economico-finanziaria. L’Europa capitalistica, ricca di capitali, li esportava negli imperi coloniali che andò allora creando. Ma l’Italia non solo non aveva capitali da esportare, ma doveva ricorrere al capitale straniero per i suoi stessi strettissimi bisogni. Mancava una base reale all’imperialismo italiano, e alla base reale fu sostituita la «passionalità»: imperialismo-castello in aria, avversato dagli stessi capitalisti che avrebbero più volentieri visto impiegate in Italia le somme ingenti spese in Africa. Ma nel Mezzogiorno Crispi fu popolare per il miraggio della terra.
Crispi ha dato una forte impronta agli intellettuali siciliani, specialmente, ha creato quel fanatismo «unitario» che ha determinato una permanente atmosfera di sospetto contro tutto ciò che può arieggiare a separatismo. Ciò naturalmente non ha impedito che nel 1920 i latifondisti siciliani si riunissero a Palermo e pronunziassero un vero ultimatum contro il governo minacciando la separazione2, come non impedisce che parecchi di questi latifondisti continuino a mantenere la cittadinanza spagnola e facciano intervenire il governo spagnolo (caso del duca di Bivona) per tutelare i loro interessi compromessi dall’agitazione dei contadini3. L’atteggiamento delle classi meridionali dal 19 al 26 serve a mettere in luce alcune debolezze della politica «ossessionatamente» unitaria di Crispi e a mettere in rilievo alcune correzioni (poche in realtà, perché da questo punto di vista Giolitti si mantenne nel solco di Crispi) apportatevi da Giolitti.
L’episodio dei latifondisti siciliani del 1920 non è isolato e di esso potrebbe darsi altra interpretazione, per i precedenti delle alte classi lombarde che in qualche occasione minacciarono di «far da sé» (trovare i riscontri e i documenti) se non trovasse una interpretazione autentica nelle campagne, fatte dal «Mattino» dal 19 al 26 (fino alla espulsione dei fratelli Scarfoglio4), che sarebbe semplicistico ritenere completamente campate in aria, cioè non legate in qualche modo a correnti di opinione pubblica e a stati d’animo rimasti sotterranei, latenti, potenziali per l’atmosfera d’intimidazione formata dall’«unitarismo ossessionato».
Un altro elemento per saggiare la portata reale della politica «unitaria ossessionata» di Crispi è il complesso di sentimenti creatosi nel settentrione per riguardo al mezzogiorno. La «miseria» del Mezzogiorno era inspiegabile «storicamente» per le masse popolari del Nord: queste non capivano che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una «piovra» che si arricchiva alle spese del Sud, che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale. Esse invece pensavano che se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dagli impacci che allo sviluppo moderno opponeva il borbonismo, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne ma interne; poiché d’altronde era radicata la persuasione della grande ricchezza naturale del terreno, non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica.
Queste opinioni già diffuse (il lazzaronismo napoletano era una leggenda di vecchia data) furono consolidate e teorizzate addirittura dai sociologhi del positivismo (Niceforo, Ferri, Orano ecc.) assumendo la forza delle «verità scientifiche» in un tempo di superstizione della scienza7. Si ebbe così una polemica Nord-Sud sulle razze e sulle superiorità e inferiorità del Settentrione e del Mezzogiorno (libri di Colajanni in difesa del Mezzogiorno e collezione della «Rivista Popolare»8).
Intanto rimase nel Nord la credenza della «palla di piombo» che il Mezzogiorno rappresenterebbe per l’Italia, la persuasione dei più grandi progressi che la civiltà moderna industriale del Nord avrebbe fatto senza questa «palla di pionibo» ecc. ecc. Nei principi del secolo c’è una forte reazione meridionale anche su questo terreno. Congresso Sardo del 1911 sotto la presidenza del generale Rugiu, nel quale si calcola quanti milioni sono stati estorti alla Sardegna nei primi 50 anni di unità a favore del continente9. Campagne di Salvemini culminate nella fondazione dell’«Unità», ma condotte già nella «Voce» (numero unico della «Voce» sulla «Quistione meridionale» pubblicato anche in opuscolo).
In questo secolo si realizza un certo blocco «intellettuale» che ha a capo B. Croce e Giustino Fortunato e che si dirama in tutta Italia; in ogni rivistina di giovani, che abbiano tendenze liberali-democratiche e in generale si propongano di svecchiare la cultura italiana, in tutti i campi, dell’arte, della letteratura, della politica, appare non solo l’influenza del Croce e del Fortunato, ma la loro collaborazione: esempio tipico la «Voce» e l’«Unità», ma si vede anche nella «Patria» di Bologna, nell’«Azione Liberale» di Milano, nei «borelliani» ecc.. Appare anche nel «Corriere della Sera» e finisce nel dopoguerra, date le nuove situazioni, con l’apparire nella «Stampa» (attraverso Cosmo, Salvatorelli, Ambrosini) e nel giolittismo, con l’assunzione di Croce nell’ultimo governo Giolitti.
Di questo movimento, oggi, vien data una interpretazione tendenziosa anche da G. Prezzolini che ne fu una tipica incarnazione; ma rimane la prima edizione della Cultura italiana di Prezzolini, del 1923, con le sue «omissioni», come documento autentico. Questo movimento giunge fino al Gobetti e alle sue iniziative di cultura e trova in lui il suo punto di risoluzione. Gobetti rappresenta il punto d’approdo di questo movimento e la fine del blocco, cioè l’origine della sua dissoluzione. La polemica di Giovanni Ansaldo contro Guido Dorso è il documento più espressivo di questa dissoluzione, anche per una certa comicità di atteggiamenti gladiatori di intimidazione dell’«unitarismo ossessionato»10.
Da questo complesso di avvenimenti e di spunti polemici deriva un criterio per ricercare la diversa «saggezza» delle diverse correnti che si contesero la direzione politica e ideologica del Partito d’Azione: il collegamento delle diverse classi rurali che si realizza in un blocco attraverso i diversi ceti intellettuali può essere dissolto per addivenire a una nuova formazione (passaggio dal borbonesimo al regime liberale nazionale nell’Italia meridionale) solo se si fa forza in due direzioni: sui contadini di base accettandone le rivendicazioni e facendo di esse parte integrante del nuovo programma di governo e sugli intellettuali insistendo sui motivi che più li possono interessare. Il rapporto tra queste due azioni è dialettico: se i contadini si muovono, gli intellettuali incominciano a oscillare e reciprocamente se un gruppo di intellettuali si pone sulla nuova base, essi finiscono col trasportare con sé frazioni di massa sempre più importanti.
Txt.: F. Crispi - Politica estera
Txt.: F. Crispi - Questioni internazionali
§44 [...] A proposito delle difese fatte anche recentemente dell’atteggiamento tenuto dall’aristocrazia lombarda verso l’Austria, specialmente dopo l’insurrezione del febbraio 53 e durante il viceregno di Massimiliano, ricordare che Alessandro Luzio, la cui opera storica è completamente tendenziosa, giunge fino a legittimare i fedeli servizi prestati all’Austria dal Salvotti e C.; altro che spirito giacobino!.
La punta comica nella quistione è data da Alfredo Panzini che, nella Vita di Cavour, fa tutta una variazione altrettanto leziosa quanto stucchevole e gesuitica sulla «pelle di tigre» esposta da una finestra aristocratica durante una visita a Milano di Francesco Giuseppe!!13.
Da tutti questi punti di vista devono essere considerate le concezioni di Missiroli, Gobetti, Dorso, ecc. sul Risorgimento italiano come «conquista regia».
§131 Bainville e il suffragio universale in Francia. L’affermazione di Bainville sul suffragio universale
§18 L’errore di Maurras. Note sul partito monarchico francese.
Cfr Q 13 § 37
§48 Il giacobismo a rovescio di Carlo Maurras (seguito al § di p. 8 bis). Lo sviluppo del giacobinismo (di contenuto) ha trovato la sua perfezione formale nel regime parlamentare, che realizza nel periodo più ricco di energie «private» nella società l’egemonia della classe urbana su tutta la popolazione, nella forma hegeliana di governo col consenso permanentemente organizzato (coll’organizzazione lasciata all’iniziativa privata, quindi di carattere morale o etico, perché consenso «volontario», in un modo o nell’altro). Il «limite» trovato dai giacobini con la legge Chapelier o il maximum viene superato e allargato attraverso un processo complesso, teorico-pratico (giuridico-politico = economico), per cui si riottiene il consenso politico (si mantiene l’egemonia) allargando e approfondendo la base economica con lo sviluppo industriale e commerciale fino alla epoca dell’imperialismo e alla guerra mondiale.
In questo processo si alternano insurrezioni e repressioni, allargamenti e restrizioni del suffragio politico, libertà di associazione e restrizione o annullamento di questa libertà, libertà nel campo sindacale ma non nel campo politico, forme diverse del suffragio, di lista o per piccola circoscrizione, proporzionale o individuale, con le varie combinazioni che ne risultano, il sistema di una camera o delle due camere, coi vari modi di scelta per ognuna (camera vitalizia ed ereditaria, o solamente vitalizia, elettiva anch’essa, ma non come la camera bassa, ecc.), col vario equilibrio dei poteri, per cui la magistratura è un potere o un ordine, indipendente o controllato e diretto dal governo, con le diverse attribuzioni del capo dello Stato, col diverso equilibrio interno degli organismi territoriali (centralismo o decentramento, minori o maggiori poteri dei prefetti, dei Consigli provinciali, dei comuni); con un diverso equilibrio tra forze armate di leva e corpi armati professionali (polizia, gendarmeria); con la dipendenza di questi corpi professionali dall’uno o dall’altro potere statale (dalla magistratura, dal ministro dell’interno o da quello della guerra); con la maggiore o minore parte lasciata alla consuetudine o alla legge scritta, per cui si sviluppano delle forme consuetudinarie che possono essere abolite in virtù della legge scritta; con il distacco reale più o meno grande tra i regolamenti e le leggi fondamentali, con l’uso più o meno grande di decreti legge che si sovrappongono alla legislazione ordinaria e la modificano in certe occasioni, forzando la «pazienza» del parlamento.
A questo processo contribuiscono i teorici-filosofi, i pubblicisti, i partiti politici ecc. per la parte formale e i movimenti di massa per la parte sostanziale, con azioni e reazioni reciproche, con iniziative «preventive» prima che un fenomeno si manifesti pericolosamente e con repressioni quando le prevenzioni sono mancate o sono state tardive o inefficaci. L’esercizio «normale» dell’egemonia nel terreno divenuto classico del regime parlamentare, è caratterizzato da una combinazione della forza e del consenso che si equilibrano, senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi appaia appoggiata dal consenso della maggioranza espresso dai così detti organi dell’opinione pubblica (i quali perciò, in certe situazioni, vengono moltiplicati artificiosamente).
Tra il consenso e la forza sta la corruzione-frode (che è caratteristica di certe situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica presentando l’impiego della forza troppi pericoli), cioè lo snervamento e la paralisi procurati all’antagonista o agli antagonisti con l’accaparrarne i dirigenti, copertamente in via normale, apertamente in caso di pericolo prospettato per gettare lo scompiglio e il disordine nelle file antagoniste.
Nel periodo del dopoguerra, l’apparato egemonico si screpola e l’esercizio dell’egemonia diventa sempre più difficile. Il fenomeno viene presentato e trattato con vari nomi e sotto vari aspetti. I più comuni sono: «crisi del principio di autorità» — «dissoluzione del regime parlamentare». Naturalmente del fenomeno si descrivono solo le manifestazioni centrali, nel terreno parlamentare e governativo, e si spiegano col fallimento del «principio» parlamentare, del «principio» democratico ecc., non però del «principio» d’autorità (questo fallimento viene proclamato da altri).
Praticamente questa crisi si manifesta nella sempre crescente difficoltà di formare dei governi e nella sempre crescente instabilità dei governi stessi ed ha la sua origine immediata nella moltiplicazione dei partiti parlamentari e nelle crisi interne permanenti di ognuno di questi partiti (cioè si verifica nell’interno di ogni partito ciò che si verifica nell’intero parlamento: difficoltà di governo).
Le forme di questo fenomeno sono anche, in una certa misura, di corruzione e dissoluzione morale: ogni gruppetto interno di partito crede di avere la ricetta per arrestare l’indebolimento dell’intero partito e ricorre a ogni mezzo per averne la direzione o almeno per partecipare alla direzione così come nel parlamento il partito crede di essere il solo a dover formare il governo per salvare il paese o almeno, per dare l’appoggio al governo, di doverci partecipare il più largamente possibile; quindi contrattazioni cavillose e minuziose che non possono non essere personalistiche in modo da apparire scandalose. Forse nella realtà, la corruzione è minore di quanto si creda.
Che gli interessati a che la crisi si risolva dal loro punto di vista, fingano di credere che si tratti della «corruzione» e «dissoluzione» di un «principio», potrebbe anche essere giustificato: ognuno può essere il giudice migliore nella scelta delle armi ideologiche che sono più appropriate ai fini che vuol raggiungere e la demagogia può essere ritenuta arma eccellente. Ma la cosa diventa comica quando il demagogo non sa di esserlo, quando cioè si opera praticamente come se si creda realmente che l’abito è il monaco, che il berretto è il cervello. Machiavelli e Stenterello.
La crisi in Francia. Sua grande lentezza. I partiti francesi. Essi erano molto numerosi anche prima del 14. La loro molteplicità formale dipende dalla ricchezza di avvenimenti politici in Francia dal 1789 all’Affare Dreyfus. Ognuno di questi avvenimenti ha lasciato sedimenti e strascichi che si sono consolidati in partiti; ma le differenze essendo molto meno importanti delle coincidenze, in realtà ha regnato in parlamento il regime dei due partiti: liberali-democratici (varie gamme del radicalesimo) e conservatori. La molteplicità dei partiti è stata utile nel passato: ha permesso una vasta opera di selezione e ha creato un gran numero di uomini di governo. Così ogni movimento dell’opinione pubblica trovava un immediato riflesso e una composizione. L’egemonia borghese è molto forte e ha molte riserve. Gli intellettuali sono molto concentrati (Accademia, Università, grandi giornali e riviste di Parigi) e quantunque numerosissimi, molto disciplinati ai centri di cultura. La burocrazia militare e civile ha una grande tradizione e ha raggiunto una grande omogeneità.
La debolezza interna più pericolosa nell’apparato statale (militare e civile) era data dal clericalismo alleato ai monarchici. Ma la massa popolare, se pure cattolica, non era clericale.
Nell’affare Dreyfus è culminata la lotta per paralizzare l’influenza clericale-monarchica nell’apparato statale e per dare all’elemento laico la netta prevalenza. La guerra non ha indebolito, ma rafforzato l’egemonia; non si è avuto tempo di pensare: il paese è entrato in guerra e quasi subito il suo territorio è stato invaso. Il passaggio dalla vecchia disciplina alla nuova non ha domandato una crisi troppo grande: i vecchi quadri militari erano vasti abbastanza e abbastanza elastici: gli ufficiali subalterni e i sottufficiali erano forse i più scelti del mondo, i meglio allenati.
La crisi parlamentare francese indica che c’è un malessere diffuso nel paese, ma questo malessere non ha avuto sinora un carattere radicale, non ha posto in gioco quistioni «intangibili». C’è stato un allargamento della base industriale, e quindi un accresciuto urbanesimo. Masse di rurali si sono riversate in città, ma non perché ci fosse in campagna disoccupazione o fame insoddisfatta di terra; perché in città si sta meglio, ci sono più soddisfazioni (il prezzo della terra è basso e molte terre buone sono abbandonate agli italiani). La crisi parlamentare riflette (finora) piuttosto uno spostamento di masse normale (non dovuto a crisi economica), con una ricerca di nuovi equilibri di partito e un malessere vago, premonitore di una grande crisi.
La stessa sensibilità dell’organismo politico porta a esagerare i sintomi del malessere. Si tratta per ora di una lotta per la divisione dei carichi statali e dei benefici statali, più che altro. Perciò crisi dei partiti medi e del partito radicale in primo luogo, che rappresenta le città medie e piccole e i contadini più avanzati. Le forze politiche si preparano alle grandi lotte future e cercano un miglior assestamento. Le forze extrastatali fanno sentire più sensibilmente il loro peso e impongono i loro uomini in modo più brutale.
Maurras grida già allo sfacelo e si prepara alla presa del potere. Maurras passa per un grande uomo di stato e per un grandissimo realista. In realtà egli è solo un giacobino alla rovescia.
La sconfitta di Maurras è certa: è la sua concezione che è falsa per troppa perfezione logica. Del resto la sconfitta era sentita da Maurras proprio all’inizio della crisi col Vaticano, che coincise con la crisi parlamentare francese del 25. Quando i ministeri si succedevano a rotazione, l’Action Française pubblicò di essere pronta a prendere il potere. Fu pubblicato un articolo in cui si giunge fino ad invitare Caillaux a collaborare, Caillaux per il quale si annunziava sempre il plotone di esecuzione. L’episodio è classico: la politica irrigidita e razionalistica tipo Maurras, dell’astensionismo aprioristico, delle leggi naturali siderali che reggono la società è condannata al marasma, al crollo, all’abdicazione al momento risolutivo. Allora si vede che le grandi masse di energia non si riversano nei serbatoi creati artificialmente, ma seguono le vie della storia, si spostano secondo i partiti che sono stati sempre attivi. A parte la stoltezza di credere che nel 25 potesse avvenire il crollo della Repubblica per la crisi parlamentare (l’intellettualismo porta a queste allucinazioni monomaniache), ci fu un crollo morale, se non di Maurras, che sarà anche rimasto nel suo stato di illuminazione apocalittica, del suo gruppo, che si senti isolato e fece appello a Caillaux.
§49 Il «centralismo organico» e le dottrine di Maurras. Il «centralismo organico» ha come principio la «cooptazione» intorno a un «possessore della verità», a un «illuminato dalla ragione» che ha trovato le leggi «naturali» ecc. (Le leggi della meccanica e della matematica funzionano da motore intellettuale; la metafora sta invece del pensiero storico). Collegato col Maurrasismo.
Mat. Bibl.: Centralismo organico e democratico
§53 Maurrasianesimo e sindacalismo. Nella concezione di Maurras ci sono molti tratti simili a certe teorie catastrofiche formali di certo sindacalismo o economismo. È avvenuta parecchie volte questa trasposizione nel campo politico e parlamentare di concezioni nate sul terreno economico e sindacale. Ogni astensionismo politico si basa su questa concezione (astensionismo politico in generale, non solo parlamentare). Meccanicamente avverrà il crollo dell’avversario se, con metodo intransigente, lo si boicotterà nel campo governativo (sciopero economico, sciopero o inattività politica). L’esempio classico italiano è quello dei clericali dopo il 70. In realtà poi, dopo il 90 il non expedit fu temperato fino al patto Gentiloni. La fondazione del P. P. segnò il rigetto totale di questo meccanicismo catastrofico. Il suffragio universale rovesciò questo piano: esso infatti già diede i sintomi di nuove formazioni legate all’interesse dei contadini di entrare attivamente nella vita dello Stato.
§106 La concezione religiosa di Maurras. La «Rivista d’Italia» del 15 gennaio 1927 riassume un articolo di J. Vialatoux pubblicato nella «Chronique Sociale de France» di qualche settimana prima.
§57 Reazioni del Nord alle pregiudiziali antimeridionali1. 1° Episodio del 1914 a Torino: proposta a Salvemini di candidatura: la città del Nord elegge il deputato per la campagna del Sud. Rifiuto, ma partecipazione di Salvemini alla elezione come oratore2. 2° Episodio Giovane Sardegna del 19 con annessi e connessi3. 3° Brigata Sassari nel 17 e nel 194. 4° Cooperativa Agnelli nel 20 (suo significato «morale» dopo il settembre; motivazione del rifiuto)5. 5° Episodio del 21 a Reggio Emilia6 (di questo Zibordi si guarda bene dal parlarne nel suo opuscolo su Prampolini)7.
Sono questi fatti che colpirono Gobetti e quindi provocarono atmosfera del libro di Dorso8. (B. S.: agnelli e conigli. Miniere-Ferrovie)9.
§58 Emigrazione e movimenti intellettuali. Funzione dell’emigrazione nel provocare nuove correnti e nuovi raggruppamenti intellettuali. Emigrazione e Libia. Discorso di Ferri alla Camera nel 1911 dopo il suo ritorno dall’America (la lotta di classe non spiega l’emigrazione). Passaggio di un gruppo di sindacalisti al partito nazionalista. Concetto di nazione proletaria in Enrico Corradini. Discorso di Pascoli La grande proletaria si è mossa. Sindacalisti-nazionalisti di origine meridionale: Forges Davanzati - Maraviglia. In generale molti sindacalisti intellettuali d’origine meridionale. Loro passaggio episodico nelle città industriali (il ciclonismo): loro più stabile fortuna nelle regioni agricole, dal Novarese alla valle padana e alle Puglie.
§76 La crisi dell’«Occidente». La «Fiera Letteraria» del 29 luglio 1928 riporta alcuni brani di un articolo di Filippo Burzio sulla «Stampa». Si parla oggi dell’Occidente come qualche secolo addietro si parlava della «Cristianità». È esistita una prima unità dell’Occidente, quella cristiano-cattolica medioevale; un primo scisma, o crisi, la Riforma con le guerre di religione. Dopo la Riforma, dopo due secoli, o quasi, di guerre di religione, si realizzò di fatto, in Occidente, una seconda unità, di altra indole, permeando di sé profondamente tutta la vita europea e culminando nei secoli XVIII e XIX: né le resistenze che incontrò la infirmarono, più che le eresie medioevali non abbiano infirmata la prima.
È questa nuova unità che è in crisi (il Burzio è in polemica implicita coi cattolici, i quali vorrebbero appropriarsi la «cura» della crisi, come se questa si verificasse nel loro terreno ed essi ne fossero gli antagonisti reali, mentre sono i rottami o i fossili di una unità storica già definitivamente superata). Essa poggia su tre piloni: lo spirito critico, lo spirito scientifico, lo spirito capitalistico (forse sarebbe meglio dire «industriale»). I due ultimi sono saldi (se «capitalismo» = «industrialismo» sì), il primo invece non lo è più, e perciò le élites spirituali di Occidente soffrono di squilibrio e di disarmonia fra la coscienza critica e l’azione (sarebbe sempre la crisi dello «storicismo» per l’opposizione tra «sentimento», «passione» e coscienza critica). Come sostegno al fare, come aiuto al vivere, l’imperativo filosofico è grigio e vuoto quanto il solidarismo scientifico. In questo vuoto l’anima boccheggia e ne sa qualche cosa l’ispirazione poetica, che si è andata facendo sempre più tetra o febbrile. Quasi nessun giorno interiore al nostro tempo è lieto (ma questa crisi non è piuttosto legata alla caduta del mito del progresso indefinito e all’ottimismo che ne dipendeva, cioè a una forma di religione, piuttosto che alla crisi dello storicismo e della coscienza critica? In realtà la «coscienza critica» era ristretta a una piccola cerchia, egemonica, sì, ma ristretta; l’«apparato di governo» spirituale si è spezzato, e c’è crisi, ma essa è anche di diffusione, ciò che porterà a una nuova «egemonia» più sicura e stabile).
Dobbiamo salvare l’Occidente integrale; tutta la conoscenza, con tutta l’azione. L’uomo ha voluto navigare, e ha navigato; ha voluto volare, ed ha volato; da tanti secoli che pensa Dio, non dovrà servire a niente? Albeggia, emerge, dalla creatura la mentalità del creatore. Se non si può scegliere tra i vari modi di vita, perché specializzarsi vorrebbe dire mutilarsi, non rimane che fare tutto. Se l’antica religione sembri esausta, non rimane che ringiovanirla. Universalità, interiorità, magicità. Se Dio si cela, resta il demiurgo. Uomo dell’Occidente hic res tua agitur. (Notare come da poli opposti, B. Croce e F. Burzio resistono alla ondata della nuova «religiosità» antistoricistica).
§90 La Voce e Prezzolini. L’articolo in cui Prezzolini difende la «Voce» e «rivendica di pieno diritto un posto per essa nella preparazione dell’Italia contemporanea» è citato nella «Fiera Letteraria» del 24 febbraio 1929 e quindi deve essere stato pubblicato nel «Lavoro fascista» di qualche giorno prima (nei dieci giorni tra il 14 e il 24 febbraio). L’articolo è stato provocato da una serie di articoletti della «Tribuna» contro Papini, nel quale, per il suo studio Su questa letteratura (pubblicato nel primo numero del «Pègaso») si scoprivano tracce del vecchio «protestantesimo» della «Voce».
Lo scrittore della «Tribuna» ex nazionalista della prima «Idea Nazionale» non riusciva ancora a dimenticare i vecchi rancori contro la «Voce», mentre Prezzolini non ebbe il coraggio di sostenere la sua posizione d’allora. Su questo argomento Prezzolini pubblicò anche una lettera nel «Davide» che usciva irregolarmente a Torino nel 25-26 diretto da Gorgerino.
Bisogna poi ricordare il suo libro sulla Cultura Italiana del 23 e il suo volume sul «Fascismo» (in francese). Se Prezzolini avesse coraggio civile potrebbe ricordare che la sua «Voce» ha certamente molto influito su alcuni elementi socialisti ed è stata un elemento di revisionismo. Sua collaborazione e di Papini, nonché di molti vociani, al primo «Popolo d’Italia».
§130 Italia reale e Italia legale. La formula escogitata dai clericali dopo il 70 per indicare il disagio politico nazionale: contraddizione tra Italia legale e Italia reale. A Torino uscì fino a qualche anno avanti la guerra un quotidiano (poi settimanale) «L’Italia reale», diretto dall’avv. Scala e organo del più nero clericalismo. Come sorse la formula, da chi fu escogitata e quale giustificazione teorico-politico-morale ne fu data? Occorre farne la ricerca («Civiltà Cattolica», primi numeri della stessa «Italia reale» di Torino ecc.). Essa in generale è felice, perché esisteva un distacco netto tra lo Stato (legalità) e la società civile (realtà), ma questa società civile era tutta e solamente nel «clericalismo»?
Intanto questa stessa società civile era qualcosa di informe e caotico e tale rimase per molti decenni; quindi fu possibile allo Stato dominarla, superando volta a volta le contraddizioni che si presentavano in forma sporadica, localistica, senza nesso nazionale. Il clericalismo non era dunque neanche esso l’espressione di questa società civile, perché non riuscì ad organizzarla nazionalmente, quantunque esso fosse una forte e compatta (formalmente) organizzazione nazionale. Intanto questa organizzazione non era politicamente omogenea ed aveva paura delle stesse masse che dominava in un certo senso. La formula del «non expedit» fu la espressione di questa paura ed incertezza; il boicottaggio parlamentare, che si presentava come un atteggiamento aspramente intransigente, era in realtà espressione del più piatto opportunismo.
Tuttavia l’atteggiamento clericale di mantenere statico il dissidio tra Stato e società civile era obbiettivamente «sovversivo» e una nuova organizzazione espressa dalle forze maturanti in questa società poteva giovarsene come campo di manovra per attaccare lo Stato; perciò la reazione statale nel 98 abbatté insieme e socialismo e clericalismo, giudicandoli giustamente ugualmente «sovversivi» e obbiettivamente alleati. Di ciò si accorse anche il Vaticano, e quindi da questo momento comincia la sua nuova politica, l’abbandono reale del «non expedit» anche nel campo parlamentare (il comune era tradizionalmente considerato società civile e non Stato). Ciò permette l’introduzione del suffragio universale, il patto Gentiloni e quindi la fondazione del Partito Popolare nel 1919. La quistione permane (di Italia reale e legale) ma su un piano più elevato politico e storico, e perciò episodi del 24-26 fino a soppressione di tutti i partiti, con l’affermazione di una raggiunta identità tra reale e legale, perché la «società civile» in tutte le sue forme dominata da una sola organizzazione statale — di partito.
Storicismo
§28 Diritto naturale. Vedi le due noticine precedenti a p. 2 e a p. 3 bis. Nella polemica presente contro il diritto naturale non bisogna cercare una intenzione scientifica qualunque. Si tratta di esercitazioni giornalistiche non molto brillanti, che si propongono lo scopo propagandistico di distruggere certi stati d’animo molto diffusi e che sono ritenuti pericolosi.
A questo proposito vedere l’opuscolo del Tilgher su «Storia e Antistoria», dal quale apparirebbe che mai come oggi la mentalità illuministica da cui è nata la teoria del diritto naturale è diffusa. L’opuscolo del Tilgher, a suo modo, è una riprova di tale diffusione, perché il Tilgher cerca con esso di farsi un posticino al nuovo sole. Mi pare che chi studi con una certa profondità (se si astrae dal linguaggio sforzato) le contraddizioni psicologiche che nascono sul terreno dello storicismo, come concezione generale della vita e dell’azione, sia Filippo Burzio. Per lo meno la sua affermazione: «essere sopra alle passioni e ai sentimenti pur provandoli» mi pare ricca di molte conseguenze. Infatti questo è il nodo della quistione dello «storicismo» che il Tilgher non sfiora neppure: «come si possa essere critici e uomini d’azione nello stesso tempo, in modo non solo che l’uno aspetto non indebolisca l’altro, ma anzi lo convalidi». Il Tilgher scinde molto meccanicamente i due aspetti di ogni personalità umana (dato che non esiste e non è mai esistito un uomo tutto critico e uno tutto passionale) invece di cercare di determinare come in diversi periodi storici i due aspetti si combinino in modo che nel mondo della cultura prevalga una corrente o l’altra. (L’opuscolo del Tilgher lo dovrò ancora rivedere).
Cfr Q 26 § 5
Mat. B: Adriano Tilgher. Il Profilo filosofico di un irregolare.
Stato
§47 Hegel e l’associazionismo. La dottrina di Hegel sui partiti e le associazioni come trama «privata» dello Stato. Essa derivò storicamente dalle esperienze politiche della Rivoluzione francese e doveva servire a dare una maggiore concretezza al costituzionalismo. Governo col consenso dei governati, ma col consenso organizzato, non generico e vago quale si afferma nell’istante delle elezioni: lo Stato ha e domanda il consenso, ma anche «educa» questo consenso con le associazioni politiche e sindacali, che però sono organismi privati, lasciati all’iniziativa privata della classe dirigente. Hegel, in un certo senso supera già, così, il puro costituzionalismo e teorizza lo Stato parlamentare col suo regime dei partiti. La sua concezione dell’associazione non può essere che ancora vaga e primitiva, tra il politico e l’economico, secondo l’esperienza storica del tempo, che era molto ristretta e dava un solo esempio compiuto di organizzazione, quello «corporativo» (politica innestata nell’economia).
Marx non poteva avere esperienze storiche superiori a quelle di Hegel (almeno molto superiori), ma aveva il senso delle masse, per la sua attività giornalistica e agitatoria. Il concetto di Marx dell’organizzazione rimane ancora impigliato tra questi elementi: organizzazione di mestiere, clubs giacobini, cospirazioni segrete di piccoli gruppi, organizzazione giornalistica. La Rivoluzione francese offre due tipi prevalenti: i clubs, che sono organizzazioni non rigide, tipo «comizio popolare», centralizzate da singole individualità politiche, ognuna delle quali ha il suo giornale, con cui tiene desta l’attenzione e l’interesse di una determinata clientela sfumata ai margini, che poi sostiene le tesi del giornale nelle riunioni del club. È certo che in mezzo agli assidui dei clubs dovevano esistere aggruppamenti ristretti e selezionati di gente che si conosceva reciprocamente, che si riuniva a parte e preparava l’atmosfera delle riunioni per sostenere l’una o l’altra corrente secondo i momenti e anche secondo gli interessi concreti in gioco. Le cospirazioni segrete, che poi ebbero tanta diffusione in Italia prima del 48, dovettero svilupparsi dopo il Termidoro in Francia, tra i seguaci di seconda linea del giacobinismo, con molte difficoltà nel periodo napoleonico per l’occhiuto controllo della polizia, con più facilità dal 15 al 30 sotto la Restaurazione, che fu abbastanza liberale alla base e non aveva certe preoccupazioni. In questo periodo dal 15 al 30 dovette avvenire la differenziazione del campo politico popolare, che appare già notevole nelle «gloriose giornate» del 1830, in cui affiorano le formazioni venutesi costituendo nel quindicennio precedente. Dopo il 30 e fino al 48 questo processo di differenziazione si perfeziona e dà dei tipi abbastanza compiuti con Blanqui e con Filippo Buonarroti.
È difficile che Hegel potesse conoscere da vicino queste esperienze storiche, che invece erano più vivaci in Marx (su questa serie di fatti vedere come primo materiale le pubblicazioni di Paul Louis e il Dizionario politico di Maurice Block; per la Rivoluzione francese specialmente Aulard; vedere anche le note dell’Andler al Manifesto; per l’Italia il libro del Luzio sulla Massoneria e il Risorgimento, molto tendenzioso).
§87 Gentile e la filosofia della politica italiana. Articolo di Gentile pubblicato dallo «Spectator» del 3 novembre 1928 e ristampato su «Educazione fascista». «Filosofia che non si pensa, ma che si fa, e perciò si enuncia ed afferma non con le formule ma con l’azione». Ogni Stato ha «due» filosofie: quella che si enuncia per formule ed è una semplice arte di governo, e quella che si afferma con l’azione ed è la filosofia reale, cioè la storia. Il problema è di vedere in che misura queste due filosofie coincidono o divergono. La formula gentiliana in realtà non è che la camuffatura sofistica della «filosofia politica» più nota col nome di opportunismo ed empirismo. Se Bouvard e Pécuchet avessero conosciuto Gentile, avrebbero trovato nella sua filosofia la giusta interpretazione della loro attività rinnovatrice e rivoluzionaria (nel senso non corrotto della parola, come oggi si dice).
§150 La concezione dello Stato secondo la produttività funzione delle classi sociali. Il libro di R. Ciasca sulle Origini del programma nazionale può dare ampi materiali per svolgere questo argomento. Per le classi produttive (borghesia capitalistica e proletariato moderno) lo Stato non è concepibile che come forma concreta di un determinato mondo economico, di un determinato sistema di produzione. Conquista del potere e affermazione di un nuovo mondo produttivo sono inscindibili: la propaganda per l’una è anche propaganda per l’altra: in realtà solo in questa coincidenza risiede la origine unitaria della classe dominante che è economica e politica insieme. Invece quando la spinta al progresso non è strettamente legata a uno sviluppo economico locale, ma è riflesso dello sviluppo internazionale che manda alla periferia le sue correnti ideologiche nate sulla base dello sviluppo produttivo dei paesi più progrediti, allora la classe portatrice delle nuove idee è la classe degli intellettuali e la concezione dello Stato muta d’aspetto. Lo Stato è concepito come una cosa a sé, come un assoluto razionale.
Si può dire questo: essendo lo Stato la cornice concreta di un mondo produttivo, ed essendo gli intellettuali l’elemento sociale che si identifica meglio col personale governativo, è proprio della funzione degli intellettuali porre lo Stato come un assoluto: così è concepita come assoluta la loro funzione storica, è razionalizzata la loro esistenza. Questo motivo è basilare dell’idealismo filosofico ed è legato alla formazione degli Stati moderni in Europa come «reazione - superamento nazionale» della Rivoluzione francese e del napoleonismo rivoluzione passiva.
Si può osservare: che alcuni criteri di valutazione storica e culturale devono essere capovolti. 1°) Le correnti italiane che vengono «bollate» di razionalismo francese e di «illuminismo» sono invece proprio le più aderenti alla realtà empirica italiana, in quanto concepiscono lo Stato come forma concreta di uno sviluppo economico italiano. A ugual contenuto conviene uguale forma politica. 2°) Invece sono proprio «giacobine» le correnti che appaiono più autoctone, in quanto pare sviluppino una corrente tradizionale italiana. Questa corrente è «italiana», perché essendo stata per molti secoli la «cultura» l’unica manifestazione italiana nazionale, ciò che è sviluppo di questa manifestazione tradizionale più antica pare più autoctono. Ma è una illusione storica. Ma dove era la base materiale di questa cultura italiana? Essa non era in Italia. Questa «cultura italiana» è la continuazione del «cosmopolitismo» medioevale legato alla Chiesa e all’Impero, concepiti universali.
L’Italia ha una concentrazione intellettuale «internazionale», accoglie ed elabora teoricamente i riflessi della più soda e autoctona vita del mondo non italiano. Gli intellettuali italiani sono «cosmopoliti», non nazionali; anche Machiavelli nel Principe riflette la Francia, la Spagna ecc. col loro travaglio per la unificazione nazionale, più che l’Italia. Ecco perché io chiamerei veri «giacobini» i rappresentanti di questa corrente: essi veramente vogliono applicare all’Italia uno schema intellettuale razionale, elaborato sull’esperienza altrui e non sull’esperienza nazionale. La quistione è molto complessa ed irta di apparenti contraddizioni, e perciò occorre esaminarla ancora profondamente su una base storica. In ogni modo gli intellettuali meridionali nel Risorgimento appaiono con chiarezza essere questi studiosi del «puro» Stato, dello Stato in sé. E ogni volta che gli intellettuali appaiono «dirigere», la concezione dello Stato in sé riappare con tutto il corteo «reazionario» che di solito la accompagna.
§151 Rapporto storico tra lo Stato moderno francese nato dalla Rivoluzione e gli altri Stati moderni europei. La quistione è di sommo interesse, purché non sia risolta secondo schemi astratti sociologici. Essa storicamente risulta da questi elementi: 1°) Esplosione rivoluzionaria in Francia; 2°) Opposizione europea alla rivoluzione francese e alla sua espansione per i «meati» di classe; 3°) Guerre rivoluzionarie della Francia con la Repubblica e con Napoleone e costituzione di una egemonia francese con tendenza a uno Stato universale; 4°) Riscosse nazionali contro l'egemonia francese e nascita di Stati moderni europei per ondate successive, ma non per esplosioni rivoluzionarie come quella originaria francese. Le «ondate successive» sono date da una combinazione di lotte sociali di classi e di guerre nazionali, con prevalenza di queste ultime.
La «Restaurazione» è il periodo più interessante da questo punto di vista: essa è la forma politica in cui la lotta delle Classi trova quadri elastici che permettono alla borghesia di giungere al potere senza rotture clamorose, senza l’apparato terroristico francese. Le vecchie classi sono degradate da «dirigenti» a «governative», ma non eliminate né tanto meno fisicamente soppresse; da classi diventano «caste» con caratteri psicologici determinati, non più con funzioni economiche prevalenti. Questo «modello» della formazione degli Stati moderni può ripetersi? È da escludere, per lo meno in quanto alla ampiezza e per quanto riguarda i grandi Stati. Ma la quistione è di somma importanza, perché il modello francese-europeo ha creato una mentalità.
Altra quistione importante legata alla suddetta è quella dell’ufficio che hanno creduto di avere gli intellettuali in questa fermentazione politica covata dalla Restaurazione. La filosofia classica tedesca è la filosofia di questa epoca ed è quella che vivifica i movimenti liberali nazionali del 48 fino al 70. A questo proposito vedere la riduzione che fa Marx della formula francese «liberté, fraternité, égalité» con i concetti filosofici tedeschi (Sacra famiglia). Questa riduzione mi pare teoricamente importantissima: è da porre accanto a ciò che ho scritto sulla Concezione dello Stato secondo la produttività (funzione) delle classi sociali (p. 95 bis). Ciò che è «politica» per la classe produttiva diventa «razionalità» per la classe intellettuale.
Ciò che è strano è che dei marxisti ritengano superiore la «razionalità» alla «politica», la astrazione ideologica alla concretezza economica. Su questa base di rapporti storici è da spiegare l’idealismo filosofico moderno.
Machiavelli
§10 Su Machiavelli. Si suole troppo considerare Machiavelli come il «politico in generale» buono per tutti i tempi: ecco già un errore di politica. Machiavelli legato al suo tempo: 1) lotte interne nella repubblica fiorentina; 2) lotte tra gli stati italiani per un equilibrio reciproco; 3) lotte degli stati italiani per equilibrio europeo.
Su Machiavelli opera l’esempio della Francia e della Spagna che hanno raggiunto una forte unità statale1. Fa un «paragone ellittico» come direbbe il Croce2 e desume le regole per un forte stato in generale e italiano in particolare. Machiavelli è uomo tutto della sua epoca e la sua arte politica rappresenta la filosofia del tempo che tende alla monarchia nazionale assoluta, la forma che può permettere uno sviluppo e un’organizzazione borghese. In Machiavelli si trova in nuce la separazione dei poteri e il parlamentarismo; la sua «ferocia» è contro i residui del feudalismo, non contro le classi progressive; il principe deve porre fine all’anarchia feudale e ciò fa il Valentino in Romagna, appoggiandosi sulle classi produttive, contadini e mercanti. Dato il carattere militare del capo dello stato, come si richiede in un periodo di lotta per la formazione e il consolidamento del potere, l’indicazione di classe contenuta nell’Arte della guerra si deve intendere per la struttura generale statale: se i borghesi della città vogliono porre fine al disordine interno e all’anarchia esterna, devono appoggiarsi sui contadini come massa, costituendo una forza armata sicura e fedele.
Si può dire che questa concezione essenzialmente politica è così dominante nel Machiavelli che gli fa commettere gli errori di carattere militare: egli pensa specialmente alla fanteria, le cui masse possono essere arruolate con un’azione politica, e perciò misconosce il valore dell’artiglieria. Insomma deve essere considerato come un politico che deve occuparsi di arte militare in quanto ciò è necessario per la sua costruzione politica, ma lo fa in modo unilaterale, perché non lì è il centro del suo pensiero.
Cfr Q 13 § 13.
Txt.: N. Machiavelli - Dell'arte della guerra
Politica internazionale
§133 Arte militare e arte politica. Ancora degli arditi. I rapporti che esistettero nel 17-18 tra le formazioni di arditi e l’esercito nel suo complesso possono portare ed hanno portato già i dirigenti politici ad erronee impostazioni di piani di lotta. Si dimentica: 1°) che gli arditi sono semplici formazioni tattiche e presuppongono sì un esercito poco efficiente, ma non completamente inerte: perché se la disciplina e lo spirito militare si sono allentati fino a consigliare una nuova disposizione tattica, essi esistono ancora in una certa misura, cui appunto corrisponde la nuova formazione tattica; altrimenti ci sarebbe stata, senz’altro, la disfatta e la fuga; 2°) che non bisogna considerare l’arditismo come un segno della combattività generale della massa militare, ma viceversa, come un segno della sua passività e della sua relativa demoralizzazione.
Ciò sia detto mantenendo implicito il criterio generale che i paragoni tra l’arte militare e la politica sono sempre da stabilire cum grano salis, cioè solo come stimoli al pensiero e come termini semplificativi ad absurdum: infatti nella milizia politica manca la sanzione penale implacabile per chi sbaglia o non obbedisce esattamente, manca il giudizio marziale, oltre al fatto che lo schieramento politico non è neanche lontanamente paragonabile allo schieramento militare. Nella lotta politica oltre alla guerra di movimento e alla guerra d’assedio o di posizione, esistono altre forme. Il vero arditismo, cioè l’arditismo moderno, è proprio della guerra di posizione, così come si è rivelata nel 14-18. Anche la guerra di movimento e la guerra d’assedio dei periodi precedenti avevano i loro arditi, in un certo senso: la cavalleria leggera e pesante, i bersaglieri ecc., le armi celeri in generale avevano in parte una funzione di arditi; così nell’arte di organizzare le pattuglie era contenuto il germe dell’arditismo moderno. Nella guerra d’assedio più che nella guerra di movimento era contenuto questo germe: servizio di pattuglie più estese e specialmente arte di organizzare sortite improvvise e improvvisi assalti con elementi scelti.
Un altro elemento da tener presente è questo: che nella lotta politica non bisogna scimiottare i metodi di lotta delle classi dominanti, senza cadere in facili imboscate. Nelle lotte attuali questo fenomeno si verifica spesso: una organizzazione statale indebolita è come un esercito infiacchito: entrano in campo gli arditi, cioè le organizzazioni armate private, che hanno due compiti: usare l’illegalità, mentre lo Stato sembra rimanere nella legalità, come mezzo di riorganizzare lo Stato stesso. Credere che alla attività privata illegale si possa contrapporre un’altra attività simile, cioè combattere l’arditismo con l’arditismo è una cosa sciocca; vuol dire credere che lo Stato rimanga eternamente inerte, ciò che non avviene mai, a parte le altre condizioni diverse.
Il carattere di classe porta a una differenza fondamentale: una classe che deve lavorare ogni giorno a orario fisso non può avere organizzazioni d’assalto permanenti e specializzate, come una classe che ha ampie disponibilità finanziarie e non è legata, in tutti i suoi membri, a un lavoro fisso. In qualsiasi ora del giorno e della notte, queste organizzazioni, divenute professionali, possono vibrare colpi decisivi e cogliere alla sprovvista. La tattica degli arditi non può avere dunque per certe classi la stessa importanza che per altre; a certe classi è necessaria, perché propria, la guerra di movimento e di manovra, che nel caso della lotta politica, può combinare un utile e forse indispensabile uso della tattica da arditi. Ma fissarsi nel modello militare è da sciocchi: la politica deve, anche qui, essere superiore alla parte militare e solo la politica crea la possibilità della manovra e del movimento.
Da tutto ciò che si è detto risulta che nel fenomeno dell’arditismo militare, occorre distinguere tra funzione tecnica di arma speciale legata alla moderna guerra di posizione e funzione politico-militare: come funzione di arma speciale l’arditismo si è avuto in tutti gli eserciti della guerra mondiale; come funzione politico-militare si è avuta nei paesi politicamente non omogenei e indeboliti, quindi aventi come espressione un esercito nazionale poco combattivo e uno stato maggiore burocratizzato e fossilizzato nella carriera.
§134 Lotta politica e guerra militare. Nella guerra militare, raggiunto il fine strategico, distruzione dell’esercito nemico e occupazione del suo territorio, si ha la pace. È inoltre da osservare che perché la guerra finisca, basta che il fine strategico sia raggiunto solo potenzialmente: basta cioè che non ci sia dubbio che un esercito non può più combattere e che l’esercito vittorioso «può» occupare il territorio nemico. La lotta politica è enormemente più complessa: in un certo senso può essere paragonata alle guerre coloniali o alle vecchie guerre di conquista, quando cioè l’esercito vittorioso occupa o si propone di occupare stabilmente tutto o una parte del territorio conquistato. Allora l’esercito vinto viene disarmato e disperso, ma la lotta continua nel terreno politico e di «preparazione» militare. Così la lotta politica dell’India contro gli Inglesi (e in una certa misura della Germania contro la Francia o dell’Ungheria contro la Piccola Intesa) conosce tre forme di guerre: di movimento, di posizione e sotterranea.
La resistenza passiva di Gandhi è una guerra di posizione, che diventa guerra di movimento in certi momenti e in altri guerra sotterranea: il boicottaggio è guerra di posizione, gli scioperi sono guerra di movimento, la preparazione clandestina di armi e di elementi combattivi d’assalto è guerra sotterranea. C’è una forma di arditismo, ma essa è impiegata con molta ponderazione. Se gli Inglesi avessero la convinzione che si prepara un grande movimento insurrezionale destinato ad annientare l’attuale loro superiorità strategica (che consiste in un certo senso nella loro possibilità di manovrare per linee interne e di concentrare le loro forze nel punto «sporadicamente» più pericoloso) col soffocamento di massa, cioè costringendoli a diluire le forze in un teatro bellico divenuto simultaneamente generale, ad essi converrebbe provocare l’uscita prematura delle forze combattenti indiane per identificarle e decapitare il movimento generale. Così alla Francia converrebbe che la destra nazionalista tedesca fosse coinvolta in un colpo di stato avventuroso, che costringerebbe l’organizzazione militare illegale sospettata a manifestarsi prematuramente, permettendo un intervento, tempestivo dal punto di vista francese. Ecco che in queste forme di lotta miste, a carattere militare fondamentale e a carattere politico preponderante (ma ogni lotta politica ha sempre un sostrato militare), l’impiego degli arditi domanda uno sviluppo tattico originale, alla concezione del quale l’esperienza di guerra può dare solo uno stimolo, non un modello.
Anarchia
§2 Faccia a faccia col nemico, di Luigi Galleani, stampato negli Stati Uniti (Boston?) verso il 1910 dalle «Cronache Sovversive». È uno zibaldone compilatorio sui processi degli individualisti (Ravachol, Henry ecc.), poco utile in generale1. Qualche osservazione:
A Livorno nel suo discorso, Abbo ripeté l’introduzione della dichiarazione di principii di Etievant, riportata in appendice nel libro: la frase, che suscitò l’ilarità generale, sulla «linguistica», è presa letteralmente; Abbo conosceva a memoria la prima parte della dichiarazione, certamente2. Può servire, questo rilievo, per far notare come si facevano la cultura questi uomini e come questa specie di letteratura sia diffusa e popolare.
In tutte le dichiarazioni degli imputati, risulta che uno dei motivi fondamentali delle loro azioni è il «diritto al benessere» che ritengono un diritto naturale (i francesi, s’intende, che occupano la maggior parte del libro). Da vari imputati è ripetuta la frase che «un’orgia dei signori consuma ciò che basterebbe a mille famiglie operaie». Non c’è neanche un accenno ai rapporti di produzione. La dichiarazione di Etievant, riportata integralmente in appendice, è tipica, perché cerca di costruire un sistema giustificativo degli individualisti d’azione; naturalmente, le stesse giustificazioni sono valide per tutti, per i giudici, per i giurati, per il carnefice: ogni elemento sociale è chiuso nella rete delle sue sensazioni, come un porco in una botte di ferro e non può evaderne; l’individualista lancia la «marmitta», il giudice condanna, il carnefice taglia la testa. Non c’è uscita. È un volontarismo che per giustificarsi moralmente nega se stesso in modo tragicomico. L’analisi di questa dichiarazione mostra come queste «azioni» individuali erano il portato di uno sconcerto morale della società francese che dal ’70 arriva fino al dreyfusismo, nel quale trova il suo sfogo collettivo.
Nella sua dichiarazione al processo di Lione del 1894 (vedi) Kropotkin afferma con certezza che entro dieci anni ci sarà lo sconvolgimento finale: il tono di sicurezza è notevole.
Mat. Bibl.: Marxismo e Anarchismo
Txt.: L. Galleani - Una battaglia
Txt.: Kropotkin - Il mutuo appoggio fattore dell'evoluzione
Txt.: Kropotkin - Scienza e Anarchia
Txt.: A. Gramsci - Discorso agli anarchici
Comm.: Antropologia marxista e antropologia anarchica
Nord-Sud
§50 Un documento dell’Amma per la quistione Nord-Sud. Pubblicato dai giornali torinesi del settembre 1920. È una circolare dell’Amma credo del 1916 in cui si ordina alle industrie dipendenti di non assumere operai che siano nati sotto Firenze1.
§149 Nord e Sud. La egemonia del Nord sarebbe stata «normale» e storicamente benefica, se l’industrialismo avesse avuto la capacità di ampliare con un certo ritmo i suoi quadri per incorporare sempre nuove zone economiche assimilate. Sarebbe allora stata questa egemonia l’espressione di una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l’arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo; si sarebbe avuta una rivoluzione economica di carattere nazionale (e di ampiezza nazionale), anche se il suo motore fosse stato temporaneamente e funzionalmente regionale. Tutte le forze economiche sarebbero state stimolate e al contrasto sarebbe successa una superiore unità. Ma invece non fu così. L’egemonia si presentò come permanente; il contrasto si presentò come una condizione storica necessaria per un tempo indeterminato e quindi apparentemente «perpetua» per l’esistenza di una industria settentrionale.
§98 Lello Gangemi, Il problema della durata del lavoro, Firenze, Vallecchi, 1929, L. 25. (Dalla breve recensione di Luigi Perla in «Italia Letteraria» del 18 agosto 1929 si ricava: il problema della durata del lavoro, passato in seconda linea dopo il miglioramento delle condizioni economiche seguito al periodo di depressione che ebbe inizio nel 1921, è ritornato ora in discussione per la crisi economica attuale. Esame della legislazione vigente in materia nei vari paesi, ponendo in luce la difficoltà di una regolamentazione uniforme. Il problema e la convenzione di Washington. Dal punto di vista dell’organizzazione scientifica del lavoro. Le pretenzioni teoriche e sociali, che hanno dominato il problema, si sono dimostrate inapplicabili nella pratica azione legislativa. Di contro alle ideologie che vorrebbero abolire le ingiustizie sociali e finiscono invece col moltiplicarle e renderle più gravi, la pratica ha confermato come la semplice riduzione delle ore lavorative non possa, da sola (!), raggiungere l’intento di una maggiore produttività e di maggiori vantaggi (!) per il lavoratore. Resta invece dimostrata la utilità di determinate un limite dello sforzo lavorativo; ma questo limite non deve essere imposto in base a ideologie astratte, ma deve risultare dalla razionale coordinazione di concetti (!) fisiologici, economici ed etici).
Cfr Q 16 § 20
§125 1919. Articoli della «Stampa» contro i tecnici d’officina e clamorose pubblicazioni degli stipendi più alti. Bisognerebbe vedere se a Genova, la stampa degli armatori, fece la stessa campagna contro gli stati maggiori quando essi entrarono in agitazione e furono aiutati dagli equipaggi.
§126 1922. Articoli del senatore Raffaele Garofalo, alto magistrato di Cassazione, sull’«Epoca» di Roma a proposito della dipendenza della magistratura dal potere esecutivo e della giustizia amministrata con le circolari. Ma è specialmente interessante l’ordine di ragioni con cui il Garofalo sosteneva la necessità immediata di rendere indipendente la magistratura1.
§143 Qualità e quantità. Nel mondo della produzione significa nient’altro che buon mercato e alto prezzo, cioè soddisfazione o no dei bisogni elementari delle classi popolari ed elevazione o depressione del loro tenore di vita. Tutto il resto è romanzo ideologico d’appendice. In un’azienda-nazione dove esiste molta mano d’opera e poche materie prime, il grido: «Qualità» significa solo voler impiegare molto lavoro su poca materia, cioè voler specializzarsi per un mercato di lusso. Ma è possibile ciò? 1°) Dove esiste molta materia prima sono possibili i due sistemi, qualitativo e quantitativo, mentre non c’è reciproca per i paesi poveri; 2°) La produzione quantitativa può essere anche qualitativa, cioè fare la concorrenza all’industria puramente qualitativa tra quella parte della classe consumatrice di oggetti «distinti» che non è tradizionalista perché di nuova formazione; 3°) Quale industria procurerà gli oggetti di consumo delle classi povere? Si formerà una situazione di divisione internazionale del lavoro?
Si tratta insomma di una formula da letterati perdigiorno, e di politici demagogici che nascondono la testa per non vedere la realtà. La qualità dovrebbe attribuirsi agli uomini e non alle cose. E la qualità umana si eleva nella misura in cui l’uomo soddisfa un maggior numero di bisogni e se ne rende quindi indipendente. Il caro prezzo del pane, dovuto al fatto di voler mantenere legata a determinate attività una maggior quantità di uomini, porta alla denutrizione. La politica della qualità determina sempre il suo opposto: quantità squalificata.
§158 «Animalità» e industrialismo. L’industrialismo è una continua vittoria sull’animalità dell’uomo, un processo ininterrotto e doloroso di soggiogamento degli istinti a nuove e rigide abitudini di ordine, di esattezza, di precisione. C’è una meccanizzazione o l’aspetto di una meccanizzazione. Ma ogni nuovo modo di vivere, nel periodo in cui si impone e lotta contro il vecchio, non appare una meccanizzazione? Ciò avviene perché finora i mutamenti sono avvenuti per coercizione brutale, cioè per imposizione di una classe su un’altra. La selezione degli uomini adatti al nuovo tipo di civiltà, cioè al nuovo tipo di lavoro è avvenuta con inaudita brutalità, gettando nell’inferno delle sottoclassi i deboli, i refrattari. Ci sono state delle crisi. Ma chi era coinvolto in questa crisi? Non le masse lavoratrici, ma le classi medie che avevano sentito anch’esse la pressione ma indirettamente, per il loro stesso sistema di vita e di lavoro.
Le crisi di libertinismo sono state numerose: ogni epoca storica ne ha una. Per ottenere un nuovo adattamento al nuovo lavoro, si esercita una pressione su tutta l’area sociale, si sviluppa una ideologia puritana che dà l’esterna forma di persuasione e di consenso all’intrinseca coercizione brutale. Ottenuto in una certa misura il risultato, la pressione si spezza (storicamente questa rottura si verifica in modi diversissimi, come è naturale, perché la pressione ha assunto forme originali, spesso personali, si è identificata con movimenti di religiosità, ha creato un proprio apparato che si è impersonato in determinati strati o caste, ha preso il nome da un re ecc.) e avviene la crisi di libertinismo (crisi francese dopo la morte di Luigi XIV per esempio), che però non tocca che superficialmente le masse lavoratrici o le tocca sentimentalmente perché deprava le loro donne; queste masse hanno infatti già acquisito i nuovi sistemi di vita e rimangono sottoposte alla pressione per le necessità elementari di vita.
Il dopoguerra ha avuto una crisi simile, forse la più vasta che si sia mai vista nella storia; ma la pressione era stata esercitata non per imporre una nuova forma di lavoro, ma per le necessità di guerra. La vita di trincea è stata l’oggetto principale della pressione. Si sono scatenati specialmente gli istinti sessuali, repressi per tanti anni in grandi masse di giovani dei due sessi e resi formidabili dalla sparizione di tanti maschi e da uno squilibrio dei sessi. Le istituzioni legate alla riproduzione sono state scosse: matrimonio, famiglia ecc. ed è nata una nuova forma di «illuminismo» in queste quistioni. La crisi è resa più forte dal contrasto tra questo contraccolpo della guerra e le necessità del nuovo metodo di lavoro che si va imponendo (taylorismo, razionalizzazione). Il lavoro domanda una rigida disciplina degli istinti sessuali, cioè un rafforzamento della «famiglia» in senso largo (non di questa o quella forma storica), della regolamentazione e stabilità dei rapporti sessuali.
In questa questione il fattore ideologico più depravante è l’illuminismo, la concezione «libertaria» legata alle classi non manualmente produttive. Fattore che diventa grave se in uno Stato le classi lavoratrici non subiscono più la pressione violenta di un’altra classe, se la nuova abitudine di lavoro deve essere acquisita solo per via di persuasione e di convinzione. Si forma una situazione a doppio fondo, tra l’ideologia «verbale» che riconosce le nuove necessità e la pratica «animalesca» che impedisce ai corpi fisici di realmente acquistare le nuove abitudini. Si forma cioè una situazione di grande ipocrisia sociale totalitaria. Perché totalitaria? In altre situazioni, la massa lavoratrice è costretta a osservare la virtù: chi la predica, non la osserva, pur rendendole omaggio verbale: l’ipocrisia è di classe, non totale; è una forma transitoria, perché scoppierà in una crisi di libertinismo, ma quando già le masse avranno assimilato la «virtù» in abitudini acquisite. In questo secondo caso, invece, non esistendo il dualismo di classe, la «virtù» viene affermata, ma non osservata né per convinzione né per coercizione: non vi sarà pertanto acquisizione di nuove abitudini, necessarie per il nuovo sistema di lavoro. È una crisi in «permanenza» che solo la coercizione può troncare, una coercizione di nuovo tipo, perché, essendoci una sola classe, sarà autodisciplina (Alfieri che si fa legare alla sedia!)
In ogni caso, il nemico da combattere è l’illuminismo. E se non si crea l’autodisciplina, nascerà una qualche forma di bonapartismo, o ci sarà un’invasione straniera, cioè si creerà la condizione di una coazione esterna che faccia cessare d’autorità la crisi.
Cfr Q 22 §10.§113 Rivoluzione nel diritto penale e nella procedura penale e materialismo storico. La espressione di Marx nella prefazione alla Critica dell’Economia politica (del 1859) «così come non si giudica ciò che un individuo è da ciò che egli sembra a se stesso» può essere riallacciata al rivolgimento avvenuto nella procedura penale e alle discussioni teoriche in proposito, allora relativamente recenti. Infatti la vecchia procedura richiedeva la confessione dell’imputato (specialmente per i delitti capitali) per emettere la sentenza di condanna, donde la tortura. Nella nuova procedura l’interrogatorio dell’imputato è solo un elemento, talvolta trascurabile, del processo (non si domanda il giuramento, si riconosce che l’imputato può mentire o essere reticente) mentre il primo posto è preso dalle prove materiali e testimoniali. Ricercare se qualcuno ha rilevato questa coincidenza dei due fenomeni e ha studiato il movimento per la rinnovazione del diritto processuale e penale come un elemento suggestivo dell’innovazione portata da Marx nello studio della storia (Sorel potrebbe aver fatto l’osservazione, perché rientra nel suo stile).
Idealismo
§132 L’idealismo attuale e il nesso ideologia-filosofia. L’idealismo attuale fa coincidere ideologia e filosofia (ciò significa in ultima analisi l’unità da esso postulata fra reale e ideale, tra pratica e teoria ecc.), cioè è una degradazione della filosofia tradizionale rispetto all’altezza cui l’aveva portata il Croce con le sue «distinzioni». Questa degradazione è visibilissima negli sviluppi che l’idealismo attuale mostra nei discepoli del Gentile: i «Nuovi Studi» diretti da Ugo Spirito e A. Volpicelli sono il documento più vistoso che io conosca di questo fenomeno. L’unità di ideologia e filosofia, quando avviene in questo modo riporta a una nuova forma di sociologismo, né storia né filosofia cioè, ma un insieme di schemi astratti sorretti da una fraseologia tediosa e pappagallesca.
La resistenza del Croce a questa tendenza è veramente «eroica»: il Croce, secondo me, ha viva la coscienza che tutti i movimenti di pensiero moderni portano a una rivalutazione trionfale del materialismo storico, cioè al capovolgimento della posizione tradizionale del problema filosofico e alla morte della filosofia intesa nel modo tradizionale. Egli resiste con tutte le sue forze a questa pressione della realtà storica, con una intelligenza eccezionale dei pericoli e dei mezzi dialettici di ovviarli. Perciò lo studio dei suoi scritti dal 19 ad oggi è del maggior valore: la preoccupazione del Croce nasce con la guerra mondiale e con la sua affermazione che essa è la «guerra del materialismo storico». La sua posizione «au dessus», in un certo senso, è già indice di tale preoccupazione ed è un allarme (nella guerra «ideologia e filosofia» entrarono in frenetico connubio). Anche certi suoi atteggiamenti recentissimi (verso il libro del De Man1, libro Zibordi ecc.) non possono spiegarsi altrimenti perché molto in contraddizione con sue posizioni «ideologiche» (pratiche) di prima della guerra.
Cfr Q 10 § 59
Benedetto Croce
§157 Croce e gli intellettuali. Che importanza ha avuto il suo libro sulla Storia d’Italia dal 71 al 1915? È interessante osservare lo spostamento del Croce dalla posizione «critica» a quella «attiva» libro di Bonomi su Bissolati. il libro di Zibordi su Prampolini. La traduzione di Schiavi del libro del De Man. Il libro del De Man serve di ponticello.
È interessante però la lettera di Orazio Raimondo riportata dal Castellano nel suo libro Introduzione allo studio delle opere di Benedetto Croce. Dimostra che anche prima, l’influenza del Croce si era fatta sentire per meati che rimanevano incontrollati: proprio Raimondo, massone e vero massone, cioè imbevuto dell’ideologia massonica fino alle ossa, e democratico; nella sua difesa della (Tiepolo?) c’è tutto il teismo massonico in forma chiara ed evidente.
Pragmatismo
§34 Il Pragmatismo americano. Si potrebbe dire del pragmatismo americano (James), ciò che Engels ha detto dell’agnosticismo inglese? (Mi pare nella prefazione inglese al Passaggio dall’Utopia alla Scienza). §105 La filosofia americana. Studiare la posizione di Josiah Royce nel quadro della concezione americana della vita. Quale importanza e quale funzione ha avuto l’hegelismo in questa concezione? Può il pensiero moderno diffondersi in America, superando l’empirismo-pragmatismo, senza una fase hegeliana?
Bergsonismo
§78 Bergson, il materialismo positivistico, il pragmatismo. Bergson legato al positivismo; si «ribella» contro il suo «ingenuo» dogmatismo. Il positivismo aveva avuto il merito di ridare alla cultura europea il senso della realtà esauritosi nelle antiche ideologie razionalistiche, ma poi aveva avuto il torto di chiudere la realtà nella sfera della natura morta e quindi anche di chiudere la ricerca filosofica in una specie di nuova teologia materialistica. La documentazione di questo «torto» è l’opera del Bergson. La critica del Bergson... si è addentrata, sconsacrando idoli dell’assoluto e risolvendoli in forme di contingenza fugace, per tutti i meandri del dogmatismo positivista, ha sottoposto ad un terribile esame l’intima struttura delle specie organiche e della personalità umana, ed ha infranto tutti gli schemi di quella meccanica staticità in cui il pensiero chiude il perenne fluire della vita e della coscienza.
Affermando il principio dell’eterno fluire e l’origine pratica di ogni sistema concettuale, anche le verità supreme (!) correvano rischio di dissolversi; e qui, in questa fatale tendenza è il limite (!) del Bergsonismo. (Estratti da un articolo di Balbino Giuliano riassunto dalla «Fiera Letteraria» del 25 novembre 1928).
§152 Marx ed Hegel. Nello studio dello hegelismo di Marx occorre ricordare (dato specialmente il carattere eminentemente pratico-critico del Marx) che Marx partecipò alla vita universitaria tedesca poco dopo la morte di Hegel, quando doveva essere vivissimo il ricordo dell’insegnamento «orale» di Hegel e delle discussioni appassionate, con riferimento alla storia concreta, che tale insegnamento certamente suscitò. [A cominciare da: «partecipò alla vita universitaria tedesca», fino a: «tale insegnamento certamente suscitò», il testo sostituisce alcune righe cancellate a penna e rese illegibili dallo stesso G.], nelle quali, cioè, la concretezza storica del pensiero di Hegel doveva risultare molto più evidente di quanto risulti dagli scritti sistematici.
Alcune affermazioni di Marx mi pare siano da ritenere specialmente legate a questa vivacità «conservativa»: per esempio l’affermazione che Hegel «fa camminare gli uomini con la testa in giù». Hegel si serve veramente di questa immagine parlando della Rivoluzione francese; egli scrive che in un certo momento della Rivoluzione francese (quando fu organizzata la nuova struttura statale), «pareva» che il mondo camminasse sulla testa o qualcosa di simile (cfr).
Mi pare che il Croce si domandi [cercare il punto] di dove Marx abbia preso questa immagine: essa è certamente in un libro di Hegel (forse la Filosofia del Diritto: non ricordo), ma mi pare che per l’insistenza con cui Marx ci ritorna (mi pare che Marx ripeta l’immagine: vedere) mi pare che essa sia stata in un certo momento oggetto di conversazione: essa veramente sembra scaturita da una conversazione tanto è fresca, spontanea, poco «libresca»1.
Txt: F. Mehring - Vita di Marx
§155 Marx ed Hegel (cfr p. 97). Antonio Labriola nello scritto Da un secolo all’altro: «Gli è proprio quel codino di Hegel che disse come quegli uomini (della Convenzione) avessero per primi, dopo Anassagora, tentato di capovolgere la nozione del mondo, poggiando questo su la ragione» (cfr A. Labriola, Da un secolo all’altro, ediz. Dal Pane, p. 45).
Cfr Q 10 § 60.
§43 [...]
Per intellettuali occorre intendere non solo quei ceti comunemente intesi con questa denominazione, ma in generale tutta la massa sociale che esercita funzioni organizzative in senso lato, sia nel campo della produzione, sia nel campo della cultura, sia nel campo amministrativo-politico: corrispondono ai sott’ufficiali e agli ufficiali subalterni nell’esercito (e anche a una parte degli ufficiali superiori con esclusione degli stati maggiori nel senso più ristretto della parola).
Per analizzare le funzioni sociali degli intellettuali occorre ricercare ed esaminare il loro atteggiamento psicologico verso le grandi classi che essi mettono a contatto nei diversi campi: hanno atteggiamento «paternalistico» verso le classi strumentali? o «credono» di esserne una espressione organica? hanno «servile» verso le classi dirigenti o si credono essi stessi dirigenti, parte integrante delle classi dirigenti?
[...]
Anche l’intellettuale è un «professionista» che ha le sue «macchine» specializzate e il suo «tirocinio», che ha un suo sistema Taylor. È illusorio attribuire a tutti questa capacità «acquisita» e non innata. È illusorio pensare che una «idea chiara» opportunamente diffusa si inserisca nelle diverse coscienze con gli stessi effetti «organizzatori» di chiarezza diffusa. È un errore «illuministico». La capacità dell’intellettuale di professione di combinare abilmente l’induzione e la deduzione, di generalizzare, di dedurre, di trasportare da una sfera a un’altra un criterio di discriminazione, adattandolo alle nuove condizioni, ecc. è una «specialità», non è un dato del «senso comune». Ecco dunque che non basta la premessa della «diffusione organica da un centro omogeneo di un modo di pensare e di operare omogeneo». Lo stesso raggio luminoso passa per prismi diversi e dà rifrazioni di luce diverse: se si vuole la stessa rifrazione occorre tutta una serie di rettificazioni dei singoli prismi. La «ripetizione» paziente e sistematica è il principio metodico fondamentale. Ma la ripetizione non meccanica, materiale: l’adattamento di ogni principio alle diverse peculiarità, il presentarlo e ripresentarlo in tutti i suoi aspetti positivi e nelle sue negazioni tradizionali, organizzando sempre ogni aspetto parziale nella totalità.
Trovare la reale identità sotto l’apparente differenziazione e contraddizione e trovare la sostanziale diversità sotto l’apparente identità, ecco la più essenziale qualità del critico delle idee e dello storico dello sviluppo sociale.
Il lavoro educativo-formativo che un centro omogeneo di cultura svolge, l’elaborazione di una coscienza critica che esso promuove e favorisce su una determinata base storica che contenga le premesse materiali a questa elaborazione, non può limitarsi alla semplice enunciazione teorica di principi «chiari» di metodo; questa sarebbe pura azione «illuministica». Il lavoro necessario è complesso e deve essere articolato e graduato: ci deve essere la deduzione e l’induzione combinate, l’identificazione e la distinzione, la dimostrazione positiva e la distruzione del vecchio. Ma non in astratto, in concreto: sulla base del reale. Ma come sapere quali sono gli errori radicati o più generalmente diffusi? Evidentemente è impossibile una «statistica» dei modi di pensare e delle singole opinioni individuali, che dia un quadro organico e sistematico: non rimane che la revisione della letteratura più diffusa e più popolare combinata con lo studio e la critica delle correnti ideologiche precedenti, ognuna delle quali «può» aver lasciato un sedimento, variamente combinatosi con quelli precedenti e susseguenti.
In questo stesso ordine di osservazioni si inserisce un criterio più generale: i mutamenti nei modi di pensare, nelle credenze, nelle opinioni, non avvengono per «esplosioni» rapide e generalizzate, avvengono per lo più per «combinazioni successive» secondo «formule» disparatissime. L’illusione «esplosiva» nasce da assenza di spirito critico. Come non si è passati, nei metodi di trazione, dalla diligenza a trazione animale, agli espressi moderni elettrici, ma si è passati attraverso una serie di «combinazioni intermedie» che in parte ancora sussistono (come la trazione animale su rotaie ecc. ecc.) e come avviene che il materiale ferroviario invecchiato negli Stati Uniti viene ancora utilizzato per molti anni in Cina e vi rappresenta un progresso tecnico — così nella sfera della cultura i diversi strati ideologici si combinano variamente e ciò che è diventato «ferravecchio» nella città è ancora «utensile» in provincia. Nella sfera della coltura anzi, le esplosioni» sono ancora meno frequenti e meno intense che nella sfera della tecnica.
Si confonde l’esplosione «di passioni» politiche accumulate in un periodo di trasformazioni tecniche alle quali non corrispondono adeguate nuove forme di organizzazione giuridica con le sostituzioni di nuove forme di cultura alle vecchie.
[...]
§45 Intellettuali siciliani. Rivalità fra Palermo e Catania per contendersi il primato intellettuale dell’isola.
§75 Intellettuali siciliani. È interessante il gruppo del «Ciclope» di Palermo. Mignosi, Pignato, Sciortino ecc. Relazioni di questo gruppo con Piero Gobetti.
§116 Intellettuali italiani. Confronto tra la concentrazione culturale francese, che si riassume nell’«Istituto di Francia» e la non coordinazione italiana. Riviste di cultura francesi e italiane (tipo Nuova Antologia - «Revue des deux mondes»). Giornali quotidiani italiani molto meglio fatti che i francesi: essi compiono due funzioni — quella di informazione e di direzione politica generale e la funzione di cultura politica, letteraria, artistica, scientifica che non ha un suo organo proprio diffuso (la piccola rivista per la media cultura). In Francia anzi anche la prima funzione si è distinta in due serie di quotidiani: quelli di informazione e quelli di opinione che a loro volta sono dipendenti da partiti direttamente, oppure hanno una apparenza di imparzialità («Action Française» - «Temps» - «Débats»).
In Italia, per l’assenza di partiti organizzati e centralizzati, non si può prescindere dai giornali: sono i giornali, raggruppati a serie, che costituiscono i veri partiti. Per esempio, nel dopoguerra, Giolitti aveva una serie di giornali che rappresentavano le varie correnti o frazioni del partito liberale democratico: la «Stampa» a Torino, che cercava d’influire sugli operai e aveva saltuariamente spiccate tendenze riformistiche (nella «Stampa» tutte le posizioni erano saltuarie, intermittenti, a seconda che Giolitti era o non era al potere ecc.); la «Tribuna» a Roma che era legata alla burocrazia e all’industria protezionista (mentre la «Stampa» era piuttosto liberista — quando Giolitti non era al potere con maggiore accentuazione); il «Mattino» a Napoli legato alle cricche meridionali giolittiane, con altri organi minori (la «Stampa» per certa collaborazione e servizi d’informazione era alla testa di un trust giornalistico di cui facevano parte specialmente il «Mattino», la «Nazione» e anche il «Resto del Carlino»).
Il «Corriere della Sera» formava una corrente a sé, che cercava di essere in Italia ciò che è il «Times» in Inghilterra, custode dei valori nazionali al di sopra delle singole correnti. Di fatto era legato all’industria lombarda d’esportazione tessile (e gomma), e perciò più permanentemente liberista: nel dopoguerra il «Corriere» era alla destra del Nittismo (dopo aver sostenuto Salandra). Il Nittismo aveva anch’esso una serie di giornali: il «Corriere» a destra, il «Carlino» al centro destra, il «Mondo» al centro sinistra, il «Paese» alla sinistra. Il Nittismo aveva due aspetti: plutocratico, legato all’industria protetta e di sinistra. Una posizione a parte occupava il «Giornale d’Italia», legato all’industria protetta e ai grandi proprietari terrieri dell’Emilia, del Centro e del Mezzogiorno. È interessante notare che i grandi giornali che rappresentavano la tradizione del Partito d'Azione — «Secolo» a Milano, «Gazzetta del Popolo» a Torino, «Messaggero» a Roma, «Roma» a Napoli — ebbero dal 21 al 25 un atteggiamento diverso dalla «Stampa», dal «Corriere», dal «Giornale d’Italia» - «Tribuna», dal «Mattino» e anche dal «Resto del Carlino».
Il «Corriere» fu sempre antigiolittiano, come ho spiegato in una precedente nota. Anche al tempo della guerra libica, il «Corriere» si tenne neutrale fino a pochi giorni prima della dichiarazione di guerra, quando pubblicò l’articolo di Andrea Torre, rumoroso e pieno di strafalcioni.
[...]
Nello studio dei giornali come funzionanti da partito politico occorre tener conto di singoli individui e della loro attività. Mario Missiroli è uno di questi. Ma i due tipi più interessanti sono Pippo Naldi e Francesco Ciccotti. Naldi ha cominciato come giovane liberale borelliano — collaboratore di piccole riviste liberali — direttore del «Resto del Carlino» e del «Tempo»: è stato un agente importantissimo di Giolitti e di Nitti; legato ai fratelli Perrone e certamente ad altri grossi affaristi; durante la guerra la sua attività è delle più misteriose. L’attività di Ciccotti è delle più complesse e difficili, sebbene il suo valore personale sia mediocre. Durante la guerra ebbe atteggiamenti disparati: fu sempre un agente di Nitti o per qualche tempo anche di Giolitti? A Torino nel 16-17 era assolutamente disfattista; egli invitava all’azione immediata. Se si può parlare di responsabilità individuali per i fatti dell’agosto 17, Ciccotti avrebbe dovuto ritenersi il più responsabile: invece fu appena interrogato dal giudice istruttore e non si procedette contro di lui. Ricordo la sua conferenza del 16 o del 17, dopo la quale furono arrestati un centinaio di giovani e adulti accusati di aver gridato «Evviva l’Austria! ». Non credo che il grido sia stato emesso da nessuno, ma dopo la conferenza di Ciccotti non sarebbe stato strano che qualcuno avesse anche emesso questo grido.
Ciccotti cominciò la sua conferenza dicendo che i socialisti erano responsabili di una grave colpa: aver affermato che la guerra era capitalistica. Secondo Ciccotti questo significava nobilitare la guerra. Egli allora, con una sottigliezza rimarchevole nell’abilità di suscitare i sentimenti popolari elementari, sviluppò un romanzo d’appendice a forti tinte che cominciava su per giù così: — la sera tale si riunirono al caffè Faraglino Vincenzo Morello (Rastignac), il senatore Artom e un terzo che non ricordo ecc. ecc.; la guerra era dovuta alla congiura di questi tre e ai denari di Barrère. — Ricordo d’aver visto alcuni operai che conoscevo come gente calmissima e temperata coi capelli rizzati in testa, frenetici, uscire dalla sala, dopo la perorazione, in uno stato di eccitazione incredibile.
Il giorno dopo la «Stampa» pubblicava un articolo non firmato, scritto da Ciccotti, in cui si sosteneva la necessità del blocco tra Giolitti e gli operai in tempo prima che l’apparecchio statale cadesse completamente nelle mani dei pugliesi di Salandra. Qualche giorno dopo la «Giustizia» di Reggio Emilia pubblicava il resoconto di una conferenza di Ciccotti a Reggio, dove aveva esaltato il prampolinismo ecc. Ricordo che mostrai questo giornale ad alcuni «rigidi» i quali erano infatuati di Ciccotti e volevano si sostenesse (certo per istigazione del Ciccotti stesso) una campagna per dare l’«Avanti!» a Ciccotti.
Ciccotti durante la guerra servì di tramite per pubblicare nell’«Avanti! » articoli del Controllo Democratico inglese (gli articoli li riceveva la signora Chiaraviglio). Ricordo il racconto di Serrati del suo incontro a Londra con una signora che lo voleva ringraziare a nome del Comitato e la meraviglia del povero uomo, che fra questi intrighi non sapeva che decisioni prendere. Altro aneddoto raccontato da Serrati: l’articolo di Ciccotti contro la Commerciale lasciato passare, l’articolo contro la Sconto censurato; il commento di Ciccotti a un discorso di Nitti prima censurato, poi permesso dopo telefonata di Ciccotti che si richiamava a (una) promessa di Nitti e non pubblicato da Serrati ecc. Ma l’episodio più interessante è quello dei gesuiti che attraverso Ciccotti cercavano di far cessare la campagna per i SS. Martiri: — cosa avranno dato in cambio i gesuiti a Ciccotti? Ma nonostantetutto Ciccotti non venne espulso, perché bisognava dargli l’indennità giornalistica. Un altro di questi tipi è stato Carlo Bazzi.
§90 La Voce e Prezzolini. L’articolo in cui Prezzolini difende la «Voce» e «rivendica di pieno diritto un posto per essa nella preparazione dell’Italia contemporanea» è citato nella «Fiera Letteraria» del 24 febbraio 1929 e quindi deve essere stato pubblicato nel «Lavoro fascista» di qualche giorno prima (nei dieci giorni tra il 14 e il 24 febbraio). L’articolo è stato provocato da una serie di articoletti della «Tribuna» contro Papini, nel quale, per il suo studio Su questa letteratura (pubblicato nel primo numero del «Pègaso») si scoprivano tracce del vecchio «protestantesimo» della «Voce».
Lo scrittore della «Tribuna» ex nazionalista della prima «Idea Nazionale» non riusciva ancora a dimenticare i vecchi rancori contro la «Voce», mentre Prezzolini non ebbe il coraggio di sostenere la sua posizione d’allora. Su questo argomento Prezzolini pubblicò anche una lettera nel «Davide» che usciva irregolarmente a Torino nel 25-26 diretto da Gorgerino.
Bisogna poi ricordare il suo libro sulla Cultura Italiana del 23 e il suo volume sul «Fascismo» (in francese). Se Prezzolini avesse coraggio civile potrebbe ricordare che la sua «Voce» ha certamente molto influito su alcuni elementi socialisti ed è stata un elemento di revisionismo. Sua collaborazione e di Papini, nonché di molti vociani, al primo «Popolo d’Italia».
§124 I futuristi. Un gruppo di scolaretti che sono scappati da un collegio di gesuiti, hanno fatto un po’ di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti sotto la ferula dalla guardia campestre.
§ 142. Giuseppe Prezzolini e gli intellettuali. Il Codice della vita italiana (Editrice la S. A. «La Voce» di Firenze, 1921) conchiude il periodo prezzoliniano originario, di scrittore moralista sempre in campagna per rinnovare e ammodernare la cultura italiana. Dopo egli entra in crisi, con alti e bassi curiosissimi, fino a imbrancarsi nella corrente tradizionale e a lodare ciò che aveva vituperato.
Una fase di questa crisi è rappresentata dalla lettera del 1923 a P. Gobetti Per una società degli Apoti, ripubblicata nel volumetto Mi pare... (Fiume, Edizioni Delta, 1925). Sente che la sua posizione di «spettatore» è «un po’, un pochino, vigliacca». «Non sarebbe nostro dovere di prender parte? Non c’è qualche cosa di uggioso, di antipatico, di mesto, nello spettacolo di questi giovani ... che stanno (quasi tutti) fuori della lotta, guardando i combattenti e domandandosi soltanto come si danno i colpi e perché e per come?». Trova la soluzione, comoda: «Il nostro compito, la nostra utilità, per il momento presente ed anche ... per le contese stesse che ora dividono e operano, per il travaglio stesso nel quale si prepara il mondo di domani, non può essere che quello al quale ci siamo messi e cioè di chiarire delle idee, di far risaltare dei valori, di salvare, sopra le lotte, un patrimonio ideale, perché possa tornare a dare frutti nei tempi futuri». Il suo modo di vedere la situazione è strabiliante: «Il momento che si traversa è talmente credulo, fanatico, partigiano, che un fermento di critica, un elemento di pensiero, un nucleo di gente che guardi sopra agli interessi, non può che fare del bene. Non vediamo tanti dei migliori accecati? Oggi tutto è accettato dalle folle: il documento falso, la leggenda grossolana, la superstizione primitiva vengono ricevute senza esame, a occhi chiusi, e proposte come rimedio materiale e spirituale. E quanti dei capi hanno per aperto programma la schiavitù dello spirito come rimedio agli stanchi, come rifugio ai disperati, come sanatutto ai politici, come calmante agli esasperati. Noi potremmo chiamarci la congregazione degli Apoti, di “coloro che non le bevono”, tanto non solo l’abitudine ma la generale volontà di berle è evidente e manifesta ovunque».
Un’affermazione di gesuitismo sofistico singolare: «Ci vuole che una minoranza, adatta a ciò, si sacrifichi se occorre e rinunzi a molti successi esterni, sacrifichi anche il desiderio di sacrifizio e di eroismo, non dirò per andare proprio contro corrente, ma stabilendo un punto solido, dal quale il movimento in avanti riprenderà», ecc. ecc.
Differenze tra Prezzolini e Gobetti: vedere se questa lettera ha avuto risposta e come.
Chiesa e Stato
§3 Rapporti tra Stato e Chiesa. Il «Vorwärts» del 14 giugno 1929 in un articolo a proposito del Concordato tra la Città del Vaticano e la Prussia scrive che «Roma ha ritenuto fosse decaduta (la legislazione precedente che già costituiva di fatto un concordato) in seguito ai cambiamenti politici intervenuti in Germania». Questo potrebbe essere un precedente molto importante e da ricordare.
Cfr Q 16 § 11
§5 Rapporti tra Stato e Chiesa. Nella «Vossische Zeitung» del 18 giugno 1929 Hoepker-Aschoff, ministro democratico delle finanze di Prussia, poneva così la questione, rilevata più su dal «Vorwärts»: «Egualmente non è possibile disconoscere la fondatezza della tesi di Roma che, in presenza dei molti cambiamenti politici e territoriali avvenuti, richiedeva che gli accordi venissero adattati alle nuove circostanze». Nello stesso articolo l’Hoepker-Aschoff ricorda che lo Stato prussiano «aveva sempre sostenuto che gli accordi del 1821 erano ancora in vigore». (E il periodo del Kulturkampf?).
Mat Bibl.: Reichskonkordat
§51 Clero come intellettuali. Ricerca sui diversi atteggiamenti del clero nel Risorgimento, in dipendenza delle nuove correnti religiose-ecclesiastiche. Giobertismo, rosminianismo. Episodio più caratteristico del giansenismo. A proposito della dottrina della grazia e della sua conversione in motivo di energia industriale, e dell’obbiezione che lo Jemolo fa alla tesi giusta dell’Anzilotti1 (da dove l’Anzilotti l’aveva presa?) cfr in Kurt Kaser, Riforma e Controriforma, a proposito della dottrina della grazia nel calvinismo2, e il libro del Philip dove sono citati documenti attuali di questa conversione3. In questi fatti è contenuta la documentazione del processo dissolutivo della religiosità americana: il calvinismo diventa una religione laica, quella del Rotary Club, così come il teismo degli illuministi era la religione della massoneria europea, ma senza l’apparato simbolico e comico della massoneria e con questa differenza, che la religione del Rotary non può diventare universale: essa è propria di un’aristocrazia eletta (popolo eletto, classe eletta) che ha avuto e continua ad avere successi; un principio di selezione, non di generalizzazione, di un misticismo ingenuo e primitivo proprio di chi non pensa ma opera come gli industriali americani, che può avere in sé i germi di una dissoluzione anche molto rapida (la storia della dottrina della grazia può essere interessante per vedere il diverso accomodarsi del cattolicesimo e del cristianesimo alle diverse epoche storiche e ai diversi paesi).
Fatti americani riportati dal Philip da cui risulta che il clero di tutte le chiese, in certe occasioni, ha funzionato da pubblica opinione in assenza di un partito medio e di una stampa di tale partito4.
§52 Origine sociale del clero. L’origine sociale del clero ha importanza per giudicare della sua influenza politica: nel Nord il clero è di origine popolare (artigiani e contadini), nel Sud è più legato ai «galantuomini» e alla classe alta. Nel Sud e nelle isole il clero o individualmente o come rappresentante della chiesa, ha notevoli proprietà terriere e si presta all’usura. Appare al contadino spesso, oltre che come guida spirituale, come proprietario che pesa sugli affitti («gli interessi della chiesa») e come usuraio che ha a sua disposizione le armi spirituali oltre che le temporali. Perciò i contadini meridionali vogliono preti del paese (perché conosciuti, meno aspri, e perché la loro famiglia, offrendo un certo bersaglio, entra come elemento di conciliazione) e qualche volta rivendicano i diritti elettorali dei parrocchiani. Episodi in Sardegna di tali rivendicazioni. (Ricordare articolo di Gennaro Avolio nel numero unico della «Voce» su clero meridionale, dove si accenna al fatto che i preti meridionali fanno apertamente vita coniugale con una donna e hanno rivendicato il diritto di prender moglie). La distribuzione territoriale del Partito Popolare mostra la maggiore o minore influenza del clero, e la sua attività sociale. Nel Mezzogiorno In epoca posteriore queste parole erano collocate tra parentesi e lo stesso G. annotava in interlinea: «no». (occorre tener presente oltre a ciò, il peso delle diverse frazioni: nel Sud Napoli, ecc.) prevaleva la destra, cioè il vecchio clericalismo. conservatore. Ricordare episodio delle elezioni ad Oristano nel 1913.
§66 Colonie italiane. Nel «Diritto Ecclesiastico» diretto, fra gli altri, dal prof. Cesare Badii dell’Università di Roma
Mat. Bibliog.: Chiesa e colonie italiane
§67 A proposito del matrimonio religioso con validità civile è interessante notare che da alcuni estratti della succitata rivista mi pare risulti che il Diritto Canonico e il Tribunale della Sacra Rota concedono lo scioglimento del matrimonio (se non ci sono figli) con abbastanza larghezza, purché si abbiano amici compiacenti che testimonino e i due coniugi siano concordi (oltre ai quattrini da spendere). Ne risulterà una situazione di favore per i cattolici.
§68 La quistione sessuale e la Chiesa cattolica. Elementi dottrinari.
Clero
§77 Clero e intellettuali. Numero commemorativo di «Vita e Pensiero» per il 25° anniversario della morte di Leone XIII. Utile l’articolo di padre Gemelli su «Leone XIII e il movimento intellettuale». Papa Leone è legato, nel campo intellettuale, alla rinnovazione della filosofia cristiana, all’indirizzo negli studi sociali, all’impulso dato agli studi biblici. Tomista, l’idea ispiratrice di Leone XIII fu questa: «ricondurre il mondo ad una dottrina fondamentale grazie alla quale l’intelligenza sia resa di nuovo capace di indicare all’uomo la verità che egli deve riconoscere e ciò non solo preparando la via alla fede, ma dando all’uomo il mezzo di orientarsi in modo sicuro su tutti i problemi della vita. Leone XIII presentava così al popolo cristiano una filosofia, la dottrina scolastica, non come un quadro del sapere, stretto, immobile ed esclusivo, ma come un organismo di pensiero vivo, suscettibile di arricchirsi del pensiero di tutti i dottori e di tutti i padri, capace di armonizzare la speculazione della teologia razionale con i dati della scienza positiva, condizione per stimolare e armonizzare la ragione e la fede; la scienza profana e la sacra; la filosofia e la teologia; il reale e l’ideale; il passato e le scoperte dell’avvenire, l’orazione e l’azione, la vita interiore e la vita sociale, i doveri dell’individuo e della società; i doveri verso Dio e verso l’uomo».
Leone XIII ha rinnovato completamente l’Azione Cattolica. Ricordare che l’enciclica Rerum Novarum è quasi simultanea al Congresso di Genova, cioè al passaggio del movimento operaio italiano dal primitivismo a una fase realistica e concreta, sebbene ancora confusa e indistinta. La neo scolastica ha permesso l’alleanza del cattolicesimo col positivismo (Comte, da cui Maurras). Nell’Azione Cattolica si è usciti dal puro astensionismo meccanico di dopo il 70 e si è iniziata una attività reale che portò allo scioglimento del 98.
§128 Religione come principio e clero come classe-ordine feudale. Quando si esalta la funzione che la chiesa ha avuto nel medio evo a favore delle classi inferiori, si dimentica semplicemente una cosa: che tale funzione non era legata alla chiesa come esponente di un principio religioso-morale, ma alla chiesa come organizzazione di interessi economici molto concreti, che doveva lottare contro altri ordini che avrebbero voluto diminuire la sua importanza. Questa funzione fu dunque subordinata e incidentale: ma il contadino non era meno taglieggiato dalla chiesa che dai signori feudali. Si può forse dire questo: che la «chiesa» come comunità dei fedeli conservò e sviluppò determinati principi politico-morali in opposizione alla chiesa come organizzazione clericale, fino alla Rivoluzione francese i cui principii sono propri della comunità dei fedeli contro il clero ordine feudale alleato al re e ai nobili: perciò molti cattolici considerano la Rivoluzione francese come uno scisma e un’eresia, cioè una rottura tra pastore e gregge, dello stesso tipo della Riforma, ma storicamente più matura, perché avvenuta sul terreno del laicismo: non preti contro preti, ma fedeli-infedeli contro preti. Il vero punto di rottura tra democrazia e Chiesa è da porre però nella Controriforma, quando la Chiesa ebbe bisogno del braccio secolare (in grande stile) contro i luterani e abdicò alla sua funzione democraticaAggiunto in epoca posteriore.
§154 Clero e intellettuali. Esiste uno studio organico sulla storia del clero come «classe-casta»? Mi pare che sarebbe indispensabile, come avviamento e condizione di tutto il rimanente studio sulla funzione della religione nello sviluppo storico ed intellettuale dell’umanità. La precisa situazione giuridica e di fatto della chiesa e del clero nei vari periodi e paesi, le sue condizioni e funzioni economiche, i dirigenti e con lo Stato ecc. ecc.
Azione Cattolica
§139 Azione Cattolica. Può farsi un qualsiasi paragone tra l’Azione Cattolica e le istituzioni come i terziari francescani?
§38
[...]
Un esempio: l’Azione Cattolica. Essa ha avuto sempre una direttiva centrale e centralizzata, ma anche una grande varietà di atteggiamenti regionali nei diversi tempi. L’Azione Cattolica nata specificatamente dopo il ’48 era molto diversa da quella attuale riorganizzata da Pio XI. La posizione dell’A. C. subito dopo il ’48 può essere caratterizzata con la stessa osservazione che uno storico ha fatto a proposito di Luigi XVIII: Luigi XVIII non riusciva a persuadersi che nella Francia dopo il 1815 la monarchia dovesse avere un partito politico specifico per sostenersi. Tutti i ragionamenti fatti dagli storici cattolici per spiegare la nascita dell’A. C. e i tentativi per riallacciare questa nuova formazione a movimenti e attività precedenti, sono fallacissimi.
Dopo il ’48 in tutta Europa (in Italia la crisi finale assume la forma specifica di fallimento del neoguelfismo) è superata vittoriosamente per il liberalismo (inteso come concezione della vita oltre che come azione politica positiva) la lotta con la concezione «religiosa» della vita. Prima si formavano dei partiti contro la religione, più o meno effimeri; ora la religione «deve» avere un partito suo, non può più parlare (altro che ufficialmente, perché non confesserà mai questo stato di cose) come se sentisse ancora di essere la premessa necessaria, universale di ogni modo di pensare e di agire. Molti oggi non riescono più neanche a persuadersi che così potesse essere una volta.
Per dare un’idea di questo fatto si potrebbe dare questo modello: — oggi nessuno pensa sul serio a fondare un partito contro il suicidio (è possibile che esista in qualche parte qualche associazione contro il suicidio, ma è un’altra cosa), perché non esiste un partito che cerchi persuadere gli uomini che bisogna suicidarsi in massa (sebbene siano apparsi singoli individui e anche piccoli gruppi che hanno sostenuto forme simili di nichilismo radicale, pare in Ispagna); la «vita» è la premessa necessaria di ogni manifestazione di vita evidentemente.
La religione ha avuto una funzione simile e se ne trovano abbondanti tracce nel linguaggio e nei modi di pensare dei contadini: cristiano e uomo significa la stessa cosa («Non sono cristiano» «E allora cosa sei, un animale? »): i coatti dicono: «cristiani e coatti» (in principio ad Ustica mi maravigliavo perché all’arrivo del vaporetto qualche coatto diceva: «sono tutti cristiani, non ci sono che cristiani, non c’è neanche un cristiano»: in carcere invece si dice più comunemente «borghesi e detenuti» o scherzosamente «borghesi e soldati» sebbene i meridionali dicano anche «cristiani e detenuti»), sarebbe interessante studiare tutta la serie di passaggi semantici per cui nel francese da «cristiano» si è venuti a «crétin» (donde il «cretino» italiano) e addirittura a «grédin»; il fenomeno deve essere simile a quello per cui «villano» da «uomo di campagna» ha finito col significare «screanzato» e addirittura «mascalzone», cioè il nome «cristiano» usato dai contadini per indicare se stessi come «uomini» si è, nella forma più popolare, staccato da «cristiano» in senso religioso e ha avuto la stessa sorte di «manant». Forse anche il russo «krestianin», «contadino» ha la stessa origine mentre «cristiano» religioso, forma più colta, ha mantenuto l’aspirazione del χ greco.
Forse a questa concezione è legato anche il fatto (bisogna poi vedere se è vero) che molti contadini russi, che non conoscevano personalmente gli ebrei, credevano che gli ebrei avessero la coda o altro attributo animalesco.
L’esame storico del movimento dell’A. C. può dar luogo, analiticamente, a diverse serie di ricerche e di studi.
I Congressi Nazionali. Come sono preparati dalla stampa centrale e locale. Il materiale ufficiale preparatorio: relazioni ufficiali e d’opposizione.
L’Azione Cattolica è stata sempre un organismo complesso, anche prima della costituzione della Confederazione bianca del Lavoro e del Partito Popolare, il quale non può non essere considerato parte politicamente integrante dell’A. C. anche se ufficialmente ne era separato. La stessa complessità si verificava e si verifica anche nel campo internazionale: l’A. C. ufficialmente si accentra nella persona del Papa, che è centro internazionale per eccellenza, ma di fatto esiste più di un ufficio che funziona da centro internazionale più esplicitamente politico, come l’Ufficio di Malines che ha compilato il Codice Sociale o come un ufficio di Friburgo per l’azione sindacale (verificare).
Intellettuali cattolici
§21 Nel 1° volume delle Confessioni e professioni di fede già citate sono contenute le risposte dei seguenti letterati ecc. italiani:
§22 Nel 2° volume delle Confessioni e professioni di fede sono contenute le risposte dei seguenti italiani:
§23 Nel volume 3° delle Confessioni e professioni di fede:
§107 Filippo Meda, Statisti cattolici, Alberto Morano, Napoli. Sono sei biografie: di Daniele ’O Connel, García Moreno, Luigi Windthorst, Augusto Bernaert, Giorgio Hertling, Antonio Maura. Esponenti del conservatorismo clericale (clerico-moderati italiani), cioè della preistoria del moderno popolarismo cattolico. È indispensabile per ricostruire lo sviluppo storico dell’Azione Cattolica. La biografia di García Moreno (Venezuela, mi pare) è anche interessante per comprendere alcuni aspetti delle lotte ideologiche dell’ex-America spagnola e portoghese, dove ancora si attraversa un periodo di Kulturkampf primitivo, dove cioè lo Stato moderno deve ancora lottare contro il passato clericale e feudale. È interessante notare questa contraddizione che esiste nell’America del Sud tra il mondo moderno delle grandi città commerciali della costa e il primitivismo dell’interno, contraddizione che si prolunga per l’esistenza di grandi masse di aborigeni da un lato e di immigrati europei dall’altro più difficilmente assimilabili che nell’America del Nord: il gesuitismo è un progresso in confronto dell’idolatria, ma è un inciampo per lo sviluppo della civiltà moderna rappresentata dalle grandi città costiere: esso serve come mezzo di governo per mantenere al potere le piccole oligarchie tradizionali, che perciò non fanno che una lotta blanda e molle. La massoneria e la Chiesa positivistica sono le ideologie e le religioni laiche della piccola borghesia urbana, alle quali aderisce in gran parte il così detto sindacalismo anarchico che dello scientifismo anticlericale fa il suo pascolo intellettuale. (Problema del risveglio alla vita politica e nazionale delle masse aborigene: nel Messico qualcosa di simile è avvenuto per impulso di Obregon e Calles?)
Cattolici integralisti, gesuiti e modernisti§112 Padre Facchinei. Nella «Rivista d’Italia» del 15 gennaio 1927 è pubblicato un articolo di Adolfo Zerboglio intitolato Il ritorno di padre Facchinei,
Dottrina sociale
§1 Sulla povertà, il cattolicismo e il papato. Ricordare la risposta data da un operaio cattolico francese
Ant.: Religione e Chiesa
Mat. Bibl.: La dottrina sociale della Chiesa
§4 Diritto naturale e cattolicismo. Gli attuali polemisti contro il diritto naturale si guardano bene dal ricordare che esso è parte integrante del cattolicismo e della sua dottrina. Sarebbe interessante una ricerca che dimostrasse lo stretto rapporto tra la religione e gli «immortali principii». I cattolici stessi ammettono questi rapporti quando affermano che con la rivoluzione francese è cominciata una «eresia», riconoscono cioè che si tratta della scissione dottrinale di una stessa mentalità e concezione generale. Si potrebbe dire, pertanto, che non i principii della rivoluzione francese superano la religione, ma le dottrine che superano questi principii, cioè le dottrine della forza contrapposte al diritto naturale.
Altre religioni
§19 Notizie sui rapporti tra ebrei e cristiani nel Risorgimento.
[Mat. Bibl.: Le riviste citate da Gramsci.]
§35 Riviste tipo. Teorica: «storiografia» specialmente. Molto unitaria, quindi pochi collaboratori «principali», cioè che scrivano il corpo principale di ogni fascicolo. Il tipo più corrente non può essere che quello medio, di una rivista legata all’attualità e i cui articoli siano di tipo divulgativo, espositivo. L’esperienza ha insegnato che anche in questo tipo occorre una certa omogeneità, o per lo meno una forte organizzazione interna redazionale che fissi molto chiaramente (e per iscritto) il terreno comune di lavoro.
Il primo tipo può essere dato dalla «Critica» di B. Croce + la «Politica» di Coppola.
Il secondo tipo dalla «Voce» di Prezzolini prima e seconda maniera + «Unità» di Salvemini.
Un terzo tipo molto interessante si può ricavare dai numeri meglio riusciti del «Leonardo» di L. Russo + «L’Italia che scrive» del Formiggini.
Un’organizzazione unitaria di cultura che organizzasse i tre tipi con una casa editrice di collezioni «librarie» connesse alle riviste, darebbe soddisfazione alle esigenze di quella massa di pubblico che è più attiva intellettualmente e che più importa far pensare e trasformare.
Cfr Q 24 § 3
§38 Riviste tipo. Terzo tipo. Critico- storico-bibliografico.
Esami analitici di libri, per lettori che non possono, in generale, leggere i libri stessi.
Uno studioso che esamina un fenomeno storico per costruire un lavoro sintetico, deve compiere tutta una serie di operazioni preliminari, che solo in piccola parte, in ultima analisi, risultano utilizzabili. Questo lavoro è utilizzabile invece per questo tipo di rivista, dedicata a un tipo determinato di lettore, al quale occorre, oltre all’opera sintetica, presentare l’attività analitica prelirninare nel suo complesso. Il lettore comune non ha e non può avere un abito «scientifico» che solo viene dato dal lavoro specializzato: occorre perciò aiutarlo con una attività letteraria opportuna. Non basta dargli dei «concetti» storici; la loro concretezza gli sfugge: occorre dargli serie intiere di fatti specifici, molto individualizzati. Un movimento storico complesso si scompone nel tempo e nello spazio da una parte e in piani diversi (problemi speciali) dall’altro, anch’essi scomponibili nel tempo e nello spazio.
Ant.: Azione Cattolica
§43 Riviste tipo. Terzo tipo — critico-storico-bibliografico —. Nell’esame dei partiti: — fissare lo svolgimento che hanno avuto nel tempo e nello spazio i problemi concreti più importanti — Quistione sindacale — Rapporti tra il partito e i sindacati — Quistione agraria — ecc. ecc. Ogni quistione due aspetti: come è stata trattata teoricamente e come è stata affrontata praticamente.
Un’altra rubrica è quella della stampa, nei suoi diversi aspetti: stampa quotidiana, stampa periodica, opuscoli.
Il gruppo parlamentare. Trattando di una determinata attività parlamentare bisogna tener presenti alcuni criteri di ricerca e di giudizio: quando un deputato di un partito di massa parla in parlamento, ci possono essere tre versioni del suo discorso: 1° la versione degli atti parlamentari, che di solito è riveduta e corretta e spesso edulcorata post festum; 2° la versione dell’organo ufficiale del partito al quale il deputato appartiene: essa è combinata dal deputato d’accordo col corrispondente del giornale in modo da non urtare certe suscettibilità della maggioranza ufficiale del partito e non creare ostacoli prematuri a determinate combinazioni in corso; 3° la versione dei giornali di altri partiti o dei così detti organi della pubblica opinione (giornali a grande diffusione), che è fatta dal deputato d’accordo coi rispettivi corrispondenti in modo da favorire determinate combinazioni in corso: questi giornali mutano da periodo a periodo e secondo i mutamenti delle rispettive direzioni politiche.
Lo stesso criterio può essere esteso al campo sindacale, a proposito dell’interpretazione da dare a determinati movimenti concreti e anche all’indirizzo generale dell’organizzazione sindacale data. Esempi promemoria: la «Stampa», il «Resto del Carlino», il «Tempo» (di Naldi) hanno servito da casse di risonanza e da strumento di combinazioni politiche tanto ai socialisti che ai popolari. Un discorso parlamentare socialista o popolare era presentato sotto un certo aspetto da uno di questi giornali per il suo pubblico, mentre era presentato sotto un altro aspetto dagli organi socialisti o popolari. I giornali popolari tacevano addirittura per il loro pubblico certe affermazioni dei loro deputati che tendevano a rendere possibile un avvicinamento ai socialisti, ecc. ecc. — Da questo punto di vista è indispensabile tener conto delle interviste date dai deputati ad altri giornali e degli articoli pubblicati in altri giornali. — L’omogeneità politica di un partito può essere saggiata anche con questo criterio: quali indirizzi sono favoriti dai membri di questi partiti nella loro collaborazione a giornali di altri partiti o di «opinione pubblica» così detti: il dissidio interno si manifesta talvolta solo così, i dissidenti scrivono articoli in altri giornali, firmati e non firmati, dànno interviste, suggeriscono motivi polemici, non smentiscono le opinioni loro attribuite, ecc. ecc.
Nelle riviste di questo tipo sono indispensabili alcune rubriche: — un dizionario enciclopedico politico-scientifico-filosofico. In questo senso: in ogni numero sono pubblicate una o più piccole monografie di carattere enciclopedico su concetti politici, filosofici, scientifici che ricorrono spesso nei giornali e nelle riviste e che la media dei lettori difficilmente afferra o addirittura travisa. In realtà ogni movimento politico crea un suo linguaggio, cioè partecipa allo sviluppo generale di una determinata lingua, introducendo termini nuovi, arricchendo di nuovo contenuto termini già in uso, creando metafore, servendosi di nomi storici per facilitare la comprensione e il giudizio su determinate situazioni politiche attuali, ecc. ecc. Le trattazioni devono essere veramente pratiche, cioè devono riallacciarsi a bisogni realmente sentiti ed essere, per la forma d’esposizione, adeguate alla media dei lettori.
Possibilmente i compilatori devono essere informati degli errori più diffusi risalendo alle fonti stesse degli errori, cioè alla pubblicazione di paccotiglia scientifica tipo «Biblioteca popolare Sonzogno» o dizionari (Melzi, Premoli ecc.) o enciclopedie popolari più diffuse. Queste trattazioni non devono presentarsi già in forma organica (per es. ordine alfabetico o di materia) né secondo un’economia prefissata di spazio come se già una pubblicazione complessiva fosse in vista, ma invece devono essere messe in rapporto con altre pubblicazioni di quella o di altre riviste collegate che hanno trattato questo o quell’argomento: l’ampiezza della trattazione deve essere determinata volta per volta non dall’importanza intrinseca dell’argomento, ma dall’interesse immediato (ciò sia detto solo in generale): insomma non deve presentarsi come un libro pubblicato a puntate, ma come una rubrica interessante di per sé, volta per volta, dalla quale magari potrà scaturire un libro.
Legata alla precedente è la rubrica delle biografie, non in quanto il nome del biografato entra nel dizionario enciclopedico per un determinato concetto politico, ma in quanto tutta la vita di un uomo può interessare la cultura generale di un certo strato sociale. Per esempio, può darsi che nel dizionario enciclopedico si debba parlare di lord Carson per accennare alla crisi del regime parlamentare già prima della guerra mondiale e proprio in Inghilterra, nel paese dove il regime parlamentare era più efficiente; ciò non vorrà dire che si debba fare la biografia di lord Carson. A una persona di media cultura interessano due soli dati biografici: 1° lord Carson nel 1914 prese le armi nell’Ulster per opporsi all’applicazione della legge sull’Home Rule irlandese, approvata dal Parlamento che «può far tutto eccetto che un uomo diventi donna»; 2° lord Carson non solo non fu punito ma divenne ministro poco dopo, allo scoppio della guerra. — Invece di un altro interessa tutta la biografia, quindi rubrica separata.
Un’altra rubrica può essere quella delle autobiografie politiche-intellettuali. Se fatte bene esse possono essere del massimo interesse giornalistico e di grande efficacia formativa. Sincerità, semplicità. Come uno supera il suo ambiente, attraverso quali impulsi esterni e quali crisi di pensiero e di sentimento. (Poche, ma buone). Un’altra rubrica, fondamentale questa: l’esame storico-bibliografico delle situazioni regionali. Molti vorrebbero studiare le situazioni locali, che interessano molto, ma non sanno come fare, da dove incominciare: non conoscono il materiale bibliografico, non sanno fare ricerche nelle biblioteche, ecc. Si tratta dunque di dare l’ordito generale di un problema concreto o di un tema scientifico, indicando i libri che l’hanno trattato, gli articoli delle riviste specializzate ecc., in forma di rassegne bibliografico-critiche, con speciale diffusione per le pubblicazioni poco comuni o in lingue straniere. Ciò può essere fatto per le regioni, da diversi punti di vista, per problemi generali di cultura ecc. ecc.
Uno spoglio sistematico di giornali e riviste per la parte che interessa le rubriche principali (fondamentali) — Sola citazione di autori, titoli, dati con brevi cenni di tendenza (ogni numero) — Recensioni dei libri. Due tipi di recensione. Informativo-critico: si suppone che il lettore non possa leggere il libro, ma che sia interessante per lui conoscerne il contenuto generale. — Teorico-critico: si suppone che il lettore debba leggere il libro e allora non si riassume, ma si trattano criticamente le obbiezioni che gli si devono muovere o si svolge qualche parte che vi è sacrificata ecc. Questo secondo tipo di recensione è più adatto per l’altro tipo di rivista («Critica» - «Politica»).
Uno spoglio critico-bibliografico della produzione letteraria degli autori fondamentali per la teoria generale. Uno spoglio simile per gli autori italiani, o per le traduzioni italiane di autori stranieri; questo spoglio deve essere molto minuto e circostanziato, perché occorre tener presente che attraverso questo lavoro e questa elaborazione si può solo raggiungere la fonte autentica di tutta una serie di concezioni erronee che circolano incontrollate. Occorre tener presente che in ogni regione, specialmente in Italia, data la ricchissima varietà di tradizioni locali, esistono gruppi e gruppetti caratterizzati da motivi ideologici e psicologici propri; «ogni paese ha o ha avuto il suo santo locale, quindi il suo culto e la sua cappella». La elaborazione unitaria di una coscienza collettiva domanda condizioni e iniziative molteplici. La diffusione da un centro omogeneo di un modo di pensare e di operare omogeneo è la condizione principale, ma non deve essere e non può essere la sola. Un errore molto diffuso consiste nel pensare che ogni strato sociale elabori la sua coscienza e la sua cultura allo stesso modo, con gli stessi metodi, cioè i metodi degli intellettuali di professione.
Mat. Bibliog.: Il rapporto città/campagna
§55 Riviste tipo. Una rivista tipo è l’«Osservatore» del Gozzi, cioè il tipo di rivista moralisteggiante del settecento (tipo perfetto in Inghilterra con l’Addison): essa ebbe una certa importanza per diffondere una nuova concezione della vita, servendo di anello di passaggio per la piccola gente, tra la religione e la civiltà moderna. Oggi il tipo si conserva specialmente nel campo ecclesiastico. (Ma anche l’«Asino» e il «Seme» rientravano in questo tipo).
§65 Riviste tipo: «Osservatore» del Gozzi. A questo tipo appartengono anche, nelle forme moderne, le riviste umoristiche, che, a loro modo, vorrebbero essere di critica del costume. Le pubblicazioni tipo «Cri de Paris», «Fantasio», «Charivari». Per alcuni aspetti rientrano in questo tipo i così detti «elzeviri» o «corsivi» dei giornali quotidiani.
La «Frusta letteraria» del Baretti fu una forma intermedia: bibliografia universale, critica del contenuto, con tendenze moralizzatrici (critica dei costumi, dei modi di vedere, dei punti di vista). «Lacerba» di Papini, per la parte non «artistica», era anch’essa di questo tipo, a tendenze «satanistiche» (Gesù Peccatore, Viva il maiale, Contro la famiglia ecc. di Papini; Giornale di Bordo di Soffici; Elogio della prostituzione ecc. di Tavolato). Questo tipo generale appartiene alla sfera del «buon senso» o «senso comune»: cerca di modificare l’opinione media di una certa società, criticando, suggerendo, correggendo, svecchiando, introducendo nuovi «luoghi comuni». Se sono ben scritte, con «verve», con un certo distacco, ma tuttavia con interesse per l’opinione media, esse possono avere grande diffusione ed esercitare una funzione importantissima. Non devono avere nessuna «mutria», né scientifica, né moralisteggiante, non devono essere «filistee» e accademiche, insomma, né apparire fanatiche o soverchiamente partigiane: devono porsi nel campo stesso del «senso comune» distaccandosene quel tanto che permette il sorriso canzonatorio, ma non il disprezzo o la superiorità altezzosa.
«La Pietra», motto dantesco dalle rime della Pietra: «così nel mio parlar voglio esser aspro». «La Compagnia della Pietra».
Ogni strato sociale ha il suo «senso comune» che è in fondo la concezione della vita e la motale più diffusa. Ogni corrente filosofica lascia una sedimentazione di «senso comune»: è questo il documento della sua effettualità storica. Il senso comune non è qualcosa di irrigidito e immobile, ma si trasforma continuamente, arricchendosi di nozioni scientifiche e opinioni filosofiche entrate nel costume. Il «senso comune» è il folklore della «filosofia» e sta di mezzo tra il «folklore» vero e proprio (cioè come è inteso) e la filosofia, la scienza, l’economia degli scienziati. Il «senso comune» crea il futuro folklore, cioè una fase più o meno irrigidita di un certo tempo e luogo. (Occorrerebbe fissare bene questi concetti, ripensandoli a fondo).
§102 «Fiera Letteraria» divenuta poi «L’Italia letteraria» è stata sempre, ma sta diventando sempre più un sacco di patate. Ha due direttori, ma è come se non ne avesse nessuno e un segretario esaminasse la posta in arrivo, tirando a sorte gli articoli da pubblicare. Il curioso è che i due direttori, Malaparte e Angioletti, non scrivono nel loro giornale ma preferiscono altre vetrine. Le colonne della redazione devono essere Titta Rosa ed Enrico Falqui, e dei due il più comico è quest’ultimo che compila la Rassegna della Stampa, saltabeccando a destra e a sinistra, senza bussola e senza idee. Titta Rosa è più ponteficale e si dà arie da grande pontefice disincantato anche quando scrive delle baggianate. L’Angioletti pare abbastanza ritrosetto a lanciarsi in alto mare: non ha l’improntitudine di Malaparte. È interessante notare come l’«Italia letteraria» non si arrischi a dare giudizi propri e aspetti che abbiano parlato prima i cani grossi. Così è avvenuto per gl’Indifferenti di Moravia, ma cosa più grave per il Malagigi di Nino Savarese, libro veramente saporoso, che fu recensito solo quando entrò in terna per il premio dei trenta, mentre non era stato notato nelle pagine della «Nuova Antologia». Le contraddizioni di questo gruppo di graffiacarte sono veramente spassose, ma non vale la pena di notarle. Ricordano i Bandar Log del Libro della Jungla: «noi faremo, noi creeremo», ecc. ecc.
§156 Passato e presente. Come il presente sia una critica del passato, oltre che e perché un suo «superamento». Ma il passato è perciò da gettar via? È da gettar via ciò che il presente ha criticato «intrinsecamente» e quella parte di noi stessi che a ciò corrisponde. Cosa significa ciò? Che noi dobbiamo aver coscienza esatta di questa critica reale e darle un’espressione non solo teorica, ma politica. Cioè dobbiamo essere più aderenti al presente, che noi stessi abbiamo contribuito a creare, avendo coscienza del passato e del suo continuarsi (e rivivere).
[Mat. Bibl.: Letteratura italiana del Primo Novecento]
Critica letteraria
§73 La letteratura italiana moderna del Crémieux. La«Fiera Letteraria» del 15 gennaio 1928 riassume un articolo di G. Bellonci, sul «Giornale d’Italia» abbastanza scemo e spropositante.
Mat. Bibliog.: Il problema della lingua italiana in Gramsci
§74 Stracittà e strapaese. Elementi presi dalla «Fiera Letteraria» del 15 gennaio 1928. Di Papini: «La città non crea, ma consuma. Com’è l’emporio dove affluiscono i beni strappati ai campi e alle miniere, così vi accorrono le anime più fresche delle province e le idee dei grandi solitari. La città è come un rogo che illumina perché brucia ciò che fu creato lontano da lei e talvolta contro di lei. Tutte le città sono sterili. Vi nascono in proporzione pochi figlioli e quasi mai di genio. Nelle città si gode, ma non si crea, si ama ma non si genera, si consuma ma non si produce». Tutto l’altro è ancor più settecentesco.
§91 Strapaese. Mino Maccari nella «Stampa» del 4 maggio 1929 scrive: «Quando Strapaese si oppone alle importazioni modernistiche, la sua opposizione vuol salvare il diritto di selezionarle al fine di impedire che i contatti nocivi, confondendosi con quelli che possono esser benefici, corrompano l’integrità della natura e del carattere proprii alla civiltà italiana, quintessenziata nei secoli, ed oggi anelante a una sintesi unificatrice».
Cfr Q 22 § 4
Letteratura non nazionale-popolare
§80 Il pubblico e la letteratura italiana. «Per una ragione o per l’altra si può dire che gli scrittori italiani non abbiano più pubblico. ... Un pubblico infatti vuol dire un insieme di persone, non soltanto che compra dei libri, ma soprattutto che ammira degli uomini. Una letteratura non può fiorire che in un clima d’ammirazione e l’ammirazione non è come si potrebbe credere, il compenso, ma lo stimolo del lavoro. ... Il pubblico che ammira, che ammira davvero, di cuore, con gioia, il pubblico che ha la felicità di ammirare (niente è più deleterio dell’ammirazione convenzionale) è il più grande animatore di una letteratura. Da molti segni si capisce ahimè che il pubblico sta abbandonando gli scrittori italiani». Leo Ferrero nel «Lavoro» («Fiera Letteraria» del 28 ottobre 1928).
L’ammirazione sarebbe la forma del contatto tra la nazione e i suoi scrittori. Oggi manca questo contatto, cioè la letteratura non è nazionale, perché non è popolare. Paradosso del tempo attuale. E non c’è gerarchia nella letteratura cioè manca ogni personalità eminente. Quistione del perché e di come una letteratura sia popolare. La «bellezza» non basta: ci vuole un contenuto «umano e morale» che sia l’espressione elaborata e compiuta delle aspirazioni del pubblico.
Cioè la letteratura deve essere insieme elemento attuale di cultura (civiltà) e opera d’arte (di bellezza). Altrimenti alla letteratura d’arte viene preferita la letteratura d’appendice, che, a modo suo, è un elemento di cultura, degradata se si vuole, ma attuale.
§7 Margherita Sarfatti e le «giostre». Nella recensione di Goffredo Bellonci del Palazzone di Margherita Sarfatti «Italia letteraria», 23 giugno 29 si legge: «verissima quella timidezza della vergine che si ferma pudica innanzi al letto matrimoniale mentre pur sente che “esso è benigno e accogliente per le future giostre”». Questo pudore che sente con le espressioni tecniche dei novellieri licenziosi è impagabile: avrà sentito anche le future «molte miglia» e il suo «pelliccione» ben scosso.
§8 Generazione vecchia e nuova. La vecchia generazione degli intellettuali ha fallito, ma ha avuto una giovinezza Papini, Prezzolini, Soffici ecc.). La generazione dei giovani attuali non ha neanche questa età delle brillanti promesse: asini brutti anche da piccoletti (Titta Rosa, Angioletti, Malaparte ecc.).
§9 Soffici. Un cafone senza ingenuità e spontaneità.
§12 Giovanni Papini. Il «pio autore» della «Civiltà Cattolica».
§13 Alfredo Panzini. Scrive F. Palazzi nell’«Italia che scrive» (Giugno 1929) a proposito di I giorni del sole e del grano: «soprattutto si occupa e si preoccupa della vita campestre come può occuparsene un padrone che vuol essere tranquillo sulle doti lavorative delle bestie da lavoro che possiede, sia di quelle quadrupedi, sia di quelle bipedi e che a veder un campo coltivato, pensa subito se il raccolto sarà quale spera». Panzini negriero, insomma.
§16 Ignobile pigiama. Bruno Barilli in un articolo della «Nuova Antologia» (16 giugno 1929) chiama l’uniforme del bagno penale «quella specie di ignobile pijama». Ma forse già molti modi di vedere e di pensare a proposito delle cose carcerarie sono andati mutando. Quando ero nel carcere di Milano ho letto nella «Domenica del Corriere» una «Cartolina del pubblico» che press’a poco diceva: «In treno due si incontrano e uno dice che è stato 20 anni in carcere. – “Certo per ragioni politiche” dice l’altro». Ma la punta epigrammatica non è in questa risposta, come potrebbe apparire nel riferimento. Dalla «cartolina» appare che l’essere stato in carcere non desta più repulsione, perché si può esservi stati per ragioni politiche. E le «cartoline del pubblico» sono uno dei documenti più tipici del senso comune popolare italiano. E Barilli è perfino al di sotto (di) questo senso comune: filisteo per i filistei classici della «Domenica del Corriere».
§17 Riccardo Balsamo-Crivelli. A proposito di «Cartoline del Pubblico» della «Domenica del Corriere»
§20 Salvator Gotta. Oremus sugli altari e flatulenze in sacrestia.
§24 I nipotini del padre Bresciani. Esame di una parte cospicua della letteratura narrativa italiana, specialmente di questo ultimo decennio.
Ant.: I nipotini di padre Bresciani
Txt.:A. Panzini - Il mondo è rotondo
Txt.: A. Panzini - Viaggio di un povero letterato
§39 Répaci. I nipotini del padre Bresciani. Nella sua novella (autobiografica) Crepuscolo («Fiera Letteraria» 3 marzo 1929) scrive: «A quell’epoca io già schieravo dentro di me, fortificandole ogni giorno sulle ime radici dell’istinto, quelle belle qualità che più tardi, negli anni a venire, avrebbero fatto di me una centrale di guai: l’amore dei vinti, degli offesi, degli umili, lo sprezzo del pericolo per la giusta causa, l’indipendenza del carattere che palesa la rettitudine, l’orgoglio matto che braveggia persino sulle rovine, ecc. ecc. ».
§42 I nipotini di padre Bresciani. — Curzio Malaparte - Kurt Erich Suckert. Lo sfoggio del nome straniero nel periodo del dopoguerra.
§59 Ugo Ojetti. Ricercare il giudizio datone dal Carducci.
§60 Papini, Cristo, Giulio Cesare. Papini nel 1912-13 scrisse in «Lacerba» l’articolo Gesù peccatore, sofistica raccolta di aneddoti e di sforzate ipotesi tratte dagli Evangeli apocrifi; per questo articolo pareva dovesse subire un’azione giudiziaria con grande suo spavento (sostenne come plausibile e probabile l’ipotesi di rapporti tra Gesù e Giovanni). Nel suo articolo su Cristo romano (nel volume Gli operai della vigna) sostiene, con gli stessi procedimenti critici e la stessa «vigoria» intellettuale, che Cesare è un precursore del Cristo, fatto nascere a Roma dalla Provvidenza. Se farà ancora un passo in avanti, usando dei procedimenti loriani, giungerà alla conclusione di rapporti necessari tra il cristianesimo e l’inversione.
§69 Il premio Nobel. Filippo Crispolti ha raccontato in un numero del «Momento» del giugno 1928 (della prima quindicina) che quando nel 1906 si pensò in Svezia di conferire il premio Nobel a Giosuè Carducci, nacque il dubbio che un simile premio al cantore di Satana potesse suscitare scandalo tra i cattolici: chiesero informazioni al Crispolti che le dette per lettera e in un colloquio col ministro svedese a Roma, De Bildt. Le informazioni furono favorevoli. Così il premio Nobel al Carducci sarebbe stato dato da Filippo Crispolti.
§72 I nipotini di padre Bresciani. Arte cattolica. Lo scrittore Edoardo Fenu in un articolo Domande su un’arte cattolica pubblicato sull’«Avvenire d’Italia» e riassunto nella «Fiera Letteraria» del 15 gennaio 1928 rimprovera a «quasi tutti gli scrittori cattolici» il tono apologetico. «Ora la difesa (!) della fede deve scaturire dai fatti, dal processo critico (!) e naturale del racconto, deve cioè essere, manzonianamente il «sugo» dell’arte stessa. È evidente (!) che uno scrittore cattolico per davvero, non andrà mai a battere la fronte contro le pareti opache dell’eresia, morale o religiosa. Un cattolico per il solo fatto di essere tale, è già investito di quello spirito semplice e profondo che, trasfondendosi nelle pagine di un racconto o di una poesia, farà della sua (!) un’arte schietta, serena, nient’affatto pedante. È dunque (!) perfettamente inutile intrattenersi a ogni svolto di pagina a fare capire che lo scrittore ha una strada da farci percorrere, ha una luce per illuminarci. L’arte cattolica dovrà (!) mettersi in grado di essere essa medesima quella strada e quella luce, senza smarrirsi nella fungaia degli inutili predicozzi e degli oziosi avvertimenti». (In letteratura «... se ne togli pochi nomi, Papini, Giuliotti, e in certo senso anche Manacorda, il bilancio è pressoché fallimentare. Scuole?... ne verbum quidem. Scrittori? Sì; a voler essere di manica larga si potrebbe tirar fuori qualche nome, ma quanto fiato per trarlo cogli argani! A meno che non si voglia patentare per cattolico il Gotta, o dar la qualifica di romanziere al Gennari, o battere un applauso a quella caterva innumere di profumati e agghindati scrittori e scrittrici per «signorine» »).
Molte contraddizioni e improprietà: ma la conclusione è giusta: la religione è sterilità per l’arte, almeno nei religiosi. Cioè non esistono più «anime semplici e sincere» che siano artisti. Il fatto è già antico: risale al Concilio di Trento e alla Controriforma. «Scrivere» era pericoloso, specialmente di cose e sentimenti religiosi. La chiesa da quel tempo ha usato un doppio metro: essere «cattolici» è diventato cosa facilissima e difficilissima nello stesso tempo. È cosa facilissima per il popolo al quale non si domanda che di credere genericamente e di avere ossequio per la chiesa. Nessuna lotta reale contro le superstizioni pagane, contro le deviazioni ecc. In realtà tra un contadino cattolico, uno protestante e uno ortodosso non c’è differenza «religiosa», c’è solo differenza «ecclesiastica». È difficilissimo invece essere intellettuale attivo «cattolico» e artista «cattolico» (romanziere specialmente e anche poeta), perché si domanda un tale corredo di nozioni su encicliche, controencicliche, brevi, lettere apostoliche ecc. e le deviazioni storiche dall’indirizzo chiesastico sono state tante e così sottili che cadere nell’eresia o nella mezza eresia o in un quarto di eresia è facilissimo. Il sentimento religioso schietto è stato disseccato: occorre essere dottrinari per scrivere «ortodossamente». Perciò nell’arte la religione non è più un sentimento, è solo un motivo, uno spunto. E la letteratura cattolica può avere solo padri Bresciani, non più S. Franceschi o Passavanti o Tommaso da Kempis. Può essere «milizia», propaganda, agitazione, non più ingenua effusione di sentimenti. O non è cattolica: vedi la sorte di Fogazzaro. §82 I nipotini di padre Bresciani. Maddalena Santoro, L’amore ai forti. Romanzo. Bemporad, 1928.
§93 I nipotini di padre Bresciani. Tommaso Gallarati Scotti, Storie dell’Amor Sacro e dell’Amor Profano1. Ricordare la novella in cui si parla del falso corpo della santa portato dall’Oriente dai Crociati e le considerazioni sbalorditive dello Scotti. Dopo il frate Cipolla del Boccaccio... (Ricordare La reliquia di Eça de Queiroz tradotto dal L. Siciliani in una collezione di Rocco Carabba diretto dal Borgese: in essa è un riflesso della novella del Boccaccio). I bollandisti2 sono rispettabili, perché almeno hanno estirpato qualche radice di superstizione (sebbene le loro ricerche rimangano chiuse in un cerchio molto ristretto e servano più che altro per gli intellettuali, per far vedere agli intellettuali che il cattolicismo combatte le superstizioni) ma l’estetismo folkloristico dello Scotti è rivoltante. Ricordare il dialogo riportato da W. Steed tra un protestante e un Cardinale a proposito di san Gennaro3 e la nota di Croce su una sua conversazione con un prete napoletano su san Gennaro a proposito di una lettera di Sorel4. La figura dello Scotti entra di scorcio fra i nipotini di padre Bresciani. Come appendice o complemento parallelo.
§94 Proudhon, Jahier e Raimondi. Nell’«Italia Letteraria» del 21 luglio 1929 Giuseppe Raimondi scrive: «... mi parla di Proudhon, della sua grandezza e della sua modestia, dell’influenza che le sue idee hanno esercitato nel mondo moderno, dell’importanza che queste idee hanno assunto in un mondo retto dal lavoro socialmente organizzato, in un mondo dove la coscienza degli uomini si va sempre più evolvendo e perfezionando in nome del lavoro e dei suoi interessi. Proudhon ha fatto un mito, umano e vivente, di questi poveri interessi. In me l’ammirazione per Proudhon è piuttosto sentimentale, d’istinto, come un affetto e un rispetto che io ho ereditato, che mi sono stati trasmessi nascendo. In Jahier è tutta d’intelletto, derivata dallo studio, perciò profondissima». Questo Raimondi è un discreto poseur con la sua «ammirazione ereditata». Più oltre noterò un brano di un altro suo articolo, che fa spiccare ancor di più questa posa.
Cfr Q 23 § 34.
§96 Adelchi Baratono ha scritto nel II fascicolo di «Glossa perenne» un articolo sul Novecentismo che deve essere ricchissimo di spunti «sfottendi».
§99 Un famoso parabolano arruffone è Antonio Bruers, uno dei tanti tappi di sughero che salgono sulle creste melmose dei bassifondi agitati.
§100 Goffredo Bellonci, Pagine e idee, Edizione Sapientia, Roma. Pare che sia una specie di storia della letteratura italiana originalmente sovvertita dal luogo comune. Questo Bellonci è proprio una macchietta del giornalismo letterario; un Bouvard delle idee e della politica, una vittima di Mario Missiroli che era già una vittima di Oriani e di Sorel.
§136 Novecentismo di Bontempelli. Il manifesto del «900» di Bontempelli è l’articolo di Prezzolini Viva l’artificio! pubblicato nel 1915 e ristampato a p. 51 della raccolta di articoli del Prezzolini Mi pare... (Fiume, Edizioni Delta, 1925). Una quantità di spunti contenuti in quest’articolo sono stati svolti e illanguiditi dal Bontempelli, perché divenuti meccanici. La sua commedia Nostra Dea del 1925 è una meccanica estensione delle parole di Prezzolini riportate a pagina 56. È notevole che l’articolo di Prezzolini è molto goffo e pedantesco; risente dello sforzo fatto dall’autore dopo l’esperienza di «Lacerba» per diventare più leggero e brioso; ciò che potrebbe essere espresso in un epigramma viene masticato e rimasticato con molte smorfie tediose. Bontempelli imita la goffaggine moltiplicandola. Un epigramma in Prezzolini diventa un articolo, in Bontempelli un volume.
§137 Novecentisti e strapaesani. Barocco e Arcadia adattati ai tempi moderni.
§14 Fortunato Rizzi ossia dell’italiano meschino.
§25 Achille Loria. A proposito di Achille Loria bisogna ricordare i principali documenti in cui si trovano le principali «stranezze»1:
Loria non è un caso teratologico individuale: è l’esemplare più compiuto e finito di una serie di rappresentanti di un certo strato intellettuale di un certo periodo; in generale degli intellettuali positivisti che si occupano della quistione operaia e che più o meno credono di approfondire, o correggere, o superare il Marxismo. Enrico Ferri – Arturo Labriola – lo stesso Turati potrebbero dare una messe di osservazioni e di aneddoti.
In Luzzatti, in un altro campo sarebbe da mietere.
Ma non bisogna dimenticare Guglielmo Ferrero e Corrado Barbagallo. Nel Barbagallo forse la manifestazione è più occasionale che negli altri: pure il suo scritto sul capitalismo antico pubblicato nella «Nuova Rivista Storica» del 1929 è estremamente sintomatico (con la postilla un po’ comica che segue al successivo articolo del Sanna)5. In generale dunque il Lorismo è un carattere di certa produzione letteraria e scientifica del nostro paese (molti documenti di esso si trovano nella «Critica» di Croce, nella «Voce» di Prezzolini, nell’«Unità» di Salvemini) connesso alla scarsa organizzazione della cultura e quindi alla mancanza di controllo e di critica.
Mat. Bibl.: Lorianismo
§26 L’ossicino di Cuvier.
Osservazione legata alla nota precedente. Il caso Lumbroso. Da un ossicino di topo si ricostruiva talvolta un serpente di mare.
§30 Orano e Loria. Nella precedente nota su Loria ho dimenticato di ricordare le «stranezze» di Paolo Orano. Ne ricordo ora due: l’articolo «Ad metalla» nel volume Altorilievi (ed. Puccini, Milano), tipicamente «loriano», e il suo volumetto sulla Sardegna (credo sia uno dei primi libri dell’Orano) dove parla del «liquido ambiente». Nei medaglioni ci deve essere, se ben ricordo, da spulciare parecchio e così in tutte le altre pubblicazioni.
§31 Lettere del Sorel al Croce. Nelle lettere del Sorel al Croce si può spigolare più di un elemento sul «lorismo» o «lorianismo». Per esempio, il fatto che nella tesi di laurea di Arturo Labriola si scrive come se si credesse che il Capitale di Marx è stato elaborato sull’esperienza economica francese e non su quella inglese.
§32 Loria e Lumbroso. Alberto Lumbroso è da collocare nella serie loriana ma da un altro punto di vista e in un altro campo. Si potrebbe fare una introduzione generale che servirebbe appunto a dimostrare come Loria non sia una eccezione unica, ma si tratti in gran parte di un fatto generale di cultura, che poi si è «tumefatto» nel campo della «sociologia». In questa parte appunto possono dare elementi la «Critica», la «Voce» e l’«Unità». (Ricordare per esempio «la casa dei parti» di Tomaso Sillani, la «gomma di Vallombrosa» di Filippo Carli, del quale è anche notevole l’articolo della «Perseveranza» sul prossimo ritorno trionfale della navigazione a vela1; la letteratura economica dei protezionisti vecchia covata è piena di molte preziosità del genere, di cui un ricordo può rintracciarsi negli scritti del Belluzzo sulle possibili ricchezze nascoste nelle montagne italiane2). Tutti questi elementi piuttosto generici del «lorianismo» potrebbero servire per «agrémenter» l’esposizione. Così si potrebbe ricordare come limite «assurdo», perché sconfina nel caso clinico (tecnicamente clinico), la candidatura del Lenzi al IV collegio di Torino, con l’«aereo cigno» e con la proposta di radere le montagne italiane, ingombranti, per trasportarne il materiale in Libia e fertilizzare così il deserto di sabbia3.
Il caso del Lumbroso è molto interessante, perché suo padre era un erudito di gran marca (Giacomo Lumbroso: ma la metodologia dell’erudizione non si trasmette per generazione e neppure per il contatto intellettuale anche il più assiduo, a quanto pare.
C’è da domandarsi, nel caso Lumbroso, come i suoi due ponderosi volumi sulle Origini Diplomatiche e politiche della guerra abbiano potuto essere accolti nella Collezione Gatti. Qui la responsabilità del sistema è evidente. Così per Loria e la «Riforma Sociale» e per Luzzatti e il «Corriere della Sera» (a proposito di Luzzatti ricordare il caso del «fioretto» di S. Francesco pubblicato come inedito dal «Corriere della Sera» del 1913 — mi pare —, con un commento economico spassosissimo, proprio dal Luzzatti che aveva poco prima pubblicato un’edizione dei Fioretti nella Collezione Notari; il così detto «inedito» era una variante inviata al Luzzatti dal Sabatier. Del Luzzatti famose le frasi, tra le quali «Lo sa il tonno» in un articoletto del «Corriere» che poi ha dato lo spunto al libro del Bacchelli). Note
§36 Lorianismo. Ricordare il libro del prof. Alberto Magnaghi sui geografi spropositanti: questo libro è un modello del genere.
Non ricordo il titolo esatto né il nome dell’editore. Credo che non fosse stato Messo in commercio.
Ricordare il primo volume (ediz. Lumachi o Ferr. Gonnelli) sulla Cultura Italiana di Papini e Prezzolini.
§37 Turati e il lorianismo. Il discorso sulle «salariate dell’amore» mi pare da connettere al lorianismo. Di Turati si possono raccogliere alcuni tratti di «cattivo gusto» sul genere di «lecca, popol sovrano, lecca ma ascolta».
§41 Lorianismo.— Luzzatti. Ricordare l’episodio alla Camera dei Deputati o al Senato nel 1911 o 12,
§63 Lorianismo e Graziadei. Vedi in Croce (Materialismo storico ecc.) nota su Graziadei e il Paese di Cuccagna1. Vedi nel libro di Graziadei Sindacati e salari del 1929 la alquanto comica risposta al Croce dopo quasi trent’anni2. Questa risposta al Croce, alquanto gesuitica oltre che alquanto comica, è stata determinata indubbiamente dall’articolo pubblicato nel 1926 nell’«Unter dem Banner des Marxismus» su Prezzo e sovraprezzo, articolo che cominciava proprio con la citazione della nota crociana. Sarebbe interessante ricercare nelle produzioni di Graziadei i possibili accenni al Croce: non ha veramente mai risposto, neppure indirettamente? Eppure la pizzicata era forte! In ogni modo, l’«ossequio» all’autorità scientifica del Croce espresso con tanta unzione, dopo trent’anni, è veramente comico. Il motivo del Paese di Cuccagna rintracciato dal Croce in Graziadei è inoltre interessante perché colpisce una sotterranea corrente di romanticismo popolare creata dal «culto della scienza» dalla «religione del progresso» e dall’ottimismo generale del secolo XIX. In questo senso è da vedere se non sia legittima la reazione del Marx che con la «legge tendenziale della caduta del saggio del profitto» e col «catastrofismo» gettava molta acqua sul fuoco: è da vedere anche quanto queste correnti ottimistiche abbiano impedito una analisi più accurata delle proposizioni di Marx.
Queste osservazioni riconducono alla quistione della «utilità» o meno di tutte le note sul lorianismo. A parte il fatto di un «giudizio» spassionato sull’opera complessiva di Loria e della «ingiustizia» di mettere solo in rilievo le manifestazioni strampalate del suo ingegno, che può essere discusso a sé, rimane per giustificare queste notazioni una serie di ragioni. Gli autodidatti sono specialmente portati, per l’assenza in loro di un abito scientifico e crltico, a fantasticare di paesi di Cuccagna e di facili soluzioni di ogni problema. Come reagire? La soluzione migliore sarebbe la scuola, ma è una soluzione di lunga attesa, specialmente per grandi masse di uomini. Bisogna dunque colpire, per intanto, la «fantasia» con dei tipi di ilotismo intellettuale, che creino l’avversione per il disordine intellettuale (e il senso del ridicolo). Questa avversione è ancora poco, ma è già qualcosa per instaurare un ordine intellettuale indispensabile. Come mezzo pedagogico è molto importante.
Comm.: Gramsci, Graziadei e il paese di Cuccagna
§64 Lorianismo e G. Ferrero. Ricordare gli spropositi contenuti nella prima edizione delle sue storie: la misura lineare itineraria persiana confusa con una regina di cui si fa la biografia ecc. §97 Salvadori, Valli e il lorianismo. Valli e la sua interpretazione «cospiratoria» e massonica del Dolce Stil nuovo (col precedente di D. G. Rossetti e del Pascoli) e Giulio Salvadori che nei Promessi Sposi scopre il dramma di Enrichetta (Lucia) oppressa da Condorcet, Donna Giulia e il Manzoni stesso (Don Rodrigo, l’Innominato ecc.) appartengono a una branca del Lorianesimo. (Di Giulio Salvadori e della sua interpretazione vedi un articolo in «Arte e Vita» del giugno 1920 e il libro postumo Enrichetta Manzoni - Blondel e il Natale del 33, Treves, 1929).
§148 Lorianismo. A proposito delle teorie altimetriche del Loria si potrebbe ricordare, per ridere, che Aristotele trovava che «le acropoli sono opportune per i governi oligarchici e tirannici, le pianure ai governi democratici».
§127 La quistione dei giovani. Esistono molte «quistioni» dei giovani. Due mi sembrano specialmente importanti: 1°) La generazione «anziana» compie sempre l’educazione dei «giovani»; ci sarà conflitto, discordia ecc. ma si tratta di fenomeni superficiali, inerenti a ogni opera educativa e di raffrenamento, almeno che non si tratti di interferenze di classe, cioè i «giovani» (o una parte cospicua di essi) della classe dirigente (intesa nel senso più largo, non solo economico, ma politico-morale) si ribellano e passano alla classe progressiva che è diventata storicamente capace di prendere il potere: ma in questo caso si tratta di «giovani» che dalla direzione degli «anziani» di una classe passano alla direzione degli «anziani» di un’altra classe: in ogni caso rimane la subordinazione reale dei «giovani» agli «anziani» come generazione, pur con le differenze di temperamento e di vivacità su ricordate; 2°) Quando il fenomeno assume un carattere cosidetto «nazionale», cioè non appare apertamente l’interferenza di classe, allora la quistione si complica e diventa caotica.
I «giovani» sono in istato di ribellione permanente, perché persistono le cause profonde di essa, senza che ne sia permessa l’analisi, la critica e il superamento (non concettuale e astratto, ma storico e reale); gli «anziani» dominano di fatto, ma... «après moi le déluge», non riescono a educare i giovani, a prepararli alla successione. Perché? Ciò significa che esistono tutte le condizioni perché gli «anziani» di un’altra classe debbano dirigere questi giovani, senza che possano farlo per ragioni estrinseche di compressione politico-militare. La lotta, di cui si sono soffocate le espressioni esterne normali, si attacca come una cancrena dissolvente alla struttura della vecchia classe, debilitandola e imputridendola: assume forme morbose, di misticismo, di sensualismo, di indifferenza morale, di degenerazioni patologiche psichiche e fisiche ecc.
La vecchia struttura non contiene e non riesce a dare soddisfazione alle esigenze nuove: la disoccupazione permanente o semipermanente dei così detti intellettuali è uno dei fenomeni tipici di questa insufficienza, che assume carattere aspro per i più giovani, in quanto non lascia «orizzonti aperti». D’altronde questa situazione porta ai «quadri chiusi» di carattere feudale-militare, cioè inacerbisce essa stessa i problemi che non sa risolvere.
§62 Quistione sessuale. Ossessione della quistione sessuale. «Pericoli» di questa ossessione. Tutti i «progettisti» risolvono la quistione sessuale. Notare come nelle «utopie» la quistione sessuale abbia larghissima parte, spesso prevalente (l’osservazione di Croce che le soluzioni del Campanella nella Città del Sole non possono spiegarsi coi bisogni sessuali dei contadini calabresi). Gli istinti sessuali sono quelli che hanno subito la maggiore «repressione» da parte della società in sviluppo. Il loro «regolamento» sembra il più «innaturale», quindi più frequenti in questo campo i richiami alla «natura». La letteratura «freudistica» ha creato un nuovo tipo di «selvaggio» settecentesco sulla base «sessuale» (inclusi i rapporti tra padri e figli).
Distacco tra città e campagna. In campagna avvengono i reati sessuali più mostruosi e più numerosi. Nell’inchiesta parlamentare sul Mezzogiorno si dice che in Abruzzo e Basilicata (maggiore patriarcalismo e maggiore fanatismo religioso) si ha l’incesto nel 30% delle famiglie. In campagna molto diffuso il bestialismo.
La sessualità come funzione riproduttiva e come «sport»: ideale estetico femminile da riproduttrice a ninnolo; ma non è solo in città che la sessualità è diventata uno «sport»; i proverbi popolari — l’uomo è cacciatore, la donna è tentatrice; chi non ha di meglio, va a letto con la moglie — mostrano la diffusione dello «sport». La funzione «economica» della riproduzione non è solo legata al mondo economico produttivo, è anche interna; «il bastone della vecchiaia» mostra la coscienza istintiva del bisogno «economico» che ci sia un certo rapporto tra giovani e vecchi, tra lavoratori attivi e parte passiva della popolazione; lo spettacolo di come sono bistrattati nei villaggi i vecchi e le vecchie senza figliolanza spinge le coppie a desiderare figli; i vecchi senza figli sono trattati come i «bastardi».
I progressi dell’igiene pubblica che hanno elevato le medie della vita umana pongono sempre più la quistione sessuale come una «quistione economica» a sé stante, che pone dei problemi coordinati del tipo di superstruttura. L’aumento della media della vita in Francia, con la scarsa natalità, e con la ricchezza naturale del paese, pone già un aspetto di problema nazionale: le generazioni vecchie vanno mettendosi in un rapporto anormale con le generazioni giovani della stessa stirpe, e le generazioni lavoratrici si impinguano di masse straniere immigrate che modificano la base: si verifica, già come in America, una certa divisione del lavoro (mestieri qualificati per gli indigeni, oltre alle funzioni direttive e organizzative, e mestieri non qualificati per gli immigrati). Lo stesso rapporto si pone in ogni paese tra la città, a bassa natalità, e la campagna prolifica, ponendo un problema economico abbastanza grave: la vita industriale domanda un apprendissaggio in generale, un adattamento psico-fisico a condizioni di lavoro, di nutrizione, di abitazione ecc. che non sono «naturali»: i caratteri urbani acquisiti si tramandano per ereditarietà. La bassa natalità domanda una continua spesa di apprendissaggio e porta con sé un continuo mutarsi della composizione sociale-politica delle città, ponendo quindi anche un problema di egemonia.
La quistione più importante è la salvaguardia della personalità femminile: finché la donna non abbia veramente raggiunto una indipendenza di fronte all’uomo, la quistione sessuale sarà ricca di caratteri morbosi e bisognerà esser cauti nel trattarla e nel trarre conclusioni legislative. L’abolizione della prostituzione legale porterà con sé già molte difficoltà: oltre allo sfrenamento che succede a ogni crisi di compressione.
Lavoro e sessualità. È interessante come gli industriali americani si interessino delle relazioni sessuali dei loro dipendenti: la mentalità puritana vela però una necessità evidente: non può esserci lavoro intenso produttivo senza una regolamentazione dell’istinto sessuale.
Cfr Q 22 § 3
§146 Nella recensione fatta da A. De Pietri Tonelli nella «Rivista di politica economica» (febbraio 1930) del libro di Anthony M. Ludovici, Woman. A vindication (2a ed., 1929, Londra) si dice: «Quando le cose vanno male nella struttura sociale di una nazione, a cagione della decadenza nelle capacità fondamentali dei suoi uomini, afferma l’autore, due distinte tendenze sembrano sempre rendersi rilevabili: la prima è quella di interpretare cambiamenti, che sono puramente e semplicemente segni della decadenza e della rovina di vecchie e sane istituzioni, come sintomi di progresso; la seconda, dovuta alla giustificata perdita di confidenza nella classe governante, è di dare a ciascuno, abbia o ho le qualità volute, la sicurezza di essere indicato per fare uno sforzo al fine di aggiustare le cose». L’autore fa del femminismo un’espressione di questa seconda tendenza (ciò che è errato, perché l’affermazione di essere una cosa non è la prova che lo si sia: il femminismo ha cause più vaste e profonde). L’autore domanda una rinascita del «maschilismo».
§89 Folklore. Il Giovanni Crocioni nel volume Problemi fondamentali del Folklore, Bologna, Zanichelli, 1928 critica come confusa e imprecisa la ripartizione del materiale folkloristico data dal Pitré nel 1897 nella premessa alla Bibliografia delle Tradizioni popolari e propone una ripartizione sua in quattro sezioni: arte, letteratura, scienza, morale del popolo. Anche questa divisione è criticata come imprecisa, mal definita e troppo lata. Il Ciampini (Raffaele) nella «Fiera Letteraria» del 30 dicembre 1928, domanda: «È essa scientifica? Come per es. farvi rientrare le superstizioni? E che vuol dire una morale del popolo? Come studiarla scientificamente? E perché, allora, non parlare anche di una religione di popolo?». Il folklore, mi pare, è stato finora studiato (in realtà finora è stato solo raccolto materiale grezzo) come elemento «pittoresco». Bisognerebbe studiarlo come «concezione del mondo» di determinati strati della società, che non sono toccati dalle correnti moderne di pensiero. Concezione del mondo non solo non elaborata e sistemizzata, perché il popolo per definizione non può far ciò, ma molteplice, nel senso che è una giustapposizione meccanica di parecchie concezioni del mondo, se addirittura non è un museo di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia. Anche il pensiero e la scienza moderna danno elementi al folklore, in quanto certe affermazioni scientifiche e certe opinioni, avulse dal loro complesso, cadono nel dominio popolare e sono «arrangiate» nel mosaico della tradizione (la Scoperta dell’America di Pascarella mostra come le nozioni diffuse dai manuali delle scuole elementari su Cristoforo Colombo e su altri personaggi siano assimilate bizzarramente). Il folklore può esser capito solo come riflesso delle condizioni di vita del popolo, sebbene spesso esso si prolunghi anche quando le condizioni siano modificate in combinazioni bizzarre.
Certo esiste una «religione di popolo» specialmente nei paesi cattolici e ortodossi (molto meno nei protestanti). La morale di popolo è il costume ed è strettamente legata, come la superstizione, alle sue credenze reali religiose: esistono degli imperativi, che sono molto più forti e tenaci che non quelli della morale kantiana.
Il Ciampini trova molto giusta la necessità sostenuta dal Crocioni che il folklore sia insegnato nelle scuole dove si preparavano i futuri insegnanti, ma poi nega che possa porsi la quistione della utilità del folklore (vorrà dire dello studio del folklore). Per lui il folklore (lo studio del folklore, cioè) è fine a se stesso o ha la sola utilità di offrire a un popolo gli elementi per una più profonda conoscenza di se stesso. Studiare le superstizioni per sradicarle, sarebbe per lui come se il folklore uccidesse se stesso, mentre la scienza non è che conoscenza disinteressata, fine a se stessa!!! Ma allora perché insegnate il folklore nelle scuole che preparano gli insegnanti? Per accrescere la cultura disinteressata dei maestri? Lo Stato ha una sua concezione della vita e cerca di diffonderla: è un suo compito e un suo dovere. Questa diffusione non avviene su una tabula rasa; entra in concorrenza e si urta per es. col folklore e «deve» superarlo. Conoscere il folklore significa per l’insegnante conoscere quali altre concezioni lavorano alla formazione intellettuale e morale delle generazioni giovani. Solo che bisognerebbe mutare lo spirito delle ricerche folkloristiche oltre che approfondirle: il folklore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola, una cosa tutt’al più pittoresca: ma deve essere concepito come una cosa molto seria e da prendere sul serio. Solo così l’insegnamento sarà più efficace e più formativo della cultura delle grandi masse popolari e sparirà il distacco tra cultura moderna e cultura popolare o folklore. Un lavoro di questo genere, in profondità, corrisponderebbe intellettualmente a ciò che è stata la Riforma nei paesi protestanti.
§144 Auguste Boullier, L’île de Sardaigne. Description, Histoire, Statistique, Mœurs, État social, Paris, E. Dentu, 1865. Il Boullier fu in Sardegna quando si parlava di una sua cessione alla Francia. Scrisse anche un altro volume, Le Dialecte et les Chants Populaires de la Sardaigne. Il libro è ormai senza valore. È interessante per alcuni aspetti. Il Boullier cerca di spiegare le cause delle difficoltà che si presentarono in Sardegna contro la sparizione dei relitti feudali (beni collettivi ecc.), ciò che ringalluzziva i sostenitori dell’antico regime. Naturalmente il Boullier, che si pone da un puro punto di vista ideologico, non capisce niente della quistione. Vi sono ricordati inoltre alcuni elementi interessanti i rapporti internazionali della Sardegna e la sua importanza nel Mediterraneo: per es. la insistenza di Nelson perché il governo inglese comprasse la Sardegna dal re (di Piemonte) dietro un canone di 500 000 sterline annue. Secondo Nelson la Sardegna strategicamente è superiore a Malta; inoltre potrebbe diventare economicamente redditizia sotto una gestione inglese, mentre Malta economicamente sarà sempre passiva.
§27 Postumi del basso romanticismo? La tendenza della sociologia di sinistra in Italia a occuparsi della criminalità. Legata al fatto che a tale corrente avevano aderito Lombroso e altri che parevano allora la suprema espressione della scienza? O un postumo del basso romanticismo del 48 (Sue ecc.)? O legato al fatto che in Italia impressionava questi uomini la grande quantità di reati di sangue ed essi credevano di non poter procedere oltre senza aver spiegato «scientificamente» questo fenomeno?
§28 Diritto naturale. Vedi le due noticine precedenti a p. 2 e a p. 3 bis. Nella polemica presente contro il diritto naturale non bisogna cercare una intenzione scientifica qualunque. Si tratta di esercitazioni giornalistiche non molto brillanti, che si propongono lo scopo propagandistico di distruggere certi stati d’animo molto diffusi e che sono ritenuti pericolosi.
A questo proposito vedere l’opuscolo del Tilgher su «Storia e Antistoria», dal quale apparirebbe che mai come oggi la mentalità illuministica da cui è nata la teoria del diritto naturale è diffusa. L’opuscolo del Tilgher, a suo modo, è una riprova di tale diffusione, perché il Tilgher cerca con esso di farsi un posticino al nuovo sole. Mi pare che chi studi con una certa profondità (se si astrae dal linguaggio sforzato) le contraddizioni psicologiche che nascono sul terreno dello storicismo, come concezione generale della vita e dell’azione, sia Filippo Burzio. Per lo meno la sua affermazione: «essere sopra alle passioni e ai sentimenti pur provandoli» mi pare ricca di molte conseguenze. Infatti questo è il nodo della quistione dello «storicismo» che il Tilgher non sfiora neppure: «come si possa essere critici e uomini d’azione nello stesso tempo, in modo non solo che l’uno aspetto non indebolisca l’altro, ma anzi lo convalidi». Il Tilgher scinde molto meccanicamente i due aspetti di ogni personalità umana (dato che non esiste e non è mai esistito un uomo tutto critico e uno tutto passionale) invece di cercare di determinare come in diversi periodi storici i due aspetti si combinino in modo che nel mondo della cultura prevalga una corrente o l’altra. (L’opuscolo del Tilgher lo dovrò ancora rivedere).
Mat. Bibl: Adriano Tilgher. Il Profilo filosofico di un irregolare.
§122 Spunti e stimoli. Il Macaulay attribuisce la facilità di farsi abbagliare da sofismi quasi puerili propria dei Greci anche più colti alla gran predominanza del discorso vivo e parlato nell’educazione e vita greca. L’abitudine della conversazione genera una certa facoltà di trovare con gran prontezza argomenti di qualche apparenza che chiudono momentaneamente la bocca all’avversario. Questa osservazione si può farla anche per alcune classi della vita moderna, come constatazioni di una debolezza (operai) e di causa di diffidenza (contadini, i quali rimuginando ciò che hanno sentito declamare e che li ha colpiti momentaneamente per il luccicare e trovandone le deficienze e la superficialità, finiscono con l’essere diffidenti per sistema).
Riferisce il Macaulay una sentenza di Eugenio di Savoia, il quale diceva che più grandi generali erano riusciti quegli che erano stati messi d’un tratto alla testa dell’esercito e nella necessità del pensare alle manovre grandi e complessive (chi è troppo minuzioso per professione, si burocratizza: vede l’albero e non più la foresta, il regolamento e non più la strategia).
A proposito della prima osservazione si può aggiungere: che il giornale si avvicina molto alla conversazione, gli articoli di giornale sono in generale affrettati, improvvisati, simili in grandissima parte, per la rapidità dell’ideazione, ai discorsi da riunione. Sono pochi i giornali che hanno redattori specializzati e anche l’attività di questi è in gran parte improvvisata: la specializzazione serve di solito per improvvisare meglio e più rapidamente. Mancano nei giornali italiani le rassegne periodiche più ponderate e studiate (teatro, per esempio, politica economica ecc.; i collaboratori suppliscono solo in parte e poi non sempre sono di uno stesso indirizzo). Perciò la solidità di cultura può essere misurata in tre gradi: 1°, lettori di soli giornali; 2°, lettori di riviste; 3°, lettori di libri; senza tener conto di una grande moltitudine che non legge neanche i giornali e si forma le convinzioni attraverso la pura conversazione sporadica con individui del suo stesso livello generale che però leggono i giornali, e di quella che si forma le convinzioni assistendo a riunioni periodiche e nei periodi elettorali tenute da oratori di livelli diversissimi.
Questa svogliatezza mi ha colpito specialmente a Milano, dove in carcere era permesso il «Sole»; tuttavia un certo numero, anche di politici, leggeva piuttosto la «Gazzetta dello Sport»; tra 2500 inquisiti, si vendevano al massimo 80 copie del «Sole»; più letti la «Gazzetta dello Sport», la «Domenica del Corriere», il «Corriere dei Piccoli».
Cfr Q 16 § 21
§153 Conversazione e cultura (vedi a p. 80 la nota: Spunti e stimoli). L’osservazione del Macaulay è contenuta nel suo saggio sugli Oratori attici (vedere, per riferire con esattezza, se del caso). L’osservazione può essere ancora svolta. È certo che la cultura per un grande periodo si è svolta specialmente nella forma oratoria o retorica, cioè con nullo o scarso sussidio di scritti e altri mezzi didattici o di studio in generale.
Una nuova tradizione comincia nel Medio Evo, coi conventi e con le scuole regolari. La scolastica rappresenta il punto più importante di questa tradizione. Se si osserva bene, lo studio fatto dalla scolastica della logica formale è appunto anche una reazione contro il «facilonismo» dimostrativo dei vecchi metodi di cultura. Gli errori logici sono specialmente comuni nell’argomentazione parlata. L’arte della stampa ha poi rivoluzionato tutto il mondo culturale. In questa ricerca è implicita dunque l’altra delle modificazioni qualitative oltre che quantitative (estensione di massa) apportate al modo di pensare dallo sviluppo tecnico dell’organizzazione culturale. Anche oggi ideologicamente il teatro e il cinematografo hanno una rapidità e area d’azione enormemente più vasta del libro (il teatro e il cinematografo si possono paragonare al giornale e alle riviste) ma in superficie, non in profondità.
Le accademie e le Università come mezzi e organizzazioni di cultura. Nelle Università la lezione orale e il seminario. Il professore e l’assistente; l’assistente professionale e gli «anziani di Santa Zita» della scuola del Puoti di cui parla il De Sanctis, cioè la formazione nella stessa classe di un’«avanguardia» », di una selezione spontanea di allievi che aiuti l’insegnante e prosegua le sue lezioni, insegnando praticamente a studiare.
Queste osservazioni mi sono state suggerite dal Materialismo storico di Bukharin1 che risente di tutte le deficienze della conversazione. Sarebbe curioso fare una esemplificazione di tutti i passi che corrispondono agli errori logici indicati dagli scolastici, ricordando la giustissima osservazione di Engels che anche i «modi» del pensare sono elementi acquisiti e non innati, il cui possesso corrisponde a una qualifica professionale. Non possederli, non accorgersi di non possederli, non porsi il problema di acquistarli attraverso un apprendissaggio equivale a voler costruire un’automobile sapendo impiegare e avendo a propria disposizione l’officina e gli strumenti di fabbro ferraio da villaggio.
Lo studio della «vecchia logica formale» è ormai caduto in discredito e in parte a ragione. Ma il problema di far fare l’apprendissaggio della logica si ripresenta se si pone il problema di creare una nuova cultura su una base sociale nuova, che non ha tradizioni, come la vecchia classe degli intellettuali. Un «blocco intellettuale» tradizionale, con la complessità delle sue articolazioni, riesce ad assimilare nello svolgimento organico di una scienza l’elemento «apprendista» anche senza bisogno di sottoporlo al tirocinio formale. Ma neanche ciò avviene senza difficoltà e senza perdite. Lo sviluppo delle scuole tecniche professionali in tutti i gradi post-elementari, ha ripresentato il problema.
Ricordare l’affermazione del prof. Peano che anche nel Politecnico e nelle matematiche risultavano meglio preparati gli allievi provenienti dal ginnasio-liceo in confronto con quelli provenienti dalle scuole-istituti tecnici. Questa migliore preparazione era data dal complesso insegnamento «umanistico» (storia, letteratura, filosofia). Perché la matematica non può dare gli stessi risultati?
È stata avvicinata la matematica alla logica. Pure c’è una enorme differenza. La matematica si basa essenzialmente sulla serie numerica, cioè su un’infinita serie di eguaglianze (1 = 1) che possono essere combinate in modi teoricamente infiniti. La logica formale «tende» a far lo stesso, ma fino a un certo punto. La sua astrattezza si mantiene solo nell’inizio dell’apprendimento, nella sua formulazione immediata nuda e cruda, ma si attua concretamente nel discorso stesso in cui questa stessa formulazione astratta si compie.
Gli esercizi di lingua che si fanno nel ginnasio liceo fanno vedere questo: nelle traduzioni latino-italiano, greco-italiano, non c’è mai identità fra le due lingue, o almeno questa identità che pare esista agli inizi dello studio (rosa = rosa) va sempre più complicandosi col progredire dell’apprendimento, va cioè allontanandosi dallo schema matematico per giungere a quello storico e psicologico in cui le sfumature, l’espressività «unica e individuale» ha la prevalenza. E non solo ciò avviene nel confronto tra due lingue, ma avviene nello studio della storia della stessa «lingua», cioè nelle variazioni «semantiche» dello stesso suono-parola attraverso il tempo e delle sue cambiate funzioni nel periodo. (Cambiamenti di suoni, di morfologia, di sintassi, di semantica). (Questa serie di osservazioni deve essere continuata e messa in rapporto con precedenti note).
§61 Americanismo. L’americanismo può essere una fase intermedia dell’attuale crisi storica? La concentrazione plutocratica può determinare una nuova fase dell’industrialismo europeo sul modello dell’industria americana? Il tentativo probabilmente sarà fatto (razionalizzazione, sistema Bedaux, taylorismo ecc.). Ma può riuscire? L’Europa reagisce, contrapponendo alla «vergine» America le sue tradizioni di cultura. Questa reazione è interessante non perché una così detta tradizione di cultura possa impedire una rivoluzione nell’organizzazione industriale, ma perché essa è la reazione della «situazione» europea alla «situazione» americana. In realtà, l’americanismo, nella sua forma più compiuta, domanda una condizione preliminare: «la razionalizzazione della popolazione», cioè che non esistano classi numerose senza una funzione nel mondo della produzione, cioè classi assolutamente parassitarie. La «tradizione» europea è proprio invece caratterizzata dall’esistenza di queste classi, create da questi elementi sociali: l’amministrazione statale, il clero e gli intellettuali, la proprietà terriera, il commercio. Questi elementi, quanto più vecchia è la storia di un paese, tanto più hanno lasciato durante i secoli delle sedimentazioni di gente fannullona, che vive della «pensione» lasciata dagli «avi». Una statistica di questi elementi sociali è difficilissima, perché molto difficile è trovare la «voce» che li possa abbracciare. L’esistenza di determinate forme di vita dà degli indizi.
Il numero rilevante di grandi e medi agglomerati urbani senza industria è uno di questi indizi, forse il più importante. Il così detto «mistero di Napoli». Ricordare le osservazioni fatte da Goethe su Napoli e le «consolanti» conclusioni di Giustino Fortunato (opuscolo pubblicato recentemente dalla «Biblioteca editrice» di Rieti nella collana «Quaderni Critici» di Domenico Petrini; recensione di Einaudi nella «Riforma Sociale» dello scritto del Fortunato quando uscì la prima volta, forse nel 1912). Goethe aveva ragione nel rigettare la leggenda del «lazzaronismo» organico dei napoletani e nel notare che essi invece sono molto attivi e industriosi. La quistione consiste però nel vedere quale risultato effettivo abbia questa industriosità: essa non è produttiva, e non è rivolta a soddisfare le esigenze di classi produttive. Napoli è una città dove i proprietari terrieri del Mezzogiorno spendono la rendita agraria: intorno a decine di migliaia di queste famiglie di proprietari, di più o meno importanza economica, con la loro corte di servi e di lacché immediati, si costituisce una buona parte della città, con le sue industrie artigianesche, i suoi mestieri ambulanti, lo sminuzzamento incredibile dell’offerta immediata di merci o servizi agli sfaccendati che circolano nelle strade. Un’altra parte importante è costituita dal commercio all’ingrosso e dal transito. L’industria «produttiva» è una parte relativamente piccola. Questa struttura di Napoli (sarebbe molto utile avere dei dati precisi) spiega molta parte della storia di Napoli città.
Il fatto di Napoli si ripete per Palermo e per tutta una serie di città medie e anche piccole, non solo del Mezzogiorno e delle isole, ma anche dell’Italia centrale (Toscana, Umbria, Roma) e persino di quella settentrionale (Bologna, in parte, Parma, Ferrara ecc.). (Quando un cavallo caca, cento passeri fanno il pasto).
Media e piccola proprietà terriera in mano non a contadini coltivatori, ma a borghesi della cittaduzza o del borgo che la danno a mezzadria primitiva (cioè affitto in natura) o in enfiteusi. Questo volume enorme di piccola o media borghesia di «pensionati» e «redditieri» ha creato nella letteratura economica italiana la figura mostruosa del «produttore di risparmio» così detto, cioè di una classe numerosa di «usurai» che dal lavoro primitivo di un numero determinato di contadini trae non solo il proprio sostentamento, ma ancora riesce a risparmiare.
L’America senza «tradizione», ma anche senza questa cappa di piombo: questa una delle ragioni della formidabile accumulazione di capitali, nonostante i salari relativamente migliori di quelli europei. La non esistenza di queste sedimentazioni vischiose delle fasi storiche passate ha permesso una base sana all’industria e specialmente al commercio e permette sempre più la riduzione dei trasporti e del commercio a una reale attività subalterna della produzione, coll’assorbimento di questa attività da parte dell’industria stessa (vedi Ford e quali «risparmi» abbia fatto sui trasporti e sul commercio assorbendoli). Questa «razionalizzazione» preliminare delle condizioni generali della produzione, già esistente o facilitata dalla storia, ha permesso di razionalizzare la produzione, combinando la forza (— distruzione del sindacalismo —) con la persuasione (— salari e altri benefizi —); per collocare tutta la vita del paese sulla base dell’industria. L’egemonia nasce dalla fabbrica e non ha bisogno di tanti intermediari politici e ideologici. Le «masse» di Romier sono l’espressione di questo nuovo tipo di società, in cui la «struttura» domina più immediatamente le soprastrutture e queste sono razionalizzate (semplificate e diminuite di numero). Rotary Club e Massoneria (il Rotary è una massoneria senza i piccoli borghesi). Rotary — America = Massoneria — Europa. YMCA — America = gesuiti — Europa.
§92 Sull’americanismo ha scritto un articolo Eugenio Giovannetti («Pègaso», maggio 1929, Federico Taylor e l’americanismo). Tra l’altro scrive (estratti dati dall’«Italia Letteraria» del 19 maggio): «L’energia letteraria, astratta, nutrita di retorica generalizzante, non è insomma oggi più in grado di capire l’energia tecnica, sempre più individuale ed acuta, tessuto originalissimo di volontà singolare e d’educazione specializzata. La letteratura energetica è ancora al suo Prometeo scatenato, immagine troppo comoda. L’eroe della civiltà tecnica non è uno scatenato: è un silenzioso che sa portare pei cieli la sua ferrea catena. Non è un ignorante che si goda l’aria: è uno studioso nel più bel senso classico, perché studium significava «punta viva». Mentre la civiltà tecnica o meccanistica, come volete chiamarla, elabora in silenzio questo suo tipo d’eroe incisivo, il culto letterario dell’energia non crea che un gaglioffo aereo, un acchiappanuvole scalmanato» .
È curioso che all’americanismo non si cerchi di applicare la formuletta di Gentile della «filosofia che non si enunzia in formule ma si afferma nell’azione»; è curioso e istruttivo, perché se la formula ha un valore è proprio l’americanismo che può rivendicarlo. Quando si parla dell’americanismo, invece, si trova che esso è meccanicistico, rozzo, brutale, cioè «pura azione» e gli si contrappone la tradizione ecc. Ma questa tradizione ecc. perché non viene assunta anche come base filosofica, come filosofia enunciata in formule per quei movimenti per i quali invece la «filosofia è affermata nell’azione»? Questa contraddizione può spiegare molte cose: differenza tra azione reale, che modifica essenzialmente la realtà esterna (e quindi anche la cultura reale) ed è l’americanismo, e gladiatorismo gaglioffo che si autoproclama azione e modifica solo il vocabolario non le cose, il gesto esterno non l’uomo interiore. La prima crea un avvenire che è intrinseco alla sua attività obbiettiva, e che spesso è ignorato. Il secondo crea dei fantocci perfezionati, secondo un figurino prefissato, che cadranno nel nulla appena tagliati i fili che danno loro l’apparenza del moto e della vita.
§135 Americanismo. L’articolo di Carlo Pagni A proposito di un tentativo di teoria pura del corporativismo («Riforma Sociale», settembre-ottobre 1929) esamina il volume di N. Massimo Fovel Economia e corporativismo (Ferrara, S.A.T.E., 1929) e accenna a un altro scritto dello stesso Rendita e salario nello Stato Sindacale (Roma, 1928), ma non si accorge che il Fovel in questi scritti fa del «corporativismo» la premessa all’introduzione in Italia dei sistemi industriali americani.
§141 Americanismo. Dal Trastullo di Strapaese di Mino Maccari (Firenze, Vallecchi, 1928).
Per un ciondolo luccicante / Il tuo paese non regalare: / Il forestiero è trafficante / Dargli retta non è affare / Se tu fossi esperto e scaltro / Ogni mistura terresti discosta: / Chi ci guadagna è sempre quell’altro / Che la tua roba un mondo costa / Val più un rutto del tuo pievano / Che l’America e la sua boria: Dietro l’ultimo italiano / C’è cento secoli di storia / ... Tabarino e ciarlestone / Ti fanno dare in ciampanelle / O Italiano ridatti al trescone / Torna a mangiare il centopelle / Italiano torna alle zolle / Non ti fidar delle mode di Francia / Bada a mangiar pane e cipolle / E terrai a dovere la pancia.
Il Maccari, però, è andato a fare il redattore capo della «Stampa» di Torino, a mangiar cipolle nel centro più stracittadino e industriale d’Italia.
§15 Delle università italiane. Perché non esercitano nel paese quell’influsso di regolatrici della vita culturale che esercitano in altri paesi?
Uno dei motivi deve ricercarsi in ciò che nelle università il contatto tra insegnanti e studenti non è organizzato. Il professore insegna dalla cattedra alla massa degli ascoltatori, cioè svolge la sua lezione, e se ne va. Solo nel periodo della laurea avviene che lo studente si avvicini al professore, gli chieda un tema e consigli specifici sul metodo della ricerca scientifica. Per la massa degli studenti i corsi non sono altro che una serie di conferenze, ascoltate con maggiore o minore attenzione, tutte o solo una parte: lo studente si affida alle dispense, all’opera che il docente stesso ha scritto sull’argomento o alla bibliografia che ha indicato.
Un maggiore contatto esiste tra i singoli insegnanti e singoli studenti che vogliono specializzarsi su una determinata disciplina: questo contatto si forma, per lo più, casualmente ed ha una importanza enorme per la continuità accademica e per la fortuna delle varie discipline. Si forma, per esempio, per cause religiose, politiche, di amicizia famigliare. Uno studente diventa assiduo di un professore, che lo incontra in biblioteca, lo invita a casa, gli consiglia libri da leggere e ricerche da tentare.
Ogni insegnante tende a formare una sua «scuola», ha suoi determinati punti di vista (chiamati «teorie») su determinate parti della sua scienza, che vorrebbe veder sostenuti da «suoi seguaci o discepoli». Ogni professore vuole che dalla sua università, in concorrenza con le altre, escano giovani «distinti» che portino contributi «seri» alla sua scienza. Perciò nella stessa facoltà c’è concorrenza tra professori di materie affini per contendersi certi giovani che si siano già distinti con una recensione o un articoletto o in discussioni scolastiche (dove se ne fanno). Il professore allora guida veramente il suo allievo; gli indica un tema, lo consiglia nello svolgimento, gli facilita le ricerche, con le sue conversazioni assidue accelera la sua formazione scientifica, gli fa pubblicare i primi saggi nelle riviste specializzate, lo mette in rapporto con altri specialisti e lo accaparra definitivamente.
Questo costume, salvo casi sporadici di camorra, è benefico, perché integra la funzione delle università. Dovrebbe, da fatto personale, di iniziativa personale, diventare funzione organica: non so fino a che punto, ma mi pare che i seminari di tipo tedesco, rappresentino questa funzione o cerchino di svolgerla. Intorno a certi professori c’è ressa di procaccianti, che sperano raggiungere più facilmente una cattedra universitaria. Molti giovani invece, che vengono dai licei di provincia specialmente, sono spaesati e nell’ambiente sociale universitario e nell’ambiente di studio. I primi sei mesi del corso servono per orientarsi sul carattere specifico degli studi universitari e la timidezza nei rapporti personali è immancabile tra docente e discepolo. Nei seminari ciò non si verificherebbe o almeno non nella stessa misura.
In ogni modo, questa struttura generale della vita universitaria non crea, già all’università, alcuna gerarchia intellettuale permanente tra professori e massa di studenti; dopo l’università anche quei pochi legami si sciolgono e nel paese manca ogni struttura culturale che si impernii sull’università.
Ciò ha costituito uno degli elementi della fortuna della diade Croce-Gentile, prima della guerra, nel costituire un gran centro di vita intellettuale nazionale; tra l’altro essi lottavano anche contro l’insufficienza della vita universitaria e la mediocrità scientifica e pedagogica (talvolta anche morale) degli insegnanti ufficiali.
§123 Cercare l’origine storica esatta di alcuni principi della pedagogia moderna: la scuola attiva ossia la collaborazione amichevole tra maestro e alunno; la scuola all’aperto; la necessità di lasciar libero, sotto il vigile ma non appariscente controllo del maestro, lo sviluppo delle facoltà spontanee dello scolaro.
La Svizzera ha dato un grande contributo alla pedagogia moderna (Pestalozzi ecc.), per la tradizione ginevrina di Rousseau; in realtà questa pedagogia è una forma confusa di filosofia connessa a una serie di regole empiriche. Non si è tenuto conto che le idee di Rousseau sono una reazione violenta alla scuola e ai metodi pedagogici dei gesuiti e in quanto tale rappresentano un progresso: ma si è poi formata una specie di chiesa che ha paralizzato gli studi pedagogici e ha dato luogo a delle curiose involuzioni (nelle dottrine di Gentile e del Lombardo-Radice). La «spontaneità» è una di queste involuzioni: si immagina quasi che nel bambino il cervello sia come un gomitolo che il maestro aiuta a sgomitolare. In realtà ogni generazione educa la nuova generazione, cioè la forma, e l’educazione è una lotta contro gli istinti legati alle funzioni biologiche elementari, una lotta contro la natura, per dominarla e creare l’uomo «attuale» alla sua epoca. Non si tiene conto che il bambino da quando incomincia a «vedere e a toccare», forse da pochi giorni dopo la nascita, accumula sensazioni e immagini, che si moltiplicano e diventano complesse con l’apprendimento del linguaggio. La «spontaneità» se analizzata diventa sempre più problematica. Inoltre la «scuola», cioè l’attività educativa diretta, è solo una frazione della vita dell’alunno, che entra in contatto sia con la società umana sia con la societas rerum e si forma criteri da queste fonti «extrascolastiche» molto più importanti di quanto comunemente si creda. La scuola unica, intellettuale e manuale, ha anche questo vantaggio, che pone contemporaneamente il bambino a contatto con la storia umana e con la storia delle «cose» sotto il controllo del maestro.
§11 Dell’originalità nella scienza. Einaudi: «Una teoria non va attribuita a chi la intuì, o per incidente la enunciò o espose un principio da cui poteva essere dedotta o raccontò slegatamente le diverse nozioni, le quali aspiravano ad essere ricomposte in unità». Manca la parte positiva accennata in seguito nella frase: «in quale altro libro fu assunto come oggetto “voluto” di “particolare” trattato la seguente proposizione, ecc.?» Il Croce: «Altro è metter fuori un’osservazione incidentale, che si lascia poi cadere senza svolgerla, ed altro stabilire un principio di cui si sono scorte le feconde conseguenze; altro enunciare un pensiero generico ed astratto ed altro pensarlo realmente e in concreto; altro, finalmente, inventare, ed altro ripetere di seconda o di terza mano». L’enunziazione dell’Einaudi è molto difettosa e piena di curiose improprietà linguistiche, ma è derivata dal Croce (Einaudi, «Riforma Sociale», 1929, p. 277; Croce, Mat. storico IV, p. 26).
§71 Il padre Gioacchino Ventura. Libro di Anna Cristofoli: Il pensiero religioso di Padre Gioacchino Ventura, Milano, Soc. Ed. «Vita e pensiero», 1927, in 8°, pp. 158. Recensione in «Fiera Letteraria» del 15 gennaio 1928 di Guido Zadei, molto severa. Il Ventura, frate siciliano, avrebbe subito l’influenza del Bonald, del Lamennais, del De Maistre. Lo Zadei cita un volume del Rastoul, Le Père Ventura, Parigi, 1906, in 16°, pp. 189. (Clero e intellettuali). (L’influenza del Lamennais). §79 Italo Chittaro, La capacità di comando, Casa Ed. De Alberti, Roma. Da una recensione di V. Varanini nella «Fiera Letteraria» del 4 novembre 1928, appare che in questo libro sono contenuti spunti molto interessanti. Necessità degli studi storici per la preparazione professionale degli ufficiali. Per comandare non basta il semplice buon senso: questo, se mai, è frutto di profondo sapere e di lungo esercizio. La capacità di comando è specialmente importante per la fanteria: se altrove si diventa specialisti di compiti particolari, nella fanteria si diventa specialisti nel comando, cioè del compito d’insieme: quindi necessità che tutti gli ufficiali destinati a gradi elevati abbiano tenuto comandi di fanteria. Infine considera la necessità della formazione di uno Stato Maggiore numeroso, valido, popolare alle truppe. — Libro da leggere. §81 Nino Daniele, D’Annunzio politico, San Paulo, 1928. Libro da leggere. §83 Piero Pieri, Il regno di Napoli dal luglio 1799 al marzo 1806, Napoli, Ricciardi, 1928, pp. 330, L. 25 (utile per comprendere meglio la Repubblica Partenopea attraverso la politica dei Borboni nel breve periodo della restaurazione) .
§85 Giuseppe Solitro, Due famigerati gazzettieri dell’Austria (Luigi Mazzoldi, Pietro Perego), Padova, Draghi, 1927, L. 15. (Nella recensione pubblicata dalla «Fiera Letteraria» del 16 dicembre 1928, Guido Zadei scrive di possedere del materiale inedito e non sfruttato sul Mazzoldi e di una curiosa polemica in cui Filippo Ugoni accusa il Mazzoldi di propaganda comunista).
§95 Adriano Tilgher, Homo faber. Storia del concetto del lavoro nella civiltà occidentale, Roma, Libreria di Scienza e Lettere, 1929, L. 15.
§103 Confederazione Generale Fascista dell’Industria italiana, Lo sviluppo dell’Industria Italiana, Litografia del Genio Civile, Roma, 1929, L. 100 (78 tavole in policromia, che passano in rassegna l’industria italiana dal 1876 al 1928). Indispensabile.
§86 Giovanni Crocioni, Problemi fondamentali del Folklore, Bologna, Zanichelli, 1928.
Cfr Q 27 § 1
Mat. Bibliog.: Il Folklore in Gramsci
§108 Sul Risorgimento. Pubblicazioni di Augusto Sandonà, che dopo l’armistizio ha fatto ricerche negli archivi viennesi per studiare la documentazione austriaca ufficiale. §111 Di Augusto Sandonà. 1°) Contributo alla storia dei processi del 21 e dello Spielberg, Torino, Bocca, 1911; 2°) L’idea unitaria ed i partiti politici alla vigilia del 1848, «Rivista d’Italia», giugno 1914; 3°) Il Regno lombardo-veneto. La costituzione e l’amministrazione, Milano, Cogliati, 1912.
§6 «Per lodare un libro non è affatto necessario di aprirlo; ma, se si è deciso di criticarlo, è sempre prudente leggerlo. Almeno sinché l’autore è vivo... ». Rivarol.
§33 Freud. La diffusione della psicologia freudiana pare che dia come risultato la nascita di una letteratura tipo 700; al «selvaggio», in una forma moderna, si sostituisce il tipo freudiano. La lotta contro l’ordine giuridico viene fatta attraverso l’analisi psicologica freudiana. Questo è un aspetto della quistione, a quanto pare. Non ho potuto studiare le teorie di Freud e non conosco l’altro tipo di letteratura così detta «freudiana» Proust-Svevo-Joyce.
Mat. Bibl.: Gramsci e Freud
§40 La «formula» di Léon Blum. Le pouvoir est tentant. Mais seule l’opposition est confortable
§56 Apologo del ceppo e delle frasche secche. Le frasche secche sono indispensabili per far bruciare il ceppo, non in sé e per sé. Solo il ceppo, bruciando, modifica l’ambiente freddo in caldo. Arditi — artiglieria e fanteria. Queste rimangono sempre le regine.
§70 «Impressioni di prigionia» di Jacques Rivière, pubblicate nella «Nouvelle Revue Française» nel terzo anniversario della morte dell’autore (ne riporta alcuni estratti «La Fiera Letteraria» del 1° aprile 1928).
Dopo una perquisizione nella cella: gli hanno tolto fiammiferi, carta da scrivere e un libro: le conversazioni di Goethe con Eckermann, e delle provviste alimentari non permesse. «Penso a tutto ciò di cui mi hanno derubato: sono umiliato, pieno di vergogna, orribilmente spogliato. Conto i giorni che mi restano da «tirare» e, benché tutta la mia volontà sia tesa in questo senso, non sono più così sicuro di arrivare sino in fondo. Questa lenta miseria logora più che le grandi prove. ... Ho l’impressione che dai quattro punti cardinali si possa venirmi addosso, entrare in questa cella, entrare in me, in ogni momento, strapparmi ciò che ancora mi rimane e lasciarmi in un angolo, una volta di più, come una cosa che più non serve, depredato, violato. Non conosco nulla di più deprimente che questa attesa del male che si può ricevere, unita alla totale impotenza di sottrarsi ad esso. ... Con gradazioni e sfumature tutti conoscono questa stretta al cuore, questa profonda mancanza di sicurezza interiore, questo senso di essere incessantemente esposto senza difesa a tutti gli accidenti, dal piccolo fastidio di alcuni giorni di prigione alla morte inclusa. Non vi è rifugio: non scampo, non tregua soprattutto. Non rimane altro che offrire il dorso, che rimpicciolirsi quanto è possibile. ... Una vera timidità generale s’era impadronita di me, la mia immaginazione non mi presentava più il possibile con quella vivacità che gli conferisce in anticipo l’aspetto di realtà: in me era inaridita l’iniziativa. Credo che mi sarei trovato davanti alle più belle occasioni di fuga senza saperne approfittare; mi sarebbe mancato quel non so che, che aiuta a colmare l’intervallo fra ciò che si vede e ciò che si vuol fare, fra le circostanze e l’atto che ne rende padroni; non avrei più avuto fede nella mia buona sorte: la paura mi avrebbe fermato».
Il pianto in carcere: gli altri sentono se il pianto è «meccanico» o «angoscioso». Reazione diversa quando qualcuno grida: «Voglio morire». Collera e sdegno o semplice chiasso. Si sente che tutti sono angosciati quando il pianto è sincero. Pianto dei più giovani. L’idea della morte si presenta per la prima volta (si diventa vecchi d’un colpo).
Comm.: L'esperienza carceraria
§101 Piedigrotta. In un articolo sul «Lavoro» (8 settembre 1929) Adriano Tilgher scrive che la poesia dialettale napoletana e quindi in gran parte la fortuna delle canzoni di Piedigrotta è in fiera crisi. Se ne sarebbero essicate le due grandi fonti: realismo e sentimentalismo. «Il mutamento di sentimenti e di gusti è stato così rapido e sconvolgente, così vorticoso e subitaneo, ed è ancora così lontano dall’essersi cristallizzato in qualcosa di stabile e di duraturo che i poeti dialettali che si avventurano su quelle sabbie mobili per tentare di portarle alla durezza e alla chiarezza della forma sono condannati a sparirvi dentro senza rimedio».
La crisi di Piedigrotta è veramente un segno dei tempi. La teorizzazione di Strapaese ha ucciso strapaese (in realtà si voleva fissare un figurino tendenzioso di strapaese assai ammuffito e scimunito). E poi l’epoca moderna non è espansiva, è repressiva. Non si ride più di cuore: si sogghigna e si fa dell’arguzia meccanica tipo Campanile. La fonte di Piedigrotta non si è essicata, è stata essicata perché era diventata «ufficiale» e i canzonieri erano diventati funzionari (vedi Libero Bovio) (e cfr l’apologo francese del becco funzionario).
Mat. Bibl.: Libero Bovio - Scritti vari
§104 Jean Barois. Riceve i sacramenti della religione prima di morire. La moglie trova poi tra le sue carte il testamento, redatto negli anni della maturità intellettuale. Vi si trova: «per tema che la vecchiaia e le malattie mi indeboliscano a tal segno da farmi temere la morte e da indurmi a cercare le consolazioni della religione, redigo oggi nella pienezza delle mie facoltà e del mio equilibrio intellettuale, il mio testamento. Non credo all’anima sostanziale e immortale. So che la mia personalità è un agglomerato di atomi la cui disgregazione comporta la morte totale. Credo al determinismo universale... ». Il testamento è gettato nel fuoco. Ricercare.
§ 120. «Credetemi, non abbiate paura né dei bricconi né dei malvagi. Abbiate paura dell’onesto uomo che s’inganna; egli è in buona fede verso se stesso, crede il bene e tutti si fidano di lui; ma, sfortunatamente, s’inganna circa i mezzi di procurare il bene agli uomini». Questo spunto dell’abate Galiani era rivolto contro i «filosofi» del 700, contro i giacobini futuri, ma si attaglia a tutti i cattivi politici così detti in buona fede.
§145 Il talento. Hofmannsthal rivolse a Strauss queste parole, a proposito dei detrattori del musicista: «Abbiamo buona volontà, serietà, coerenza, il che val di più del malaugurato talento, di cui è fornito ogni briccone». (Ricordato da L. Beltrami in un articolo sullo scultore Quadrelli nel «Marzocco» del 2 marzo 1930).
§147 «In mille circostanze della mia vita ho dato a conoscere essere veramente il priore della confraternita di San Simpliciano». V. Monti.
§54 La
battaglia
dello Jütland.
La trattazione
di questa
battaglia
fatta da
Winston
Churchill
nelle sue
memorie di
guerra. È
notevole come
il piano e la
direzione
strategica
della
battaglia da
parte del
comando
inglese e di
quello tedesco
siano in
contrasto
colla
raffigurazione
tradizionale
dei due
popoli. Il
comando
inglese aveva
centralizzato
«organicamente»
il piano nella
nave
ammiraglia: le
altre unità
dovevano
«attendere
ordini» volta
per volta.
L’ammiraglio
tedesco invece
aveva spiegato
a tutti i
comandi
subalterni il
piano
strategico
generale, e
aveva lasciato
alle unità
quella certa
libertà di
manovra che le
circostanze
potevano
richiedere. La
flotta tedesca
manovrò molto
bene. La
flotta inglese
corse molti
rischi,
nonostante la
sua
superiorità, e
non poté
conseguire
fini
strategici
positivi,
perché a un
certo punto,
l’ammiraglio
perdette le
comunicazioni
con le unità
combattenti e
queste
commisero
errori su
errori.
Rivedere il
libro di
Churchill.